Anime & Manga > Bungou Stray Dogs
Segui la storia  |       
Autore: Manto    01/06/2022    0 recensioni
(Tanti auguri, Edgar Allan Poe!)
Basta un mese per far cadere Richmond nel terrore: tra sparizioni e terribili rinvenimenti, racconti di sussurri in lingue sconosciute e mormorii riguardo entità inumane che dominano le strade e la notte della città, una sorte sempre più buia scende a gravare sui suoi abitanti.
Tra tali orrori, la storia di un ragazzo che con il mistero ci dialoga da anni, ma che ancora non sa cosa può fare veramente.
Fic dedicata all'autore che mi ha preso per mano undici anni fa, e alla sua amata controparte: entrambi, non sapete quanto mi avete salvato.
Genere: Azione, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Edgar Allan Poe, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

IV ☼ L’Altra Verità




C’era silenzio, esattamente quel tipo di assenza, quando sua zia Elizabeth se n’era andata. Nella stanza drappeggiata di tessuti neri, con le persiane serrate ― e, ciò nonostante, qualche raggio di sole a sporcare il buio di volgare oro ―, il suo corpo bianco ed esile pareva dormire: c’era serenità nel volto tanto pallido da sembrare porcellana, tutta quella sottratta alla piccola casa dei Poe, e un che di tremendamente malinconico.
Qualcosa era andato irrimediabilmente perduto, e non si trattava solamente della vita di una donna; no, la spaccatura era ancora più profonda e faceva risuonare spietatamente il vuoto venuto a crearsi, perché un intero mondo non sarebbe più stato lo stesso, perché qualcuno avrebbe sofferto anche ciò che non avrebbe meritato ― e il nome di quel qualcuno lo conosceva come le preghiere a lei più care, le stesse che recitava pensando a lui.
Come nella stanza funebre della zia, c’era la notte accanto al materasso su cui lei dormiva, bianca come lo era stata Elizabeth: le tenebre la cullavano con mani delicate, facendo dondolare un giaciglio che non era né quello di Villa Allan né quello della dimora materna; e intanto Virginia continuava a sognare di giochi nel sole e calore, conscia di farlo.
Seppur portata lontano dalle visioni oniriche e con gli occhi ben chiusi, tenuti tali da una mano invisibile che premeva sulle sue palpebre senza farle male, la ragazzina vedeva ogni cosa: i muri dell’antica camera che l’abbracciava, il grande lampadario a goccia velato da lunghe ragnatele, i ghirigori sul vetro colorato dell’unica finestra della stanza, le rose rampicanti e l’edera che risalivano la torre dove riposava e profumavano l’aria di tenue tristezza. Tutto le era sconosciuto: non aveva mai visto quelle pareti o mai sentito parlare della torre, né le era noto il letto su cui era stata adagiata. Non sapeva nemmeno dove si trovasse; ma era molto lontana sia da Baltimora che da Richmond, lo percepiva.
Inoltre, era totalmente priva di paura: non doveva averne, continuava a sussurrarle una voce dentro e fuori di lei, perché ormai niente avrebbe potuto farle male… era sola, dopotutto.
E fu proprio questo ciò che le fece vincere i sogni e la forza che la teneva ben stretta a sé, e la spinse a spalancare gli occhi: non c’era nessuno.
No, non c’era più nessuno.
Chiunque l’avesse rapita e portata in un simile luogo, l’aveva poi abbandonata senza neppure sfiorarla: quasi avesse trovato in lei un tesoro e se ne fosse appropriato unicamente per conservarlo nella sua perfezione, tenerne intatta la Bellezza e impedire che perfino il Tempo la toccasse.
Le lenzuola di fine tessuto che la ricoprivano caddero a terra senza un fruscio non appena Virginia si levò a sedere sul giaciglio, il cuore che le batteva forte nel petto e l’esigenza di lasciare la stanza: al di là della fredda pietra, fuori dalla torre silente, si apriva una larga pianura verde di alta erba, ricolma di fiori e sussurri, e questa mormorava anche il suo nome.
Se mi lascerai non tornerai, si lamentava intanto la torre, stridendo nelle sue antiche ossa, andrai nel mondo, ma sarà la tomba ad attenderti.
