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Autore: jakefan    10/05/2022    0 recensioni
Cos’hanno in comune Heath e Buck, il suo cane? Molte cose: entrambi sono giovani, pieni di energia e vivono sul confine tra due mondi. Buck è per metà lupo, Heath appartiene alla riserva Lakota e anche al mondo «di fuori», bianco e tecnologico. Ma c’è di più, anche se i due non lo sanno: un’eredità sconvolgente sepolta dentro a ricordi lontani.
Quando il richiamo della vita adulta diventa perentorio, per entrambi si prospettano scelte difficili, rivelazioni e incontri che cambieranno loro la vita.
E la scoperta di un terzo mondo nascosto, governato dalla magia che permea tutte le cose.
Ho ucciso sua madre. E' mio.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In camera di Heath, Anna non aveva potuto utilizzare l’armadio, che era troppo piccolo e per di più strapieno. Il piccolo trolley rosa era appoggiato sulla cassapanca, aperto.
Neena raccolse da terra una maglietta. La strinse un attimo tra le mani e l’appoggiò sulla spalliera della sedia.
Con Isaias ne parlavano già da qualche tempo: quando Heath fosse andato al college, loro due si sarebbero trasferiti in questa stanza da letto, più piccola, e avrebbero affittato la camera matrimoniale ai turisti in visita nel parco. Isaias forse avrebbe potuto fare qualche extra come guida, e i soldi in più avrebbero fatto decisamente comodo.
La retta universitaria di Heath, per cominciare. C’era un piccolo tesoro da parte per lui ma non sarebbe comunque bastato, e Neena si sarebbe tagliata una mano piuttosto che privare il figlio della possibilità di studiare.
La casa non era pagata. L’assicurazione medica costava, oh se costava, e loro erano tra i pochissimi fortunati, nella riserva, che se ne potevano permettere una decente.
C’erano molte cose che i turisti WASP non vedevano, quando venivano a respirare la loro annuale boccata d’ossigeno al Parco. Non si rendevano conto di quello che avevano, nelle loro città stressanti e piene di smog. «Siete fortunati, voi, qui» cantilenavano, guardando le montagne con la faccia dolente. La nenia cominciava tre giorni prima della partenza e finiva al momento di rimettere in macchina le loro costosissime valigie; a quel punto gli smartphone già suonavano e ciao, tutto dimenticato. Vedevano il verde degli alberi secolari del parco, il cielo terso, le divise carismatiche di Isaias e dei suoi uomini. I colori e i tamburi della Sundance e le autentiche perline cinesi dei bracciali tradizionali Lakota. L’alcolismo, il lavoro scarso o inesistente, il diabete, le roulottes con il pergolato di lamiera recuperato in qualche cantiere dei bianchi, quelli non erano visibili nei dintorni dell’area sacra del pow-wow.
Di sicuro i turisti non si mettevano a contare le persone che incontravano per le poche strade di Highwood. Quanti giovani oltre i diciassette anni, quanti vecchi oltre i settanta.
Tutti quelli che potevano, alla riserva, si accaparravano uno dei pochi posti di lavoro legati al Parco oppure se ne andavano. Quelli che restavano si arrangiavano come potevano. Non sempre legalmente.
Nessuno si faceva un giro su Wikipedia, in vacanza, per controllare quanto vivevano in media i gloriosi ex guerrieri delle Grandi Pianure. Pochi ricordavano che l’aspettativa di vita dei nativi americani era di una decina d’anni più bassa rispetto a quella dei bianchi nella stessa zona. Parole come «suicidio», «metanfetamina», «razzismo» non si dovevano pronunciare, durante le due disperate settimane di libertà della classe media delle grandi città.
I Riley erano stati molto, molto fortunati e lei, Neena – «la forte» – era una donna nata con la camicia. Figlia e nipote di sciamani, era la prediletta di suo nonno, l’unica che avesse qualche speranza, diceva il vecchio, senza specificare di che speranza si trattasse. L’uomo aveva venduto ai bianchi un pezzo di foresta perché lei potesse studiare. Dopo, Neena aveva potuto scegliere liberamente di vivere nel Parco, a fianco del suo uomo: un testardo orgoglioso arrivato da Mayaguez, Portorico, che al posto del sangue aveva nelle vene una gran voglia di riscatto, come tutta la sua famiglia.
Se la cavavano abbastanza bene, ma di quei soldi in più adesso avevano davvero bisogno. Heath avrebbe fatto il salto: avrebbe avuto più di loro. Sarebbe andato avanti. Non sarebbero stati loro due a fermarlo, e gli avrebbero impedito di fare scelte autolesionistiche.
– Devo cominciare a buttare via roba.
– Non è urgente.
Non l’aveva sentito arrivare, Neena: quel suo enorme marito poteva essere delicato e silenzioso come un soffio di vento.
Isaias si sedette accanto alla moglie, sul letto, e la guardò dolcemente. Aveva già visto la scatola di cartone azzurro che lei teneva tra le mani. La trovava sempre, dannazione. Una volta Isaias l’aveva chiusa nel cassettone dei suoi maglioni, coperta da un pile, ma Neena l’aveva trovata lo stesso e l’aveva riportata nell’armadio in camera di Heath. Era lì che doveva stare, diceva. L’armadio era stato comprato per quello, e ora scoppiava di ciarpame e di ricordi.
– Non sai nemmeno se andrà al college. E non devi buttare niente, se non te la senti. C’è ancora posto nella rimessa.
Neena non rispose.
La scatola era di cartone pesante, a piccoli fiori azzuri e blu su uno sfondo grigio chiaro.
– Io devo andare. Non pensarci adesso, non c’è fretta.
Isaias le posò un bacio sui capelli, incerto se alzarsi e lasciarla sola o restare a dividere un po’ di dolore con lei.
– Vai. Ti bevi il caffè con gli altri, prima del giro.
Isaias si alzò piano e la baciò di nuovo, stavolta sulle labbra. Poi la lasciò sola coi fantasmi che gridavano per uscire dalle vecchie scatole.
 
