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Autore: Adeia Di Elferas    16/05/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Agosto cominciava a mostrare già la sua criniera leonina, quasi volesse dimostrare che il luglio appena trascorso non fosse altro che una sua pallida imitazione.

Caterina era rimasta in stanza fino a che il caldo non era arrivato anche lì. Si era svegliata presto e non era più riuscita a prendere sonno. Anche se non aveva fatto incubi particolarmente brutti – si era trovata a rivivere momenti dell'assedio, ma almeno non aveva visto traccia né di Girolamo né del Valentino – aveva addosso un'agitazione che faticava a dominare. In parte, ne era convinta, la colpa era di Fortunati.

Malgrado le sue tante promesse, non le aveva ancora organizzato una visita a Giovannino e, in più, con lui era impossibile discutere serenamente della possibilità di recuperare almeno Forlì. Ogni volta in cui, un paio di giorni prima, la Tigre aveva provato a introdurre di nuovo l'argomento, l'uomo si era innervosito e, alla fine, forse per evitarsi un vero e proprio litigio, il piovano se n'era andato prima del tempo, proprio quando la Sforza era stata a un passo dal rivelargli il fitto intreccio di lettere che aveva fatto partire assieme a Galeazzo e con la complicità di Creobola, che si stava dimostrando una serva solerte e discreta.

Ovviamente la Leonessa era cosciente del fatto che coinvolgere quella donna e i messaggeri che ella stessa aveva consigliato e caldeggiato non era una mossa che potesse dirsi scevra di pericoli, ma finché Francesco si fosse dimostrato tanto cieco e sordo dinnanzi a quell'opportunità, sentiva di non aver alternativa.

Ancora con lo stomaco chiuso dall'irritazione che provava verso il fiorentino e verso la sua prudenza che sfiorava l'ignavia, Caterina attraversò buona parte della villa, assicurandosi che Sforzino fosse intento ai suoi studi assieme a frate Lauro – che lo riteneva il suo studente migliore di sempre – e che Bernardino fosse con Galeazzo nella corte interna a far un po' di esercizio. Giunta all'ingresso, decise di andare nelle stalle.

Ora che aveva qualche bestia, e che probabilmente a breve sarebbero tornate quelle che Giovanni da Casale le aveva requisito nello stupido tentativo di attirare la sua attenzione, sentiva di avere una scusa valida per recarvisi. Sapeva che non le erano interdette, eppure, mentre attraversava in fretta il breve tratto che separava la villa dalle stalle, accelerò, come se avesse paura che qualcuno la potesse fermare e le potesse intimare di tornare indietro.

Una volta di nuovo al riparo dal sole e dagli sguardi indiscreti che di certo le erano stati lanciati dalle finestre della villa, la donna si prese un momento per tornare a respirare normalmente. Non si riconosceva in quell'insicurezza continua, eppure le bastava molto poco per sentirsi sotto osservazione e sotto giudizio, temeva che ogni sua più piccola mossa potesse essere vista, registrata e riportata poi a chissà chi: Lorenzo, i francesi... Forse perfino Fortunati, ormai, le faceva più da cane da guardia che da amico. Di chi altro doveva guardarsi? Da Alberto De Marzi..? Da Creobola, magari..?

Il nitrito indispettito di un cavallo la distrasse. Di colpo l'odore pieno della paglia e degli animali le riempì le narici e per qualche istante si scordò di tutto il resto. Anche se la struttura era molto diversa, ebbe l'illusione di essere di nuovo nelle sue stalle a Forlì e, sospinta come una bambina speranzosa, mosse qualche passo tra i divisori, come aspettandosi di vedere all'improvviso il suo purosangue nero...

“Mia signora, vi serve qualcosa?” il ragazzo di stalla, un ragazzino in realtà, aveva la striglia in mano e sembrava molto sorpreso nel vederla lì da sola.

“Penso di avere il diritto di far visita ai miei animali, dato che sono miei.” ribatté, molto sulla difensiva, Caterina, guardando di sottinsu quello che le sembrava poco più di un bambino: “Quindi, per favore...”

