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Autore: andromedashepard    03/06/2022    1 recensioni
"Shepard si vestì controvoglia, indossando la sua uniforme. Non si guardò allo specchio, né si curò che le sue spille fossero in ordine sulla giacca. Aprì un cassetto del comodino ed estrasse un plico di fotografie, sfogliandole attentamente. Sorrise, nel vedere l'immagine di una donna con i capelli rossi sciolti al vento, unita in un abbraccio alla persona che amava. [...] Avrebbe dato qualunque cosa pur di tornare a quel momento, qualunque cosa."
#ME3 #PostCitadelCoup #Shrios
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Comandante Shepard Donna, Thane Krios
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Andromeda Shepard '
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"I left last night
I reached the shore
Trying to find everything I lost
In a thousand waves
A million waves
Still, somewhere I am sure
That I will see your face
I will see you there"
-Elisa, "The Waves"



“Da quanto tempo, EDI?”
La voce ovattata di Tali ruppe l’insopportabile silenzio che si respirava da ormai troppo tempo sul ponte comandi, mitigato solo da alcuni sporadici segnali acustici.
“Diciotto ore”, rispose prontamente l’IA nel suo corpo di metallo, mentre Joker sospirava sommessamente, nell’atto di torcere nervosamente la falda del suo cappello. Tali intrecciò le dita, squilibrandosi di poco dietro il sedile del pilota.
“Che facciamo?”, domandò preoccupata.
Prima che qualcuno potesse rispondere, il suono di pesanti passi metallici si sovrappose brevemente a quello della sua voce. Nessuno si voltò, ma sapevano tutti e tre che si trattava di Garrus.
“Allora?”, domandò il Turian, impaziente.
Tali scosse semplicemente il capo con un’alzata di spalle e il pilota s’irrigidì con nervosismo.
“Qualcuno deve andare a parlarle”, incalzò.
Joker ed EDI si scambiarono uno sguardo perplesso. L’IA avrebbe voluto sapere cosa rispondere, ma niente di ciò che i suoi processi le suggerivano le sembrò appropriato per la situazione. Era un’altra di quelle circostanze sulle quali avrebbe trovato appropriato interrogare Shepard, se solo avesse potuto.
“Tali… te la senti?”, domandò nuovamente Garrus.
“Io non le sarei di aiuto. Non so proprio cosa dirle”, disse, la voce rotta colma di vergogna e dispiacere.
“Dov’è Liara?”, chiese allora il Turian, spazientito.
“La dottoressa T’Soni ha chiesto di non essere disturbata”, rispose EDI.
“Ci ha almeno provato?”
“Si, Garrus. Nelle ultime otto ore se n’è sentita dire di tutti i colori. Si è stancata... E anche io, dannazione”, esclamò Joker con rabbia.
“Kaidan?”
“Vuoi scherzare? Dopo quello che è successo oggi?”, sibilò Tali.
“E va bene, per gli Spiriti. Ci vado io”.
In quello stesso istante si voltarono tutti e tre a guardarlo e lui interruppe qualunque commento sul nascere con un gesto brusco della mano, prima di avviarsi a passo spedito verso la cabina del Comandante.

 

Quante ore erano passate? Tre, forse quattro? Shepard aveva perso la cognizione del tempo da quando si era rifugiata nel suo alloggio, ancora coperta dai residui della battaglia, protetta dalla sua armatura. Seduta in un angolo della cabina, appena a fianco del letto, non faceva altro che rigirarsi le mani a pochi centimetri dal viso. Era il suo sangue, quello di cui erano intrisi i suoi guanti, o era il sangue di qualche bastardo di Cerberus? La testa aveva preso a girarle vorticosamente, e forse ciò era un bene. Cercando di mettere a fuoco l’ambiente circostante, per un attimo riusciva a smettere di pensare. La parte razionale del suo cervello le suggeriva di mangiare qualcosa, aveva consumato troppe energie, aveva abusato eccessivamente dei suoi amplificatori e non aveva ingerito una sola caloria da quando erano attraccati alla Cittadella. Quando era successo, sei ore fa? Forse meno, forse più, non lo sapeva. Le sue labbra, completamente disidratate, reclamavano acqua.
Liara… lei ci aveva provato. O aveva solo immaginato tutto? Il ricordo confuso di lei che la cacciava in malo modo dalla sua cabina affiorò per un attimo alla sua mente, come fosse accaduto secoli prima. Scosse brevemente il capo, respingendo quel pensiero insignificante. Non aveva importanza, nulla aveva più importanza.

