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Autore: Viking86    31/05/2022    1 recensioni
Rachel è entrata nella vita di Chloe nel suo momento più buio. Chloe è entrata in quella di Rachel giusto in tempo per sostenerla quando il suo mondo è crollato. Il loro rapporto è forte, intenso, forgiato nel fuoco della sofferenza e potrebbe davvero salvare entrambe, o condannarle. Rachel è stato l'angelo di Chloe, ma anche il suo diavolo, così come Chloe è stata l'ancora di salvezza per Rachel e il suo più grande limite.
Life is Strange: Untold racconta la storia di Chloe e Rachel a partire dalla morte di William fino agli eventi di Life is Strange. Inizia subito dopo gli eventi di Before the Storm (con salti temporali indietro e avanti), ma ho fatto un lavoro di adattamento perché tutto corrispondesse il più possibile al canone originale.
Immersa nel contesto vitale di Arcadia Bay, la storia racconterà com'è nato il loro rapporto, come si è sviluppato e come la città e il mondo intorno a loro (sotto forma di coincidenze e altri personaggi, alcuni dei quali originali) abbia condotto a ciò che sappiamo (Dark Room).
Rachel e Chloe hanno avuto scelta o era destino?
Necessario aver giocato a BtS e LiS per poter cogliere i riferimenti (e i cambiamenti rispetto a BtS)
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Chloe Price, Mark Jefferson, Nathan Prescott, Rachel Amber
Note: Lemon, Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
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Conclusione Prima Parte

 
“Stai sbagliando Sera! Possiamo procedere con la causa contro quello stronzo! Abbiamo molte armi per ottenere la custodia parziale e forse totale a questo punto.” La voce dell’avvocato Kevin Shapiro giungeva dall’altro lato del cellulare di Sera Gearhardt. Seduta su un autobus in viaggio lungo la costa dell’Oregon, presto si sarebbe diretto nell’entroterra, verso Portland. Da lì in poi la donna non aveva altri programmi.
“Ho detto lascia perdere Kevin. Tutto questo è troppo per me…” replicò stancamente Sera. Erano passati solo tre giorni da quando aveva rischiato di morire di overdose al Vecchio Mulino. Gli effetti dell’eroina e del Naloxone che le aveva dato Frank ancora si facevano sentire, i pensieri erano ancora annebbiati, ma almeno una cosa la sapeva. Doveva andarsene da Arcadia Bay il più in fretta possibile! Da quando era arrivata in quel buco ogni fottuta cosa sembrava respingerla. Per tutto il tempo trascorso in quella cittadina, Sera aveva avuto la sgradevole sensazione di essere osservata. Poteva giurare di aver visto un corvo seguirla. All'inizio pensava fosse solo un caso, ma l'aveva visto troppe volte perché lo fosse. Un corvo, sempre lo stesso. Ma se l'avesse detto a Shapiro lui le avrebbe detto che era lo stress o l'eroina che le aveva iniettato Damon... o avrebbe pensato semplicemente che fosse impazzita.
“Sera ascolta…”
“No, Kevin. Abbiamo chiuso! Ho chiuso!” sbottò Sera, attirando l’attenzione degli altri passeggeri. Ricomponendosi la donna rimarcò: “Ho chiuso”.
“Cosa ci siamo detti tante volte? Non dobbiamo arrenderci solo perché è difficile. Hai superato tantissime prove da quando hai iniziato i Dodici Passi, sei sulla buona strada per concludere il Passo Nove” continuò Shapiro dall’altro lato del telefono.
“Fare ammenda…” disse Sera automaticamente.
“Esatto”
La donna sospirò, mentre il paesaggio mutava fuori dal finestrino. Sera si strinse nelle braccia, rannicchiandosi in posizione quasi fetale sul sedile.  Aveva i brividi, quei brividi che conosceva fin troppo bene. L’astinenza. Lo stomaco era chiuso da due giorni, il poco che aveva mangiato forzandosi l’aveva vomitato. Tutta quell’eroina era stata una botta per il suo corpo, che ne bramava una dose da più di un anno. L’iniezione di Damon era stata come un recuperare il tempo perso dietro alla disintossicazione.
