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Autore: Adeia Di Elferas    01/06/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina stava ascoltando Lucrezia Medici da quasi quindici minuti, senza dare nessun segno tangibile di interesse. Teneva gli occhi verdi fissi sulle proprie mani e solo di quando in quando spostava lo sguardo altrove, senza mai, comunque, cercare quello dell'altra donna.

In realtà le parole della fiorentina non stavano andando a vuoto. Per la Sforza era importante sentire di come Piero, fratello di Lucrezia e formalmente erede del Magnifico, avesse cercato senza successo di sfruttare l'onda francese e poi quello borgiana per ritornare a Firenze. Nella voce della moglie di Jacopo Salviati, la Tigre cercava soprattutto qualche segno di incertezza.

Non le sembrava una cosa normale, che quella donna l'avesse voluta incontrare solo per elencarle gli errori del Fatuo e per smarcarsi da lui spiegando, in qualche modo, come lei stessa non avesse capito quanto il fratello fosse in torto. Forse, pensò Caterina, era stata negli anni troppo abituata a trattare solo con uomini e con le donne faceva più fatica a dissipare il bandolo della matassa. Si ricordava ancora quanta difficoltà aveva riscontrato nel tentare di capire Francesca Bentivoglio, la madre di Astorre Manfredi... E anche di quanto fosse rimasta spiazzata, nel contesto più intimo della sua casa, nell'aver a che fare con serve e dame di compagnia. Le bastava ricordare come la donna – non sua familiare – che credeva di aver capito di più fosse stata la più grande traditrice che avesse mai conosciuto: la moglie di Bernardino Ghetti, ossia colei che, de facto, aveva acceso l'ultima miccia che aveva innescato la congiura contro il suo amatissimo Giacomo.

“E quindi – concluse Lucrezia – anche se ho sempre sostenuto mio fratello come ho potuto, questa volta ho commesso un errore.”

La Leonessa finalmente sollevò lo sguardo verso la sua interlocutrice e, con tono calmo, ma severo, le chiese: “E questo perché dovrebbe interessarmi?”

La Medici deglutì un paio di volte. Le sue guance si arrossarono, spiccando ancor di più contro il velo candido che si era messa a coprire i capelli chiari, per entrare al convento. Siccome la milanese non smetteva di fissarla, fu il turno di Lucrezia di guardare altrove.

Ancora un po' in imbarazzo per la difficile domanda diretta che le era stata posta, la donna si schiarì la gola e disse, molto semplicemente: “Perché so che voi siete molto più brava di me, in queste cose e cercavo un vostro consiglio.”

“E che consiglio dovrei darvi?” fece la Sforza, agitandosi sulla sedia come se volesse alzarsi e andarsene: “Mi avete già detto che la cosa di vostro fratello è finita da sé e che siete certa di aver commesso un errore nel sostenerlo. Che altro dovrei aggiungere?”

Lucrezia, a quel punto, controllò con la coda dell'occhio che la porta dello studiolo della Superiora fosse ancora chiusa e poi, sporgendosi un po' in avanti, sussurrò: “Io vorrei il vostro consiglio per capire come muoversi in una palude quale è adesso Firenze.”

“Voi conoscete Firenze molto meglio di me, mi pare che questo punto lo abbiamo già appurato nel corso di un altro nostro incontro.” sbuffò la Tigre, senza più darsi pena nel mascherare la propria impazienza: “Quindi io non so proprio come...”

“La città sta diventando difficile da governare.” riprese la Medici, questa volta senza traccia di affettazione, diretta e ferma, come quando parlava di politica con il marito: “A quanto pare si arriverà presto a decidere per la nomina di un Gonfaloniere a vita. E noi... Noi stiamo spingendo per qualcuno che ci sia favorevole.”

“E mi fa piacere per voi, ma...” tentò di nuovo di svincolarsi la Leonessa.

“Oggi stesso, poi, dovrebbero partire i nostri Commissari alla volta di Arezzo per andare a recuperare tutto ciò che è di Firenze, perché a Milano il Valentino ha accettato che fosse il re di Francia a decidere che cosa fare e il re ha deciso che il Valentino deve abbandonare ogni pretesa sulla Toscana.” si affrettò ad aggiungere la moglie di Jacopo Salviati.