 

Garrus giunse fino al portellone della cabina del Comandante, sentendo improvvisamente il coraggio venirgli meno. Non sapeva in che modo comportarsi, se non come avrebbe fatto da soldato a soldato. Quello era l’unico atteggiamento che al momento gli veniva spontaneo, e, in cuor suo, sperava nell’almeno parziale collaborazione di Shepard. Bussò piano sulla superficie metallica, acuendo l’udito. Prevedibilmente, nessuna risposta arrivò dall’altra parte. Riprovò quattro volte di seguito, poi si schiarì la voce e la chiamò. Una, due, tre volte. Niente.
“EDI, concedimi l’accesso”.
L’IA non rispose immediatamente. Avrebbe potuto farlo, sì, ma andava contro i suoi principi. Solo l’ordine diretto ed esasperato di Joker la convinse ad andare contro se stessa, e così si decise a sbloccare il portellone. Diciotto ore di isolamento erano più di quanto tutti potessero sopportare.
Garrus entrò a passo spedito, scendendo le scalette verso la zona notte. Scansò con uno stivale il casco N7 che giaceva in mezzo agli scalini e poi la cercò con lo sguardo. No, non l’aveva mai vista così. E lei neppure si preoccupò di voltarsi verso di lui. Si sarebbe aspettato di tutto, ed in effetti iniziò a chiedersi se da un momento all’altro un globo di energia biotica non l’avrebbe fatto schiantare contro l’acquario.
“Spiriti, Shepard”, esalò d’un tratto, avvicinandosi a quello che sembrava un cadavere adagiato dolcemente sul comodino.
“EDI, chiama la Chakwas”, aggiunse prontamente. Shepard sembrò risvegliarsi a quell’esclamazione e una singola, fulminante, occhiata di lei bastò al Turian per fargli ritirare l’ordine.
“Cosa diavolo vuoi, Vakarian?”, domandò lei in un sospiro stanco.
“Lo sai da quante ore sei rinchiusa qui?”
“Tre, quattro? Non lo so”, si costrinse a rispondere. “Lasciami in pace”.
“Diciotto, Shepard. Diciotto”.
Lei spalancò gli occhi, tanto quanto le sue palpebre gonfie e arrossate glielo consentivano. Non poteva crederci, non poteva essere passato tutto quel tempo, non da quando… No.
“Devi mangiare qualcosa, devi almeno reidratarti”.
“Sei tu che prendi ordini da me, Ufficiale, non il contrario”.
“Non sono venuto da te come tuo sottoposto, Shepard. Sono qui perché sono tuo amico”.
“Se fosse così mi lasceresti in pace”.
“Non ti rendi conto di cosa stai dicendo. C’è un intera nave al tuo comando, bloccata in questa dannata stazione perché nessuno sa cosa fare. Shepard, ci servi lucida”.
Fu allora che lei si lasciò andare ad una grassa risata, così intensa da lasciare il Turian completamente spiazzato.
“Ti nomino Comandante, Garrus Vakarian. Vai e porta questa nave dove cavolo ti pare. Sono sicura che farai un ottimo lavoro”.
“E va bene, ora hai superato il limite”, esclamò il Turian, caricandosela di peso sulle spalle. Lei continuò a ridere senz’alcun ritegno, senza neppure avere la decenza di opporre resistenza. La gola le faceva male di un dolore acuto, la testa pulsava forte contro le orbite, quasi fosse in procinto di esplodere da un momento all’altro. Aveva la febbre probabilmente, ma non le importava.
Garrus la scaricò davanti alla porta del bagno, intimandole di togliersi di dosso l’armatura e darsi una ripulita, ma lei, continuando a ridere, scrollò semplicemente le spalle e si lasciò cadere contro la parete metallica, quasi come se il suo corpo pesasse tonnellate o i suoi muscoli avessero completamente perso tutta la forza.
“Per favore, Shepard”, la pregò Garrus ancora una volta, sospirando sommessamente. “Abbiamo bisogno di te. Non puoi mollare proprio adesso”.
Shepard scosse lentamente il capo. La sua risata isterica svanì lentamente, lasciando spazio al totale vuoto di due occhi stanchi e spenti, che non sapevano di niente.
“C’è solo un numero di morti che puoi sopportare prima che...”, tossì poi, portandosi una mano al petto.
“…prima che il tuo amico Garrus ti prenda per le spalle e ti dica che sei un dannatissimo soldato, Comandante, il più valido che io abbia mai conosciuto. Non farlo per te, se non ci riesci. Fallo per lui”.
Shepard smise di tossire e rabbrividì, sotto la pesante trama della sua tuta protettiva, coperta ancora da quell’armatura così spessa. Gli occhi le bruciavano ancora, ma lei sapeva che non sarebbe riuscita a versare ancora lacrime. Non ne aveva più.
Si prese la testa fra le mani, premendo forte sullo scalpo, come a voler zittire l’improvviso vortice di pensieri e ricordi che aveva appena iniziato a prendere forma. Si morse forte l’interno di una guancia, sentendo il sapore ferroso del sangue bagnarle la lingua. Avrebbe preferito che le amputassero un braccio, una gamba, qualunque cosa pur di non dover sopportare quella terribile ferita al cuore. Quella ferita che, lo sapeva, avrebbe continuato a divorarla dall’interno fino alla fine dei suoi giorni.
“Andiamo, su”, insistette Garrus, tendendole un braccio.
Lei, finalmente, si decise ad afferrarlo e a rimettersi in piedi, barcollando per un attimo prima di ritrovare l’equilibrio. “Diciotto ore…”, mormorò, cercando conferma nello sguardo del Turian, che diede un impercettibile gesto di assenso col capo. “Non so se posso farcela”, aggiunse. “Questa guerra mi sta portando via tutto, mi ha già portato via tutto…”
“Non il tuo orgoglio, Shepard. Non la tua dignità, non i tuoi ideali, non i tuoi amici… Non la speranza”.

