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Autore: Sweet Pink    31/05/2022    5 recensioni
Impero Britannico, 1730.
Saffie Lynwood e Arthur Worthington non si potrebbero dire più diversi di così: freddo quanto implacabile giovane Ammiraglio della Royal Navy lui, allegra e irriverente ragazza aristocratica lei. Dire che fra i due non scorre buon sangue è dire poco, soprattutto da quando sono stati costretti a diventare marito e moglie contro la loro stessa volontà e inclinazione!
Entrambi si giurano infatti odio reciproco, in barba non solo al fatto di essere i discendenti di due delle più ricche e antiche famiglie dell'Impero, ma pure alla vita che sono sfortunatamente costretti a condividere.
Eppure, il destino non è un giocatore tanto prevedibile quanto ci si potrebbe aspettare, poiché sono innumerevoli i segreti che li tengono incatenati l'uno all'altra; segreti, che risalgono il passato dei Worthington e dei Lynwood.
E se, con il tempo, i due nemici si scoprissero più simili di quanto avrebbero mai immaginato, quale tremendo desiderio ne potrebbe mai derivare?
Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Errata corrige: La cittadina coloniale su cui oggi mettiamo piede si chiama in realtà Kingston, ed è in Giamaica. Ho già provveduto a correggere i precedenti capitoli. Buona lettura.

Io vi attenderò con trepidazione seduta nel mio Angolino.




CAPITOLO QUINDICESIMO

KINGSTON





Keeran non ci avrebbe scommesso una sterlina, ma le due settimane che avevano preceduto il loro arrivo a Kingston passarono veloci tanto quanto un battito d’ali.

Di fatto, era ormai arrivato Maggio e, dopo innumerevoli giorni passati a osservare un panorama costituito solamente di un misterioso e conturbante oceano oscuro, ecco che nel cielo azzurro cominciavano ad apparire le prime sinuose sagome danzanti. Gli uccelli marittimi solcavano l’aria salina sopra i due infastiditi equipaggi dell’Atlantic Stinger e della Mad Veteran, tornando di tanto in tanto sulla scia dei due vascelli della Marina, come a volerli sfidare ad essere più veloci di loro.

Keeran sapeva che la terraferma doveva essere molto vicina, poiché era stato il Capitano Inrving stesso a spiegarle l’affascinante comportamento dei volatili: l’attempato gentiluomo al comando della nave ammiraglia aveva sorriso con la sua solita intenerita pazienza e le aveva detto che gli uccelli non si avventuravano mai fin sull’oceano; per questo esatto motivo rappresentavano al contempo una promessa e una speranza, ossia quelle di poter giungere tutti in porto al più presto sani e salvi.

“Sia ringraziato il Cielo, per averci fatti arrivare così presto” considerò l’irlandese fra sé e sé, lasciandosi sfuggire un gran sospiro sollevato. “Prima la padrona metterà piede giù da questa nave, meglio sarà per la sua salute e per il suo spirito.”

La diciassettenne percorreva in solitudine – a schiena dritta e mani intrecciate dignitosamente sul grembo – il ponte sopracoperta gremito di uomini di mare impegnati nel solito lavoro massacrante, ma che comunque continuavano a trovarsi il tempo per lanciarle timide occhiate piene di segreta ammirazione.

“…somigliate ad un angelo caduto, Keeran Byrne.”

Al solito, le gote paffute dell’irlandese andarono a fuoco, mentre quest’ultima cercava di ignorare con tutte le sue forze gli sguardi degli uomini intorno a lei. Insomma, poteva dire di averci quasi fatto l’abitudine e affermare che forse la sua morbida figura non era poi così sgradevole come le avevano sempre detto; però, di sicuro, esserne convinta e sentirsi a proprio agio con il proprio corpo era tutto un altro paio di maniche.

Quindi, si domandò Keeran, era con ogni probabilità quella la ragione che l’aveva indotta non solo a irrigidirsi di botto, ma pure a non riuscire a staccare lo sguardo dal ragazzo in piedi a poca distanza dall’albero maestro?

“Oh, ma sapete benissimo di essere una signorina nessuno, non è vero?”

Uno spasmo di dolorosa ansia alla bocca dello stomaco, e la povera Keeran dovette letteralmente trattenersi dal voltare la voluminosa chioma corvina di scatto, scappare a gambe levate dall’ingombrante presenza di James Chapman, non a caso soprannominato Il principe arrogante da tutto l’equipaggio. Sì, la ragazza stava lentamente accettando che gli altri avessero un’idea ben lontana da quella che lei aveva maturato di sé stessa, ma non sapeva se questo potesse valere anche per il tenente protetto dall’Ammiraglio Worthington.

“D’altronde, siete una serva.”

Eppure, c’era da considerare il fatto che lui l’aveva tratta in salvo quando nessun altro si era accorto né del suo dolore cieco, né del gesto folle che ne stava per conseguire. L’irlandese sapeva pure che, se voleva ringraziarlo e chiedergli perdono per la sua tremenda maleducazione, beh, allora doveva farlo al più presto: non le era permesso esitare ulteriormente poiché – stando alle parole di Henry Inrving – l’arrivo a Kingston era previsto per il giorno seguente, salvo imprevisti di sorta. Una volta scesi a terra, non vi sarebbero state molte occasioni per incontrare di nuovo l’ufficiale in questione; anzi, probabilmente non ce ne sarebbe stata nessuna.

“Andrà tutto bene. Puoi riuscire in tutto ciò che vuoi e, fra le altre cose, ci sono io qui con te.”

Per l’ennesima volta, il sorriso incoraggiante di Saffie galleggiò davanti al suo sguardo e, come sempre, sembrò darle la spinta giusta per avvicinarsi timidamente al gruppetto di marinai che le stava di fronte: deglutendo a vuoto dalla tensione, Keeran si portò goffamente a fianco dell’alta figura di James senza che quest’ultimo se ne rendesse conto e fece in tempo a udire la sua insofferente voce da bambino viziato.

“Non so quante volte dovrò ripetervelo” esordì il ragazzo, gli occhi annoiati persi fra le pagine del voluminoso registro che teneva aperto fra le mani, pieno zeppo di parole di cui l’irlandese non riuscì ovviamente a cogliere il significato. “Forse tutti voi pensate che Port Royal sia quella di trent’anni fa, a questo punto.”

Il capannello di uomini di mare a cui quel rimprovero era stato rivolto continuò a lavorare sulle funi a testa china, mentre solo uno di loro ebbe l’ardire di alzare leggermente il capo e dire, quasi stesse borbottando a bassa voce: “Di certo non pensavamo di abbandonare il nostro incarico una volta sbarcati, tenente”.

“Credo che il nostro benevolente Capitano vi lascerebbe questa libertà di scelta” commentò in risposta Chapman, sorridendo freddamente. “Ma vorrei ricordarvi che se Kingston è diventata la cittadina più ricca della Giamaica, Port Royal è ora il luogo ove vengono appesi coloro che pensano di opporsi alle leggi della Marina Britannica.”

E, dopo queste allegre parole rassicuranti, nessun marinaio parve intenzionato a riprendere alcun discorso inerente progetti di baldoria a breve termine nella città che un tempo si fregiava del colorito appellativo di Sodoma del Nuovo Mondo.

Davanti al silenzio rassegnato della ciurma, James sfoderò un’espressione di arrogante soddisfazione e voltò il viso con noncuranza, solo per venir ucciso sul posto da due esterrefatte iridi color carbone, più oscure della notte stessa.

Ehm” si schiarì la gola Keeran, abbassando subito lo sguardo e ignorando così il passo indietro di un a dir poco sbalordito Chapman. “Buon-buongiorno, tenente.”

Di sicuro, nessuno sull’Atlantic Stinger si sarebbe mai aspettato di poter vedere l’ufficiale più sconsiderato della Royal Navy diventare rosso ciliegia nel giro di un nanosecondo e, dal canto suo, pure Keeran ebbe modo di stupirsene mentre – per qualche misteriosa ragione – ella dovette subire l’attacco di un batticuore piuttosto fastidioso. “La-la vostra gamba sta me-meglio, spero?” chiese quindi la ragazza, imbarazzata più che altro a causa degli sguardi allusivi dei marinai, impegnati a spostare gli occhi da lei al tenente e viceversa.

“S-sì” rispose l’interessato, abbassando la testa castana e nascondendosi per un momento dietro al tricorno blu scuro; corrucciandosi, visto che l’ingrata servetta di Saffie Worthington l’aveva preso del tutto in contropiede. “Sono pressoché guarito.”

“Oh! Oh, bene!”

Un silenzio pieno di vergogna scese su di loro e il rumore del vento che scuoteva le vele aleggiò tutt’intorno, sovrastato solamente dalle grida degli uomini al lavoro e dal verso di qualche raro gabbiano.

“Cosa desiderate da me, signorina Byrne?”

Infine, James si era ripreso quel tanto da rivolgere nuovamente parola a Keeran, seppure il tono di fredda diffidenza tutto lasciava intendere del suo stato d’animo poco sereno; e fu davvero assurdo che in quell’istante l’atteggiamento del ragazzo avesse ricordato all’irlandese non solo sé stessa, ma anche il doloroso sentimento di sfiducia nutrito nei confronti degli altri per una vita intera.

Sembra sempre così solo. Triste.

“Vorrei che mi co-concedeste un momento, se possibile” fece la diciasettenne, forzando le sue belle labbra carnose a piegarsi all’insù. “Non vi ruberò mo-molto tempo.”

Di nuovo, gli occhi d’acciaio di James tradirono un certo stupore. “Accordato” sillabò, spostandosi da un piede all’altro e guardandola con un disagio da randagio malfidente, impaurito. Il quaderno che stringeva fra le dita venne chiuso con uno scatto nervoso e il tenente voltò appena il capo, per abbaiare un imperioso “Al lavoro, voialtri!” in direzione del gruppetto di marinai che ancora li osservava ghignandosela beatamente.

I due cominciarono a camminare lentamente lungo il ponte sopracoperta, avvicinandosi alla poppa della nave ammiraglia.