Stringendo a sé i propri capelli e il candido abito con cui entità sconosciute l’avevano rivestita, la fanciulla non ascoltò tali parole e si portò sul bordo del letto; le tenebre fermarono il dondolio e si ritrassero per permetterle di scendere, e lei si avviò lentamente verso la scala a chiocciola che si apriva in un angolo della stanza. Continuando a ignorare i richiami delle rovine, lasciandosi alle spalle le finestre traforate che la guardavano piangendo e i portali dai marmi rovinati, attraversando un ponte scheggiato dalla luce delle stelle, presto Virginia venne circondata dalla pianura. L’erba si spostava al suo passaggio, facendole posare le nude piante dei piedi direttamente sulla terra calda e smossa di fresco, aprendole davanti sentieri che conducevano ovunque lei volesse; ma verso queste mete andava sola, e al desiderio di trovare qualcuno non riceveva risposta.
Condotta dalla luna, la torre continuava a inseguirla con la sua ombra, cercando di afferrarla per l’orlo della veste e cingendole le spalle con il profumo delle sue rose mai putrefatte; ma non era là la sua casa, non era quello il luogo dove sarebbe rimasta per sempre.
Non era ancora il momento… e nel frattempo, qualcun altro giungeva a trattenerla con disperata energia; sì, una mano, una presenza umana che non poteva vedere ma sapeva amica, le scivolava tra i capelli e le cingeva la vita, scendeva lungo le sue gambe e le serrava le caviglie stringendole senza violenza, ma con la ferma volontà di non lasciarla proseguire.
Lei rimaneva ferma dov’era, avvolta da una tristezza amara come fiele e tuttavia non più sola, e… e il racconto finiva.

 

Virginia sbatté le palpebre con forza, e per il gesto una girandola di scintille si sprigionò davanti ai suoi occhi; ma il buio completo, intenso e silenzioso, fu lesto a ricadere sulle sue spalle, sul respiro affannato che riempiva il piccolo spazio che la circondava.
Ma dov’era? Cos’era successo? Perché i suoi piedi toccavano freddi pavimenti e non terra arsa dal sole? Era forse ritornata alla misteriosa torre per dormire ancora, o qualcuno l’aveva condotta nuovamente a quella malinconica culla per custodire il suo pianto?
La ragazza provò ad annusare l’aria, aspettandosi di percepire il sentore delle rose, sua unica compagnia visibile; invece, sentì odore d’inchiostro e libri, un profumo a lei ben più noto.
Boccheggiando per la sorpresa, indietreggiò di un passo e nella tenebra intensa andò a sbattere contro la libreria alle sue spalle; barcollò e si appoggiò alla scrivania che sapeva essere alla sua sinistra, sentendo contro i polsi e sotto le dita i tappi delle boccette ricolme di liquido nero e rosso, la puntura dei pennini o il solletichio delle piume d’oca, e nel tentativo di afferrare tutto ciò ne rovesciò al suolo una parte con un rumore agghiacciante di vetro infranto. Da qualche parte davanti a lei, attutito da una specie di barriera ― la porta! ―, dei corpi si mossero: il rumore morbido di membra in movimento, di lenti passi che andavano avvicinandosi, la spinse a protendere le mani innanzi a sé e avanzare piano per incontrare chiunque le stesse venendo incontro lì, nello studio di Edgar.
Ci fu un leggero tonfo quando chi era al di là della porta raggiunse quest’ultima; e istintivamente Virginia si fermò, uno strano brivido di paura ad attraversarle la schiena. Scappa, piccolina, fuggi!
Una mano girò la maniglia, e con un prolungato cigolio la porta si aprì.
Paralizzata da subitaneo terrore, la ragazzina si accorse di essere nuovamente indietreggiata e addossata alla libreria solo quando sentì le copertine dei volumi premerle contro nuca e scapole; ma l’altra entità non era affatto immobile, e continuava ad avanzare.
La tenebra rimaneva totale, e in essa la sua compagna si muoveva tranquillamente senza emettere più di un suono: quello dei suoi piedi, forse, che la spingevano verso la fonte del proprio risveglio e interesse.