Sarebbe stato meglio morire tre giorni fa…
Quel pensiero continuava a tornarle. Dapprima l’aveva respinto, ma ora iniziava ad avere senso. In effetti, esplorando i ricordi sfocati di quei momenti, rievocava una felice sensazione di pace. Una pace che non provava da… beh più di un anno! In quel preciso momento sarebbe morta felicemente. In quell’istante in cui aveva sentito la droga pervadere il suo corpo, avvolgerla dall’interno in una coperta ovattata. Come una tanica d’acqua per un assetato. In quel momento aveva sentito distintamente ogni muscolo del suo corpo rilasciarsi, i suoi battiti prima accelerare poi rallentare sempre di più, inesorabilmente. La vista era diventata dapprima più accurata, poi ogni cosa si era fatta distante, lontana, sempre più buia. E proprio allora, mentre la vita iniziava a lasciare il suo corpo, comprese una verità che non aveva mai avuto il coraggio di accettare:
Di tutta quella faccenda di James e Rachel non gliene fregava un cazzo!
Era semplice. Era sempre stato così semplice.
Due anni prima era finita in ospedale per un’overdose, autoinflitta in quel caso. Si era salvata per poco e al risveglio aveva trovato ad aspettarla Kevin, seduto vicino al suo letto. Non lo conosceva, era un messicano standard, camicia a quadri, baffetti corti, qualche chilo di troppo e pettinatura curatissima. L’uomo era un referente nei casi di overdose, Kevin aveva deciso di tentare di redimere i tossici e per farlo aveva una specie di conto aperto con il White Blossom Community Hospital, dove era stata portata, con il quale pagava le cure mediche ai drogati senza assicurazione che arrivavano in emergenza. Come lei. Poi offriva loro la via della disintossicazione. L’aveva presa come una specie di missione, da quando lui stesso si era disintossicato quindici anni prima e aveva aperto lo studio legale Kosterman & Shapiro, occupandosi prevalentemente di diritto familiare. Dopo aver raggiunto il successo professionale, spinto da una sorta di filantropia, aveva deciso di occuparsi dei disperati come lui stesso era stato.
Sera lo aveva ascoltato, quella sua voce soffice e gentile. Lui capiva bene cosa significasse la dipendenza e non la giudicava. Le offrì una via d’uscita, si mise a disposizione come sponsor e la guidò verso il cammino dei Dodici Passi. Sera, forse spaventata dalla morte sfiorata, lo aveva seguito e piano piano si era resa conto di quale china avesse preso. Di come aveva rovinato la sua relazione con James Amber, di come aveva rischiato di uccidere la loro figlia, delle compagnie pessime che frequentava. Sostenuta da Kevin e dal resto del gruppo di sostegno, frequentando la chiesa tutte le domeniche, aveva iniziato ad uscirne con grande fatica e a credere di essere migliore di prima. Cominciò a credere di avere dei doveri verso la bambina che aveva di fatto abbandonato, anche se era stato in effetti James a portargliela via. Iniziò a chiedersi se le somigliasse, con un misto di timore e speranza. Le scrisse lettere, che per colpa di James non avevano mai ricevuto risposta. Kevin Shapiro si offrì di rappresentarla nel processo di rivendicazione dei suoi diritti famigliari e come parte del Nono Passo, lui le aveva consigliato di andare ad Arcadia Bay per incontrare James e infine Rachel.
Si era davvero convinta di poter essere una madre, ma…
“Erano tutte cazzate.” Disse Sera.
“Cosa?” Shapiro era incredulo e confuso.
“Sono anni che mi stai dietro. Mi ero quasi convinta che avessi ragione tu Kevin, pensavo di poter essere migliore. Anzi di DOVER essere migliore. Ma non è così… io non sarò mai migliore…”
“Aspetta Sera, dici così perché ora sei scoraggiata. Fermati un momento e rifletti…”
“Su cosa? James ha assunto un criminale per minacciarmi ed un altro per rapirmi e forse uccidermi. Tre giorni fa la mia sobrietà è andata a fare in culo con una dose mortale…”
“Non è stata colpa tua”
“Lo so, ma non ne vale la pena.”
“In che senso?”
“Mia figlia… non ne vale la pena…”
Silenzio. Kevin Shapiro non si aspettava quelle parole e non sapeva come rispondere. Nel suo sacco della saggezza gli mancava l’aforisma adeguato, la citazione biblica giusta, la frase motivante ad effetto… Semplicemente non c’era e Sera lo incalzò.