“Io…ecco, io volevo…” cominciò esitate Keeran, mentre Chapman incrociava le braccia dietro la schiena snella, tentando con scarso successo di imitare il contegno fiero ed elegante di un certo Arthur Worthington. “Come sta l’Ammiraglio?”

Sciocca, sciocca oca! Non è questo che volevi dire!

La ragazza mora si morse la lingua nello stesso momento in cui James si voltava di scatto a guardarla, le iridi grigie che già si rinchiudevano in una muta delusione. “Il Generale Implacabile?” domandò a sua volta, sforzandosi di parere del tutto indifferente. “È la vostra padrona ad avervi ordinato di venire a parlarmi?”

“Oh, Dei del Cielo! No!”

Keeran alzò entrambe le mani davanti al viso bianco e iniziò ad agitarle con forza, il mare di ricci corvini che si muoveva sopra un’espressione piena timoroso allarme. “Sono qui di mia spo-spontanea volontà, tenente!” esclamò ad alta voce, prima di incupirsi di botto e abbandonare di nuovo le braccia lungo i fianchi, rassegnata. “La signora Saffie non vuole nemmeno che si nomini il marito in sua presenza, però io sono convinta che lei pensi all’Ammiraglio molto più di quanto voglia ammettere.”

Dall’altra parte, James Chapman continuava a sbalordirsi del comportamento di una signorina Byrne dal candore fin troppo ignaro, come se ella non fosse al corrente del rischio che poteva correre nel confessare con tanta leggerezza i sentimenti della padrona proprio a lui, il viziato Ufficiale adottato da Arthur stesso.

Ancora, il ragazzo si trovò ad arrossire di nascosto e a suo malgrado, poiché non aveva ma visto una serva rivolgersi a lui in quel modo: men che meno se lo sarebbe aspettato dalla creatura tremante e spaurita che la Duchessina di Lynwood aveva portato con sé da Bristol, da colei che non desiderava sentire simile a lui.

No, era tutta un’altra questione quella che ora gli stava facendo venir voglia di vederla aprirsi in un sorriso, piuttosto che continuare a osservare un visino paffuto e meraviglioso, ma pieno di tormentata preoccupazione.

“…figuriamoci! Tu, l’ultimo e il più stupido dei miei figli maschi!”

Non era abituato a venir avvicinato in quel modo, ad accogliere la fiducia delle altre persone.

“Non dovrebbe essere una domestica a provocarmi questi pensieri” pensò James, prima di sospirare pesantemente e commentare, con aria vaga: “Non sono nella posizione di poter dire alcunché, ma lo stesso sembra valere per il Generale; devo ammettere che in queste settimane quasi non mi sembrava di riconoscerlo. Pure se, alla fine, è sempre e solo uno il mondo in cui apparteniamo per davvero”.

La realtà è un abisso dove non ci possiamo fidare di nessuno, perché nessuno ci può comprendere.

Due iridi nere si spalancarono sul suo volto cosparso di lentiggini e James dovette ingaggiar battaglia contro un improvviso batticuore furioso, di cui si vergognò immensamente.

“Dovete ammirarlo molto.”

Il tenente annuì leggermente e la sua espressione altezzosa si rilassò subito, mentre un piccolo sorriso spontaneo comparve sulla sua bocca sottile. “È un uomo come non se ne sono mai visti, tanto sa essere tremendo e al contempo dimostrare un animo gentile, generoso” le disse, pieno d’ammirazione. “Lo seguirei anche all’inferno se me lo ordinasse, poiché mi ha preso sotto la sua protezione e salvato così la vita.”

“Figlio mio, l’esercito è il tuo posto. Chissà che tu non riesca a creparci e portare un po’ d’onore alla famiglia.”

Un’ombra terribile passò veloce sul suo viso giovane e a Keeran non sfuggì; fu forse per questo che la diciasettenne si affrettò a parlare di nuovo: non l’avrebbe confessato neanche a sé stessa, ma non desiderava veder tornare James al solito sprezzo distante, quando un sorriso da niente aveva il potere di renderlo semplicemente bellissimo.

“Io…io volevo ringraziarvi, in realtà” pigolò la ragazza, arrossendo da capo a piedi. “Mi avete salvata e non ho fatto che trattarvi con una ma-maleducazione immensa.”

Ma ero sconvolta perché, fra tanti, siete stato proprio voi ad accorgevi di me.

“Vi siete comportata da perfetta sciocca, questo non si può negare” disse la sua James, dopo un secondo di pensoso silenzio. “Eppure anche io non sono stato da meno.”

Erano arrivati ai piedi del ponte di comando, ormai.

I due rallentarono il passo e l’irlandese si girò verso il tenete con un movimento pieno di inusuale grazia, da sirena ammaliante. I suoi lucidi capelli corvini si mossero leggeri e svelarono al ragazzo i lineamenti di un viso tanto dolce quanto timido, su cui due gemme nere brillavano di innocente curiosità; ed era talmente bella, la servetta di Saffie Worthington, che il tenente Chapman ebbe l’impulso di attirarla a sé, fra le sue braccia. In un attimo, si trovò a desiderare che fosse solo sua, cosicché nessuno su quella nave avrebbe continuato a guardarla con occhi colmi di disgustosa lussuria.

Ma io non sono come l’Implacabile, abituato ad ottenere tutto ciò che la sua voracità desidera.

“…posso dedurre che qualcuno qui si sia preso una bella cotta.”

“Maledetto dottore” considerò fra sé e sé James, prima di fare un noncurante cenno all’irlandese e aggiungere, con falsa tranquillità: “Non mi sono rivelato affatto un gentiluomo, soprattutto se contiamo che siete stata voi ad aver salvato la mia gamba. Possiamo dirci pari, signorina?”

Ed ebbe la sorpresa di sentirla ridere per la prima volta: un suono cristallino sfuggì dalle labbra schiuse di Keeran; una risata che si perse nel cielo azzurro. “Sì, lo siamo” disse lei, tradendo un divertimento del tutto inusuale. “Pe-pensate che potremo anche diventare amici, dunque?”

Le iridi grigie del tenente si abbassarono pigramente sulle mani pallide della diciassettenne che, strette l’una contro l’altra, tradivano uno strano tremore agitato. “Non vedo perché no” fu la risposta monocorde del ragazzo. “Ma solo se promettete che non dovrò più correre a salvarvi.”

Amici. Come se tu ne avessi mai avuto uno, James.

L’irlandese fece un goffo segno di assenso con la testa scura, dedicandogli un altro sorriso allegro, di quelli che erano capaci di ferire il cuore.

Come se tu non desiderassi molto, molto altro.

“Tenente?”

“Sì?”

“Non indossate la vos-vostra parrucca, oggi.”

“Il caldo è insopportabile, signorina; e se la nostra amicizia deve iniziare con queste domande inopportune, allora siamo spacciati!”

In questo scambio di battute a metà fra il cauto imbarazzo e l’allegro sollievo, Keeran e James non avrebbero potuto accorgersi che un altro paio di occhi oscuri aveva osservato la scena con tenerezza. “Sembrano proprio andare d’accordo” commentò Benjamin Rochester, lasciandosi andare all’indietro e appoggiandosi così al parapetto di legno con i gomiti; una folata di vento caldo agitò i suoi lunghi capelli biondi ed egli continuò, come rivolto al vuoto: “Quei due mi fanno tornare indietro nel tempo.”

E si voltò appena, guardando con la coda dell’occhio la persona al suo fianco.

Saffie lanciò un’ultima occhiata di triste malinconia alla sua domestica personale e all’aristocratico tenente con cui aveva scelto infine di stringere amicizia, prima di rivolgere la sua attenzione alle nere acque che si aprivano di fronte a lei. “Forse, in fondo, potrà nascere qualcosa di buono da tutta questa storia” disse al medico di bordo, il tono incolore di chi sta in realtà cercando di sopprimere un insieme di terribili sentimenti. “Già aver incontrato il figlio della mia amata Amandine è stato un vero miracolo.”

Cielo, prego Dio perché tu possa incrociare il loro cammino!

Lo sguardo di tenebra del dottore rimase inchiodato sul viso grazioso della Duchessina per qualche altro pensoso e muto istante, come se l’uomo avesse bensì voluto analizzare ogni dettaglio della coraggiosa ragazza che aveva sposato lo spietato Arthur Worthington, cogliere la nascosta sofferenza di colei che negava di aver abbandonato il proprio cuore fra le mani di un mostro.

Erano ora altre pesanti e dolorose catene, quelle che la tenevano prigioniera nell’abisso.

“Non avete bisogno alcun bisogno di fingere con me” fece il signor Rochester, sollevando gli occhi e rivolgendoli al cielo terso, inseguendo il volo di una giocosa gabbianella. “Sono suo fratello, d’altronde.”

Non una parola, né alcun suono, seguì alla sua affermazione. Benjamin aspettò ancora qualche secondo, prima di spezzare il pesante silenzio che era calato fra loro: in quelle due ultime settimane, la sorella di Amandine aveva passato quasi tutto il tempo in compagnia di suo figlio, cercando con discrezione di conoscerlo meglio e legare in un qualche modo con lui, di diventare una figura amica; di conseguenza, il dottore poteva dirsi ormai acclimatato alla presenza della signora Worthington nelle sue giornate. Difatti Saffie era diventata una persona sì fidata e ben voluta, ma non solo per il piccolo Ben.

Ma forse avevo già compreso da tempo il motivo per cui le volevi così bene, Amandine.

Consapevole di questa realizzazione, il dottore si concesse un sospiro e abbassò il capo biondo verso terra, scuotendolo con rassegnazione. “Lo sappiamo meglio di chiunque, quanto può decidere di rivelarsi un uomo terribile” si azzardò a dire, senza guardarla. “Ma i vostri reali sentimenti sono dipinti chiaramente sul vostro viso, signora.”

Un invisibile velo di lacrime annebbiò gli occhi grandi della ragazza, che rimasero inchiodati sull’orizzonte lontano. Inesistente.

“Questo significa essere me. Vattene via da qui… Tu non puoi comprendere.”