Nel rapido crescere della propria paura, Virginia si accorse di quando la presenza si arrestò ― ormai ben poca distanza le separava ― e, aspettandosi qualcosa di terribile, si morse le labbra per non urlare. Il sapore del ferro le riempì il palato, e così fece l’odore con le narici: tanto affondò i denti nella propria carne per…
No. No, non si era aperta nessuna ferita, né era sua la gelida presa che l’aveva afferrata alla vita: l’altra l’aveva catturata e stretta a sè; e aveva forzato la sua bocca e la stava baciando… e stava riversando fiotti e fiotti di sangue nella sua gola.
Un urlo spaventoso si fece strada dentro di lei e rimbombò in ogni sua parte: ma si espresse in un gorgoglio strozzato, perché chiunque l’avesse presa aumentava la stretta fino a renderla un abbraccio doloroso, capace di spezzare il fiato. Per orrore e terrore la ragazzina sentì le gambe cedere e immediatamente quelle mani la sorressero, l’alzarono di peso.
Braccia magre e dure, ricoperte di materia viscida e rappresa, l’accolsero e l’accarezzarono accompagnandola alle soglie dell’incoscienza, e la fetida bocca che si era appropriata del suo primo bacio si staccò dalle labbra per sporgersi verso l’orecchio sinistro: «Virginia, mia dolce Virginia», chiamò il suo nome: e pareva che a parlare fosse la tomba, il triste coro dei morti che piange il sole e la carezza del vento, «non aver paura di questo dono; è la mia dote per te. Mia sposa, mi aspetterai fino a quando ci ritroveremo? Mi sarai fedele?»
Quando quella voce tanto inumana quanto disperata tacque, la ragazzina seppe che non sarebbe giunto più niente di cui avere paura; se quella era stata una prova, l’aveva appena ultimata. Senza nemmeno provare a dare un senso logico a quello che aveva appena vissuto o a ricondurlo a una realtà certa, lasciò che le forze l’abbandonassero e le permettessero di cadere in un sonno che nessuna lacrima avrebbe mai potuto scalfire.
Sentì solamente che qualcuno, molto probabilmente la sua misteriosa, innominabile compagna, la portava fuori da quella stanza per appoggiarla su una superficie soffice; poi più nulla. Finalmente era sola con sé stessa, con il sapore del sangue che ancora le riempiva la bocca e una fredda sensazione dalla risposta celata nel futuro.
Infine, sembrò essere passata un’intera vita, un secolo d’immobilità all’interno della sua culla di silenzio, quando una voce riempì le pareti con la grazia di una carezza, lambì la sua persona e spezzò il soporifero sortilegio in cui era caduta.
Virginia ebbe appena il tempo di aprire gli occhi, sbattendo le palpebre un paio di volte, e di riconoscere la camera da letto di Villa Allan avvolta dal lucore di un lume artificiale, poi il suo sguardo incontrò una figura che la fece sorridere e sollevare sui gomiti. Si sentiva debole come un cucciolo appena nato, ma in qualche modo riuscì nel suo intento. «E-Edgar?», mormorò appena; e con sua sorpresa vide il cugino, rimasto fino a quel momento sulla porta e con la schiena rivolta verso di lei, girarsi di scatto e fissarla con l’espressione più terrorizzata che la ragazzina gli avesse mai visto in volto.
«Edgar, mi fai paura con quella faccia… cos’è successo? Stai bene?»
Ancor prima che finisse di parlare, l’altro si precipitò nella stanza e quasi piombò sul letto; confusa, Virginia si lasciò abbracciare così strettamente da provare dolore ― per quanto molto diverso da quello che aveva sentito prima… ma quando, esattamente? ― e gli accarezzò esitante la schiena mentre quello affondava il viso tra i suoi capelli e, la ragazza si rese conto di ciò con una profonda tristezza, piangeva.
«Ma dov’eri finita, eh? Si può sapere? Ero disperato! Credevo… credevo che…» Senza dar tempo alla cugina di rispondere né interrompere la tempesta di domande, il giovane lasciò la presa e la liberò da coperte e lenzuola, controllando che nemmeno un graffio la segnasse.