“Pensavo che mi interessasse e magari un po’ è così. Ma forse era solo curiosità, vedere cosa il mio utero aveva prodotto…”
“Sera, cosa stai dicendo? Non sei fatta vero?”
Lei scoppiò a ridere, attirando di nuovo l’attenzione di tutto l’autobus.
“No, ma ho intenzione di rimediare al più presto.” Rispose sprezzante.
Kevin tentò di dire qualcosa, ma Sera lo interruppe sul nascere e proseguì: “Ora ti dirò tutta la verità, la verità che ho capito mentre stavo morendo di overdose tre giorni fa. Non ho mai voluto essere una madre, non ho mai voluto davvero disintossicarmi, non me ne è mai fregato un cazzo dei tuoi Dodici fottuti Passi. Io volevo solo stare bene, volevo solo sentirmi libera di vivere la mia vita. Invece fin da bambina qualcuno mi ha detto chi dovevo essere, come dovevo comportarmi, quali scuole frequentare, chi dovevo sposare. James? Non l’avrei mai nemmeno guardato se non fosse stato per mio padre che voleva che lo frequentassi. Sai com’è… il Signor Gearhardt con il suo bello studio legale vedeva questo giovane ragazzo di ottime prospettive e deve aver pensato: ‘questo è il figlio che non ho mai avuto! Facciamogli sposare quello scarto di mia figlia, così sarà utile a qualcosa!’ Uno pensa che i matrimoni combinati non esistano più, beh in certi ambienti esistono ancora, come nel medioevo e tu devi solo ingoiare e stare zitta!”
Kevin rimase in silenzio, ascoltando lo sfogo. Purtroppo, in certi casi non si può fermare la valanga emotiva, bisogna lasciarla franare con tutta la sua violenza. Appena si fosse esaurita, lui sarebbe intervenuto. Si rammaricò di non averla accompagnata. Con lui presente le cose sarebbero state diverse. Intanto, Sera continuò:
“Lui voleva dei figli e io che altro potevo fare? Non ero pronta, non lo sono neanche ora, ma ho detto di sì, come ho detto di sì al primo spacciatore che mi ha offerto un modo per dimenticare i miei problemi, come ho detto di sì a te che mi hai parlato dei Dodici Passi. Non ho mai potuto seguire la mia strada. A malapena ho potuto pensare a ciò che desideravo davvero! Forse quando Rachel ha rischiato di annegare nella vasca da bagno non è stato un errore. Forse volevo davvero ucciderla e liberarmi di quel peso…”
“Sera…”
Nulla, ormai era inarrestabile.
“Io non vado bene per lei, le faccio solo un favore ad andarmene. E poi l’universo o Dio o chi cazzo sia, con tutto quello che è successo, è stato molto chiaro. Non devo incontrarla. Da quando sono arrivata ad Arcadia Bay tutto è andato così storto che ho capito il messaggio. Me ne vado, non ne vale la pena. Il Nono Passo dice che se fare ammenda può danneggiare qualcuno non bisogna farlo. Bene, io non voglio crepare e Rachel non ha bisogno di me. Ha suo padre, ha la madre adottiva e ha quella ragazza… Chloe. Io non servo…”
“Sei sconvolta e spaventata Sera. Stai andando a Portland giusto? Bene, quando arrivi rimani lì, prendi una stanza in un buon hotel. Pago io. Stai lì e aspettami, domani ti raggiungo e parleremo meglio. Andremo insieme da James e risolveremo la faccenda. Con tutto quello che ha fatto come minimo rischia la galera.”
“Certo… e secondo te ha lasciato qualche prova? Secondo te in tribunale la mia testimonianza può valere qualcosa?”
“Sera sei una donna che ha preso la strada giusta. Dio non ci mette mai davanti prove che non possiamo superare. Di certo nessuno poteva immaginarsi una reazione simile da parte di James, né che mettesse a rischio la tua vita. Ma, stai facendo la cosa giusta. Non arrenderti.” Insistette Shapiro.
“Invece forse è ciò che devo fare. Arrendermi. E non soltanto con Rachel, ma anche con me stessa…” sentenziò Sera con un sospiro di profondo sollievo.
