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Autore: Doux_Ange    23/05/2022    0 recensioni
“To become spring, means accepting the risk of winter.
To become presence, means accepting the risk of absence.”
- Antoine de Saint-Exupéry
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anna Olivieri, Marco Nardi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ABSENCE

“To become spring, means accepting the risk of winter.

To become presence, means accepting the risk of absence.”
- Antoine de Saint-Exupéry
 
 
“Tu sei troppo buona!”
Quante volte mi sono sentita ripetere questa frase nel corso degli anni? Da mia sorella, dalle mie amiche…
Si, perché mi sono sempre lasciata convincere, ad aiutare chi me lo chiede. Da mia sorella, quando si mette nei guai e devo tirarla fuori, dalle mie amiche che mi usavano come alibi per le loro uscite con i fidanzatini, dai miei compagni di classe che chiedevano di passare i compiti per casa e gli esercizi delle verifiche…
E poi per i problemi a casa, le difficoltà del diventare grandi e assumersi responsabilità… tutti mi hanno sempre chiesto, e io ho sempre dato.
“Sei quella più matura, è giusto così,” dicevano.
Certo, ma se questo assunto forniva una garanzia per mia madre, genitori altrui, insegnanti e amici, l’altra faccia della medaglia non è mai stata così dorata, per me.
Perché io, le responsabilità ho iniziato ad assumermele fin troppo presto. A dieci anni, una bambina dovrebbe ancora decidere a cosa giocare dopo aver finito di fare i compiti, non ritrovarsi a dover superare la morte di un padre suicida e innocente. A dover fare i conti con la sua assenza, o con quella di mia madre, fisicamente lì ma con la mente altrove.
Dov’era rimasta la mia, credo. In quella camera mortuaria.
Né avrei dovuto occuparmi di mia sorella, che si sentiva oppressa e abbandonata e non resisteva in casa. Toccava sempre a me recuperarla e curare le sue ferite, anche quelle che non sapevo guarire.
Alle mie, però, ho sempre dovuto provvedere da sola.
Sopportare la vista del sangue, stringere i denti al bruciore dell’alcol e tirare le bende il più possibile per lenire il dolore. Accettare una costellazione di cicatrici che possono sbiadire ma mai andare via del tutto. E ricominciare. Rialzarsi ancora, anche quando sembra impossibile. E mai nessuno che si faccia veramente due domande. O le faccia a me.
“Ma tu sei forte, non hai bisogno d’aiuto.”
Come no. Forte per obbligo, per mancanza di alternative.
Perché ho sempre avuto solo le mie braccia per puntellarmi e rimettermi in piedi. Ho sperato tante volte in una mano tesa che non si lasciasse ingannare e mi tirasse su, ma quando questo ha continuato a non succedere, ho smesso. E ho fatto da me.
Conseguenza?
“Sei troppo rigida, troppo chiusa, troppo indipendente.”
Come se il problema fossi io, che non mi faccio aiutare.
E non i motivi per cui oggi sono quella che sono, nel bene e nel male.
 