Incapace di trattenere una smorfia nel sentire il nome del Valentino, Caterina scosse piano il capo e, tenendo per sé la felicità di sapere che il Borja non era più una minaccia imminente per Firenze e quindi per lei, ribatté di nuovo: “Non vedo come possa interessarmi che...”

“Per Dio!” sbottò a quel punto Lucrezia, sorprendendo così tanto la milanese da ammutolirla: “Voi continuate a dirmi che non vi interessa nulla di Firenze e del suo destino, ma sbagliate!”

Incuriosita più da quello sprazzo di vitalità che da tutto il resto, la Sforza si rimise comoda e, inclinando appena la testa di lato, si rimise in ascolto.

Capendo di aver ritrovato l'attenzione della sua interlocutrice, la Medici si calmò, o almeno, provò a calmarsi, e riprese con più ordine, benché le parole le uscissero dalle labbra ancora rapide e un po' ingarbugliate: “Vostro marito Giovanni ha voluto con tutto se stesso rendervi cittadina di Firenze e non solo per proteggervi, io sono certa, certissima, che nel profondo sapesse quanto voi avreste potuto fare per la città che lui tanto amava. E avete un figlio, santo Cielo, un figlio in cui scorre il sangue dei Medici, della famiglia che ha letteralmente scritto la Storia di Firenze!”

Caterina era ancora immobile, e solo una profonda ruga in front – la stessa ruga che le si formava ogni volta in cui qualcosa la preoccupava – andava a increspare quella che sarebbe stata una maschera perfetta.

“Voi non avete più uno Stato, e so quanto ne soffrite, il buon piovano non fa che parlarne, quando viene a desinare a casa nostra...” Lucrezia scorse un fremito nelle labbra della Leonessa, quando citò Fortunati, ma non seppe come interpretarlo: “Ebbene, vostro figlio potrebbe essere la chiave per dare al vostro sangue una nuova patria e un nuovo Stato. Giovannino crescerà e se vi somiglierà, sarà perfetto per rimettere in piedi Firenze. Avrebbe le vostre capacità, i vostri insegnamenti e, allo stesso tempo, il sangue della mia famiglia, il nostro cognome e, solo per quello, partirebbe avvantaggiato nell'aggiudicarsi il favore del popolo.”

“Voi volete solo fare in modo che mio figlio diventi una vostra pedina.” parafrasò a quel punto la Sforza.

“No, no, mi state fraintendendo.” si oppose la Medici: “Io sto parlando di una collaborazione. È vero, non nascondo che ci tengo a tirare Giovannino dalla parte giusta: ho il timore, lo stesso timore che avete voi! Quello che Lorenzo alla fine riesca a mettergli le mani addosso e a trasformarlo in una sua creatura...”

Caterina sollevò le sopracciglia: lei non aveva mai creduto una cosa simile, i suoi timori, parlando del Popolano, erano di ben altra natura. Lucrezia, che stava studiando ogni sua reazione, parve capire al volo e così raddrizzò la barra.

“O peggio!” esclamò infatti: “Potrebbe ucciderlo, andando a spegnere ogni nostra speranza e ad arrecarvi un dolore immenso.”

“Quindi mi state dicendo che dovrei occuparmi di più della situazione di Firenze, nella speranza che un domani Giovannino ne diventi il Signore?” chiese, scettica, la Tigre.

“Sì.” concluse con un sospiro la donna e poi aggiunse: “E poi voglio aiutare voi e soprattutto lui perché mi sento terribilmente in colpa.”

“In colpa? E per quale motivo?” chiese Caterina, inclinando ancor di più la testa, quasi sperasse a quel modo di scorgere qualcosa in più negli occhi apparentemente limpidi della Salviati.

“Per ciò che mio padre ha fatto a vostro marito Giovanni.” disse, inaspettatamente, la Medici.