“Cosa intendi?” Shapiro iniziava seriamente a preoccuparsi che Sera potesse farsi del male e stava già comprando un biglietto aereo per Portland mentre parlavano.
“Mollo tutto. La causa per Rachel, i Dodici Passi, il lavoro al minimarket che mi hai trovato. Tutto. È tutta la vita che il mondo intero mi dice come devo vivere. Anche tu. Sono stanca. Impegnati con qualcuno a cui interessa!”
“Fermati Sera…”
“No. Addio Kevin. Mi dispiace che tu abbia perso soldi e tempo.”
Prima che l’uomo potesse rispondere, Sera chiuse la comunicazione. Con nonchalance aprì il finestrino e gettò il cellulare, per poi richiuderlo. Quando tornò a sedersi, avvolta dal lieve brusio del motore dell’autobus, cullata dalla vibrazione del sedile e con gli occhi pieni di un’immensa pineta là fuori, Sera si sentì improvvisamente completamente sola. Sola, ma anche libera.
Aveva sprecato 22 anni della sua vita a cercare di corrispondere alle aspettative degli altri e altri 14 a cercare scappatoie dalla stessa vita che si era costruita. Più catene si legava addosso, più scappatoie e fughe dalla realtà doveva trovare, sempre più intense, sempre più estreme. Ora basta cazzate… aveva sprecato i suoi 38 anni di vita. Non era nemmeno sicura di voler continuare a vivere o di avere un motivo per farlo…
Sarebbe stato meglio morire tre giorni fa…
Sì, eppure la prospettiva di morire la terrorizzava. Tre giorni prima sarebbe stato il momento giusto, gli astri erano congiunti, la sua morte forse avrebbe anche significato qualcosa. Ora invece, a che sarebbe servito? Non serviva niente né da viva né da morta…
Istintivamente prese il portafogli dalla borsa e iniziò a contare le banconote all’interno. Il suo budget era quasi finito, le rimanevano solo 97 dollari e qualche centesimo. Erano abbastanza per procurarsi un po’ d’erba una volta giunta a Portland. Le stazioni degli autobus di sera erano il posto adatto per procurarsela; quindi, le sarebbe bastato piazzarsi in un diner e aspettare l’ora giusta.
Era stanca di pensare, stanca di ragionare sul passato o sul futuro. In tutto questo cercare di essere migliore si era dimenticata il presente e che era ORA che le serviva sentirsi bene. Una canna non le avrebbe fatto male e se anche gliene avesse fatto, fanculo.
Una canna non era eroina.
Non contava…
 
L’autobus raggiunse Portland circa mezz’ora dopo che Sera gettò il cellulare dal finestrino, intorno alle 6:30 PM. Sera mise in atto il suo piano, bevve un caffè, comprò del cibo per sedare la fame chimica e poi l’erba. Non tornò mai più a Long Beach, Kevin Shapiro tentò di rintracciarla, ma Sera fece perdere le sue tracce. L’investigatore privato che Shapiro assunse per cercarla trovò alcune telecamere di sorveglianza che la ritraevano in compagnia di alcuni ceffi in Idaho, poi Montana, poi più nulla.
La lettera di Rachel raggiunse l’indirizzo dell’ex casa di Sera a Long Beach, ma nessuno la lesse mai. Fu rimessa nel mucchio per la restituzione al mittente, ma per qualche ignota coincidenza, durante la spedizione di ritorno la lettera andò smarrita.
Rachel pensò che Sera avesse ricevuto la lettera e non le avesse risposto di proposito…
In un certo senso, non aveva torto.
 
-
 
C’è qualcosa di incredibilmente confortante nel suono che produce la punta di un sigaro quando si aspira. Un lieve, caldo, placido sibilo, mentre la punta si arrossa e avvampa dall’interno. È come guardare le braci di un camino, quando i ciocchi di legno sono quasi del tutto consumati, sbriciolati in un ammasso grigiastro che sembra ormai destinato a spegnersi, ma con un colpo di mantice la cenere grigia vola via e l’ossigeno rivitalizza il fuoco ancora nascosto in esse.