 

Non perdere mai la speranza.
Il titolo di quella mail che le aveva ridotto il cuore ad un ammasso di carne morta, che continuava a battere solo perché lei non sapeva come farlo zittire. Aveva tremato, in preda a quello che aveva tutta l’aria di essere un attacco di panico, poi si era decisa ad aprirla e a leggerla, con una mano premuta a forza sulla bocca, che pian piano iniziava a riempirsi di lacrime. Parole che già conosceva, ma che solo adesso erano cariche di significato. Parole che l’avevano distrutta già una volta e che adesso infierivano come una lama arroventata in una ferita aperta.
Perché, perché mi hai lasciata proprio adesso?, aveva urlato in preda alla rabbia, lanciando il datapad contro la parete di fronte. Poi era caduta in ginocchio, e da lì non si era più mossa, continuando a ripetere mentalmente le frasi di quella lettera fino al punto in cui le parole avevano iniziato a sembrarle sbagliate e vuote, fino al punto in cui aveva sentito i suoi muscoli formicolare e poi spegnersi, fino al punto in cui ogni pensiero coerente era stato sostituito dalla pura essenza del dolore.
Lo odiava, lo odiava dal profondo per averle fatto questo. Gli aveva intimato di tenersi alla larga da quella maledetta faccenda, di trovare un rifugio sicuro, di sparire dalla circolazione finchè lei non si fosse liberata del problema… e invece lui aveva deciso di andarsene così, di mettere a repentaglio la propria vita per salvare quella di uno sconosciuto. La sua vita, in cambio di quella di un politico come un altro, e solo perché lui… lui aveva deciso così. Senza consultarla, senza darle l’occasione di venire in suo aiuto, senza permetterle di fare la differenza. Perché l’aveva lasciata in questo modo? Le sembrava tutto così ingiusto, così ingiusto da farle schifo.
E quella lettera non era stata altro che l’ultima goccia. L’ultima crepa prima di sentire il suo cuore sbriciolarsi nella cavità toracica, lasciando solo un enorme vuoto. Fino a quel momento, realizzò, non avrebbe mai immaginato di poter arrivare a provare odio per la persona che amava. Il suo gesto, la sua morte... possibile che non sapesse che l’avrebbero distrutta? Pensava forse che la sua lettera d’addio avrebbe cambiato le cose? Pensava forse che dirle che l’amava e che lei gli aveva dato una ragione per vivere avrebbe lenito il suo dolore? Sciocchezze, tutte sciocchezze.
Si era presa la testa fra le mani e aveva lasciato che le lacrime facessero il loro corso, bruciando sulle ferite ancora aperte. L’immagine di lui, steso su quel letto d’ospedale, era troppo straziante anche solo per poterla ricordare. La sua mano, debole, stretta alla sua, i suoi occhi spenti, quel sorriso forzato con il quale l’aveva lasciata, promettendole qualcosa che, lei sapeva, non era vero. Era tutto tanto, troppo doloroso. Negli ultimi giorni aveva visto palazzi crollare come castelli di carta, civili morire orribilmente, pianeti soccombere alla distruzione più totale, eppure niente l’aveva colpita così forte, talmente tanto forte da farle mancare l’aria.
Si era resa conto di stare soffocando sotto il peso dei suoi stessi singhiozzi, quando inspirò una lunga boccata d’aria e si lasciò cadere sul pavimento, esausta. No, non poteva odiarlo, non avrebbe mai potuto. Lei lo amava, lo avrebbe amato per sempre. E avrebbe vissuto per rincontrarlo, di nuovo. In una vita nella quale voleva credere, nella quale ora doveva credere.