Caterina rimase colpita da quell'affermazione, ma cercò di non darlo a vedere, anzi, quando parlò lo fece con un certo astio, come se volesse mettere alla prova le reali intenzioni di Lucrezia: “Io conosco bene le colpe di vostro padre nei confronti di Giovanni e Lorenzo.” iniziò a dire, includendo anche il cognato nel discorso solo per rendere più pesanti le accuse al Magnifico, e non perché fosse realmente addolorata per quanto subito dal Popolano, calcolando ciò che poi egli stesso stava facendo a lei: “Venire qui e ricordarmi che vostro padre ha reso povero mio marito non mi sembra una grande strategia, da parte vostra. Per quel poco che conoscete di me, questo fatto potrebbe portare ad allontanarmi da voi. Potete essere spiacente quanto volete, ma purtroppo ciò che vostro padre ha fatto ha condizionato la vita di mio marito Giovanni, più di quanto possiate credere... Un torto non si raddrizza a parole.”

“Io vi sto dicendo, però – riprese la Salviati, aggrappandosi al leggero barlume di speranza che l'ultima frase le stava dando – che voglio rimediare coi fatti ai torti commessi da mio padre.”

“Allora fate in modo che Lorenzo mi dia l'eredità che mi spetta: che a un ammanco di denaro si ripari con la restituzione di altro denaro.” tagliò corto la Sforza, questa volta alzandosi davvero, pronta a lasciare lo studiolo e andare a salutare ancora una volta Giovannino prima di tornare alla villa di Castello.

“Vi assicuro, Dio mi è testimone, che assieme a mio marito stiamo cercando da mesi un modo per accontentarvi.” dichiarò la Medici.

“Non scomodate Dio, non è il caso, specie in questa sede.” ribatté aspra la Leonessa.

“Comunque cercate di pensare in modo positivo... Se Giovanni non avesse avuto le difficoltà che ha avuto, forse non sarebbe mai arrivato a Forlì da voi e...” provò a dire Lucrezia, accorgendosi subito, però, di aver scelto una strada troppo sdrucciolevole.

“Con che coraggio venite a dirmi una cosa del genere?” la incalzò infatti la Tigre, facendosi di colpo minacciosa: “Mi state dicendo che dovrei essere grata a vostro padre per aver derubato Giovanni della sua eredità?”

“Mio padre voleva la pace, coi suoi cugini!” fece Lucrezia, posando una mano sul braccio di Caterina, che stava per andarsene.

Questa, infastidita, si scostò per sottrarsi alla presa, ma non se ne andò, volendo sentire che altre scuse avrebbe accampato la donna.

“Giovanni doveva sposare Luisa, mia sorella.” la voce della Medici si era incrinata appena: “Mio padre aveva già deciso tutto quando ancora mia sorella era piccola... Il loro matrimonio avrebbe rafforzato la nostra famiglia e avrebbe fatto sì che le ricchezze non andassero disperse... Poi Luisa è morta, a undici anni e...”

Caterina sapeva di quel mancato matrimonio, ma la toccava fino a un certo punto. La Luisa di cui Lucrezia stava parlando era morta lo stesso anno in cui era morto suo marito Girolamo. A quei tempi Giovanni era già adulto e i soldi erano già spariti da tempo...

“Voleva fargliela sposare solo per tenersi i soldi o, almeno, per evitare che Giovanni e Lorenzo continuassero con delle cause legali per riaverli.” fu il commento caustico di Caterina.

A quel punto la Salviati parve spegnersi. Il suo volto, fino a quel momento d'un rosa acceso, si fece più pallido e anche i suoi occhi intelligenti vennero come velati da una coltre di rassegnazione.

“Capisco il vostro rancore, anche se me ne dispiaccio, visto che mi sembrava che tra noi potesse esserci una certa intesa.” disse piano la fiorentina: “Voi non avete mai conosciuto mio padre... Se fosse stato così, non sareste così rigida nel giudicarlo.”

La Sforza ricordava di aver stimato profondamente il Magnifico, di essersi addirittura commossa, nel saperlo morto, e ricordava anche di averlo visto da bambina, quando aveva accompagnato suo padre Galeazzo Maria a Firenze... Tutto, però, nella sua mente, era stato cancellato poco a poco, venendo a conoscenza di quanto subito da Giovanni.

“Avete ragione, non lo conoscevo.” soffiò la Tigre.

“Era un uomo complesso...” riprese la Medici, facendo di tutto per recuperare: “Vi sarebbe piaciuto. E voi sareste piaciuta a lui.”