Nulla di tutto ciò era chiaro a Sean Prescott mentre prendeva ampie boccate dal suo sigaro, traendone questo preciso piacevole conforto. La mente di un uomo d’affari non può concentrarsi su queste stronzate poetiche o infantili. Fa quel che deve, quel che è necessario, non importa di che si tratta. Fumare il sigaro gli serviva per sentirsi come nel modo giusto: calmo, rinfrancato, potente.
C’erano tante cose che nutrivano l’ego di Sean Prescott, di quelle avrebbe saputo parlare molto bene. Il sigaro è il simbolo di un uomo di successo, un’iconografia tradizionale del capitalismo tanto quanto lo è la croce per il cristianesimo. Il sigaro è un grosso cazzo, come quello che serve per perforare i mercati, scoparli a fondo finché non ti fai un bell’orgasmo a base di banconote. Era un rito di cui Sean Prescott si serviva per riflettere, per stare nello stato mentale migliore.
Gli serviva soprattutto dopo aver guardato suo figlio.
Non serviva parlargli, bastava guardarlo.
Quando osservava Nathan dalle videocamere di sicurezza sullo schermo del suo computer, come in quel preciso istante, provava un sentimento molto complicato che avrebbe saputo definire soltanto come delusione.
Cosa cazzo sta fotografando per terra in cortile? Cristo, cosa pago a fare lo psichiatra?!
Sì, delusione era un modo per dirlo. In effetti c’era molto altro, ma con le scarne competenze emotive che aveva gli sarebbe stato impossibile cogliere tali sottigliezze. Non odiava suo figlio, anche se… quella ragazza l’aveva accusato proprio di questo. Era senza dubbio arrabbiato con lui. Sempre, perennemente infuriato con Nathan e tra i motivi c’era anche ciò che stava vedendo: quel suo ridicolo hobby della fotografia. Di tutte le cose cui poteva dedicarsi non c’era niente di più sfigato di quello. Prima K… quella ragazza preferiva autoescludersi dal testamento piuttosto che vivere sotto il suo stesso tetto (parole sue!), poi questo coglioncello veniva su come un fottuto artistoide hipster del cazzo.
A volte, in momenti molto difficili, spesso dopo almeno quattro bicchieri saturi di whiskey, Sean Prescott si sorprendeva a porsi una domanda che da sobrio non si sarebbe mai posto: “Dove ho sbagliato?”
Ovviamente, non era colpa sua. Che cazzo doveva fare di più di ciò che già stava facendo? Aveva praticamente comprato la Blackwell, rendendo matematicamente impossibile che Nathan venisse bocciato o avesse una media bassa. Avrebbe potuto letteralmente sparare a qualcuno in quella scuola e ne sarebbe uscito pulito! Grazie a lui sarebbe potuto entrare ad Harvard e quei fottuti liberali avrebbero steso tappeti rossi e stappato champagne, o qualsiasi cosa bevano i radical chic, al solo sentirlo nominare! Un po’ come faceva Wells, solo che nel suo caso stappava bourbon e non proprio per festeggiare.
Giusto così! Raymond Wells era un palle mosce, un subordinato per natura, dei più facilmente corruttibili. Un uomo più adatto a fare il cassiere di Wallmart che il preside di una grande scuola privata. Forse neanche il cassiere in effetti… troppe responsabilità. Si sarebbe sbronzato anche per un resto sbagliato!
Soldi e paura, sono queste le cose su cui si regge il mondo.
Soldi e paura.

Ah! Lo aveva anche fatto entrare nella squadra di Football! Let’s go Bigfoots! Quel piccolo ingrato di Nathan non era stato capace nemmeno di giocare una partita intera in due fottuti anni di liceo! Come poteva Sean Prescott avere qualche responsabilità nei fallimenti di Nathan? Era chiaramente il ragazzo a non apprezzare tutto ciò che faceva per lui, senza impegnarsi in niente che fosse minimamente produttivo. Come quelle cazzo di fotografie…
Nathan era viziato, altro che stronzate da psichiatri che gli facevano spendere un sacco di soldi in sedute e farmaci del cazzo. In effetti gli aveva dato troppo affetto durante l’infanzia. Così tanto affetto che la stanza di Nathan non poteva contenerlo ed avevano dovuto metterne un bel po’ in soffitta. Era pure così ingrato da non apprezzare tutto il suo fottuto affetto… Ecco perché Sean Prescott insisteva con il football!