Ci avevo creduto, per un po’. Che qualcuno avesse finalmente capito di dover guardare oltre la maschera. Oltre quel muro, che poi, a guardarlo bene, è solo un velo. Sottile, leggero.
Come un velo da sposa.
Come quello chiuso nel mio armadio, poggiato sopra un vestito bianco, che con i suoi cristalli doveva fungere da tela a quei colori che avrebbero dovuto, da quel momento in poi, illuminare la nostra vita.
Quella che avrei dovuto e voluto condividere con Marco.
E che è svanita in un istante.
No, non quello in chiesa. Non quando mi ha confessato di avermi tradita, ma quello in cui ho ricevuto la proposta per Islamabad e ho deciso di rimandare la conversazione con lui.
E non perché fossi certa di voler partire, anzi. Il contrario. In cuor mio sapevo bene di voler restare, perché per la prima volta ne valeva la pena. Ma nel momento meno opportuno era arrivata la chiamata che avevo sperato di ricevere fin dall’Accademia.
Era stato Lucio a farmici pensare, quando era mio istruttore.
Ci aveva raccontato delle missioni a cui aveva già preso parte e che i migliori tra noi potevano ambire a fare, se lo desideravamo. Aveva guardato me di sottecchi, perché ero la migliore del corso, ed era evidente che io ci sarei potuta riuscire.
E io lo volevo, volevo riuscirci.
Così questo era diventato il mio secondo obiettivo.
Il primo, dare giustizia a mio padre.
La presenza di Giovanni non aveva smosso le mie prospettive di un millimetro.
Quella di Marco invece sì. Perché con lui accanto, non avevo più neanche considerato la possibilità di andare via. Il mio posto era al suo fianco.
La mia vita era con lui.
Poi era arrivata la telefonata, e insieme alla voce del Maggiore anche i dubbi. Avrei davvero rinunciato a quell’incarico per sposarmi?
La mia risposta era sì.
Ma avevo bisogno di tempo per elaborarla. Solo che stavano scadendo i due mesi, e io non avevo ancora detto nulla né al Comando Generale, né a Marco.
Non volevo dirglielo semplicemente perché non avrebbe dovuto essercene bisogno.
E invece lui lo aveva scoperto e, come succede ogni volta che si arrabbia, aveva tirato le sue conclusioni affrettate e si era rifiutato di lasciarmi spiegare.
E infine, aveva dato la risposta al posto mio.
Anteponendo il lavoro a se stesso. A me non era rimasto che annuire. Perché neanche lui aveva capito, nonostante tutto, e quello che è accaduto dopo ne è stata la conferma.
Perché io non volevo partire. Volevo restare con lui.
Avrei voluto parlargli, avrei voluto che per una volta fosse egoista e mi dicesse di restare. Che mi fermasse.
Mi sono sentita io l’ostacolo, quella sera. Perché era come se quei due anni passati insieme non fossero serviti a niente. Pensavo mi conoscesse… capisse.
Il tradimento è solo una conseguenza delle mie colpe. Perché avrei dovuto parlare prima e non l’ho fatto. Ma sapevo che avrebbe reagito con la rabbia e, nel tentativo vano di cercare le parole giuste per spiegare, avevo rinviato troppo quella conversazione. Avevo pensato troppo e rovinato tutto. Anche dopo, ogni volta che ci vedevamo, avrei voluto solo piangere e invece mi ritrovavo sempre a ingoiare le lacrime e tirare dritto, perché mentre lui mi chiedeva perdono, io avrei voluto semplicemente che si rendesse conto di quanto io stessi male. Non ero ancora pronta a perdonarlo, la ferita era troppo recente, ma se solo avesse insistito nel modo giusto, le cose sarebbero andate in modo diverso. Invece perfino lui si fermava al mio muro di dolore e indietreggiava.
Prima, quel muro lo avrebbe buttato giù in un attimo. In quei momenti, invece, sembrava non avere idea di come fare.
La verità è che sarebbe bastato il suo abbraccio, che non mollasse la presa al mio tentativo di resistenza. Avrei ceduto. Perché Marco è sempre stato l’unico in grado di essere al contempo ferita e rimedio.
Ecco perché sono finita dritta da Sergio. Si è trovato nel posto giusto al momento giusto. O sbagliato, col senno di poi.
Ed ecco perché quando l’abbraccio di Marco è arrivato, io non sono più riuscita a staccarmi.
Perché con Sergio non sarebbe durata e lo sapevo bene. Avevo scambiato il mio dolore e la mia fuga per qualcosa che non c’era mai stato. Lo avevo capito, accettato. Dovevo dirglielo, però, quando sarebbe uscito dal carcere. Il fatto che se ne sia andato senza avvertire per certi versi ha facilitato le cose. Non che non abbia fatto male, ma non posso dire che non me lo aspettassi. Però, come sempre, mi sono presa le mie colpe, assunta responsabilità - anche non mie - e sono andata avanti.
Stavolta però devo essere forte perché non sono la sola ad aver ricevuto quella batosta. C’è una bambina a cui devo pensare, a cui ho promesso che ci sarei stata.
Ines è più importante del resto, e io non devo essere debole. Non voglio essere assente come mia madre lo era stata con me per un periodo. Ho sempre cercato di imparare dagli errori. Non ci riesco tutte le volte, ma l’impegno lo metto e stavolta non fa eccezione, anche se significa che a pagarne le conseguenze sarò io e che le mie possibilità di tornare con Marco si affievoliscono sempre di più.
Ma l’amore ci spinge a fare follie, anche contro noi stessi.
Perché è così: io amo Marco, l’ho sempre amato anche quando mi costringevo a pensare il contrario e sforzarmi inutilmente di detestarlo, e non so se c’è qualcosa che non farei per lui a questo punto. Perfino spingerlo tra le braccia di un’altra se questo lo rende felice.
Soprattutto se quest’altra mi ricorda terribilmente mia sorella. E me stessa. E Marco.
Non ce la faccio, a girarmi dall’altra parte, o approfittarne. L’ho detto, che sono masochista, dopotutto. Autolesionista, perché le torture me le infliggo da sola, ripetutamente.
Rifiutando o rinviando le occasioni di felicità che mi si presentano. Se solo fossero ciò che voglio.
 