“Non ne sono sicura... Anche voi giudicate senza conoscere a fondo.” borbottò la milanese: “E comunque, se anche fosse, ciò non cambia ciò che vostro padre ha fatto.”

“Infatti: aveva le sue colpe e non lo nego.” questa volta il tono di Lucrezia si era fatto imperioso, come se la sua pazienza stesse per finire davvero e la facciata di donna compita e calata nel suo ruolo di matrona fiorentina stesse per sgretolarsi, lasciando il posto a una versione molto meno diplomatica e gentile: “Vi sto dicendo che è anche per questo che voglio aiutare Giovannino. Vi dico di vederlo come un indennizzo, ma se vi infastidisce pensarla a questo modo... Trovo ingiusta tutta questa acrimonia da parte vostra.”

“Io non vi ho mai negato un incontro, né ho mai rifiutato il vostro aiuto, benché, potete capirlo anche da sola, mi risulta difficile accettare l'amicizia di qualcuno che non conosco, dato che nella mia vita sono stata tradita addirittura da chi stimavo alla stima di una sorella.” rimbeccò la Sforza, accendendosi a sua volta: “Se volete che vi diventi amica alla stregua di una vostra dama di compagnia, allora possiamo anche chiudere qui la nostra conoscenza: non ho mai avuto amiche, io.”

“Mi state fraintendendo.” Lucrezia, ascoltando attentamente le parole della sua interlocutrice, si accorse di aver esagerato: “Avete ragione, sono troppo frettolosa. E vi tranquillizzo: non ho intenzione di legarvi a me nel modo che avete detto. Io vi stimo e vi ammiro per la donna che siete e capisco che ci vuole tempo.”

Caterina non disse nulla, limitandosi ad abbassare lo sguardo, il volto scuro e le mani scosse da un leggerissimo tremito, che tradivano tutto il suo nervosismo.

“E capisco anche che i metodi a cui sono abituata io non sono quelli a cui siete avvezza voi, né così è per lo stile di vita o anche solo per il modo di trattare un accordo.” mise le mani avanti la fiorentina: “E capisco che avete sempre vissuto in mezzo ai soldati e... E forse per voi non è facile non trovarvi più in mezzo a Capitani e Consiglieri...”

Anche quella volta la Leonessa non disse nulla, ma dal modo in cui deglutì, la Medici comprese di aver fatto pieno centro.

“Lasciamo passare ancora qualche giorno, o qualche settimana – propose – aspettiamo, magari, che venga eletto il Gonfaloniere... E poi, se voi siete d'accordo, con il permesso del piovano organizzeremo un incontro tra voi e mio marito. Magari vi capirete di più.”

La prospettiva di discutere di politica e affari con un uomo come doveva essere Jacopo Salviati, ossia avvezzo fin da ragazzo ad avere a che fare in modo molto diretto con il potere e le dinamiche di uno Stato, risvegliarono la Tigre.

“Allora, vi sta bene come progetto?” chiese Lucrezia, con un sorriso carico di speranza.

La Sforza fece un cenno secco d'assenso e poi, volendo togliersi in fretta da quella situazione che avvertiva ormai come imbarazzante, disse: “Adesso devo andare ancora da mio figlio, quindi scusatemi...” e senza aggiungere altro, passò accanto alla Medici e lasciò lo studiolo.

 

Pavia sembrava un tegame di ferro incandescente dove le teste già calde per conto loro erano pronte a mettersi a bollire e scoppiare. O, almeno, quella era l'impressione che aveva Troilo De Rossi, mentre guardava accigliato i due uomini che continuavano a riempirsi d'insulti nel centro della piazza.

Federico Gonzaga Bozzolo e Pirro Gonzaga, invece, sembravano quasi non accorgersi dell'afa e del sole che picchiava sulle teste di tutti i presenti come un pesante martello. I loro volti erano trasfigurati e sfatti dalla rabbia, i loro abiti erano zuppi di sudore, ma più per il livore che non per il caldo, e le loro mani scattavano di continuo all'elsa delle rispettive spade.

Il re di Francia, molto vicino a Troilo, li osservava in silenzio con un'espressione impossibile da decifrare. Era come se stesse ancora cercando di capire se valesse o meno la pena di starsene lì a cuocere assieme agli altri per vedere quell'indegno spettacolo, o se fosse il caso di esercitare la sua regia potestà e ordinare che il duello venisse annullato seduta stante.