Se aveva dei bei ricordi nella vita, si trattava senz’altro dei tempi in cui frequentava la Blackwell e giocava come quarterback dei Bigfoot…. O no… aspetta non era quarteback! Quella era la cazzata che rifilava alle feste di gala. Lui era stato una guardia, uno di quelli che stanno nella mischia, i più sottovalutati al mondo, ma senza i quali nessun quarterback o runningback potrebbe sperare di sopravvivere. Letteralmente. Sean Prescott era uno che stava nella mischia, uno che tratteneva l’onda degli avversari abbastanza a lungo da permettere alla squadra di attuare la strategia e vincere. Sean Prescott parava i colpi ed era esattamente ciò che faceva con Nathan! Che altro dovrebbe fare un padre? E nonostante tutto lo stronzetto non apprezzava…
Parava quel suo culo flaccido da tutti i problemi che il suo carattere debole e sfigato gli procurava e contemporaneamente doveva parare il proprio culo dal danno di immagine che Nathan gli procurava semplicemente respirando. Aveva sperato che il football formasse Nathan come aveva formato lui, rendendolo sufficientemente cazzuto per affrontare il mondo. Invece niente… addirittura aveva sentito di episodi di bullismo contro di lui. Ma in quello Sean Prescott non si sarebbe immischiato. Le teste di cazzo vanno messe al loro posto dannazione! Se un uomo non è capace di difendersi, allora non vale niente. Nathan doveva tirare fuori il carattere. Doveva essere un fottuto uomo. Come….
Uffh….
Sean Prescott era molto infastidito dal doverlo ammettere anche solo nel pensiero, ma …
Come quando aveva interpretato Calibano durante “La Tempesta”. Decisamente ben giocata! Non aveva nemmeno dovuto ammorbidire le recensioni con qualche migliaio di dollari, perché erano state ottime sia sul Beacon che su tutti gli altri giornali. In tutto questo c’era solo una macchia: Nathan non aveva interpretato il protagonista. Se aveva fatto bene con un personaggio di merda come Calibano, avrebbe potuto interpretare chiunque! Quel fottuto Keaton di merda gli aveva disubbidito. La cosa non sarebbe passata liscia.
I romani dicevano “tollera un’offesa e ne seguiranno molte altre”. Beh, quella filosofia aveva reso Sean Prescott l’uomo che era. Mai perdonare. Mai lasciare un torto impunito. Mai. Ed era proprio questo il motivo per cui fumava il suo sigaro e si esercitava nel produrre anelli di fumo, senza riuscirci per altro. Stava pensando, meditava vendetta.
Ordine del giorno: farla pagare a Keaton e trovare un modo per trasformare quel coglioncello in un Prescott.
“Lascialo stare!”
Sean Prescott grugnì e si alzò in piedi, sollevando il grosso culo sovrappeso dalla sedia costosa su cui aveva lasciato profondamente l’impronta del suo corpo. Quando un pensiero scomodo gli attraversava la mente, istintivamente si alzava e faceva due passi. Gironzolò per lo studio, fissando i libri che non aveva mai letto, ma che davano un certo tono all’ambiente. Era Carolyn che aveva arredato l’ufficio, come il resto della casa in effetti. Aveva buon gusto in quel genere di cose e sapeva allestire bene le scenografie. Lei stessa era un’ottima scenografia come moglie! Anche a quarant’anni manteneva un culo niente male! Era stata lei, in effetti, a spingere perché Nathan facesse teatro alla Blackwell. Da ragazza aveva tentato la strada dell’attrice, ma non aveva funzionato, così aveva ripiegato sulla regia e la scenografia. Quello era più il suo campo in effetti, benché non avesse mai diretto qualcosa di più complesso di una recita scolastica delle elementari e la scenografia le fosse servita solo per arredare la casa.
Lo studio di Sean Prescott comunicava potenza, intimidazione, ma anche cultura e visione. Esattamente ciò che doveva fare. Esattamente ciò che non era, a parte le prime due cose.
Potenza e intimidazione
Soldi e paura…
“Lascialo in pace! Lasciagli fare quello che gli piace papà!”