 

L’appartamento sulla Silversun Strip era avvolto nella penombra. Shepard riusciva a distinguere appena i contorni morbidi del pianoforte, un’inutile pezzo d’antiquariato da sfoggiare alle cene di famiglia. Non la sua, di famiglia, lei non l’avrebbe mai avuta.
Si orientò nell’oscurità fino a raggiungere le scale, seguendo la lucina rossa dell’allarme antifurto, poi si chiuse in camera e si gettò sul letto, coprendosi il volto con le mani. Non era pronta per quel giorno, eppure l’avrebbe fatto. Perché era giusto così, perché glielo doveva, perché era giunto il momento in cui il suo dolore doveva passare in secondo piano.
Quella mattina aveva fatto una fatica incredibile a ricacciare indietro le lacrime, mentre lei e Kolyat cercavano di trovare un argomento meno doloroso di cui parlare, davanti a due tazze di caffè ormai freddo. Avevano evitato l’argomento fino alla fine, poi si erano lasciati con la promessa che gli avrebbero detto addio quella sera stessa. Lei era tornata in auto, asciugandosi il volto, lui era tornato a lavoro, camminando velocemente con le mani in tasca, strette in un pugno. Erano lontani i tempi in cui si fermavano a condividere un pasto fugace a quel piccolo ristorante all’Huerta, dove sembrava che i cibi non avessero sapore. Eppure, in quei momenti, entrambi avevano trovato qualcosa di cui sorridere, a tratti scambiandosi dei ricordi, a tratti prendendo in giro l’oggetto più frequente delle loro conversazioni. Ora, il dolore metteva a tacere tutto il resto, permeando le loro vite come un rumore sordo, in grado di appiattire ogni cosa.

 