Valentina, fin dal suo arrivo a Spoleto, mi ha riportato davanti agli occhi l’immagine di mia sorella Chiara. Non solo perché è bella e femminile, ma perché è sicura solo in apparenza.
Perché, a vederla, verrebbe da pensare sia una ragazza senza problemi, con una bella vita, popolare, con davanti a sé un futuro brillante e infinito.
Una che potrebbe avere qualunque cosa solo schioccando le dita.
Ma anche nel suo caso, se ti soffermi, capisci.
Che c’è un velo cupo nei suoi occhi, che il dolore l’ha costretta a una crescita per cui non era pronta. Che il peso delle responsabilità ha stancato le sue spalle fragili e l’ha fatta crollare. Cedere senza possibilità di scampo.
Non perché non ne avesse la forza, ma perché non tutti sono disposti ad annullarsi, o fingere di farlo, per evitare di stare peggio. C’è chi ha bisogno di sfogarsi e accettare che altri leniscano il dolore.
Io non sono brava a consolare, non riesco a farlo nemmeno con me stessa, e non sarei stata la spalla migliore su cui lei potesse piangere. Non sono brava ad abbracciare, perché darei una parte di me che può essere strappata, e in tutta sincerità le mie ferite sono ancora aperte e troppo sanguinanti per poter rischiare.
Né sono brava a lasciarmi consolare. Mi viene più facile mostrare agli altri la facciata forte, di chi non piange e non cede mai, nemmeno davanti ai drammi più gravi. Anche se non è quasi mai vero, e quella mano tesa, in fondo, non ho mai smesso di attenderla. Così come sentire due braccia sollevarmi e stringermi, con una voce a dirmi che andrà bene. Che col tempo si risolverà tutto. Che insieme ce l’avremmo fatta.
Ci ho provato a chiederlo, quell’abbraccio di cui avevo disperatamente bisogno. E ho finito per ricevere un’altra stoccata letale.
Valentina non ha paura di domandare, di ricevere. E Marco, al contrario di me, sa aiutare.
Certo, a quanto pare sa aiutare tutti tranne me, ma diciamo che me la sono cercata, perché ho continuato a stringere le mani in due pugni impossibili da sciogliere, segregandomi da sola nella mia torre d’avorio.
Comunque, lui le ha teso la mano e lei l’ha afferrata. Per non lasciarla.
E come la biasimo? Avrei fatto lo stesso.
Anche Chiara lo ha fatto.
Solo che con lei la situazione era diversa. È mia sorella, non c’entra nulla. Si è fatta da parte per me, come io avevo fatto con lei.
La giovane Anceschi invece non ha legami con me, non mi deve niente.
E Marco con lei sembra davvero felice.
Io l’ho umiliato e distrutto, dopo il matrimonio saltato. Non ce la facevo, non riuscivo a non pensare a ciò che avremmo potuto avere insieme, e avevamo buttato via, tutti e due.
Non riuscivo ad accettare che quella vita davanti a noi era svanita. I nostri progetti, i nostri sogni... tutto perduto per sempre.
Il dolore era troppo, ed era più facile rifugiarmi in qualcosa che non mi faceva pensare. Certo, le conseguenze, di pensieri me ne hanno fatti venire anche troppi.
Valentina merita di essere felice, dopo i traumi che ha subito. Merita di essere amata, e Marco questo lo sa fare. Soprattutto, credo lo voglia fare.
E anche lui lo merita, dopo quello che ha passato con me.
 