Gesù Cristo… quella voce non voleva andarsene.
Quella ragazza stava a migliaia di chilometri ormai; eppure, di tanto in tanto lo perseguitava ancora. In effetti non la sentiva né vedeva… da quanto? Quasi tre anni ormai.
Qualcosa interruppe il corretto battito del cuore di Sean Prescott, un’aritmia momentanea cui ne seguirono altre.
Woah! Che cazzo è stato?
Probabilmente emozioni che non voleva provare che tentavano di bussare alla porta. Ma come sempre non avrebbero avuto risposte. Per Sean Prescott il suono dell’amore per sua figlia Kristen e il rimorso per come si era messo il loro rapporto non era il bussare ad una porta, ma il fracasso che fanno i vicini quando nel totale silenzio fanno cadere qualcosa di pesante. A pensarci bene non aveva mai avuto dei vicini, dato che non aveva mai vissuto in un appartamento in vita sua, ma poteva immaginare che la reazione fosse solo una: rabbia.
Quella stronzetta… ancora più viziata di Nathan. Ingrata, piccola lurida…
“Non hai mai voluto capire Nathan e nemmeno me! Forse se ci provassi…”
“Se ci provassi cosa? Eh? Cosa Kristen?!” sbottò Sean Prescott, rendendosi improvvisamente conto che stava parlando al muro. Si schiarì la voce e si ricompose, come se qualcuno potesse averlo visto e si reso conto che il sigaro era ormai consumato, con un ingente quantità di cenere caduta sul tappeto. Fanculo…
Con gesto istintivo Sean Prescott diede un calcio alla cenere nel vano tentativo di farla sparire, mentre tornava verso la scrivania. Spense il sigaro nel posacenere di cristallo.
“Se ci provassi… COSA?” ripeté sottovoce.
“Se ci provassi scopriresti che anche se siamo diversi da te, non siamo sbagliati! Ognuno ha il suo modo di essere e i suoi talenti! Ma tu vedi solo il nome Sean Prescott, vorresti solo guardare Nathan come se fosse uno specchio! Notizia flash: lui non è te!”
Grazie al cazzo che non…
Improvvisamente quelle parole echeggiarono nella sua mente.
Lui non è te…
Ognuno ha il suo modo di essere e i suoi talenti…
Un vago ricordo apparve nella mente di Sean Prescott, vago perché non gliene era mai fregato un cazzo, ma per fortuna il suo cervello era fenomenale e sapeva ritrovare le informazioni al momento giusto! Nel 2009 Carolyn non aveva portato Nathan ad una mostra di fotografia? Sì, era così, ma perché se lo ricordava?
Ah giusto! Per il fotografo che aveva esposto… come si chiamava? Aveva un nome da padre fondatore… Franklin? Ah no! Jefferson! Sì, sì era Jefferson! Nathan era tornato a casa entusiasta per averci parlato ed era andato avanti tutta la sera.
“Jefferson mi ha detto che ho talento!”
“Jefferson mi ha detto che posso davvero avere un futuro nella fotografia se faccio le mosse giuste!”
“Jefferson ha detto che è molto strano che la Blackwell non abbia un corso di fotografia!”
“Gli ho detto che sarebbe stato bello imparare da lui e ha risposto “mai dire mai!”
"Jefferson mi ha lasciato il suo biglietto da visita!!"
“Jefferson, Jefferson, Jefferson!”

Sean Prescott si mise al computer e rimosse la schermata delle telecamere di sorveglianza, che ancora riprendevano un Nathan intento a fotografare qualcosa nel cortile, nei pressi di un albero. Era lì da una fottuta ora… che cazzo c’era di così interessante nell’erba?!
Ma non era importante in quel momento, le dita di Sean Prescott digitarono le parole chiave “Jefferson fotografo famoso” su Google. Una sfilza di risultati apparve davanti a lui, interviste, servizi, centinaia di immagini di questo Mark Jefferson. Non capiva un cazzo di fotografia, eppure sembrava uno che sapeva il fatto suo. Dozzine di ritratti di modelle bellissime, quasi tutti in bianco e nero molto contrastato. Volti perlacei, sensuali, corpi in pose accattivanti. Roba che vedeva su ogni cartellone pubblicitario o se per sbaglio guardava una delle riviste di moda di sua moglie... 