Shepard si vestì controvoglia, indossando la sua uniforme. Non si guardò allo specchio, né si curò che le sue spille fossero in ordine sulla giacca. Aprì un cassetto del comodino ed estrasse un plico di fotografie, sfogliandole attentamente. Sorrise, nel vedere l'immagine di una donna con i capelli rossi sciolti al vento, unita in un abbraccio alla persona che amava. Non le sembrava neppure possibile che quella fosse lei, quella donna sorridente, dagli occhi luminosi, rivolti verso di lui. Dietro di loro il mare, e un cielo troppo azzurro per sembrare persino reale. Avrebbe dato qualunque cosa pur di tornare a quel momento, qualunque cosa.
La foto che scelse, alla fine, le portò alla memoria uno dei ricordi più belli che aveva di lui. Una mattinata tranquilla che aveva il sapore della speranza. Due mani strette intorno alle sue, un sorriso ampio, sincero, le sue parole che con dolcezza l’avevano portata in un’altra dimensione, lontana dalla guerra. Lei aveva parlato poco quel giorno, limitandosi ad ascoltarlo, a rivivere con lui i momenti che li avevano resi insieme le persone che erano adesso. Aveva percepito chiaramente la sua felicità nel perdersi in quei ricordi, ed era stata felice allo stesso modo. Si era rivista nelle parole di un altro, si era riscoperta sotto un’altra ottica, proprio nel momento in cui aveva sentito di averne maggiore bisogno, e lui le aveva dato esattamente questo. Una speranza, un attimo di gioia, di pura serenità, attraverso cui poter dimenticare tutto il resto. Un momento che lei aveva deciso di immortalare, perché da tanto non le capitava di vederlo così in pace con se stesso, con l’intero Universo.
Prese la fotografia e la inserì in una cornice, prima di andare a sistemarla su quel pianoforte, accanto a un mazzo di fiori. Si avvicinò ad inspirare il loro profumo, lasciando le impronte sulla superficie nera e lucida, di quell’antico strumento musicale. Poi si allontanò, quasi facesse troppo male. Non era pronta, ma l’avrebbe fatto.

 

Suonarono al campanello prima che lei potesse decidere di farsi sopraffare nuovamente dal dolore, e lei andò ad aprire, trovando Liara con un paio di ingrombranti vassoi sulle braccia e il fidato Glifo a volteggiare placidamente accanto a lei.
“Ann”, sorrise l’Asari, facendo come per passare.
“Salve, Comandante Shepard”, squittì Glifo, strappandole un minuscolo sorriso.
“Accomodatevi”, disse lei, indicando a Liara il tavolo su cui poggiare il cibo per il rinfresco. “Grazie per averci pensato tu…”
“Non ringraziarmi, è davvero il minimo”, rispose lei, liberandosi dall’ingombro. “Come stai?”, domandò l’Asari, prima di pentirsene l’attimo dopo. “No, lascia stare”, aggiunse, alzando appena una mano.
“Tranquilla, non mordo”, sorrise Shepard. “E non preoccuparti per me”.
“Ci conosciamo da troppo tempo per potermi chiedere una cosa come questa”, rispose lei, avvicinandola.
Shepard le rivolse un’occhiata colma di gratitudine e diede un’occhiata all’orologio. Poche volte si era sentita così in ansia, voleva semplicemente che tutto finisse il più presto possibile.
“Vieni, beviamo qualcosa”, la esortò l’Asari, recandosi in cucina.
Aprirono una bottiglia di vino e ne versarono un po’ in due bicchieri, appoggiandosi entrambe al bancone. Poi Liara parlò di nuovo, porgendole uno dei calici.
“Lo sai che non devi sentirti obbligata, Ann…”
Il Comandante scosse la testa, determinata. “E’ l’unica cosa che mi resta da fare, per lui”.
“Lo sai meglio di me che stai facendo qualcosa di molto più importante… non solo per lui, ma per tutti noi, per l’intera Galassia”.
“Questo non me lo restituirà indietro”.
“Un giorno il dolore svanirà, Ann. Non totalmente, certo, ma arriverà il momento in cui i ricordi di Thane ti procureranno anche gioia, oltre che sofferenza”.
Shepard si voltò dall’altra parte, quasi rifiutandosi di crederle, provando angoscia solo a sentire il suo nome. Aveva perso così tante persone nella sua vita, aveva visto così tante morti, ma quello che era successo adesso andava contro la più terribile delle aspettative. Non poteva accettare il modo in cui se n’era andato, non ci riusciva, non ancora.
“Una parte di me si augura di non esserci più, per quel momento”.
Liara sgranò gli occhi, sorpresa e allo stesso tempo sconcertata. Si stava forse augurando di morire? Lei, che non aveva neppure vissuto la metà della sua brevissima vita da Umana?
“Lascia perdere, dimentica quello che ho detto…”
Liara si morse un labbro, ricordando di averla vista così abbattuta solo durante i mesi della sua incarcerazione, quando aveva avuto paura di averlo perso, quando si era sentita troppo impotente di fronte a qualcosa immesamente più grande di lei. E, a qualche mese di distanza, la ritrovava persa negli stessi sentimenti, moltiplicati all’infinito. Non si sentì più così sorpresa di quell’affermazione, chiunque sarebbe crollato al posto suo, eppure lei era ancora lì, con una luce particolare ad illuminare i suoi occhi, qualcosa che decretava ancora la sua voglia di vivere, nonostante affermasse il contrario.
“Ti ricordi quando mi hai chiesto per cosa lo facevo, quali erano i motivi che mi spingevano a gettarmi in una missione suicida?”
Liara annuì, improvvisamente intimorita per la risposta che avrebbe ricevuto adesso.
“Credo di non saperlo più. L’unica cosa che riesco a concepire, adesso, è la vendetta. Non sarò in pace con me stessa fin quando non vedrò quel maledetto… quell’ignobile, inutile, bastardo, morire ai miei piedi”.
L’Asari comprese chi fosse l’oggetto di tanto odio, e come avrebbe potuto non capirla? Lei c’era stata quando Kai Leng aveva cercato di toglierle di mezzo su Thessia, c’era stata quando aveva visto Shepard precipitare di fronte ai suoi occhi, c’era stata quando aveva sentito le parole sprezzanti di quell’assassino, e dovette trattenersi per non esplodere in quel preciso istante, al pensiero di ciò che Cerberus aveva fatto alla sua gente, in aggiunta ai Razziatori. Al pensiero di ciò che Cerberus aveva fatto alla sua amica, dopo averla salvata grazie al suo aiuto. Le aveva dato tutto, le aveva dato la vita, le aveva dato un equipaggio, le aveva dato uno scopo per tornare a vivere e se l’era ripreso. No, non avrebbe mai potuto biasimarla.
“Combatterò al tuo fianco finchè non li elimineremo tutti, ad uno ad uno”, disse, determinata. “E Leng sarà in cima alla lista delle priorità”.
Shepard curvò appena le labbra in quello che doveva essere un sorriso rassegnato, più simile a una smorfia, e poggiò brevemente una mano sul suo braccio, rendendosi improvvisamente conto che senza di lei sarebbe stato tutto molto più difficile.
“Grazie, per esserci”, disse.
Liara sorrise di rimando, coprendo la mano di Shepard con la sua, appoggiando il capo sulla sua spalla.
“Potrai sempre contare su di me”.