Sulla porta, intanto, erano apparsi anche Dupin e Frances Allan, e il trambusto che Edgar sollevava stava attirando tutti gli occupanti della dimora verso la stanza.
L’unica a non dire una parola era Virginia, incredibilmente stanca e troppo presa a rincorrere le domande di uno o dell’altra e a cercare di comprendere perché la circondassero tanti visi ansiosi o sollevati, in completo caos; per fortuna, la ferma voce di Frances riuscì infine a imporsi su quella dei restanti e a portare un poco di silenzio, oltre a darle respiro, per poi invitare tutti a lasciare la stanza, dato che la fanciulla smarrita era stata ritrovata e le normali attività potevano essere riprese.
Così, alla fine, con Virginia rimasero solo la donna, Edgar, che non aveva alcuna intenzione di staccarsi dal fianco della ragazzina, e Dupin, che aveva occupato una poltrona e osservava la scena da un angolo, un’espressione pensierosa a segnargli i tratti.
«Che cosa sta succedendo?», mormorò infine Virginia, volgendo lo sguardo verso il cugino e stringendogli una mano. Una forza dentro di lei la spingeva a cercare il calore dello scrittore, che lui non gli negò affatto.
«Tesoro mio», esordì Frances, prendendo per prima la parola, «perché hai lasciato la villa senza dire nulla? Ti abbiamo cercata per ore, dentro e fuori, e…» Un’esitazione. «Il sole è già calato da molto, è sera.»
Virginia trasalì, impallidendo. L’intera villa era in subbuglio perché la credevano scomparsa, ed era già passato il tramonto… che orribili momenti dovevano aver passato tutti. «Perdonatemi», sussurrò allora, tremando al pensiero delle notizie che giungevano dalla città e anche a quello che la gente doveva avere ipotizzato sulla sua fine. Eppure, lei era sempre stata lì tra quelle mura. O non era così? «Mi dispiace di avervi fatto preoccupare in questo modo, ma in verità io… io sono sempre rimasta qui. Mi sono svegliata nel pomeriggio e ti ho cercato, Edgar, ma Frances mi ha detto che eri andato nelle campagne; mi sentivo un po’ debole, quindi invece di venirti incontro sono andata nel tuo studio per prendere un libro, e―»
E hai letto di una torre abbandonata, di una ragazza che lì dorme e di ombre che la vegliano come una figlia.
Frances attese un attimo che la giovinetta continuasse, ma davanti al silenzio improvviso di quest’ultima finì per inumidirsi le labbra e scuotere la testa con nervosismo. «Ma, cara, sei sicura di non essere uscita neppure una volta, anche solo nei giardini? Ho controllato io stessa lo studio di Edgar, più volte, ma lì non c’eri… non ti ricordi di averlo lasciato?»
La ragazzina aggrottò la fronte e strinse ancora di più la mano del cugino, in preda a improvvise vertigini e a un senso di soffocamento che le serrava la gola come un cappio. Sensazioni ed emozioni dovute al risvegliarsi della memoria si stavano riversando in massa nella sua mente, mozzandole il respiro; non si era semplicemente immaginata tutto. «L’ultimo racconto di Edgar era lì, sulla scrivania. Quello che mi ricordo è di essermi seduta sulla sedia e di aver preso in mano i fogli, di aver iniziato a leggere… e poi…» Non riuscì a proseguire a parole, ma con i gesti indicò la stanza che la circondava, come a dire: ed ecco che, dopo un buio infinito, mi sono risvegliata qui. Buffo, eh?
Ma non c’era nulla di cui ridere, e la prima a temere era lei: tra la sua persona e quella degli altri c’era una torre, una distesa d’erba senza fine, solitudine, e una figura emersa dalla Notte per farla sua.
«Quindi non hai memoria di essere ritornata in questa stanza, signorina?»
La voce di Dupin risuonò forte e chiara, come la replica che poi giunse: «No. Mi dispiace, ma davvero non ricordo di aver mai lasciato lo studio.»
Sì, ti ricordi di qualcuno che ti ha portato via da quella stanza per adagiarti su qualcosa di morbido. La sua presenza è ancora qui.
Edgar, Dupin e Frances si guardarono brevemente, quindi la donna mormorò, cercando una risposta negli altri: «Un caso di sonnambulismo?»