Eppure avevano qualcosa in più. Forse è quella cosa che rende qualcuno degno del titolo di "artista"? 
A Sean Prescott, comunque, non fregava molto di tutto ciò.
Voleva solo farsi un'idea preliminare di chi fosse questo tizio che suo figlio idolatrava. In effetti il suo curriculum era invidiabile, aveva lavorato per riviste e gallerie d'arte così famose che persino lui le conosceva!
Toh! Guarda che caso, era nato ad Arcadia Bay e si era diplomato alla Blackwell!
Bizzarra coincidenza, persò sarcasticamente Sean Prescott.

"Jefferson mi ha lasciato il suo biglietto da visita!!"

Interessante che quell'uomo dal passato arcadiano avesse lasciato a Nathan il suo biglietto con ogni modo per contattarlo, suggerendo velatamente che un giorno avrebbe potuto fargli da insegnante. Qualcosa suggeriva a Sean che non era un trattamento che riservava a chiunque. Probabilmente, come tutti gli abitanti di Arcadia Bay dell'ultimo secolo, conosceva molto bene il nome Prescott e sperava fin dall'inizio che quel biglietto finisse dalle mani di Nathan nelle sue. Se così era, si trattava di una dimostrazione che Mark Jefferson era un uomo ambizioso e che sapeva cogliere un'opportunità quando la vedeva. Forse poteva davvero essere l'uomo giusto per trasformare suo figlio in un vero Prescott.
Sean gli avrebbe offerto la sua chance. Si sentiva incredibilmente intelligente in quel momento, come dopo ogni intuizione. Mark Jefferson era la chiave, poteva dare a Nathan gli stimoli di cui aveva bisogno per crescere e permettere a lui di dare a Keaton di merda ciò che si meritava! Doveva solo dare una lustrata alla Blackwell, cambiare un po’ la carta da parati ed elargire qualche calcio in culo. Niente che qualche bonifico non potesse realizzare.
In effetti, era molto strano che alla Blackwell mancasse un corso di fotografia! Non era giusto avere una lacuna del genere, soprattutto quando suo figlio la frequentava! 
Se Nathan aveva bisogno della fotografia e se lui avesse giudicato questo Jefferson un buon esempio, allora avrebbe abbattuto e ricostruito la Blackwell, se fosse stato necessario! È questo che fanno le guardie, spianano la strada al quarterback!
 
-
 
Intanto, nell’immenso cortile di casa Prescott, sotto il sole di fine giugno, Nathan era accovacciato sull’erba, tenendo la Canon tra le dita saldamente ancorate, lo sguardo concentrato e perduto chissà dove.
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Quando Nathan sentiva il flusso non poteva fermarsi, doveva scattare ancora e ancora. Doveva esplorare adeguatamente ogni angolazione, ogni punto di vista del soggetto. Non scattava per avere belle foto, quello veniva dopo durante la revisione. Scattava per vedere. Scattava per sentire. Scattava per specchiarsi…
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Nathan si fermò e prese un profondo e avido respiro. Non si era accorto di essere in apnea. Talvolta, quando era molto coinvolto, gli capitava. Si spostò un momento, osservando il suo soggetto da un’angolazione leggermente più diagonale. Ad un occhio esterno si era spostato solo di qualche millimetro, ma attraverso l’obiettivo era cambiato tutto.
All’ombra di un grande pino, con l’erba estiva maculata dalle ombre dell’albero che la facevano sembrare uno sfondo impressionista, un nido era caduto e con esso anche un piccolo uccellino. Il corpo del minuscolo volatile era semicoperto dalla massa informe di ciarpame che avrebbe dovuto tenerlo al sicuro, sostenerlo e ripararlo finché non fosse stato sufficientemente grande da spiccare il volo. E invece era caduto, il nido di cui il piccolo si era fidato lo aveva ucciso, precipitandolo nel vuoto prima che fosse capace di affrontarlo, prima che sapesse come intercettare le correnti, prima che le sue stesse piume fossero sviluppate per farlo. L’uccellino era morto, il collo spezzato in posizione innaturale, poche gocce di sangue sull’erba vicino al piccolo cranio probabilmente rotto.
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Da lì si vedeva bene.
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Un selfie…
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