“Vi ho già dato il permesso di chiamarmi Saffie, Benjamin” fece infine la Duchessina, sorda e cieca di fronte al significato di ciò che le stava comunicando il padre del piccolo Ben. “Forse non vi farà piacere sentirlo, ma siete il poco di famiglia che mi è rimasto, oramai. Nient’altro conta.”

Non è nulla. Taci, cuore mio.

“E voi state divagando, cara Saffie. C’è la possibilità che Arthur sia…”

No. Ve ne prego, non parlatemi di lui.”

Fu un sussurro da niente, che si perse nel vento salmastro, ma colmo di una disperazione tale da ammutolire il dottor Rochester all’istante.

Chiuditi e dammi la forza per alimentare il mio odio, perché solo così potrò dimenticare quell’uomo.



§



Lei aveva pronunciato quelle parole solo una volta.

La luce delle candele accese era soffusa e calda, tanto da avvolgere l’intera camera di un dolce manto di oziosa tranquillità; difficile per chi l’occupava non avere l’impressione di trovarsi in un mondo a parte: una bolla separata dalla realtà e da essa sospesa, poiché il tempo era un concetto lì inesistente. Si trattava solamente di un fermo ed eterno momento, di quelli che si vorrebbe durassero per sempre.

“Sentiamo, Duchessina” ricordava di aver detto Arthur, incrociando le braccia dietro allo scarmigliato capo scuro e abbandonandosi così fra le morbidezze dei cuscini. “Qual è il tuo colore preferito?”

In quei lunghi minuti, la piccola strega non aveva fatto altro che starsene rinchiusa in un pigro silenzio, la testa castana abbandonata sul suo petto e le dita che accarezzavano distrattamente la grande cicatrice di cui lui si vergognava da una vita intera. Egli stesso, in effetti, aveva pensato che non sarebbe mai riuscito a capacitarsi dell’ossessione nutrita dalla moglie per i disgustosi sfregi che gli deturpavano il corpo.

Come se non le provocassero alcuna repulsione, ma volesse bensì capirne i segreti che vi si celavano dietro.

Un leggero brivido di paura l’aveva scosso in gran segreto, ma fortunatamente i suoi occhi chiari erano stati attirati dal movimento improvviso di Saffie che, puntellandosi sui gomiti, si era sdraiata a pancia in giù e al suo fianco, noncurante dei capelli che s’allungavano ovunque sulle lenzuola, attorno all’esile corpo nudo.

“Il mio colore preferito?!” aveva ripetuto la ragazza, sfoggiando un adorabile sorrisetto divertito che l’aveva fatta assomigliare definitivamente a un’ammaliante ninfa dei boschi, uscita da chissà quale mito greco. “La tua domanda mi lascia del tutto sconvolta, Ammiraglio Worthington.”

Arthur allora aveva spostato lo sguardo smeraldino sul soffitto con fare vago. “Siamo marito e moglie, ma non so praticamente nulla di te” le aveva confidato infine, arrossendo leggermente e tradendo in questo modo un odioso imbarazzo. “Certo, se lasciamo da parte la tua insopportabile testardaggine, il tuo essere una imperterrita ficcanaso e, ovviamente, la lingua lunga che…”

Un colpetto leggero sul braccio, e la Duchessina gli aveva impedito di proseguire oltre, mentre era stato un caldo sbuffo spazientito a farsi sentire sulla pelle della sua spalla. “Non che tu abbia mai lasciato troppo tempo per le conversazioni, in questi giorni” aveva borbottato poi a bassa voce la ragazza e lui si era voltato con un ghigno piuttosto beffardo in direzione di un visino tutto rosso di vergogna, ma bellissimo da vedere. “Inoltre, potrei affermare lo stesso, Generale: siamo sposati, pure se io non conosco niente della tua vita di prima.”

“Puoi nasconderti fin che vuoi ma, non lo sai, che tu sai solo fare del male?”

Senza poterselo impedire, Arthur si era irrigidito nel giro di un battito di cuore, anche quello ghiacciatosi pressoché all’istante dall’angoscia. “…vita di prima?” aveva tentato di chiederle, sforzandosi di parere più perplesso che genuinamente terrorizzato; e si era pure chiesto come dovesse essere in quel momento la sua espressione, poiché un velo di triste malinconia si era posato sulle iridi castane di Saffie: la ragazza aveva abbassato infatti lo sguardo sulla sua detestata cicatrice, prima di guardarlo nuovamente con una maschera di goffa e falsissima noncuranza.

“Prima che Arthur Worthington diventasse il famigerato e temuto Generale Implacabile, terrore dell’Oceano Atlantico” spiegò sua moglie, alzando il piccolo indice come a voler indicare il soffitto. “Devi essere stato anche tu un bambino; però mi viene difficile immaginarlo: ad esempio, hai mai avuto un animale da compagnia? Io e…e Amandine avevamo un gatto persiano che mia sorella ha voluto ad ogni costo chiamare Hobgoblin.”

“Puck, il folletto di Sogno di una notte di mezza estate?”

Ricordava di essersi lasciato sfuggire una risata roca e impercettibile, mentre Saffie – tutta sorridente – annuiva vigorosamente con la testa arruffata.

“A casa, in Inghilterra, ho uno stallone nero piuttosto anziano, ma a cui tengo più della maggior parte dei miei sottoposti. Si chiama Bharat” le aveva detto, allungando una mano grande sul viso ora sorpreso della moglie, intrecciando le dita con le morbide ciocche dei suoi lunghi capelli e, al contempo, sorridendo di una strana e lontana malinconia. “È stato l’ultimo regalo di mia madre.”

L’aveva vista schiudere le belle labbra rosee e, dopo un breve secondo pensoso, la mano di Saffie aveva raggiunto la sua. “Doveva volerti molto bene” aveva commentato infine, il tono pieno di ignara dolcezza.

“Non avere paura. La tua mamma non ti abbandonerà mai, Arthur.”

Come se non fosse stata la prima ad averti voltato le spalle, a non comprendere.

No, Arthur non aveva risposto in alcuna maniera alle ingenue parole della ragazza al suo fianco e, di sicuro, la fredda morsa che si era stretta attorno al suo stomaco gli aveva suggerito che non avrebbe voluto farlo nemmeno in futuro. Dal suo punto di vista, era già stata una follia tirare fuori due parole in croce su un argomento che era letteralmente sepolto sotto il fondale dell’abisso; pure se – gli toccava ammetterlo – cominciava ad abituarsi al fatto di essere in un qual modo vulnerabile di fronte a sua moglie, al potere che lei sola possedeva: la piccola strega gli faceva venir voglia di aprirsi e parlarle di cose proibite, inaffrontabili.

Ed era proprio in questi momenti che più temeva Saffie e la luce gentile che portava con sé.

Probabilmente per questo motivo aveva cercato di ristabilire una sorta di posizione di dominio, di rinchiudersi dentro alla sua armatura di adamantino controllo. Arthur ricordava di aver alzato il busto e di essersi sporto lentamente sulla Duchessina, obbligandola a sdraiarsi sulla schiena…di nuovo prigioniera delle sue braccia, indifesa fra le sue mani. “Abbiamo parlato abbastanza, non credi?” le aveva sussurrato, portandosi a pochi centimetri dalla bocca di una Saffie impegnata a fissarlo con un bizzarro misto di imbarazzo e disappunto. Non volendo vedere quell’espressione corrucciata, aveva deciso di premere le sue labbra su quelle soffici di lei, per poi scendere sul collo sottile della ragazza e cominciare a torturarlo lentamente, senza fretta. “Adesso ho fame.”

Una risata tinta di allegria e desiderio era arrivata subito a lui, riempiendogli il cuore suo malgrado. “Ammiraglio, siete un gentiluomo rispettabile e non un animale, dovete ricordarvelo!”

“Come se cercassi mai di sfuggire per davvero alla mia presa” era stato il commento sibillino di Arthur che, incapace di resistere all’innocenza irriverente di sua moglie, si era subito fatto strada in lei senza esitare ma, al contrario, cominciando a muoversi sopra il suo piccolo corpo con una lentezza dolce e al contempo crudele. “Non mi opponi alcuna resistenza, Saffie. Questo perché…tu sei come me” aveva continuato a spiegarle a fatica, dominando i suoi stessi ansiti, ma godendo di quelli che uscivano dalla bocca tremante della Duchessina.

Era l’oscurità accecante, il dolore che condividevano e che solo loro potevano colmare.

Saffie lo guardava dal basso con il suo adorabile visino tutto rosso e accaldato, mentre due iridi piene di un sentimento disperato brillavano su un’espressione che a prima vista poteva quasi essere scambiata per sofferenza. I suoi lunghissimi capelli castani, anche quelli, si agitavano intorno a lei e creavano infinite onde di inchiostro chiaro.

Dio, era così bella che aveva desiderato poterla tenere imprigionata per l’eternità.

“Ti…ti sbagli” aveva soffiato infine lei, allacciando le esili braccia al suo collo sudato e – sfacciata come sempre – inseguendo le sue spinte con un’intensità che l’aveva fatto impazzire. “No-non è questo il motivo.”

E poi aveva pronunciato le parole che non avrebbe più avuto modo di sentire.

Saffie l’aveva attirato a sé, abbracciandolo stretto e nascondendosi contemporaneamente alla sua vista, così prendendolo alla sprovvista, totalmente impreparato. “Non ho alcun bisogno di scappare” era stato il patetico mormorio che gli aveva trafitto il cuore a tradimento. “Io sono tua, ormai.”

Oh, la sua anima oscura ne era rimasta talmente turbata e scossa, che Arthur ricordava di aver preso Saffie con una forza tremenda, consumandola e inghiottendola in un sol boccone; e tanto l’aveva provata, che in seguito la ragazza non aveva potuto fare altro se non crollare addormentata tra le sue braccia, distrutta dalla stanchezza.

Prima di cadere anche lui preda del sonno, Arthur l’aveva stretta al petto e le aveva posato un tenero bacio fra i capelli, forte del fatto che la moglie non se sarebbe potuta accorgere. Era stato l’istante in cui si era domandato come avesse fatto a odiarla in passato; come, esattamente, avesse potuto essere l’uomo sciocco che non aveva notato la sua bellezza fin da subito, il suo essere così incredibilmente diversa dalle altre.