Ho sbagliato, lo so. Avrei dovuto condividere con lui quello che stava succedendo. Perché questo si fa, in una coppia. Io l’ho impedito. E mi sono barricata dietro il solito muro per non ammetterlo. Quando l’ho fatto, avevo accettato di aspettare un altro solo per senso di responsabilità, ancora.
E se Marco alla fine ha accettato ciò che io continuavo a ripetere, non posso fargliene una colpa.
Amici, amici, amici.
Ma quando mai lo siamo stati? Lo hanno sempre saputo tutti, compresi noi.
Ma la paura e l’orgoglio sono una combinazione terribile, non portano mai a niente di buono.
Io, di paura, ne ho fin troppa. Non solo per gli sbagli che commetterei io, ma anche perché… a cosa è servito rischiare, finora?
Fin quando c’era Sergio, lo capivo. Ma quando lui non c’è più stato, e io avevo bisogno di Marco, lui c’è stato, almeno finché non sono riapparsi tutti i fantasmi del passato.
Perché le macchie ritornano sempre, indipendentemente dalla vernice che usi per coprirle. Anche se è quella giusta, ne serve più di una passata. E l’idea di dover risalire su una scala e ricominciare quando il lavoro sembrava finito non è facile.
Hai sempre il terrore che il problema si ripresenti a oltranza e quello che fai è inutile.
Quella sera, quando mi ha proposto di mantenere la sua promessa, nonostante tutto, mi ero detta che forse c’era ancora una speranza. Che quell’abbraccio, a casa mia, fosse davvero il mio posto nel mondo, di nuovo.
Avevo accettato quel pennello e insieme avevamo coperto quella macchia che ci portavamo dietro da un po’, e ci credevo veramente, che stessimo ricominciando. Che il passato poteva restare passato.  
Ma quando mia madre mi aveva innocentemente informata che fosse tornata, prima del previsto, mi sono lasciata prendere dal panico.
E ho rifiutato l’aiuto di Marco di toglierla insieme ancora una volta.
Me ne sono pentita subito, e avevo sperato insistesse. Prima l’avrebbe fatto.
Invece no, ha annuito e basta.
Ho pensato che avesse avuto paura anche lui, e che in fondo lo capivo. Ci serviva un altro po’ di tempo per prendere di nuovo le misure e provarci.
Ma quando è successo quel casino col suo fratellastro, ho intuito che forse era tardi. Che avevo aspettato troppo, e avevo sprecato le mie occasioni.
Ci sarebbe stato un bacio che avrebbe significato l’ennesimo errore. Un errore vero, stavolta. Perché lui non aveva voluto. Si era evidentemente tirato indietro, non aveva impedito che me ne andassi, nonostante le mie intenzioni fossero state fin troppo palesi.
Dopo quello che ci eravamo detti, non ero sicura che la paura fosse la risposta ai miei dubbi.
Quando l’ho visto baciare Valentina, nel soggiorno di casa Cecchini, tutto è stato chiaro.
Marco era andato avanti, e io ero rimasta indietro. Ci aveva provato, io l’avevo respinto e aveva voltato pagina. Ormai ero un’amica e nient’altro.
 