 
Butto via tutto.
Quante volte l’aveva detto?
Peccato che poi non avesse mai avuto il coraggio di farlo.C’erano due cartelline, una con l’ecografia che si era potuta permettere grazie all’assicurazione, l’altra con i biglietti di congratulazioni che aveva ricevuto quando, alla fine del terzo mese, aveva detto a tutti che era incinta. Perché da quel momento in poi era impossibile che qualcosa andasse male, giusto?
C’era il completo di lana azzurra che aveva sferruzzato durante l’attesa; non che fosse un’esperta di lavori femminili, ma il coprifasce le era venuto bene perché aveva una forma semplice e squadrata. Le scarpine invece erano piene di buchi e Isaias l’aveva presa in giro tantissimo per quello. Due sgorbi, davvero, ma ne era fiera: le aveva fatte e disfatte almeno quattro volte, e alla fine sembravano davvero scarpe in miniatura.
Poi c’era un ciuccio azzurro e delle bavette ricamate a punto croce, non da lei. Quelle le aveva fatte Jenna. E le aveva regalato anche il cappellino con le orecchie d’orso che ora accarezzava. Sembrava nuovo.
Lo strinse al petto, e le due piccole protuberanze rotonde le fecere solletico al collo.
Tenere in braccio un bambino così piccolo, così piccolo da indossare quella roba, era come stringere il niente, l’aria. I residui dei sogni.
– Ma’? Perché quella faccia?
Il cuore fece un salto doloroso; Neena sentì le guance incendiarsi e le ci volle un attimo per essere in grado di rispondere. Come fosse stata colta in flagrante, a rubare.
Che pensiero assurdo.
– Oh, sei qui. Niente, ricordavo.
– Hai nostalgia di quando ero piccolo?
Neena avvampò di nuovo. Sedeva sul bordo del letto, le gambe raccolte da una parte, il contenuto della scatola in bella vista, in parte disposto secondo un ordine misterioso – che parlava solo a lei – sul copriletto colorato.
– Ero davvero così piccolo? Incredibile.
– No, tu…
– Delle volte vorrei potermi sedere ancora in braccio a te. Non mi è piaciuto quando sono diventato troppo grosso per farlo.
E Heath si sedette sulle sue gambe e lei l’abbracciò e protestò per il peso, e rise nella sua maglietta che puzzava di sudore, ma resistette.
Anche a lei mancava prenderlo in braccio.
Allora tutto sembrava più semplice. E lo era.
– Ehi, adesso basta. Mi stanno venendo i crampi.
– Ancora un minuto.
– Heath!
Allora lui rise, fece un paio di versi da bambino piccolo e si attaccò al bordo della scollatura, e chissà se l’aveva fatto consapevolmente o se era stato un ricordo inconscio, una vecchia abitudine scritta dentro di lui.
Avevo ancora il latte.
– Questa roba però non l’avevo mai vista. Credevo fosse tutto nel cassettone in camera mia.
– Ora scendi, ragazzo. Mi stai bloccando la circolazione.
– Delle volte vorrei essere ancora piccolo.
– Se non scendi lo racconto a tutti i tuoi amici.
Neena lo strinse e restarono così, ma le gambe le dolevano e da qualche parte, nello stomaco, qualcosa premeva. Era come cibo avariato, che doveva uscirsene di lì per non farla più stare male.
– Vado a farmi una doccia.
– Non far fuori tutta l’acqua, devo farmela anch’io.
Quando la porta dietro a suo figlio si richiuse Neena lasciò scendere le lacrime.
Poi raccolse uno ad uno i frammenti della sua memoria e li ripose dove dovevano stare, nella scatola con i fiorellini azzurri e blu; il coprifasce sotto e poi le scarpine e le bavette e il ciuccio, la busta dell’eco e il cappellino con le orecchie d’orso. Li coprì con la velina bianca che doveva proteggerli dalla polvere.
Infine rimise il coperchio e ripose la scatola al suo posto, in un angolo buio.
 