Ma, una parte di lui, già sapeva di star mentendo a sé stesso.

Aveva quindi chiuso gli occhi verdi ma, invece del sonno, era il buio – ora – ad avvelenare il suo ricordo.

“Tu sei un mostro, Arthur” disse la figura lontanissima di Saffie Lynwood, un puntino vestito di bianco in piedi a molti metri da lui. “Sei un disgustoso mostro che non mi toccherà mai più in tutta la sua vita.”

Dall’oscurità, emersero un paio di mani pallide e grandi, che si posarono sulle piccole spalle di sua moglie con possessività; ed egli dovette osservare impotente Earl Murray comparire dietro alla ragazza castana. “Lei non sarà mai veramente tua” fece l’uomo rossiccio, attirando a sé la Duchessina. “Il cuore di Saffie è mio. Mio soltanto.”

Arthur non ebbe nemmeno il tempo di metabolizzare la bruciante rabbia che gli ribollì nelle vene, poiché fu il tocco gelido di cinque dita rovinate a farlo rabbrividire e voltare di scatto, la mano già pronta a impugnare la sua fedele spada.

I suoi occhi si spalancarono e, d’un tratto, fu solo terrore vero.

“Dove credi di andare, piccolo Arty?” gli sibilò il suo Diavolo, sorridendo con la consueta accondiscendenza letale. “Tu mi appartieni. Mi appartieni e non scapperai mai dall’abisso in cui ti ho gettato: esso è solo tuo, perché io l’ho creato per te.”

Le dita tremanti dell’Ammiraglio si strinsero sul vuoto ed egli scoprì di non aver più spada alcuna, di essere anzi vestito con qualche straccio sporco e non con la sua elegante divisa da Alto Ufficiale. Non era neanche più un adulto, se per questo.

“Hai visto, oppure no, che chiunque si avvicina al precipizio poi ti abbandona, Arthur?” fece in tono conciliante lui, chinandosi e portando la dinoccolata figura alla sua altezza di bambino spaurito. “Senza nemmeno provare a comprendere questa oscurità, ma solo dandoti le spalle alla prima occasione…esattamente come la tua povera e codarda madre.”

Il diavolo protese una mano e puntò l’indice contro il suo piccolo petto scosso dai brividi. “Ora va’” gli disse, inchiodando due occhi di un verde allucinante sul suo visino scarno. “Va’ e fai di non dimenticare ancora ciò che ti ho insegnato. La crudeltà è forza, Arty.”

Il controllo è potere.

Arthur Worthington, trentatreenne ammirato e di successo, si risvegliò fra le lenzuola di un letto vuoto e altrettanto inospitale, freddo. Il volto attraente e severo, affondato nel cuscino, si sollevò appena dalla morbidezza delle stoffe, mentre un paio di iridi chiarissime sembrarono risplendere alla tenue luce di un mattino che prometteva di essere fin troppo luminoso.

L’uomo udì fin da subito il fastidioso e acuto richiamo dei gabbiani, probabilmente impegnati a inseguire la scia della nave con le loro grandi e candide ali tese ad afferrare il vento.

Oh, la vedeva eccome, la tanto disprezzata luce che aveva osato sconvolgere il suo profondo abisso.

Una voragine tanto immensa quanto atroce si era difatti aperta insieme alle sue palpebre e nel suo cuore, facendolo precipitare tra gli artigli di un sentimento a lui inconcepibile, ma doloroso oltre ogni dire.

“Tu lo hai sempre saputo, non è così?”

Dimenticalo. Dimentica tutto, Arthur.

Worthington si alzò a sedere lentamente e portò una mano grande a strofinarsi il viso esausto, scostando poi con noncuranza le coperte riccamente adornate di fili d’oro. Sopra i suoi muscoli tesi e tremanti, le cicatrici inferte dal disgustoso uomo che l’aveva cresciuto parevano esse stesse più bianche e tremende, brucianti testimonianze di un passato – di una persona – che lui non avrebbe mai potuto abbandonare.

Sulla sua scarmigliata testa bruna, il rintocco di una campana lontana risuonò a più riprese, ma furono lo scalpiccio furioso e le voci dei marinai al lavoro a far intendere ad Arthur ciò che, ovviamente, stava accadendo: infine, erano giunti a Kingston, la ricca cittadina mercantile di cui egli avrebbe preso l’effettivo comando.

Il Generale Implacabile si voltò in direzione della grande vetrata che dava direttamente sull’oceano ormai alle spalle dell’Atlantic Stinger, mentre un’espressione di straziante ironia si impossessò del suo viso leggermente abbronzato; perché, di certo, aveva ottenuto tutto ciò che la sua malvagia ambizione aveva desiderato, no?

Anche se, d’ora in avanti, non vedrai mai più Saffie sorridere.

Sì, era stato un perfetto stupido a pensare di poter risalire insieme a lei l’abisso di oscurità accecante in cui aveva vissuto prigioniero per tutti quegli anni; si era rivelato ben più ingenuo di quanto avrebbe potuto considerare visto che, nel profondo, l’uomo era sempre stato cosciente di quanto la piccola strega fosse in realtà una donna fuori dalla sua portata. Irraggiungibile, proprio come un cielo stellato.

Erano due elementi destinati a non comprendersi, perché aria e mare non si incontrano per davvero.

“A questo punto, tanto vale essere il mostro che credi io sia” pensò Arthur con rabbia, gli occhi verdi inchiodati sulla linea dell’orizzonte. “È il solo modo che ho per poterti dimenticare, ragazzina.”

Ed è questo il modo in cui hai sempre proceduto, non è vero, Arthur?

Poiché credevi di averla seppellita, la persona che eri un tempo. Quella capace di fare del male.



§



3 Maggio 1730

La città sorgeva fra una verde e lussureggiante vegetazione, ricca di edifici più o meno alla moda e di un marasma di persone tutte diverse fra loro, perché la Colonia più ricca dei Caraibi Inglesi era – come tutte le altre – il prodotto di un massacro che risaliva i secoli, di una conquista che aveva portato nel Nuovo Mondo sia Europei in cerca di ricchezze, che schiavi pronti a essere utilizzati come manodopera nelle proprietà dei conquistatori.

Sia Saffie Worthington che la signorina Byrne erano ben consce delle leggi che regolavano questa loro Società ma, ugualmente, non poterono fare altro se non sgranare tanto d’occhi di fronte alla folla riunitasi presso la banchina dell’immenso porto di Kingston: sfidando il selciato bagnato e il viavai degli uomini al lavoro sopra gli altri vascelli all’ormeggio, un folto gruppo di cittadini sventolava braccia e mani nella direzione dell’Atlantic Stinger che, ovviamente, precedeva con fierezza la Mad Veteran, ossia la famigerata nave nera di Seymour Porter; e, man mano che le navi della Marina avevano modo di avvicinarsi alla costa, per la Duchessina e la sua serva non fu difficile distinguere una notevole diversità nell’abbigliamento e nei colori di coloro che li attendevano. Facce esotiche e affascinanti, dietro cui si celavano identità e culture che una viziata Aristocratica di Londra come lei non avrebbe mai immaginato di poter incontrare.

Il cuore della ragazza castana fece un’inaspettata capriola emozionata e quest’ultima premette le piccole mani sul legno del parapetto della nave, sfidando la brezza marina e sporgendosi in avanti, quasi potesse in questo modo essere già con un piede sulla terraferma. “Somiglia a ciò che io e Amandine tanto fantasticavamo” pensò Saffie d’impulso, respirando a pieni polmoni l’aria salmastra e comprendendo che, infine, ci aveva davvero fatto l’abitudine. “Quanto vorrei fossi qui con me per vedere Kingston, sorella mia.”

Eppure lei già sapeva cosa sarebbe avvenuto in futuro.

Veloce com’era venuta, l’allegria provocata dalla vista mozzafiato sulla misteriosa città svanì, solo per venire sostituita dall’oscuro e ormai consueto sentimento che non voleva saperne di lasciarla in pace: Amandine le aveva mentito fin dall’inizio, non si poteva negare; ma, con il senno di poi, sarebbe stato meglio per tutti se avesse sposato l’Ammiraglio Worthington, no?

Lei stessa avrebbe finalmente fatto ritorno a Londra e ai suoi tanto amati circoli culturali, alla sua vita di ricevimenti e di insegnamento; mentre era certa che sua sorella e Benjamin non si sarebbero accontentati di osservarsi da lontano, ma avrebbero bensì trovato una via per ritrovarsi e crescere insieme il figlio nato dal loro amore proibito. Pure Cordelia e Alastair avrebbero avuto così il loro Finale felice, contenti di aver preservato il finto Paradiso che avevano plasmato con la loro malvagità.

Perché, in un modo o nell’altro, Arthur avrebbe ottenuto il potere che tanto desiderava, inseguiva.

A quindici giorni di rancore erano equivalsi, ovviamente, quindici giorni di glaciale silenzio. Incredibile come due persone che fino al giorno precedente si erano perse l’una fra le labbra dell’altra, condividendo corpo e vita, ora potessero essere diventate sconosciute…o, per meglio dire, di nuovo nemiche.

“…lo sai, mettersi contro di me non porta vittoria alcuna.”

Non pensare. Chiudilo, chiudi il cuore.

“Guardate!” le irruppe nella mente la voce entusiasta di Keeran, distraendola in maniera provvidenziale dai suoi tristi pensieri. La sua dama di compagnia allungò il braccio e puntò poco educatamente l’indice in direzione degli alti rilievi montuosi che s’intravedevano all’orizzonte, ai piedi dei quali la città era stata fondata più di trent’anni prima. “Sono le Blue Mountains! La ca-catena montuosa che protegge Kingston! Mentre le distese di sabbia che abbiamo appena su-superato vengono chiamate palisadoes…pensate che il capitano Inrving mi ha spie-spiegato come anch’esse salvaguardino il porto e la colonia!”