Il garzone la lasciò passare senza dire nulla, ma, anche se lo fece con molta discrezione, la Tigre si rese conto che era rimasto in disparte, ma continuando a seguirla attentamente con lo sguardo. Non era da escludere che fosse stato istruito da più di una persona affinché stesse bene attento alla Sforza, nel caso in cui si fosse avvicinata troppo ai cavalli. A quanto sembrava – la sola idea faceva ridere la Leonessa – c'era gente ancora convinta che le bastasse una cavallo e una spada spuntata per correre a riprendersi la Romagna e rovesciare i Borja.

La milanese, cercando come meglio poteva di estraniarsi e di non dare peso allo sguardo sfuggente, ma costante, del ragazzino, passò in rassegna tutte le bestie, soffermandosi per un po' su una femmina molto slanciata, ma, a suo avviso, troppo esile per essere utilizzata in battaglia o a caccia.

Con un sospiro, accarezzò il fianco dell'animale e si disse che quello, in fondo, non era un problema, dato che era verosimile pensare che non avrebbe mai potuto impiegarla né in una né nell'altra attività.

Arrivata in fondo alla stalla, trovò il cavallo che le piaceva di più. Era lo stallone dai tranquilli occhi nocciola che però tradiva sempre, tra il vibrare delle froge e lo scalpicciare delle zampe, un'inquietudine molto profonda. Era un po' più chiaro del purosangue che aveva così tanto amato, e la linea della fronte era diversa, così come la dimensione, decisamente minore. Eppure... Eppure c'era qualcosa che glielo ricordava infinitamente.

“Per caso sai se questo cavallo ha dei legami con Mantova..?” chiese Caterina, senza perdere tempo a guardare il garzone, convinta che, tanto, la stesse già fissando e capisse subito che la domanda era rivolta a lui.

Infatti il ragazzino scosse subito il capo: “Non lo so, Madonna. Il vostro parente Scipione – così disse, dimostrando ancor di più quanto molti considerassero davvero quel Riario una sorta di figlio adottivo della Tigre – ha solo detto, quando l'ha lasciato qui, che sperava ne faceste buon uso, perché è una bella bestia, anche se non era all'altezza di quell'altro...”

Era evidente, dal tono, che il garzone non aveva capito appieno il senso di quell'affermazione, ma per la Tigre, invece, fu come una carezza. Scipione aveva una volta di più dimostrato, ai suoi occhi, di essere un uomo degno di tal nome e di volerle bene.

“Scipione ha ragione.” annuì lei, allungando una mano verso il collo del cavallo.

“Non fatelo o vi morderà!” cercò di fermarla il ragazzino, facendo un mezzo passo avanti per frenarla, ma la donna, ormai, stava già accarezzando lo stallone che, come ipnotizzato, aveva smesso di agitarsi e la guardava trasognato, come se riconoscesse già il suo tocco.

“Stai tranquillo...” soffiò la milanese, rivolta più al garzone che non all'animale.

Mentre il pelo fitto e corto le scivolava tra le dita, la Sforza si lasciava stregare da quel calore animalesco, dall'odore forte della stalla, dal suono cadenzato e per lei familiare del respiro dei cavalli...

All'improvviso le parve che tutto le stesse stretto, che attorno a lei ci fosse una gabbia, anzi, peggio, la cella di pietra fredda di Castel Sant'Angelo.

Desiderò ardentemente essere da sola.

Non trovando una scusa migliore, si voltò di scatto verso il ragazzino e gli ordinò: “Va in casa e portami il mio scialle: ho freddo.”

“Freddo..?” chiese lui, la cui fronte era imperlata di sudore per via del caldo incredibile che quell'agosto stava sfoggiando.