 

Pochi osavano guardarla davvero negli occhi, mentre lei si affaccendava in quella casa troppo grande e troppo sfarzosa, cercando di far sentire tutti a loro agio a discapito del suo personale e profondo disagio. Era così difficile avere a che fare con la gente in una situazione come quella, dove lei non era più il Comandante di nessuno, era solo una donna che aveva perso l’uomo che ama e che, tuttavia, deve dimostrarsi forte, più forte di tutti. Ne aveva abbastanza di quelle vuote parole di conforto, di quelle mani che stringono timidamente le sue, di quelle labbra che pronunciano stentati “mi dispiace” curvandosi verso il basso, quasi il dolore avesse toccato anche loro con la stessa intensità.
Eppure andava fatto. Era un altro di quei sacrifici che doveva portare a termine. Si avvicinò a Kolyat con fare apprensivo, passando leggermente una mano sulla sua schiena, un gesto quasi materno, ma poco invasivo che ebbe comunque l’effetto di farlo irrigidire.
“Comandante…”
“Non è necessario che tu dica nulla, Kolyat”.
“Non so se riuscirò a… non so se posso farcela. Ho paura di cadere in un ricordo”.
Shepard annuì, lottando contro l’impulso di voltarsi e stringerlo in un abbraccio, solo perché non voleva essere invadente. Aveva passato così tanto tempo chiusa nel suo dolore da non realizzare quanto quel giorno sarebbe stato difficile per quel ragazzo ancora così giovane. Eppure nel suo sguardo fiero, nella sua compostezza, riusciva chiaramente a vedere suo padre.
“Ci penserò io”.