– …E siamo in vacanza per davvero, cazzo!
I Pearl Jam bucavano l’aria dalle casse e Tony, il più grande dei due Beckwith, si dimenava con una birra in mano. Julian, il fratello piccolo, si lasciò cadere sul divano letto accanto a Heath e rovesciò un po’ di Coca Cola sulla fodera.
– Fai attenzione, animale. Poi mia madre lo fa lavare a me.
Heath non aveva voglia di ridere e a dire il vero anche la musica gli dava fastidio. Guardava un po’ nel vuoto e un po’ sul display del telefono.
Essere impegnati con la scuola aveva i suoi lati positivi, dopotutto. Le giornate adesso erano fin troppo lunghe. Avrebbe dovuto pensarci prima e trovarsi un lavoretto, ma con la faccenda degli esami finali era arrivato un po’ in ritardo; i soliti posti giù al campeggio e in hotel erano tutti presi.
– Nessuno di voi cazzoni mi darebbe una mano? È più semplice se non devo saltare continuamente da un lato all’altro.
Jaime era l’unico che faceva qualcosa. Si dava da fare sulla moto. Avevano deciso di montarci delle sacche laterali, così una parte del bagaglio per la gita a Grand Creek, che avevano in programma la settimana dopo, l’avrebbe trasportato Heath.
Il quale si stava stufando persino dell’Harley.
E non provava più nessun tipo di attrazione per la gita a Grand Creek, dove era stato tipo almeno una volta al mese negli ultimi dieci anni. E il suo telefono doveva avere una maledizione perché aveva smesso di suonare o bippare o vibrare o a dare un qualsiasi segno di vita. Il mondo si era dimenticato di lui.
Ma a chi vuoi darla a bere, cretino?
Rivkah. Era Rivkah che si era scordata di lui.
Heath lanciò lo smartphone nella cassetta degli attrezzi che aveva vicino ai piedi, per tenerlo d’occhio. Il lupo stampigliato sulla custodia teneva d’occhio lui.
Allora non scherzava.
Tutte quelle stronzate della sera del ballo Rivkah le pensava veramente.
Heath non ci capiva più niente. Non è che avesse molta esperienza di donne; anzi, non ne aveva proprio. C’era stata sempre e solo Rivkah e un paio di storielle senza importanza durante una delle loro pause, cose dimenticate prima del giorno dopo, forse anche subito. Niente che valesse come esperienza.
Roba da farsi venire il mal di testa.
 
Il telefono vibrò e Heath sbirciò il display. Gli altri tre ragazzi sbirciavano lui. Si riappoggiò allo schienale, e comunque non era niente di niente. Solo una vignetta scema su uno che era appena stato mollato dalla ragazza e si faceva... Gliel’aveva mandata Julian Beckwith.
Che era seduto accanto a lui col telefono in mano e se la rideva a quattro ganasce.
– Sei un coglione.
– E tu sembri Romeo, un po’ più sfigato però. Ma ti sei visto? Con tutte le ragazze che ti potresti fare!
Tony alzò al massimo i Pearl Jam e Buck, che fino a quel momento era rimasto buono buono sdraiato sulle scarpe di Heath, uggiolò, si coprì le orecchie con le zampe, poi si tirò su e si trascinò fuori. Heath lo vide lasciarsi cadere a terra nel suo posto preferito al sole.
– Fanculo, Julian. Anche da parte di Buck.
Heath si alzò, spense la musica e, ancora più pesante e svogliato del lupo, lo seguì fuori e si sedette accanto a lui, per terra. Mentre procedeva con le solite grattate dietro le orecchie, le risate dei due Beckwith gli ricordarono quant’era ridicolo.
Doveva assolutamente trovarsi qualcosa da fare.
Almeno finché non fossero finite la guerra fredda con Neena e questa stupida situazione con Rivkah.
Perché sarebbe finita, vero?
 