La donna, che a sua volta era accaldata, si rese conto di aver usato un pretesto sciocco, ma persistette nella sua recita: “Sono una donna anziana. Ho freddo ti dico, non mi interessa se tu hai caldo. Corri a prendermi uno scialle, o ti farò cacciare di qui e ti giuro che non troverai lavoro da nessuna parte per tutto il resto della tua vita!”

Spaventato dall'idea e credendo la Leonessa capacissima di una simile ripicca, il garzone deglutì e si apprestò ad andare via di corsa, ma prima disse: “Non muovetevi da qui, vi prego.”

“E dove credi che potrei andare?” ribatté scontrosa Caterina, mentre il giovane andava via a gambe levate, cercando di ridurre al minimo il tempo in cui avrebbe lasciato sola la sua sorvegliata speciale.

Sicura di essere sola, la milanese chiuse gli occhi e respirò a fondo, la mano sempre sul collo rovente dello stallone. Questi, forse percependo la sua agitazione, nitrì con forza e poi si sollevò sulle zampe posteriori, facendola indietreggiare.

Caterina guardò l'animale negli occhi e, senza preavviso, cedette a un impulso che le mordeva l'anima e che non poteva non soddisfare. Senza preoccuparsi di prendere i finimenti o una sella, la donna spalancò il cubicolo, salì in groppa al cavallo, che si lasciò montare senza la minima protesta e poi, dandogli un paio di colpi coi talloni, partì al galoppo, uscendo dalla stalla come una furia.

Aggrappata al crine della bestia, le gambe saldamente strette ai suoi fianchi, la Tigre sentì i capelli liberi in aria, i polmoni riempirsi, tutti i muscoli tendersi... Si sentiva viva e tracimante di energia, come non le succedeva ormai da anni.

Lasciò che fosse lo stallone a decidere dove andare e trattenne a stento un grido di gioia, quando lo vide imboccare con sicurezza il verde fitto e misterioso del bosco.

Sfrecciavano come un'unica entità, sfiorando gli alberi, i cespugli, evitando all'ultimo i rami bassi e le buche nel terreno. Tutto era colorato, luminoso... L'impatto che il bosco le stava offrendo era l'opposto di quello con cui si era scontrata la notte di tante settimane addietro in cui aveva provato a fuggirvi per qualche ora, scappando da se stessa.

Questa volta era come tornare a casa, come tornare a vivere, a respirare... Quella sensazione di libertà che il bosco le aveva sempre dato quando viveva a Forlì, adesso tornava prepotente, fresca come acqua sorgiva.

Caterina non badò al tempo che passava, né a quanto fosse lungo il tragitto che lei e il cavallo stavano percorrendo. Le interessavano solo gli odori che la facevano sentire a casa – anche se nella vegetazione toscana c'era un qualcosa di impercettibilmente diverso rispetto alla Romagna e alla Lombardia – e il calore del sole che, a occhiate, le baciava la pelle. Le sembrava quasi di essere tornata bambina, alle battute di caccia in cui suo padre le permetteva di allontanarsi un po', per poi andarla a recuperare, issandola in groppa alla sua cavalcatura e riportandola indietro con qualche preda pregiata legata alla sella.

La donna si fermò solo quando lo stallone cominciò a rallentare. Si accorse di quanto il mantello della bestia fosse coperto di sudore bianco e della schiuma che cominciava a bagnargli la bocca. Lo fece arrestare del tutto, scendendo subito da lui, per permettergli di riposare senza dover sopportare il suo peso e anche per evitarsi di scivolare sul pelo bagnato.

Una volta coi piedi in terra, la Sforza si guardò attorno, un po' frastornata. Sentiva le guance calde e il cuore ancora le batteva veloce. Si rese conto di non aver la minima idea di dove si trovasse, ma aveva qualche trucco per provare a orientarsi.

Il cavallo aveva sete, ma la Tigre non sapeva se vi fossero nelle vicinanze dei ruscelli. Attese che l'animale brucasse un po' di erbetta fresca e poi gli accarezzò il muso, trovandolo estremamente disponibile a farsi avvicinare da lei.