 

Approfittò di un momento di relativo silenzio per richiamare l’attenzione di tutti, inciampando sulle parole mentre tentava di mettere in piedi un discorso sul quale non si era mai preparata. Cercare di descrivere ciò che Thane aveva significato per lei nello spazio di pochi minuti era un’impresa impossibile. Come spiegare l’impatto che lui aveva avuto sulla sua vita? Come spiegare l’emozione che aveva provato la prima volta che aveva abbattuto le sue difese per lasciarsi andare a un sentimento incomprensibile, eppure devastante nella sua bellezza? Come spiegare gli attimi di felicità che avevano condiviso e che sarebbero rimasti per sempre fra di loro, come fossero segreti da custodire per l’eternità?
Si limitò ad esaltare il suo sacrificio, benchè l’avesse odiato per questo, ammirando come avesse scelto di andarsene non prima di aver compiuto un’ultima buona azione, un gesto che per la Galassia aveva significato molto più di quanto si potesse immaginare. Nel dire quelle parole, aveva colto l’assenso impercettibile della Dalatrass che aveva a tutti i costi voluto essere presente, e invece di provare rabbia, per la prima volta, sentì qualcosa di simile all’orgoglio accarezzarle il cuore. E poi, con la voce che le si spezzava in gola, sottolineò quanto quel gesto, adesso, le avesse ricordato il motivo per cui si era innamorata di lui, il motivo per cui lo sarebbe stata in eterno. Liara versò una lacrima, Kolyat strinse i pugni nel tentativo di scacciare le sue, di lacrime. E poi fu il turno dei suoi compagni di parlare. Ognuno, inaspettatamente, trovò qualcosa di profondamente significativo da dire, ognuno riuscì a cogliere uno dei tanti aspetti di Thane che lei amava, finchè la parola non toccò a Kolyat e in quel momento, lei si mise da parte e si lasciò andare ad un pianto silenzioso e composto, qualcosa che aveva cercato di reprimere sin dall’inizio, ma che sapeva sarebbe arrivato. E non provò alcuna vergogna, perché se c’era una cosa che adesso le spettava di diritto, era quella di piangere davanti al suo ricordo.

 

Come ogni evento a lungo atteso e temuto, anche quello passò in fretta. Tutta l’ansia accumulata nei giorni, nelle ore precedenti, evaporò di colpo, lasciando Shepard svuotata ed esausta. In giro per casa c’erano solo i residui di quel pomeriggio: briciole e avanzi sui vassoi, mazzi di fiori nei vasi, cuscini ammucchiati in un angolo del divano che avevano fatto spazio ai suoi compagni di avventure. L’unico che ancora si attardava a lasciare l’appartamento era Kolyat, essendosi offerto di aiutarla a ripulire.
“Quando la situazione si sarà calmata, mia zia verrà a prendermi e insieme lo porteremo su Kajhe”, spiegò, mentre passava uno straccio umido sulla superficie del pianoforte, dove prima c’era stata la cornice che ospitava la foto di suo padre. “Lui avrebbe voluto così. Raggiungerà il mare secondo il rito antico. Ti farò sapere la data, Comandante”.
Nel rispondergli, Shepard sentì il cuore frantumarsi in tanti, minuscoli pezzi. “Non so se potrò esserci. Questa guerra…”
“Lo so, non devi giustificarti con me. E sono sicuro che mio padre, se potesse sentirci in questo momento, ti direbbe di pensare solo a portare a termine la tua missione, Comandante”.
Shepard abbozzò un sorriso, sapendo perfettamente che in una situazione simile lui le avrebbe preso il viso tra le mani e le avrebbe sussurrato di pensare solo a combattere, ora più che mai.
Poi Kolyat si fece improvvisamente teso, più del solito.
“Ci sarebbe… c’è ancora qualcosa che dovrei darti. Ho trovato questo fra le cose di mio padre”, disse, avvicinandosi a lei con un piccolo oggetto in mano. “Credo abbia registrato dei video per te, durante la sua permanenza all’Huerta”.
Shepard deglutì, allungando appena la mano per accogliere qualcosa che, lo sapeva, le avrebbe dilaniato gli ultimi brandelli di cuore. L’ansia s’impadronì nuovamente di lei, e la paura di rivivere ancora il dolore le fece desiderare per un momento di non aver mai ricevuto niente del genere. Ma solo per un istante.
“Grazie Kolyat”, si costrinse a rispondere.
Il Drell si limitò a chinare brevemente il capo, prima di iniziare a torcersi le mani in preda al nervosismo. Il silenzio era diventato insopportabile. “Credo che adesso farei meglio ad andare, Comandante”.
“Fammi un favore però”, disse lei, sforzandosi di sorridere, “smettila di chiamarmi Comandante. Shepard andrà più che bene”.
“Va bene… Shepard”.
“E sappi che puoi rivolgerti a me per qualunque cosa. Non posso garantire nulla sulla qualità delle comunicazioni a bordo della Normandy, ma tu non esitare”.
“Non lo farò”.
Si salutarono con un sorriso colmo di tristezza, poi ognuno di loro venne risucchiato di nuovo dal vuoto della solitudine e della mancanza.