«Non c’era anima di questa casa che non fosse occupata a cercarla: qualcuno l’avrebbe vista», rispose Edgar, oscurando appena lo sguardo e rivolgendosi immediatamente a Virginia, «… e d’altra parte, fino a poco fa non eri nel tuo letto, o ti avrei notato: avevo appena finito di setacciare l’intera camera quando hai chiamato il mio nome. Capisci? Mi sei comparsa alle spalle come da un’altra dimensione… e io inizio davvero a credere che per qualche tempo tu non sia stata qui con noi.»
«Edgar, ragiona», s’intromise allora Frances, la voce rotta dall’agitazione, «le persone non possono scomparire e riapparire a proprio piacimento. Virginia, io invece credo che la febbre si sia alzata e―»
«Signora Allan.» Con calma, Auguste Dupin si alzò dalla poltrona e si erse davanti al resto dei presenti, recando un silenzio assoluto. «Signora Allan, per favore, mi concederebbe un minuto con la ragazza?»
La donna esitò un istante davanti a quello che era un implicito, gentile invito ad andarsene; ma non tardò ad acconsentire con il capo, lanciando poi uno sguardo a Edgar. Seppur Dupin avesse parlato al singolare, anche lui sarebbe rimasto nella camera; e forse loro due, insieme, sarebbero riusciti a comprendere qualcosa della situazione. «Concesso», disse infine, levandosi dal letto e rivolgendosi a entrambi i signori, «ma non affaticatela troppo, per favore.»
«Abbiamo tutti bisogno di riposo, ci congederemo presto. Promesso», rispose il francese con il suo tono più affabile, seguendo Frances con lo sguardo fino a quando la donna uscì e i suoi passi si persero lungo il corridoio. «Allora, giovane Virginia», riprese l’uomo, rivolgendo un sincero sorriso alla ragazzina e sedendosi sul bordo del letto, «vediamo di ricostruire insieme le ultime ore, vuoi? I tuoi ricordi si fermano al momento in cui hai iniziato a leggere il racconto di Edgar che hai trovato sulla sua scrivania, così ci hai detto.»
Virginia annuì, e il senso di oppressione le diede un’altra scossa.
«Descrivimeli. Parlami di tutto ciò che hai fatto prima di… qualsiasi cosa sia successa in seguito.»
Lei chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi nonostante la stretta alla gola; questa si allentò di un poco mentre la lingua improvvisamente si srotolava e, senza nemmeno sapere bene perché ma come sotto una forza esterna, narrava ogni particolare del racconto che aveva letto e del sogno ― ma si era trattato di un sogno? ― o immaginazione seguito a ciò: il lungo sonno nella torre divorata dall’abbandono, gli spiriti che la proteggevano, le stelle congelate dalla distanza, la chiamata che la spingeva in terre sempre più lontane, l’abbraccio che non voleva saperne di farle compiere un viaggio così solitario, e, alla fine di tutto, anche l’entità che l’aveva assalita nell’oscuro studio di suo cugino e legata a sé ― e in che modo. La morsa si rilassò maggiormente, ma solo per spostarsi: l’anulare della mano sinistra iniziò a bruciare, e il peso di un anello s’impresse a fondo nella carne.
Inorridita e terrorizzata, Virginia si fissò il dito come se da un momento all’altro vedesse spuntarvi attorno un piccolo cerchio nero come la notte: il marchio di una promessa, una saetta lanciata nel tempo, nel futuro, e tutta sua da seguire; un’ombra in avvicinamento, i suoi stessi passi che la conducevano da lei e la voce ― propria, e di molti altri ― che mormorava un canto nuziale trasudante tristezza, ineluttabilità.
Era come sapere di non possedere più la propria vita.
«Edgar, ragazzo, stai bene?»
Fu la voce di Dupin a strapparla ai suoi cupi pensieri e a farla voltare verso il giovane scrittore; e anche lei si spaventò quando lo vide così pallido, gli occhi fissi alla parete e lo sguardo vitreo. Non era più in quella stanza, ma lontano, a rapportarsi con una realtà staccata da loro. «Edgar?», lo scosse piano per un braccio, mettendosi in ginocchio e prendendogli il viso, «che cosa ti sta succedendo?»