Mentre la bestia la guardava negli occhi, la milanese continuava ad accarezzarle il muso e, con un sussurro appena udibile, constatò: “Scusami se ti ho fatto stancare... Sono stanca anche io. Molto più di quanto credessi...”

Dopo un po', visto che anche il cavallo sembrava soddisfatto di quell'uscita imprevista, ma desideroso di trovare ristoro e acqua fresca, la Leonessa decise che era ora di provare a rientrare alla villa. Avrebbe seguito, pensò, i segni che di certo loro due avevano lasciato durante la loro gran corsa, come rami spezzati e segni sul terreno, e poi avrebbe provato a orientarsi con il sole e a fidarsi dell'istinto dell'animale.

“Chissà mai – disse, con scarsa convinzione, mentre camminava accanto al cavallo, incitandolo a tornare sui suoi passi – che prima o poi questo bosco non ci sia più interdetto e che diventi per noi abbastanza familiare da poterci entrare e uscire senza fare tutti questi calcoli...”

Di certo ci misero più del tempo necessario, ma alla fine i due raggiunsero il limitare del bosco e, tra le fronde, Caterina riconobbe il profilo elegante, ma per lei ancora in parte ostile, della villa di Castello.

“Adesso ti farò bere e poi ti toglierò per bene il tutto sudore – stava elencando Caterina, camminando lentamente, con il cavallo che stava al passo senza bisogno d'altro se non della sua voce da seguire – e poi ti sistemerò anche la coda, che ho visto qualche rametto impigliato...”

Le parole si spensero nella gola della Leonessa quando fu a poca distanza dalla stalla. Sentì piangere e singhiozzare e si spaventò subito. Ascoltò meglio, e trattenne il cavallo posandogli una mano sul collo umido. Le sembrava che a disperarsi tanto fosse proprio il ragazzino che lavorava nella stalla.

Accelerando il passo, entrò con lo stallone al seguito e trovò il garzone rannicchiato in terra che si teneva la testa tra le mani.

“Che hai?” gli chiese, intuendo con un lieve anticipo quello che stava per accadere.

Il ragazzino sgranò gli occhi arrossati dal pianto, come se avesse appena visto un fantasma e poi, gattonando fino a lei, si buttò ai suoi piedi e singhiozzò: “Io credevo foste scappata!”

Il cavallo ebbe un moto di impazienza, così la Tigre fu costretta a dedicarsi a lui, andando in fretta a sistemarlo nel suo cubicolo, prima di tornare dal giovane che ancora non riusciva a placare il pianto, mormorando ringraziamenti a Dio per il fatto che la Sforza era davvero tornata alla stalla.

“Perché fai così?” gli chiese, capendo, però, almeno in parte, la situazione.

“Se... Se foste scappata...” fece lui, cercando di alzarsi e pulendosi il naso e gli occhi con la manica già non pulitissima del suo camicione: “Se non foste tornata... Santo Cielo, mia signora... Messer Lorenzo mi avrebbe fatto uccidere per certo... E... E i francesi, loro... Loro avrebbero dato le mie budella in pasto ai cani, Madonna! E il piovano... E il piovano mi avrebbe fatto andare all'Inferno per via direttissima!” aggiunse, facendo il segno della croce.

Caterina, ignorando il nitrire nervoso del cavallo, che sembrava reclamare le sue attenzioni e ricordarle la promessa dell'acqua e della striglia, deglutì un paio di volte. Pensare a quanta gente, seppur per motivi diversi, aveva interesse a tenerla in gabbia, la incupì nel giro di tre secondi. La spaventò anche accorgersi di come anche l'ultimo dei suoi servi, sapeva bene che a volerla controllare erano Lorenzo, i francesi e Fortunati. In quell'ottica, ogni sua mossa davvero era rischiosa, perché i delatori non sarebbero mancati e le orecchie interessate ad ascoltare nemmeno.

“Non racconteremo a nessuno di quello che è successo oggi.” disse, con decisione, cercando di infondere nel ragazzino una sicurezza che lei stessa non aveva: “Non avevi ancora dato l'allarme, giusto? Nessuno sa che sono stata nel bosco..?”