 

Due ore e un quarto fu il tempo di cui ebbe effettivamente bisogno per decidersi a premere “play”. La schiena appoggiata sul bordo del letto, le gambe incrociate sul pavimento e gli occhi rivolti al maxischermo di fronte a lei, dove l’immagine sfocata di Thane era fissa in un fotogramma. Quando finalmente si decise ad avviare la riproduzione aveva il cuore che le martellava nel petto come fosse stata reduce da una maratona. Sentire di nuovo la sua voce così chiara e nitida le fece venire la pelle d’oca. Lui era sorridente, sereno, nel raccontarle delle sue giornate, nel raccontarle dei progressi che faceva Kolyat a lavoro, nel sottolineare ad ogni occasione che era finalmente in pace con sé stesso. Quando iniziò a parlare di lei, di loro, di ciò che il loro rapporto aveva significato per lui, lei non riuscì più a trattenere le lacrime. Ne aveva versate tante in quei giorni, fino a credere di non averne più, ma evidentemente si sbagliava. Sentirsi dire che la amava, che lei per lui aveva significato tutto e che grazie a lei aveva ritrovato la voglia di vivere, e poi scontrarsi a forza con una realtà così diversa era troppo doloroso anche a distanza di giorni, anche in mezzo ad una guerra che mette tutto in prospettiva.
Shepard si passò una mano sugli occhi, stropicciando le palpebre umide, poi premette di nuovo play. Una, due, tre volte. Ogni volta si accorgeva di un dettaglio che la volta precedente aveva tralasciato, di una frase o di una parola che magari non gli aveva mai sentito pronunciare e le sembrava adesso così preziosa. Quando finalmente si sentì esausta, puntò i talloni sul pavimento e si diede uno slancio per alzarsi, spegnendo il maxischermo.
Andò in bagno e si sciacquò il viso senza avere il coraggio di guardarsi allo specchio. Evitò il suo riflesso accuratamente, anche mentre si asciugava. Poi si diresse verso la cabina armadio, tirando fuori un indumento che fino ad allora non aveva ancora avuto il coraggio di riesumare: la sua giacca, quella che più volte già in passato aveva indossato anche solo per gioco, tra una chiacchiera e un’altra, sul letto della sua cabina a bordo della Normandy prima di Omega 4. La prese fra le mani e ci tuffò il viso dentro, inspirando a fondo e ricacciando con forza le lacrime. Poi la indossò e si rannicchiò dentro le coperte del suo letto disfatto ormai da settimane. “Spegni le luci”, disse appena, e tutte le apparecchiature elettroniche dell’appartamento andarono in stand-by dopo una transizione di qualche secondo. Nel buio e nel silenzio della sua stanza l’unica cosa sulla quale riuscì a concentrarsi era l’odore della giacca che aveva indosso, così inconfondibilmente unico che se non fosse stata oltremodo conscia della sua assenza, avrebbe potuto giurare che Thane era esattamente al suo fianco. Non riuscì a fermare una lacrima, mentre ripensava alle parole gentili e dolci che lui le aveva dedicato durante le sue registrazioni, però stavolta quella lacrima fu accompagnata da un sorriso, perché finalmente era arrivata ad una preziosa consapevolezza. Si concretizzò, quella consapevolezza, nelle parole che, sottovoce, lasciarono le sue labbra un momento prima di addormentarsi: aspettami.








 
Prima di stasera questa one-shot giaceva nella mia cartella delle bozze con il nome di "qualcosa di altamente deprimente.doc" ed effettivamente il titolo calzava a pennello. E niente, dico solo povera Ann, le voglio tanto bene, ma anche tanto male. Abbracci sparsi.
 
   
 
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