«Io…», mormorò Poe dopo un lungo istante, ritornando parzialmente in sé sotto il richiamo della voce di sua cugina, «io stavo pensando che… no, c’è troppo che non va. Perdonami, Virginia, come hai fatto a leggere tutto questo, o meglio, come hai fatto a saperlo? Su quella scrivania ho lasciato solo l’inizio del racconto…» Una pausa congelata dall’attesa e appena intaccata dal fruscio dei fogli che Edgar estrasse dalla tasca del suo mantello. «… Il resto è sempre stato qui, con me. L’ho ultimato ieri pomeriggio, al cimitero, e non ho più riunito le parti.»
Il silenzio che seguì tali parole poteva avvolgerli tutti al pari di una coperta, tanto era concreto; ed era così pesante da essere immediatamente spezzato. «Quindi Virginia può aver letto davvero solo della torre e della ragazza che lì dorme, mentre ciò che segue dovrebbe averlo immaginato, o sognato, tale e quale a come lo hai creato?» Ancor prima che Edgar potesse rispondere, Dupin continuò, ma la sua voce si abbassò di un tono. «Ma non tutto è parte di quel racconto… tu non hai scritto dell’entità che Virginia ha incontrato nel tuo studio, né lei fa parte di un sogno. Me lo permetti, signorina?»
La ragazzina rimase immobile mentre Auguste allungava una mano e le sfiorava il sottomento con la punta dell’indice, e quando la ritraeva una goccia di sangue gli imperlava il polpastrello. Sangue fresco, ma non proveniente da ferita o graffio; sangue che le aveva portato qualcun altro, e lasciatole in dono insieme a un bacio che odorava di suprema condanna. La realtà si rivelava essere più oscura dell’immaginazione.
«Avete ragione, monsieur», replicò Edgar, che sembrava essersi nuovamente estraniato e non aver notato ciò che Dupin aveva appena fatto, «lei non fa parte di quel racconto, eppure…»
«E io che pensavo che, tra i due, almeno Virginia fosse responsabile e corretta; ma mi sbagliavo. Il cattivo sangue dei Poe non mente.»
Come un vento di tempesta, una nuova voce interruppe il discorso e spinse i presenti a voltarsi verso la porta. Immediatamente dopo, la ragazzina chinò il capo e si morse le labbra, umiliata più dal tono che dalle parole di John Allan, il quale era appena entrato nella stanza e fissava tutti con occhi brucianti di rabbia. Alle sue spalle apparve anche Frances, un braccio teso a trattenere quello del marito e lo sguardo allarmato che saettava da questi a, soprattutto, Edgar.
Con un gesto lento e fermo, l’uomo la staccò da sé e avanzò lentamente verso il letto, tornando a concentrarsi su Virginia. «Sono appena tornato da Richmond, dove sono andato a cercarti. Ho vagato per l’intera città, chiesto di te a qualsiasi persona incontrassi, messo in pericolo la mia vita per tornare indietro con la morte nel cuore e scoprire che ti eri nascosta qui, nella mia stessa dimora, da qualche parte. 
Questa famiglia ha accolto a braccia aperte anche te, nonostante non ti si deva nulla; ed è così che ci ripaghi? Giocando con le nostre paure e l’orribile situazione in cui versa la città?
Mi viene da chiederti, Edgar, perché tu l’abbia portata sotto questo tetto. Una sorta di vendetta nei nostri confronti?»
Lo scrittore non replicò subito, ma tutti poterono notare l’ombra che gli attraversava il viso e si rintanava nei suoi occhi, resi vividi dal livore.
«Perché prendersela con lei, quando puoi benissimo sfogarti su di me?», replicò Edgar, la voce bassa e gelida, mentre stendeva un braccio davanti a sua cugina, come a proteggerla da ulteriori ingiurie. «Virginia non ha mai fatto nulla per turbarti, nemmeno in questa occasione.»
John alzò le mani al cielo con fare teatrale e la sua voce divenne canzonatoria. «E allora dov’era? Tutti dicono che sei stato tu a ritrovarla, proprio qui. Ma che strano! Apparsa dal nulla oppure, più verosimilmente, tua complice in uno scherzo di pessimo gusto?»