“No, no, quando sono tornato con quello – rispose il garzone, indicando lo scialle abbandonato in terra – e non vi ho trovata e ho visto che mancava il cavallo... Oh, mia signora, credevo di morire qui! Non... Mi sono paralizzato e non aveva ancora avuto il coraggio di cercare nessuno... Speravo nel miracolo...”

“Bene.” sospirò la Leonessa: “Allora questo sarà il nostro segreto. Mi raccomando.”

Il giovane annuì con forza, rinvigorito all'idea che quella che gli era parsa una condanna a morte, si stesse risolvendo con una facilità assoluta.

“E ti prometto che non lo farò mai più...” soffiò la Sforza, abbassando lo sguardo e cercando poi un secchio per far bere il cavallo.

Il ragazzino, ancora molto scosso, si sentiva così grato a quella donna che, pur potendo scappare, non l'aveva fatto, impedendo così che lui venisse accusato di averla persa di vista e quindi punito, da provare il bisogno di sdebitarsi con lei.

Così, gonfiando il petto, esclamò: “Se mi giurate che tornerete sempre, come avete fatto oggi, potete cavalcare ancora e io non dirò nulla a nessuno.”

“Davvero?” chiese lei, guardandolo per un lungo istante, cercando di capire fin dove arrivasse la sua sincerità.

“Potete fidarvi.” confermò lui, mettendosi di nuovo in ginocchio, questa volta in modo molto più elegante.

“Va bene.” sussurrò lei, con la voce un po' arrochita: “Grazie.” poi, come se volesse interrompere in fretta quel momento, uno dei primi in cui poteva dire di aver instaurato un dialogo vero con qualcuno che non fossero i suoi figli o Fortunati, chiese: “Mi riempi questo secchio? E poi mi serve anche la striglia, per togliere il sudore dal cavallo...”

 

Giampaolo Baglioni si era svegliato con il piede sbagliato, e quel giorno tutto quello che succedeva sembrava solo andare a peggiorare il suo stato d'animo. A sommarsi a tutti i fastidi che già aveva, c'era il caldo che in quei primissimi giorni d'agosto faceva assomigliare Perugia a una specie di calderone ribollente.

A lui quei giorni di stallo sembravano una prigione. Date le ingenti spese sostenute per la guerra ad Arezzo e poi ad Anghiari e Cortona, non aveva voglia di spendere ancora per distrarsi con qualche festa e, colmo di sventura, in casa con lui non c'era nemmeno sua sorella, dato che Bartolomeo d'Alviano, legittimo marito di Pantasilea, in uno slancio di prudenza, le aveva chiesto di restare in campagna, nel caso in cui anche Perugia dovesse vivere momenti di agitazione, come stava accadendo a tante altre città del centro Italia.

Il Baglioni aveva reagito male a quell'assenza, sentendosi preso per i fondelli, come, d'altronde, si era sentito preso in giro anche dai Borja. Quando aveva consolidato le conquiste nella zona di Anghiari e verso Cortona, irrigidendo le difese nel momento in cui i francesi si erano fatti minacciosi, si era aspettato il plauso del papa o, almeno, del Valentino. E invece l'avevano costretto a trattare con l'Imbault, a lasciargli il comando e a tornarsene a Perugia come un mercenario qualsiasi a fine mandato. Peccato, però, che al contrario di qualsiasi altro mercenario degno di tal nome, lui non avesse visto nemmeno un soldo...

Ormai si sentiva come se tutto il mondo stesse congiurando contro di lui e fosse pronto a spillargli denaro e a farlo lavorare gratuitamente.

Così, quando uno dei servi gli aveva consegnato una lettera appena giunta da Città di Castello, Giampaolo aveva subito subodorato che ci fosse qualche nuova noia a cui far fronte.