Non si poteva non sorridere di fronte all’emozione tradita dalla diciasettenne che, orgogliosa di poter fornire utili informazioni alla sua Duchessina, ancora fissava le montagne ricoperte di alberi tropicali con un gran sorriso stampato sul viso paffuto. La sua eccitazione era infine contagiosa, tanto che Saffie decise di scordare il dolore che l’accompagnava e sorridere a sua volta, smettere di essere l’aristocratica musona che stava rovinando l’arrivo non solo a Keeran, ma anche a sé stessa. “Hai imparato davvero tante cose da questo viaggio, mia cara” le disse quindi, forzandosi di parere noncurante e allegra.

L’irlandese si voltò di scatto verso di lei e i suoi occhi neri brillarono di una felicità che Saffie non le aveva mai visto, i capelli corvini che s’agitavano attorno alle sue spalle larghe e la facevano assomigliare a un essere sovrannaturale. “Sì!” esclamò Keeran, quasi ridendo. “Perché è merito vostro e di coloro che ho inco-incontrato, se posso pensare che questa sia per me una nuova vita.”

“Somigli veramente ad Amandine, amica mia” considerò fra sé la ragazza castana, prima di spostare lo sguardo sulla folla a cui si stavano lentamente avvicinando e dire: “Una nuova vita, eh? Beh, penso che avremo parecchio da esplorare in questi mesi, pure se non ho dimenticato la mia promessa di regalarti un Journal tutto tuo. Oh, perché no! Potresti scrivere delle avventure che ci aspettano!”

“No-non mi starete sopravvalutando, si-signora?!” chiese una Keeran sconvolta, seppure internamente sollevata nell’udire la padrona ridacchiare sotto i baffi dopo due settimane in preda alla muta sofferenza; perché la Duchessina aveva passato quei giorni evitando sì qualsiasi contatto non necessario con gli Ufficiali, ma per il resto comportandosi come se non le fosse accaduto nulla. Non voleva sentir parlare del tanto detestato marito, né lei osava nominarlo, quasi non l’avesse mai incontrato o conosciuto; eppure, erano evidenti a tutti i violenti sentimenti che Saffie cercava disperatamente di mettere a tacere.

Talmente chiari, insostenibili, che la ragazza e il Generale Implacabile non erano più capaci di stare nel medesimo luogo contemporaneamente, per quanto fisicamente lontani potessero essere l’uno dall’altra. Giocoforza, Saffie aveva passato la maggior parte del tempo nelle sue stanze con Keeran o in compagnia del piccolo Ben e del signor Rochester, mentre Arthur Worthington era tornato a terrorizzare l’intera ciurma dal ponte di comando, dominando tutto e tutti con due determinati occhi d’acciaio.

Ed era stato come guardare due persone incatenate sul fondo dello stesso abisso.

Saffie ovviamente ignorava i ragionamenti della sua domestica e l’eco della sua risata cominciò a scomparire nel medesimo istante in cui i suoi occhi luminosi furono attirati dalla strana agitazione che sembrò prendere il capannello di gente in attesa sulla banchina.

“Chissà, forse potrò perdonarti e riuscire a vivere questa nuova vita anche per te, sorella mia” pensò la Duchessina, mentre osservava con interesse la sagoma di un lussuoso tiro a quattro arrivare nei pressi del porto: i cavalli attaccati alla carrozza evitarono all’ultimo di travolgere una bambina mulatta che, dopo un urletto terrorizzato, scappò via e sparì fra le vie della città; senza battere ciglio, il cocchiere fermò il mezzo e scese pomposamente, aprendo lo sportello con l’aria di chi sta per annunciare la presenza di Sua Maestà in persona. Una piccola scarpetta infiocchettata si appoggiò sul predellino dorato e Saffie inquadrò alla perfezione l’esile figura di una fanciulla comparire dal nulla, una mano guantata appoggiata al finestrino e il visino sveglio ora sollevato in direzione delle navi possedute dall’ammiraglio Worthington.

Le iridi castane della ragazza fecero in tempo a cogliere una ricca acconciatura rosso rame e uno sguardo dello stesso colore di un campo di grano, che uno spaventoso spasmo le aggredì la bocca dello stomaco a tradimento. Non seppe dire il perché ma, per la seconda volta in quei mesi, un agghiacciante senso di premonizione si abbatté su di lei.

Hai forse pensato di poter essere più importante della sua insaziabile ambizione?

L’ignota giovane vestita di tutto punto scese a terra con un frivolo saltello, mentre un ometto piuttosto anziano veniva al seguito e – ovviamente – non poteva che trattarsi del padre della suddetta bellezza americana.

Oh, oppure ti sei forse illusa di essere stata la prima? L’unica?

Non è nulla. Taci, taci, stupido cuore.

Un leggero spostamento d’aria, e la figura slanciata di James Chapman si portò silenziosamente al suo fianco e nel suo campo visivo. Saffie non ebbe alcun bisogno di guardarlo in faccia per accorgersi non solo dell’imbarazzo con cui il ragazzo si era avvicinato a lei, ma pure del sottile disagio che doveva in realtà scuoterlo dentro.

Ehm…signora Worthington, signorina Byrne” le salutò il tenente, facendo un rigido cenno del capo e schiarendosi al contempo la voce leggermente ansiosa. “Sono qui per riferire un messaggio dell’Ammiraglio per voi, signora Saffie: egli desidera non scordiate il ruolo che vi compete e che – come futura Duchessa di Lynwood – rappresentate.”

Non un muscolo si mosse sul viso dell’interpellata. Una fredda maschera di pietra continuava infatti a fissare la folla in festa a qualche metro di distanza, senza che venisse battuto ciglio; al contrario, erano ben altri i sentimenti che bruciavano dentro al cuore della ragazza.

“Tu sei mia. Solo mia.”

È questo il modo in cui mi hai ingannato.

“Ha detto di ricordarvi che siete sua moglie e, come tale, vi comporterete” continuò in tono esitante un James a dir poco sulle spine, gli occhi grigi puntati su Saffie. “Gli Ufficiali scenderanno per primi dalla nave, poi seguirete voi e la vostra dama di compagnia. Su questo, l’Ammiraglio non ammette alcuna discussione.”

Le piccole dita della ragazza si artigliarono al legno del parapetto con forza, fino a che quest’ultima non sentì i polpastrelli fare male. “Quale gentilezza, caro marito” ironizzò in un sussurro pieno di rabbia, prima di rispondere, senza degnare il tenente di uno sguardo: “Così sia, allora. Vi ringrazio per esservi fatto carico dell’incombenza, tenente Chapman”.

Un minuscolo sorriso di fredda cortesia si fece vedere sulle labbra sottili del ragazzo in questione che, dopo essersi scambiato un’occhiata fugace con Keeran, decise saggiamente di girare i tacchi e allontanarsi dal terribile e oscuro dolore della signora Worthington.

In questa crudele maniera sei riuscito a vincere.

Il vento caldo della Giamaica portò alle orecchie di Saffie un secco e pesante rumore di passi, stivali neri che si abbattevano sul pavimento della nave per l’ultima volta. No, la ragazza non riuscì a farne a meno: staccò inconsciamente una mano dal parapetto e girò appena il busto all’indietro, alzando lo sguardo sull’uomo che da due settimane a quella parte non aveva voluto vedere, affrontare; lui, la nemesi con cui condivideva un legame crudele.

Stagliato contro un cielo dall’azzurro incredibile, l’imponente Generale Implacabile avanzava lungo il pontile con la calma di un predatore letale, sembrando agli occhi di chi lo osservava un uomo affascinante e, al contempo, spaventoso. Le sue iridi verde scuro, fredde e distanti, scivolarono su James Chapman per un attimo, mentre quest’ultimo si faceva rispettosamente da parte con un inchino profondo, simbolo di fedeltà incrollabile e assoluta; ma Arthur lo superò con indifferenza, il cappotto blu che s’agitava ad ogni passo e un lussuoso tricorno piumato che provvedeva a nascondere l’espressione da nobile sprezzante. Da demonio rinchiuso nell’abisso.

Lo spasmo doloroso agguantò di nuovo le viscere di Saffie e si fece impossibile da sostenere poiché, come un fulmine a ciel sereno, lei pensò che non ce l’avrebbe in realtà mai fatta a sostenere il peso della vita a cui era stata condannata, per quanto cercasse con tutta sé stessa di illudersi del contrario.

Ti sei impossessato del mio cuore e me l’hai strappato via.

È questo il modo crudele in cui sei riuscito a vincere.

Lui continuava ad avanzare e, ancora, non si era sognato di guardarla in faccia; eppure, non poteva esserci margine d’errore, doveva per forza averla vista. Gli occhi scuri della ragazza cominciarono a pizzicare, fastidiosi, nello stesso istante in cui si rese conto di aver preso a tremare leggermente, da capo a piedi. Davvero, come poteva Arthur non accorgersi della sua presenza lì, a neanche dieci passi di distanza?

Fu il tempo di un battito di ciglia.

Worthington sollevò pigramente le palpebre, guardandola forse per un secondo, o anche meno; e Saffie desiderò non fosse accaduto, visto che dietro a quelle iridi chiare si celava il nulla. Tutto era stato cancellato, azzerato.

“Dio, sei stupenda.”

Dimenticato.

Un piccolo brivido la scosse e lei si voltò di scatto, le lunghe ciocche di capelli ribelli che andavano a incorniciare un viso tanto grazioso quanto congestionato, in lotta contro un pianto imminente e non desiderato. Abbassò la testa e cercò di concentrarsi sulle sue stesse dita intrecciate; tutto pur di ingannare i brividi maledetti che la scuotevano, soffocare la sofferenza di un cuore martellante e stravolto.

“Tu sei un mostro, Arthur.”

Infine, si era dimostrata per davvero la degna figlia di Alastair.

“Sta arrivando. Re-respirate profondamente” squarciò il buio delle profondità la voce bassa di Keeran. L’irlandese posò con dolcezza una mano sulle sue e aggiunse, mormorando in un dolce tono rassicurante: “Respirate, signora. Non ci vorrà molto.”

Come sospesa in un sogno, l’interessata annuì appena, senza nemmeno accorgersi di averlo fatto. Seguendo il consiglio della sua dama di compagnia, Saffie prese una profonda boccata d’aria salata nel medesimo frangente in cui Arthur le passò accanto con gelida noncuranza; un baleno dorato, ed ecco che lui se n’era già andato, incamminato sulla passerella che era stata calata sulla banchina di Kingston e che lo diede in pasto alla folla in festa sotto di loro, ora visibile in ogni dettaglio.