Il Trivulzio, alla destra del De Rossi, ridacchiava nel sentire certe accuse mosse da Pirro, che sembrava non aver sopportato alcune diffamazioni fatte da Federico ai danni del Marchese di Mantova, ma l'emiliano non ci trovava nulla da ridere. Gli sembrava anzi assurdo che in un momento tanto delicato per l'Italia – e non solo – i suoi massimi esponenti perdessero tempo con dissidi puerili come quelli. Nessuno, forse, si era reso conto del pericolo che serpeggiava tra loro? Il Valentino era parso tremendo e letale solo a lui?

Ricordava ancora alla perfezione il suo incontro ravvicinato con Cesare Borja, un paio di sere prima. Anche se aveva fatto di tutto per evitare di trovarsi a quattrocchi con lui, alla fine aveva ceduto all'insistenza di re Luigi, che aveva voluto far sì che lui e il Duca di Valentinois si parlassero.

Gli sembrava di vedere ancora gli occhi da serpente del figlio del papa: lo guardava con una voracità particolare, come se potesse parlargli senza aprir bocca. Si era aggirato tra gli altri invitati come una vipera in cerca della prossima preda, dando l'impressione di essere intento a scegliere quale nemico divorare per primo. L'unica – aveva notato Troilo – su cui il Valentino non aveva quasi mai posato lo sguardo era Ippolita Sforza, che, forse, gli ricordava troppo la Tigre di Forlì e quindi lo metteva a disagio con la sua mera presenza.

Nella piazza di Pavia, intanto, lo Chaumont e il Maresciallo Gié erano accorsi tra i due litiganti per cercare di convincerli o a duellare o a dividersi, per evitare a tutti di perdere altro tempo sotto il tremendo sole d'agosto della Lombardia.

Gian Giacomo da Trivulzio si lasciò sfuggire una vera e propria risata, mentre Pirro Gonzaga batteva in terra il piede in segno di disappunto, ma al De Rossi, una volta di più, venne solo il mal di stomaco nel rendersi conto di quanto fossero infantili i signorotti italiani.

Anche il re di Francia, ormai, iniziava a dare evidenti segni di sconforto e, mentre teneva sempre gli occhi puntati sui due Gonzaga, serrava con forza i denti e muoveva appena una gamba, quasi che stesse per fare un passo avanti e farli smettere. La sua indecisione, comunque, colpì Troilo, che l'aveva ritenuto più risoluto.

Sempre tornando con il pensiero all'incontro diretto con il Valentino, pensò a come il sovrano era stato in grado di zittire il Borja con fermezza, una fermezza che, invece, quel giorno gli stava mancando.

Nel ricordo poteva sentire ancora Cesare motteggiare davanti a lui con volgarità riguardo alla Tigre di Forlì e a come fosse stato più semplice ottenere le sue grazie che non la sua città. Si era vantato a lungo di come l'avesse fatta pentire di averlo preso in giro, e di come avesse pagato per ogni suo sgarbo.

L'emiliano rimembrava ancora alla perfezione le parole con cui aveva controbattuto: “Avete fatto bene a trattarla così, allora – gli aveva detto, sempre cercando di tener fede alla recita che si era imposto di mettere in scena, seppur non rinunciando a una profonda stoccata all'orgoglio del suo interlocutore – quella donna ha davvero esagerato a umiliarvi tanto, difendendosi per intere settimane con un pugno di uomini raccolti alla disperata, contro una moltitudine di soldati ben armati e foraggiati...”

Il Valentino non aveva compreso bene il tono di quell'affermazione, ma appena prima che potesse ribattere in qualche modo, il re di Francia si era messo tra loro e aveva detto, nella sua lingua, che anche il De Rossi, presto, avrebbe contribuito a far abbassare la testa alla Leonessa di Romagna, senza, però, alludere al matrimonio con Bianca Riario – da lui ritenuto comunque un atto di guerra, una sorta di saccheggio ai beni più preziosi di una donna che aveva contribuito a ingigantire, con la sua resistenza, le spese già enormi di una guerra che a Luigi XII non interessava – e a tutto quello che ne conseguiva.