«John, basta, smettila. E anche tu, Edgar, non continuare, per favore.» Neanche l’intromissione di Frances, ben decisa a tenere separati marito e figlio, impedì ai due di affrontarsi in un silenzio duro, carico di accuse ancora più aspre di quanto la lingua avrebbe potuto pronunciare.
«Non ti preoccupare, mamma, va bene così», esordì infine il giovane, alzandosi in piedi e poi chinandosi verso Virginia per prenderla tra le braccia e sollevarla, parandosi davanti agli altri con lei ben stretta al proprio petto. «Ho preso una decisione che metterà d’accordo tutti: per tutto il tempo che starai a Richmond, Virginia, io e te abiteremo nella casa del signor Perry. In questo modo non rischieremo di dare problemi al signor Allan ed eviteremo l’insorgere di altre calunnie nei tuoi confronti.»
La discussione che si scatenò immediatamente dopo era inevitabile, ma destinata a essere breve: niente avrebbe potuto far cambiare idea a Edgar, anche se solamente Virginia e Dupin lo riconoscevano tanto da evitare di inserirsi nell’inutile battibecco e attendere che questo giungesse alla fine.
Non molto tempo dopo, le stelle vorticavano lente sopra la testa di Virginia. La panchina di pietra sulla quale sedeva, all’interno del parco di Villa Allan, andava rilasciando il calore accumulato durante il giorno e strisciava sotto il nero mantello che indossava, riscaldandola fin nelle ossa. La presenza di Dupin, in piedi accanto a lei e intento a fumare la sua pipa, le dava un seppur minimo senso di protezione e l’aiutava a combattere la paura che sgomitava nel suo cuore e le mordeva ferocemente l’anulare.
«Lo avrebbe fatto comunque, vero? Di lasciare la villa, intendo. Qualunque cosa sia entrata qui, seguirà Edgar. Il litigio è stato solamente un pretesto per non coinvolgere più persone di quelle già prese di mira.» La sua voce le sembrava strana, più profonda e saggia, quasi lei fosse diventata improvvisamente adulta, o consapevole della fine di un’era.
E quella era la morte della sua prima giovinezza, dell’innocenza che si allontanava giorno dopo giorno e che lei non poteva trattenere.
Auguste non rispose immediatamente, ma dall’espressione sul suo viso, che l’ora tarda non riusciva a nascondere completamente, Virginia seppe di aver ragione. «State pronti, ragazzi miei», commentò il francese, «perché qualcosa di grande si sta preparando per voi, e dovrete affrontarlo.»
«Lei non ci abbandonerà, vero? Non lascerà Edgar da solo?»
Una mano si posò sul suo capo e le accarezzò i capelli dolcemente. «Davvero dubiti del mio aiuto, piccolina?»
Lei rimase in silenzio, cercò le dita del francese e le strinse come una bambina fa con quelle del proprio genitore. Intorno a loro, il buio pulsava come un cuore in ascolto. «No», gli mormorò, «non lo farei mai. Ma certe volte è bello sentirsi ripetere ciò che già sappiamo.»




 

ANGOLO DI MANTO

 

Salve!
La storia procede più a rilento di quanto voluto, ma non temete, ho intenzione di portarla avanti fino alla fine, che comunque non è lontana perché questa è stata pensata come una fic corta.
Il racconto in cui Virginia si ritrova mi è stato in parte ispirato dalla splendida poesia The Sleeper (La Dormiente) di Poe, e l’ombra di questa vicenda continuerà a ritornare nella trama.
Altri riferimenti più nascosti sono, per quanto riguarda i racconti di Poe, a La Mascherata della Morte Rossa e alla fiaba Rosaspina dei Grimm. Insomma, chi conosce ciò che accadde alla vera Virginia Clemms già sa che cosa aspettarsi… o almeno, cosa le riserverà un futuro che questa fic non comprenderà (diamo qualche gioia a questa stellina e a chi le vuole un gran bene, vi prego).
Un abbraccio,

Manto

 
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Bungou Stray Dogs / Vai alla pagina dell'autore: Manto