Un frastuono assordante e caotico, costituito di battiti di mani e cori ammirati, si levò all’apparizione dell’alta figura del Generale Implacabile, mentre Saffie credette davvero che sarebbe morta.

Non era mai esistito altro, se non l’oscura ambizione che tutto consumava, compreso Worthington stesso.

Con uno sforzo disumano, la Duchessina si convinse ad alzare il viso e lì lo vide, il suo terribile demonio: di fronte alle facce sorridenti e anonime di innumerevoli manichini tutti uguali, Arthur allargò le braccia toniche e si chinò leggermente, portandosi infine la mano destra sul petto, a contatto con le bordature d’oro della divisa d’Alto Ufficiale. Si inchinava, il Generale Implacabile, ma sembrò quasi come se egli fosse in realtà un Imperatore in gran trionfo, perfetto e abbagliante.

Ma tutta questa gente le conosce, le vergognose cicatrici che ti deturpano dentro e fuori?

“Ammiraglio Worthington! Qui!” cinguettò la voce sciocca della fanciulla dai lisci capelli rossi, impegnata a saltellare graziosamente sul posto con l’esile braccio alzato e un fazzoletto ricamato stretto fra le dita guantate. “Visto? Io e mio padre siamo venuti ad accogliere voi e l’equipaggio!”

“Via, via, figliola! Stai facendo un gran baccano!”

Lei lo sa, che stai recitando una perfetta farsa?

Saffie girò il palmo della mano verso l’alto e afferrò quella di Keeran con disperata urgenza, stringendola forte. “Non so se ce la faccio” le confessò sottovoce, per non farsi udire dagli Ufficiali impegnati a scendere a terra. Quasi piangendo, girò la testa in direzione della sua serva e le si mostrò per la prima volta veramente fragile, malgrado l’adulta delle due fosse lei stessa e non l’irlandese.

Per assurdo, la sua domestica le dedicò un sorriso triste e ricambiò la sua stretta, posando anche la mano sinistra sulle loro dita intrecciate. “Non cre-credo nemmeno a una parola di quello che dite, signora” le sussurrò dopo poco. “Voi siete la donna più co-coraggiosa e buona che io abbia mai incontrato. Dimostrate a tutta questa gente chi è la Duchessina di Lynwood, colei che ha salvato la vita a due persone e si è gua-guadagnata l’ammirazione dell’intera Atlantic Stinger.

Un lieve rossore si espanse sulle gote della signora Worthington ed ella provò ad annuire piano, colta da una timidezza a lei inusuale; ed era così impegnata a sorprendersi di quella situazione in cui i ruoli parevano essersi invertiti, che vide all’ultimo la sagoma dinoccolata di Benjamin Rochester portarsi vicino a loro.

“Sottoscrivo in pieno” commentò il medico di bordo, con una tranquillità che Saffie non poté fare a meno di invidiare. Detto questo, l'uomo chinò la testa biondo cenere in direzione del piccolo Ben e fece il gesto di prenderlo per mano, mentre quest’ultimo fissava il viso smunto della moglie del Generale Implacabile con i suoi due attenti occhi turchesi. “Verremo anche io e mio figlio insieme a voi. Non è vero, Ben?”

Il bambino annuì una volta sola e scansò le dita del padre, senza però smettere di guardare Saffie. “Voglio…voglio scendere insieme alla signora” sillabò, in tono monocorde. “Posso, papà?”

“Giuramelo. Giurami che andrai avanti e sarai libera, che non verserai più alcuna lacrima per la tua frivola e fragile sorella.”

Tre paia di occhi scattarono sull’interessata, in muta attesa, e la Duchessina seppe di non avere altra scelta se non farsi forza e rispolverare i vecchi insegnamenti di sua madre perché, se era un Imperatore quello che si era mostrato all’intera Kingston, allora lei sarebbe comparsa sulla scena come una vera e propria Regina.



§



Alla fine, Keeran e Benjamin si erano rivelati più lungimiranti di Saffie, per quanto entrambi fossero più giovani di lei.

I curiosi che si erano riuniti sulla banchina per attendere l’arrivo dei due minacciosi vascelli da guerra apparsi all’orizzonte avevano sì applaudito il magnetico e famigerato Arthur Worthington, ma furono ben pochi coloro che non spalancarono tanto d’occhi di fronte alla graziosa creatura stagliatasi sullo sfondo di candide e maestose vele: aiutata da un ossequioso marinaio, la moglie dell’Ammiraglio si incamminò con lenta grazia sulla passerella di legno e, malgrado indossasse un semplice abito azzurro privo di qualsiasi fronzolo, il suo portamento dolce ed elegante la fece sembrare a tutti come un irraggiungibile miraggio sceso dal cielo; il fatto che i suoi luminosi occhi castani si posassero su ognuno con ridente gentilezza, poi, non fece altro se non aumentare il fascino della donna che il Generale Implacabile si era portato dietro dall’Inghilterra.

Degno di nota, dietro le piccole spalle della Duchessina, veniva il candido angelo di cui l’intera Kingston si sarebbe innamorata da lì a qualche mese.

“Una Dea!” commentò un ragazzo di colore, rimanendo a bocca aperta dallo stupore.

“Come se la moglie di Worthington fosse da meno” si fece sentire la voce scettica di un altro. “C’era da scommetterci…non esiste tesoro prezioso che quell’uomo non riesca a possedere.”

“Zitto, idiota! Vuoi farti sentire da lui e finire sulla forca entro l’alba?!”

L’uomo vestito di stracci che aveva osato parlare in quel modo dell’Ammiraglio sussultò spaventato, al cenno dell’amico che l’accompagnava: neanche venti passi più indietro, stava proprio l’alta sagoma dell’interessato, intento a guardare nella loro direzione con due occhi pieni di rancore cristallino. Eppure – i due ignoti cittadini lo compresero subito – quelle iridi non stavano affatto fissando loro con quel sentimento spaventoso che ne traboccava fuori, ma erano bensì inchiodati sull’esile corpo di una Saffie impegnata a sorridere teneramente al piccolo Ben Rochester, mentre quest’ultimo avanzava tutto rigido al suo fianco.

“Io sono tua, ormai.”

Bugiarda. Quando mi guardi, non vedi che un mostro.

Le labbra sottili dell’uomo si piegarono all’ingiù, trasformandosi in un taglio netto e sprezzante. Consapevole che presto la detestata ragazzina e il suo corteo d’accompagnamento sarebbero giunti per forza di cose fino a lui, Arthur decise di voltare le spalle e girarsi seccamente verso le due eleganti persone che per prime gli si erano fatte incontro: come da previsioni, Lord Chamberlain e sua figlia Catherine non avevano aspettato un attimo prima di piombargli addosso.

“Caro amico mio!” esclamò dal basso l’ometto che rispondeva al nome di Richard Chamberlain, prodigandosi in esagerati gesti con le piccole mani rugose. “Devo ammettere di essere sorpreso…no, che dico, assolutamente sbalordito! La notizia del vostro matrimonio ha attraversato le acque, ma non pensavo vi foste unito all’antico Casato dei Lynwood; e ne avete sposato la graziosa primogenita, nientemeno!”

Un’espressione di fredda cortesia fu la sola risposta che il Lord ottenne, poiché fu la voce della figlia a precederlo: “Parola mia, Ammiraglio, avevate promesso al Governatore di accasarvi con una donna capace di valorizzare voi e il vostro ruolo di potere. Mi sarei aspettata di vederle addosso un abbigliamento più, come dire, consono al suo posto di rilievo” chiocciò in tono saccente Catherine, gli occhi nocciola puntati addosso a un’ignara Saffie. “Ma possiamo pure definirla passabile, direi.”

Se la ragazza si aspettava di intaccare la facciata di marmo assunta da Arthur con le sue parole, beh, dovette rimanere profondamente delusa. Anzi, la bocca dell’uomo si aprì in un sorrisetto piuttosto beffardo ed egli protese una mano grande in avanti, afferrando con gentilezza le dita guantate della signorina Chamberlain e portandosele vicino alle labbra con fare galante. “Siete gelosa, milady?” le chiese con voce di seta, rinchiudendosi nel fare elegante per cui era conosciuto al di là dei massacri compiuti in mare. “Non dovete esserlo, visto che siete la splendida figlia di un Lord.”

Catherine divenne dello stesso colore dei suoi capelli fiammanti nello stesso secondo in cui Saffie raggiunse i tre, paralizzandosi alla vista della scena e provando subito un sentimento doloroso di cui preferì ignorare l’origine.

Non è niente. Niente.

“Oh, Cielo!” squittì Lord Richard, quasi saltellando sul posto. “Finalmente siete qui, cara signora Worthington!”

Per una volta, Saffie ringraziò la rigida educazione che le era stata impartita fin da bambina perché – alla stessa stregua dell’odiato Arthur – la ragazza non fece alcuna fatica nel rilassare subito il viso e aprirsi in un sorriso dalla falsità tanto disarmante quanto nascosta. “Vi ringrazio per essere venuti ad accoglierci, signore” disse quindi, mielosa. “È di certo un gran piacere vedere così tanta gente riunita per l’occasione del nostro sbarco.”

“Oh!” sospirò Chamberlain, socchiudendo gli occhi chiari. “Il vostro è il contegno dei Lynwood, non c’è alcun dubbio! Già so che sarete un’ottima amica per la mia adorata Catherine.”

E spostò il piccolo braccio di lato, facendo mostra della figlia come se stesse in realtà facendo vedere un trofeo. Senza posare lo sguardo su un Arthur che ancora non si degnava di voltarsi nella sua direzione, la Duchessina si inchinò cortesemente, seguita a ruota da Keeran e dal piccolo Ben; solo il signor Rochester, stranamente, non mosse un muscolo ma, anzi, spostò le annoiate iridi scure dall’altra parte della strada.