Avrei potuto non esserlo, per qualcun altro. Se volessi, la possibilità l’avrei ancora.
So che a Lucio non sono mai stata indifferente, fin dall’Accademia. Ero un’allieva modello, nessuno avrebbe potuto dire che ci fossero preferenze gratuite, ma io sapevo bene che nei miei confronti aveva un occhio di riguardo. Ma c’era Giovanni, e non si era mai permesso di fare un passo in più del dovuto. Siamo rimasti in contatto negli anni, Marco sa bene chi è anche se non si erano mai incontrati di persona fino a quel giorno in caserma.
Lucio sa anche una parte della nostra storia, del fatto che io e Marco stessimo per sposarci, e del litigio.
Il resto lo ha intuito, credo. Non sa della parentesi con Sergio, solo l’epilogo.
Ma ha capito più di tutti, e mi ha perfino aiutata, contro ogni logica.
Mi ha anche garantito una via di fuga, se dovessi averne bisogno.
Perché l’incarico in Siria sarebbe prestigioso, sì, ma sa già che io non voglio andare via. Ho già rinunciato una volta, e questa non sarà diversa.
Se tengo ancora in forse la risposta, è solo perché ho paura di non farcela a restare. A sopportare di vedere Marco e Valentina consolidare la loro storia.
Possono essere felici, ma io non sono abbastanza forte da riuscire a restare a guardare.
La verità è che so che tra me e Marco non è mai finita davvero.
Lo so, lo sento. È tutto com’era prima, tra noi. L’unica differenza è che non stiamo insieme, anzi che lui sta con un’altra.
Ma ciò non cambia il fatto che non saremo mai davvero solo amici.
Non ci sarebbe sempre quella tensione nell’aria, se così non fosse. Lo so che la presenza di Lucio non gli ha fatto piacere. So che non ha apprezzato le uscite a quattro, e non sa del bacio.
Ma non ha significato assolutamente nulla, Lucio sa che non posso ricambiarlo. L’ha detto lui stesso. Mi basterebbe alzare un dito per cambiare le cose, questo me l’ha lasciato intendere, ma senza pretese. Ma io non voglio, ho già sbagliato con Sergio, non commetterò di nuovo lo stesso errore, non con un uomo che con me si è sempre comportato con sincerità e rispetto.
Senza giudicarmi male per le pazzie da donna innamorata. Senza farmi passare per sciocca per aver sperato di cambiare le cose.
Mi ha aiutata evidenziando la gelosia di Marco con le mosse giuste - uno sguardo di sottecchi, una parola al momento giusto, sfiorarmi le dita quando sapeva che lui stava guardando - e facendomi capire che avevo ancora speranza.
Solo che io non voglio obbligare Marco, se non se la sente. Deve scegliere da solo cosa vuole, e non sarò io a spingerlo. Perché finirebbe come allora, e io non voglio questo.
 
Io so solo che lo amo. Più di tutto. E voglio che sia felice, anche se non con me.
Ma questo deve capirlo da sé.
Anche perché... c’è Ines. E so che Marco tiene a lei quanto ci tengo io. Che non è più solo la bimba che gli ha chiesto di essere il suo tatuatore legale e che insisteva perché leggessimo insieme le fiabe. E più passa il tempo, più mi convinco che la direzione da seguire sia già davanti a me.
Davanti a noi.
Adesso tocca solo aspettare.
Perché per diventare presenza, bisogna accettare il rischio dell’assenza.
Io l’ho fatto.
Ora tocca all’inverno, ritornare primavera.
 
   
 
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