All
I ever knew was that
You and me were meant to be
All I ever
knew was the taste of your lips against mine
(You are mine) We
were there for eternity
Now
I am lost inside this everlasting reverie
And I'm losing my mind
My Nocturnal Serenade, YOHIO
La bottega è buia e silenziosa. Il
sole che accarezza i vivi trova la strada sbarrata dalle assi
inchiodate alle finestrelle. Non è luogo che possa essere toccato da
raggi rifulgenti, quello. Il tempio di cui egli è custode accoglie
ben altro genere di visitatori ed è per soddisfare le loro esigenze
che è stato costruito.
Undertaker lavora alla tremebonda luce
di una candela, canticchiando un motivetto le cui origini sono state
ormai dimenticate, perdute nella fretta che hanno gli umani di
consumare ogni minuto del loro tempo prima che quelli come lui
possano raggiungerli per mieterne l'anima. È come se dovessero
sempre scappare dal destino al quale, tuttavia, sanno di non potersi
sottrarre. E in questa vana fuga finiscono per lasciarsi alle spalle
tutto ciò che potrebbe rallentarli, ciò che essi non ritengono di
alcuna utilità... come quella vecchia canzoncina che aleggia sulle
labbra pallide del becchino.
L'aria è densa, stantia, pregna di
odori acri e dolciastri, prepotenti. Il sentore di legno delle bare è
miscelato agli effluvi emanati dalle sostanze utili alle autopsie e
al trattamento delle salme, volto a rallentarne o accelerarne la
decomposizione. E poi ci sono i corpi che emettono il loro
ineguagliabile umore di morte. Undertaker non ne è disturbato,
piuttosto trova quel miscuglio di fragranze perfino gradevole. Un
bouquet del tutto peculiare intriso di struggente malinconia.
Il corpo che giace inerme sotto le sue
mani è quello di una giovane donna perita recentemente di
consunzione. La morte non l'ha ancora derubata della bellezza eterea
che la natura le aveva donato, ma per Undertaker la carnagione spenta
e l'assoluta immobilità del suo petto non rappresentano un motivo
d'orrore.
I suoi ospiti sono piacevolmente
quieti: non pretendono, non desiderano, non recriminano, non
giudicano. Eppure ognuno di loro è diverso. A modo proprio, ognuno
di loro gli parla. Narra una storia unica, irripetibile. Una storia
che ha avuto un principio, uno svolgimento e una conclusione.
Ma la morte era davvero una fine
irreversibile? Che ad essa fossero destinati, prima o poi, tutti gli
esseri terreni era un dato di fatto, ma se qualcuno avesse aggiunto
un seguito a quella storia? Gli Shinigami recidevano di netto la vita
di coloro che avevano esaurito il proprio tempo; ma se qualcuno
avesse ricucito quella lacerazione? Se si fosse provato ad aggiungere
altra sabbia alla clessidra e a capovolgerla di nuovo?
Nessuno si era mai spinto tanto in là.
Per quanto i Mietitori dimorassero al confine tra Vita e Morte,
dovevano limitarsi a fungere da intermediari. Osservare, attenersi
scrupolosamente al proprio compito e mai, mai, tentare di
modificare gli eventi.
Undertaker emette un verso
insofferente. Quella ristrettezza di vedute era uno dei motivi che
l'avevano spinto ad abbandonare l'incarico malgrado fosse ritenuto
uno Shinigami eccezionale.
Perché mai porsi un tale limite?
Perché arrendersi a lasciar andare ciò che si aveva di più caro
senza ricorrere ad ogni mezzo per trattenerlo a sé?
I lineamenti della giovane si
dissolvono per un momento, per ricomporsi al tremulo barlume della
fiammella nei dolci tratti di un volto che un tempo egli aveva amato.
In vita come nella morte.
Le sue dita corrono al medaglione
commemorativo, stringendosi intorno all'ultima scintilla che
testimoniava il passaggio sulla Terra di colei che aveva sconvolto il
suo cuore pietrificato. La mano avvolge l'ovale di metallo che
contiene una ciocca dei suoi capelli. Il suo tesoro più prezioso.
Ne sfiora i fregi con il polpastrello,
percorrendo e ripercorrendo le linee che compongono la C e la
P delle iniziali intrecciate. Prova a immaginare di
accarezzare lei, di percepire ancora la morbidezza e il tepore della
sua pelle, la serica superficie delle sue labbra di rosa; il suo
profumo; la sua risata.
Undertaker chiude gli occhi. La mente
veleggia verso l'isola di quei ricordi lontani, reliquiario di gioie
effimere ormai appassite. Si costringe a concentrare ogni energia
sulla memoria di lei, quasi che il semplice rievocarne la presenza
con tanta intensità possa restituirgliela. Per quanto il dolore
abbia finito per attenuarsi giorno dopo giorno, richiamare a sé
quella sofferenza e farsene mordere fino all'osso è il solo modo che
conosce per tenerla legata a lui. Nel tormento che mai lo abbandona,
lei vive ancora. Lei c'è.
Ma forse, non è il dolore ad essersi
placato sotto il velo polveroso degli anni, quanto piuttosto
Undertaker stesso ad essersene assuefatto senza neppure accorgersene.
Quando la pena è troppa, finisce per mutarsi nel suo opposto e
anestetizzare chi ne è vittima.
Posa la bocca sul medaglione. Indugia
con le labbra contro il metallo lasciando che il sapore di ossido gli
si appoggi alla lingua.
È un bacio gelido e sterile in un santuario desolato senza alcun dio da pregare.