– Posso… toccarlo?
Heath alzò gli occhi e si ritrovò davanti al naso le ginocchie ossute di Sacco d’Ossa; la ragazzina portava una maglietta ridicola di Lady Oscar e un paio di pantaloncini corti. Semivuoti. Heath pensò alle cosce di Rivkah.
Dalla rimessa arrivò una serie di latrati così sguaiati che perfino Buck tirò su la testa, seccato.
– Ma sì, Heath, faglielo toccare!
– Vuoi toccare il mio, piccola? Non fare complimenti!
– Silenzio, coglioni!
Questo era Jaime.
Sacco d’Ossa – Anna, doveva sforzarsi di chiamarla Anna – si fece più rossa di un semaforo. Le vennero gli occhi lucidi.
Si era fatta le trecce. Non era troppo grande, per le treccine?
Non le aveva ancora perdonato la faccenda della camera da letto, però loro erano proprio una manica di idioti, lui compreso. Forse era il caso di scusarsi. Anche perché, se lei si fosse lamentata con Neena, Heath avrebbe passato un guaio. Un altro. Non ne aveva proprio bisogno.
Troppo tardi. Sacco d’Ossa era già scappata via.
Heath si lasciò cadere a terra di fianco a Buck, che gli posò il testone sulla pancia e sbadigliò.
Sarebbe stata una lunga, lunghissima estate.
 
Perfino Sacco d’Ossa aveva un lato positivo, a quanto pareva. Le cene erano diventate territorio franco: con i Charmaine a tavola, Neena evitava di toccare argomenti caldi.
Sacco d’Ossa guardava nel piatto, suo padre pendeva dalle labbra di Isaias, che raccontava qualcosa di epico sulla sua vita di guardaparco, e Neena si sforzava di fare conversazione.
– Allora, sei pronta per la gita? Hai tutto quello che ti serve?
A Heath andò per traverso il boccone. Si mise a tossire, sputacchiò e si trovò gli occhi di tutti puntati addosso. Arrossì come una ragazzina, e anche Anna arrossì.
– Vie… viene anche lei a Grand Creek?
– Di cosa stai parlando? Io dicevo di venerdì prossimo. Arriva tuo cugino William, non è magnifico? Andiamo tutti alla Cresta dell’Orso, papà si è preso il weekend libero.
– William Spina Nel Culo?
– Heath!
– Non conosco un altro Spina Nel Culo. Volevo dire, non conosco un altro William. L’hai invitato tu, vero?
Neena diventò rossa come un gambero. Ma perché, perché sua madre doveva sempre impicciarsi delle vite di tutti? Chiaro che aveva invitato William per un motivo. Forse sperava che facesse ragionare lui, lo sciagurato che non voleva andare al college. O magari voleva presentarlo alla ragazzina sociopatica?
Donald e Isaias osservavano con attenzione l’uno gli avanzi di purè, l’altro le decorazioni del lampadario. Heath fronteggiò lo sguardo di fuoco di sua madre e, dall’altro capo del tavolo, giunse una risatina soffocata.
Beh, almeno aveva fatto ridere Sacco D’Ossa.
 