Con lo stoicismo che cercava di conservare – ma che in realtà non aveva mai avuto – l'uomo si ritirò nella sua camera da letto e, tentando invano di essere troppo infastidito dalla luce prepotente del sole di quella mattina, si mise a leggere.

Si trattava di un messaggio cifrato dal suo amico Vitellozzo. La grafia era incerta, e la spiegazione di quel tremore ben visibile nei segni tracciati sul foglio venne dalle parole stesse del Vitelli. Gli spiegava che appena rientrato a Città di Castello si era ammalato di febbre quartana, così avevano detto i medici, e faticava a riprendersi. Gli scriveva in uno dei rari momenti di relativo benessere sia per informarlo del suo stato, sia per introdurgli un altro argomento, ben più importante.

Giampaolo, sempre più interessato, si mise a leggere con maggior rapidità, bloccato solo di quando in quando dalla cifra usata che, seppur gli fosse molto nota, a tratti lo trovava dubbioso. Il succo del discorso era molto semplice, comunque: Vitellozzo lo invitava a unirsi a lui e ad altri loro comuni conoscenti per contrastare lo strapotere del Valentino che, ogni giorno di più, maltrattava i suoi pari e, cosa ben peggiore, minacciava di prendersi le terre anche dei suoi alleati. Inoltre, scriveva il Vitelli, i francesi avevano in animo di restituire alcune zone del centro Italia ai vecchi signori e il Duca di Valentinois, per rifarsi delle perdite, di certo avrebbe guardato oltre, verso Città di Castello, Perugia, Fermo e chissà dove altro!

Il Baglioni rilesse la missiva più e più volte, fino a essere certo che il contenuto fosse quello da lui tradotto e poi, grattandosi la barba incolta, si mise a pensare. Anche lui, in effetti, era stato coinvolto in una guerra dispendiosa e pericolosa senza ottenerne granché. E anche lui, seguendo il filo di pensieri di Vitellozzo, vedeva il suo Stato in pericolo...

Anche suo cognato Bartolomeo d'Alviano era scettico nei confronti del figlio del papa, e, anzi, aveva fatto in modo di non lasciarsi coinvolgere nella sua campagna in centro Italia. Giampaolo l'aveva quasi deriso per la sua decisione, ma ora cominciava a dargli ragione...

Bruciando subito la lettera, come lo stesso Vitelli suggeriva di fare, andò alla scrivania e prese il necessario per scrivere. Voleva capire meglio cosa stesse bollendo in pentola, a Città di Castello: se il progetto gli fosse piaciuto, ci sarebbe entrato. In fondo lui, Vitellozzo, Oliverotto... Erano tutti uomini d'arme, capaci di organizzare un esercito e condurre a felice esito una guerra. In uno scontro aperto con il Valentino, tracotante, ma incapace, era facile capire chi avrebbe vinto...

Il Baglioni scrisse con la medesima cifra della lettera una risposta sintetica, ma indiscutibile: chiedeva all'amico di fargli avere più dettaglio e di contattarlo immediatamente, se si fosse deciso di agire.

Siglò il messaggio, sempre in cifra, e poi lo chiuse molto accuratamente. L'avrebbe fatto partire all'istante, in modo da ricevere una risposta quanto prima, sperando che il Vitelli non venisse vinto dalle febbri.

Improvvisamente, mentre consegnava la pagina ripiegata a una delle sue staffette più veloci e affidabili, Giampaolo si sentì di nuovo vivo: la bonaccia stava passando e il vento tornava a soffiare e a gonfiare le vele. Il Valentino sarebbe caduto sotto la forza dei condottieri migliori d'Italia e lui, assieme ai suoi compari, avrebbe scritto la Storia, come un novello Giulio Cesare. Meglio cento giorni di guerra che mille di pace, ecco quello che pensava. Cos'era, un uomo come lui, senza il rombo dei cannoni e la furia dell'assalto?

“Che si passi il Rubicone...” sussurrò tra sé, mentre la staffetta già si allontanava per raggiungere le stalle e partire seduta stante.

 

   
 
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