In effetti, la stessa Catherine gli dedicò un’occhiata piena di indignato sconcerto e alla signora Worthington sembrò quasi la ragazza stesse fissando il medico con lo stesso sguardo con cui si osserva uno scarafaggio. “Benvenuta” la accolse infine la futura Lady Chamberlain, inchinandosi a sua volta. “Non vedo l’ora di poter passare del tempo con voi e conoscere così i talenti di colei che è riuscita ad ammaliare il nostro Ammiraglio.”

Nulla. Ho voltato le spalle a questa sofferenza, l’ho rifiutata.

“In questo caso, sarò più che lieta di aggiornarvi nei dettagli.”

“Che bella idea! Perché non subito?” strillò la voce gioiosa di Richard. “La nostra carrozza è spaziosa e sono sicuro la signora Worthington voglia vedere i dinto…”

Non credo proprio che accadrà nulla del genere.”

Arthur aveva articolato quell’unica gelida frase senza mutare la sua espressione di granitica severità, ma Saffie ben sapeva che non erano permesse repliche di sorta. Due occhi pericolosi la congelarono da sotto la falda del cappello piumato e lei si sentì attraversata da una scarica di timore che odiò con tutto il cuore.

“Voglio prendere immediatamente possesso di Rockfort e stabilirmici insieme ai miei Ufficiali” spiegò nel silenzio Worthington, posando una mano sull’elsa della spada. “Mia moglie andrà nella dimora padronale che ho scelto per lei; sarà provata dal viaggio ed è quello il posto che le compete.”

Fra disordinate ciocche di capelli castano scuro, un volto di pietra se ne stava rivolto verso di lei, sfidandola anche solo a provare di ribellarsi ai suoi ordini.

Maledetto demonio.

“Al diavolo l’etichetta e l’entrata da Regina di Saba” pensò d’impulso Saffie, facendo un rabbioso passetto in avanti e sporgendosi verso la minacciosa figura di Arthur, pronta a mandare a gambe all’aria il trionfo del pomposo manichino che era stata costretta a sposare.

Sfortuna o fortuna, fu la mano di una persona più che improbabile a salvare la situazione. Cinque dita grassocce si posarono con tenerezza sulla piccola spalla della Duchessina che, voltandosi, ebbe la sorpresa di trovarsi di fronte all’espressione soave e bonaria del capitano Inrving.

“In questo caso, sarò più che felice di accompagnare vostra moglie fino a casa Zuimaco, Ammiraglio” esordì l’attempato Ufficiale, apparentemente ignaro della tensione palpabile fra Saffie e Arthur. “Sono anche io diretto lì, dopotutto.”

Dopo un muto secondo, Worthington fece uno sbrigativo cenno d’assenso con la testa e, rinchiuso nella profonda oscurità del suo abisso, diede le spalle a tutti loro con un gesto agile, cominciando a camminare lungo la banchina umida e affollata; non si era curato di prendere congedo nemmeno dalla moglie che, fra l’altro, fu costretta guardare la sua ampia schiena allontanarsi con uno strano groppo incastrato in gola: infine, era questo il modo in cui si separavano l’uno dall’altra.

“Pensi di poter essere felice a Kingston?”

Qui cessa di esistere il nostro legame crudele.

“Che ne dite, signora Worthington, accetterete di venire con me in carrozza?”

Due lucidi occhi scuri si sollevarono di scatto su quelli grigi di Henry Inrving e lo guardarono con una tristezza che spezzò il cuore dell’uomo. “Sarà un vero piacere, Capitano” acconsentì la ragazza, quietamente. “Solo, penso dovremo stringerci per far posto anche ai miei accompagnatori!”

Keeran e Benjamin si scambiarono un’occhiata divertita, ormai abituati al fare noncurante con cui la Duchessina riusciva a proporre cose letteralmente fuori dal mondo. Non a caso, sia Catherine che Lord Chamberlain strabuzzarono gli occhi di fronte alla proposta di Saffie: inaudito, una serva e un medico seduti sullo stesso mezzo di un’aristocratica e di un gentiluomo?!

Ma non ebbero modo di esprimere la loro indignazione, poiché la figlia di Alastair Lynwood si voltò a guardarli con un’espressione di inquietante determinazione incisa nei lineamenti sempre gentili. “Sono addolorata, ma temo di avere più importanti questioni di cui occuparmi al momento. Con permesso” si congedò in due parole di fredda cortesia, piantandoli in asso non troppo diversamente da come aveva fatto Arthur Worthington.



§



La villa coloniale chiamata da tutti i cittadini con l’appellativo di Zuimaco si ergeva maestosa e bellissima sopra Kingston intera: si trattava di un monolite bianco latte che osservava dall’alto di un dolce pendio verdeggiante non solo la ricca baia, ma anche l’orizzonte di un mare infinito. Solo l’antico fortino seicentesco – il famoso Rockfort – era superiore alla casa destinata a Saffie, poiché si arrampicava spaventoso su un’altura e sembrava davvero essere nato per stagliarsi contro un cielo e un oceano ammalianti, cristallini.

Entrambi gli edifici – così lontani l’uno dall’altro – dominavano la città più prosperosa della Giamaica Inglese come due giganti regali e quieti, ma la Zuimaco aveva il pregio di essere attorniata da una flora fitta ed esotica; se le acque facevano da cornice al dominio di Arthur, il regno della Duchessina di Lynwood era un parco luminoso e colorato, dove decine di uccelli misteriosi cantavano il loro inno al sole, ben nascosti fra le fronde degli alti alberi mossi dal vento caldo.

Un paradiso ignoto uscito direttamente da un romanzo d’avventura, un Eden di cui Saffie e Amandine avevano letto a più riprese durante le lunghe serate passate davanti al camino acceso del loro salotto di casa, nel Northampton.

Ma era il cielo terso che attendeva Amandine, non me.

“Anche se sei stata pronta a ingannarmi, pur di ottenerlo a tutti i costi” pensò con amarezza la signora Worthington, sospirando; come sempre, l’abitudine di rivolgersi direttamente al fantasma di sua sorella era dura da abbandonare. “Forse pensavi che non sarei riuscita a comprenderti? Aiutarti?”

Erano due settimane che continuava a fare queste domande ad Amandine e, di conseguenza, a sé stessa; non che riuscisse a trovare una risposta pronta a soddisfare il senso di rabbiosa delusione impossessatosi di lei: dopo essere stata tenuta all’oscuro dell’altro passato, sua sorella minore le aveva chiesto persino di perdonare l’uomo che l’aveva rinchiusa nella gabbia dorata, infine strappandola dalle braccia di Earl.

Bugiarda. Continui a voler giustificare il vero carnefice, Saffie?

Grazie al Cielo, non fece in tempo a pensare ad altro.

Ridendo tutto contento, Ben scese per ultimo dalla carrozza presa a nolo dal Capitano Inrving e le passò a fianco correndo sul sentiero di ghiaia con una spensieratezza che lo fece finalmente assomigliare a un bambino della sua età. “Dov’è Teresa?” esclamò sorridendo apertamente, rivolgendosi agli impassibili domestici in attesa sui gradini della scalinata d’ingresso alla casa. “Il Capitano ha detto che sarebbe stata qui per darci il bentornato!”

Un’espressione piena di tenero affetto rilassò il visino ovale di Saffie, che non fece subito caso alle parole del figlio del medico dell’Atlantic Stinger.

Credevi non sarei stata capace di proteggere il tuo segreto più prezioso?

“Ben! Quante volte dovrò ripeterti che non puoi correre incontro alle persone in questa sgarbata maniera?”

“Vi chiedo scusa, papà!”

“Non siamo in mezzo ai marinai, dove puoi comportarti come ti fa comodo!”

Lo sguardo della ragazza castana si sollevò sulla figura altissima del signor Rochester ed ella lo vide fermarsi accanto a lei, mentre ancora osservava il figlio con quieta serietà, i capelli lisci che inseguivano la brezza tropicale. L’uomo portò seccamente le mani sui fianchi snelli e gli occhi curiosi di Saffie scivolarono su quelli di Benjamin: due biglie nere dall’intensità attraente, che studiavano ogni cosa da dietro un’elegante montatura sottile.

Anche su questo mi hai ingannata, sorella mia.

A tradimento, il suo cuore fece una capriola agitata.

Non è mai stato Arthur, colui che hai amato per davvero.

Quasi l’avesse chiamato a voce, il dottore si volse verso di lei. “Non siete curiosa di visitare la vostra nuova casa, signora Saffie?” le chiese con gentilezza, sorridendole e parendo una volpe irriverente, furbastra.

“Sono stata la più ignorante di tutti” realizzò fra sé l’interpellata, prima di annuire vigorosamente e arrossire di nascosto, come fosse stata colta con le mani nella marmellata. “Ardo di curiosità, Benjamin! Spero vivamente di trovarvi una biblioteca e, soprattutto, una stanza in cui poter dimenticare i vestiti francesi di cui mia madre mi ha fatto generosamente dono!”

E si voltò all’indietro, osservando con pietosa compassione Keeran e il cocchiere lottare con la pila di bauli che erano riusciti a caricare sul tiro a quattro mentre, a qualche passo di distanza, il Capitano Inrving teneva discretamente d’occhio le pericolose manovre della diciassettenne.

“Forse ci sarà bisogno dell’aiuto dei domestici di casa” commentò il medico, seguendo il suo sguardo e alzando un sottile sopracciglio biondo. “Senza contare che Teresa sarà a dir poco furiosa, quando verrà a scoprire che siete arrivata in sua assenza.”

“Potete giurarci, caro signor Rochester!”

L’uomo alzò gli occhi al cielo proprio nel momento in cui tutti furono aggrediti dalla roboante voce che esplose nel cortile della Zuimaco, tacendo persino il canto dei pappagallini appostati fra le palme. Una bassa donna di colore era apparsa sul primo scalino d’ingresso, guardando la combriccola Inglese come se stesse avendo a che fare con un branco di bambini capricciosi; gli occhi della donna – leggermente a mandorla e di un incredibile color cioccolato – scivolarono sui domestici in attesa ai piedi della scalinata con quella che sembrò vera e propria ira funesta. “Andate subito ad aiutare quella povera ragazzina a scaricare i bauli, prima che racconti all’Ammiraglio Worthington della vostra inettitudine” abbaiò, piantando le dita sui fianchi giunonici. “I motivi per cui non sono stata avvertita dell’arrivo della signora dovranno attendere, immagino.”