Il cugino William aveva pochi anni più di Heath e per fortuna era un pezzo che non si vedevano. Il ricordo più simpatico che aveva di lui era che lo chiamava Spina Nel Culo. William allora diventava rosso dalla rabbia, correva a dirlo a mammina, mammina riferiva a Neena e Heath si beccava una punizione.
Dopo un po’ aveva preso a chiamarlo Spina per comodità.
William aveva camminato a nove mesi, imparato a leggere a tre anni e riassunto per iscritto Le avventure di Tom Sawyer e Huckleberry Finn a sette. Non poteva che finire ad Harvard, e allora i suoi genitori si erano trasferiti nel Massachusetts, nel caso il cucciuolo avesse bisogno di loro. Era stato davvero un grande dolore quando si erano trasferiti, ossì. Certochesssssì.
Cazzo, il Massachusetts era lontanissimo. Cosa cavolo ci veniva a fare Spina a Highwood?
Il telefono emise un bip che risuonò come una fucilata. Poteva essere Rivkah? Memore di quanto era stato sfottuto nel pomeriggio, Heath si trattenne. Contò fino a dieci, si pulì educatamente la bocca con il tovagliolo e chiese il permesso di alzarsi.
Nessuno badò a lui, perché Isaias decantava la bellezza del paesaggio visibile dalla Cresta dell’Orso e le costine che avrebbero cotto su un fuoco acceso da lui.
Heath stabilì che l’Harley aveva bisogno di una bella corsa, e lui pure.
Il messaggio era solo un promemoria della scuola: dovevano passare a ritirare i diplomi.
 
L’aveva seguito.
Poteva essere? Sacco D’Ossa l’aveva seguito. Non era passato molto da quanto Jaime aveva smesso di seguirlo come un’ombra, e adesso ci si metteva lei?
Stava in piedi vicino all’ingresso della rimessa. La porta era spalancata ma lei se ne stava da parte, più fuori che dentro, appoggiata a uno stipite, come fosse indecisa tra nascondersi e mostrarsi. Come avesse paura di ostacolare il sole che, tramontando, entrava obliquo ad ammorbidire il buio e faceva brillare le cromature dell’Harley.
Heath finì di arrotolare il telo, poi fece rientrare il cavalletto e girò la moto verso di lei.
– Hai bisogno di qualcosa?
Lei scosse la testa.
– Bene. Allora io vado, eh?
Lei assentì. Non si muoveva. Lo fissava.
Perché non si levava dai piedi?
Heath aveva appena deciso che doveva parlare con Rivkah e aveva bisogno di rifletterci su. In più non ci stava proprio dentro, non poteva mettersi anche a sopportare una tipa stramba di poche parole.
– Com’è quel… come l’hai chiamato?
– Vuoi dire mio cugino William?
– Non l’hai chiamato così.
Anna Charmaine arrossì e si mise a ridere e poi nascose la faccia tra le mani e senza guardarlo pronunciò «Spina Nel Culo» come se dirlo lo costasse fatica, come fossero parole di una lingua straniera difficili da imparare; tra le dita e i sussulti lievi della risata repressa diventò ancora più rossa e Heath si ritrovò a scoppiare a ridere anche lui. Si stava rincretinendo, i ragazzi avevano ragione. Come dicevano? Chi va con lo zoppo…
Dio quant’era ridicola. Si vergognava per lei.
Adesso penserà che la trovo spiritosa.
– Senti, cancella tutto, non voglio mica influenzarti. Mio cugino è… figo. Vedrai. Ti piacerà tantissimo.
– Lo pensi davvero?
Spalancò gli occhi mentre lo diceva e si coprì la bocca con le mani, e la pelle lentigginosa si chiazzò di rosso sul collo.
– Di… di che colore sono i suoi occhi?
Eee pure questo problema hai, Sacco D’Ossa.
– Non hai mai avuto un ragazzo, vero?
Anna sbarrò gli occhi e assentì.
– Mia madre dice che è pericoloso.
Heath alzò un sopracciglio.
– Chiedi il permesso alla mamma per avere un ragazzo? Non è pericoloso, fidati.
Adesso penserà che me la voglio fare. Complimenti, scemo.
– Mi ha spiegato. Mia madre mi ha spiegato.
Ma perché diavolo raccontava a lui quelle cose?
– Anna? Anna, tesoro, dove sei? Ah, eccoti.
Ecco fatta la frittata. Donald Charmaine non avrebbe dovuto beccarli insieme dentro la rimessa.
– Grazie della chiacchierata. Scusatemi, ci si vede.
– No, Heath, non volevo disturbarvi, non devi andare e…
Certo che doveva andare, e alla svelta anche.
Il tempo di saltare sulla moto e li mollò nella rimessa, e che si accomodassero pure sul divano, se credevano.
 
Le stelle dell’estate si erano accese e la moto scivolava come su velluto blu notte. Buck non si vedeva. A Heath parve che un latrato lo salutasse, ma l’aria era troppo carica di profumi per poter resistere ancora e forse il suo amico aveva trovato qualcuno con cui correre.
Qualcuno che non era lui.
   
 
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