In un italiano comprensibile, seppur stentato, il re aveva concluso: “Due Riario sono ora a Piacenza, Cesare...” e poi aveva alzato l'indice ammonitore: “E so che se anche ora sapete, non farete nulla, perché questi sono i patti.”

Il Valentino non aveva osato ribattere e la questione si era conclusa lì.

Distratto dai suoi pensieri da un movimento improvviso al suo fianco, Troilo vide che finalmente il re aveva deciso di far qualcosa per superare l'impasse in cui erano incappati. Attraversando a passo svelto la piazza di Pavia, si pose tra i due litiganti e, con una voce tonante che lo rendeva minaccioso, disse che il duello era annullato e che qualsiasi contenzioso fosse nato tra i due, sarebbe stato lui in persona a dirimerlo in un Tribunale degno di tal nome.

Pirro e Federico si stavano ancora sputando addosso improperi e insulti, ma nessuno dei due più osava metter mano alla spada. Con un cenno del capo, comunque, Luigi XII ordinò che entrambi venissero allontanati di peso da quell'arena improvvisata e poi disse ad alta voce che lo spettacolo era finito e che ognuno poteva andare dove preferiva.

“E allora io vi sfido a duello con la spada e col pugnale!” la voce di Giovanni Sforza sorprese tutti i presente e anche Troilo, che non si era neppure accorto della presenza del vecchio signore di Pesaro, si voltò di scatto per vedere cosa stesse succedendo.

Lo Sforza aveva appena dato uno spintone a Francesco Gonzaga che, sentendosi già coinvolto dalla faida tra Pirro e Federico per motivi di parentela, era accorso in piazza, ma si era tenuto in un punto defilato proprio per non essere tirato in mezzo.

“Si può sapere che succede?!” domandò il Trivulzio, che si sentiva pur sempre il più alto in grado dopo il re, essendo Governatore di Milano.

“Quest'uomo mi accusa di essere un vile e un codardo e di essere uno che è in combutta col papa e col figlio!” urlò Giovanni, andando nel centro della piazza, che era appena stato sgomberato: “E io allora gli dico che il vile è lui! Che si vende per una provvigione di diciottomila franchi e una condotta di facciata ai francesi!”

Il silenzio che si era creato era palpabile. Lo Sforza, noto a tutti per la sua scarsa fama da oratore e per il suo essere profondamente schivo e dall'anima mercantile più che diplomatica, aveva appena espresso ad alta voce un pensiero pericolosissimo. Senza forse volerlo, aveva messo letteralmente in piazza un pensiero comune ai signori italiani, ma che non andava per nessun motivo espresso a voce alta: in un certo senso, infatti, aveva messo sullo stesso piano i Borja e i francesi, indicandoli entrambi come alleati e amici poco desiderabili e, come aggravante, l'aveva fatta davanti a decine di persone e al re di Francia stesso.

“Ça suffit!” gridò Luigi XII, sollevando entrambe le mani, i denti digrignati come quelli di un lupo pronto all'assalto: “Arrêtez!”

Fu tale l'impeto con cui il re parlò che sia Giovanni Sforza, sia Francesco Gonzaga – che pure si stava già preparando ad accogliere la sfida lanciata dall'altro – ammutolirono e, con aria di circostanza, rientrarono senza replicare nei loro ranghi, comportandosi come se non fosse successo assolutamente nulla.

“Les Italiens!” sbottò ancora il re di Francia: “Je n'ai assez!” e detto ciò, fece un cenno alle sue guardie e lasciò di gran carriera la piazza.

“Forse – ipotizzò, ancora molto divertito, il Trivulzio, sussurrando all'orecchio di Troilo – e dico forse... Forse il re di Francia deciderà di tornarsene in Francia ben prima del previsto...”

“Me l'auguro.” ribatté l'emiliano, ma ci tenne ad aggiungere: “Ma prima di tornarsene in Francia, deve firmare la liberatoria per il mio accordo matrimoniale con Bianca.”

Ça va sans dire, mio caro amico...” scherzò l'anziano condottiero, dandogli un'energica pacca sulla spalla: “ Ça va sans dire...”

   
 
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