“Teresa!”

Sentendosi chiamare dalla voce gioiosa di Ben, i lineamenti esotici della donna si rilassarono subito e un sorriso spontaneo si aprì sulla sua bocca carnosa. “Eccoti qui, piccolo bianco” disse, scendendo i gradini con una strana grazia, in un gran fruscio di gonne e sottogonne voluminose. “Corri dentro casa, forza: ho fatto preparare dolci per un intero reggimento e tu sei diventato fin troppo magro, proprio come quello spillo di tuo padre. Il mio invito vale anche per voi, Dottore.”

Al bambino non servirono ulteriori motivazioni per scaraventarsi al di là dell’uscio della candida villa coloniale. Tradendo un sospiro di cupa rassegnazione, Benjamin fece un vago cenno di congedo con la testa a Saffie e seguì a passo svelto il figlio, rallentando solamente per dedicare una smorfia dispettosa a colei che gli veniva incontro in tutta tranquillità: la ragazza castana pensò subito che i due fossero parecchio in confidenza e gli parve quasi di vedere una mamma alle prese con il figlio disubbidiente; inoltre, considerò lei, era un sollievo constatare come la situazione lì fosse molto diversa, rispetto all’accoglienza pomposa e rigida dei Chamberlain.

Forse quassù il mio cuore potrà trovare un po’di pace e guarire. Dimenticare.

Teresa fu davanti a Saffie e quest’ultima notò che si trattava proprio di una donna molto bella, sui cinquant’anni. Il suo volto era sì severo, ma i suoi occhi profondi facevano mostra di una sicurezza rassicurante e materna; inoltre, la Duchessina fece caso solo in quell’istante del fatto che ella non vestisse alcuna divisa: aveva comandato a bacchetta la servitù come avrebbe fatto una domestica in capo, pure se indossava un abito corallo ricco di rifiniture preziose, di fronzoli in pizzo che inseguivano la scollatura e lasciavano immaginare un seno prosperoso, abbondante. Insomma, ricordava in tutto e per tutto una matrona dei salotti di Londra.

“Miei Dèi” soffiò la donna di colore, scuotendo i lisci capelli neri, imprigionati in un’acconciatura piuttosto elaborata. “Siete fin troppo bella per quello sconsiderato del Generale Implacabile.”

Malgrado la piccola fitta di sofferenza che le provocò sentirle nominare Arthur all’improvviso, Saffie si lasciò sfuggire un risolino divertito e cercò di coprirsi educatamente le labbra con le dita. “Vi ringrazio, madama” disse, sapendo già che Teresa si sarebbe rivelata una grande alleata. “Sono Saffie di Lynwood, ma di questo eravate forse già a conoscenza.”

Le due si inchinarono brevemente. “Non del vostro nome, mia cara. Benvenuta in Xaymaca, la nostra bella terra del legno e dell’acqua” asserì la più grande, alzando le incredibili iridi cacao e lanciando un’occhiata al di sopra della testa di Saffie, inquadrando così la persona timidamente in piedi dietro di lei. “Ah, quale onore. Vi siete degnato di venire anche voi fin quassù, vedo.”

Henry Inrving, attempato capitano di vascello tanto rispettato quanto temuto, si trovò ad arrossire furiosamente come un ragazzino vergognoso, di fronte alle parole di pietra piombate su di lui. Ignorando lo sguardo sbigottito della signora Worthington, l’uomo si portò al fianco di Teresa e il suo sguardo grigio si piantò a terra, sui minuscoli sassolini del suolo di ghiaia. “Duchessina” cominciò piano, accarezzando con una bizzarra cautela la spalla della donna di colore, quasi avesse paura di romperla in mille pezzi. “Vi presento mia moglie, la signora Teresa Inrving.”

“Meglio tardi che mai, mio caro” fu il commento piatto dell’interessata. “Su, su! Siete il comandante di cinquecento uomini, eppure ancora vi imbarazzante di fronte a me!”

“Formate davvero una bella coppia” disse loro la ragazza in tono allegro, insensibile al fatto che un’unione del genere sarebbe stata del tutto impensabile in Inghilterra: sua madre, probabilmente, avrebbe accusato un malore al solo pensiero e Alastair…beh, non che se la sentisse di pensare troppo a suo padre.

Una nuova vita in questo nuovo paradiso, lontano dalla gabbia e dall’abisso.

“Vero?” fece la voce orgogliosa di Teresa, in sottofondo. “Se solo il famigerato Capitano Inrving non dimenticasse di ottemperare ai suoi doveri coniugali, visto che è tanto fedele a quelli della Marina Britannica!”

“Ma-ma cara, devi comprendere che…”

Qualcosa, forse uno spasmo ansioso, attraversò il volto bonario di Henry e Saffie si morse le labbra, girando il busto sottile per non scoppiare a ridere davanti ai due coniugi. Il suo sguardo ridente e allegro cascò sul fondo del sentiero, da dove ella vide un esiguo plotone di soldati dell’Impero risalire la china: divisa rosso sangue e lunghi moschetti stretti fra le dita, il gruppo di uomini marciava verso di loro e la ragazza pensò si trattasse di una ronda di vigilanza, atta a garantire la sicurezza degli importanti abitanti della Zuimaco.

La Duchessina stava per chiedersi se la presenza dei soldati fosse conseguenza di un ordine dell’Ammiraglio Worthington stesso ma, come nei suoi ricordi, una folata di vento tiepido la abbracciò con dolcezza e lei lo vide.

La brezza della Giamaica scompigliò lunghe ciocche di disordinati capelli rosso sangue ed egli si passò distrattamente la mano diafana sulla fronte, le dita perse fra onde di colore

In un battito di cuore, Arthur venne spazzato via dalla sua mente.

Saffie osservò, ghiacciata, l’alta figura dell’uomo in fondo alla strada voltarsi nella direzione sua e degli Inrving, alzare un braccio e fare il gesto di salutarli…se solo i suoi occhi pieni di oscurità non si fossero inchiodati su di lei, uccidendolo a sua volta sul posto.

“Farò di te mia moglie, Saffie. Così nessuno potrà né imprigionarti di nuovo, né separarci.”

Per assurdo, la ragazza quasi non si accorse della sua divisa scarlatta, né del fatto che lui fosse alla testa del plotone di soldati della Corona; questo perché era assordante e terribile, il terremoto che frantumò la sua anima e per poco non la fece cadere in ginocchio, tremante come un passerotto ferito a morte.

Cinque anni. Sono passati cinque anni.

Earl.

“Oh, che curiosa coincidenza!” esclamò la voce sorpresa di Teresa, che si alzò quel tanto per aggiungere, quasi urlando: “Luogotenente Murray! Venite qui e lasciate che vi presenti la graziosa moglie del Generale Implacabile!”

Un sentimento impossibile da decifrare trasformò l’espressione sorpresa dell’uomo, indurendola, trasformandola in una maschera dietro la quale poteva celarsi qualsiasi cosa; e a Saffie venne in mente – per assurdo – la canzone che Keeran aveva cantato per lei diverse settimane prima.

“Il tordo e il merlo hanno raccontato a tutto il mondo che il mio amore è andato oltre l’oceano.”





Angolo dell’Autrice:

*Se il capitolo ti è piaciuto, spero tu prenda in considerazione di votarlo e recensirlo*

Mentre scrivevo questo capitolo ho pensato più volte non stessero succedendo molte cose, ma durante la mia revisione di oggi mi sono resa conto che è una parte abbastanza piena di accadimenti, direi?

Sono tornata dagli Abissi anche io, come potete ben vedere! \(^u^)/

Come state? Spero questi giorni siano stati sereni e meno impegnativi di quanto lo sono stati i miei (sob!): avete presente quei mesi in cui l’accumulo di Lavoro o Studio si concentrano in poche deliranti settimane? Ecco, per me Maggio è stato un periodo così dal punto di vista strettamente professionale e di vita, tanto che ho sudato freddo…ma mi sono detta: “No! Devo mantenere la scadenza promessa a chi mi segue!” (U.U)

E quindi sono qui. Spero vi sia piaciuto il primo capitolo della seconda parte di Gabbie Dorate e Oscuri Abissi, perché ho investito diverso tempo in ricerche storiche, visto il mio vizio di non voler buttare parole a casaccio e soprattutto perché desideravo si potesse “respirare” l’aria esotica di Kingston…ditemi, sono riuscita a farvi immergere nell’ambientazione della Colonia Inglese?

Certo, mi sono presa come sempre delle libertà narrative ma, nel mio piccolo, ho anche corretto l’errore fatto per tutto questo tempo: prima di pubblicare, ho infatti revisionato sia su Efp che Wattpad tutti i capitoli in cui compariva la parola “Kingstown”, cambiandola con il nome corretto della città. Kingstown è infatti una città delle Antille e, penso, facesse parte al tempo del dominio francese! (-.-)”

Ma torniamo alla carne della storia: quanti personaggi ho fatto muovere in questo capitolo? Quanti ne ho introdotti? XD

Qualcuno ha detto forse la parola Gelosia? Sento, da lontano, l’eco di una guerra in arrivo? Oh, oh, oh, non voglio sbilanciarmi più di tanto, visto che vorrei lo scopriste leggendo; come è sacrosanto che sia! (*u*)

Finalmente ho potuto rivedere Earl e introdurre Catherine e Teresa! Sarei curiosa di sapere quale dei tre vi ha colpito di più! Ditemi, ditemi! :D

Cercherò di pubblicare presto e non lasciare passare un mese, visto che non sopporto vedere Saffie e Arthur lontani! Io amo farli interagire, nel bene e nel male…cielo, riusciranno a ritrovarsi?

Un GRAZIE enorme a chi continua a seguire la mia storia, a recensirla e a votarla! Se vi va, scrivetemi pure i vostri pensieri al riguardo! Io ne sono sempre tanto felice! (*w*)

Un abbraccione virtuale,

Sweet Pink

  
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