Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Non Molto    03/06/2022    0 recensioni
"Ed è così che la magia tra noi si è pian piano logorata, fino a sparire: prima tu per me eri l’eroe, il soldato più forte dell’umanità che mi amava in segreto, e io ero una fanciulla qualunque, ma col privilegio di maneggiare quel tuo lato sensibile che ti ostinavi a non mostrare a nessuno; poi però sono cresciuta, e ho iniziato a vederti come un uomo fragile e troppo codardo per amarmi alla luce del sole".
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Gabi Braun, Levi Ackerman, Petra Ral
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Prologo

 

Hariwin, capoluogo dei Territori Settentrionali del Regno di Paradis

Quindici anni dopo la “Battaglia tra Cielo e Terra”

 

Una ragazza tra i venticinque e i trent’anni entrò a passo marziale in un ampio salone spoglio, sbattendo con energia i piedi a terra. Teneva i lunghi capelli color del vino legati nella coda più disordinata che Levi Ackerman avesse mai visto. L’uomo, ormai sulla cinquantina, sedeva pacificamente sulla propria sedia a rotelle, ch’era stata posizionata più o meno al centro di quel salone le cui vetrate offrivano una meravigliosa visuale sulla città industrializzata di Hariwin. L’ex capitano del Corpo di Ricerca alzò pigramente gli occhi dal giornale che stava leggendo, e squadrò la ragazza mentre quest’ultima gli si posizionava sgraziatamente davanti, tenendo le mani sui fianchi. «Allora, come sto?!» esalò Gabi Braun, col fiatone.

La giovane indossava un ingombrante e vaporoso abito da sposa bianco che, nonostante la sua notevole altezza, le arrivava ai piedi strascicando per terra. «Sì, be’, ora non ho le scarpe» puntualizzò dunque la ragazza. «Quando le avrò messe il vestito mi arriverà giusto».

Levi le lanciò un’altra rapida occhiata. Proprio non gli piaceva quell’abito, ma era sicuro che Hanji l’avrebbe adorato. Gabi lo fissava con i grandi occhi color nocciola sgranati in attesa di una risposta, in un modo che gli ricordava tanto Eren a quindici anni. L’uomo fece schioccare la lingua contro al palato. «Stai per sposarti, non per partecipare a una parata militare» commentò poi. «Cammina in maniera più rilassata, altrimenti mentre attraverserai la navata gli ospiti penseranno che i giganti sono tornati e scapperanno a gambe levate».

La ragazza roteò gli occhi al cielo, e si diresse con la medesima energia davanti a un ampio specchio posizionato lì vicino, borbottando: «ma cosa lo chiedo a te, che sei pure cieco da un occhio». Gabi esaminò il proprio riflesso per qualche istante. «Mi si vede la pancia?» domandò poi.

«Mh, non saprei» le rispose Levi, che aveva abbassato nuovamente lo sguardo sulla pagina di giornale. «Sei tu che ci vedi da entrambi gli occhi, mica io».

La giovane si voltò verso di lui, arrendevole. «E va bene, mi dispiace. Ora possiamo fare tregua per un attimo, per favore? Ho davvero bisogno di sapere se si nota che ho una pagnotta nel forno».

L’uomo sollevò lo sguardo su di lei, alzando un sopracciglio. «”Pagnotta”? Un nome singolare per il piccolo o la piccola Grice, devo dire».

«Ma quale Grice e Grice» bofonchiò Gabi, che si era girata nuovamente verso lo specchio per controllare se l’arrossamento che aveva scorto sul proprio viso fosse un brufolo oppure no. «Prenderà il mio cognome, fanculo il patriarcato. Anche tu hai preso il cognome di tua madre, se non ricordo male».

«È così» confermò Levi. «Comunque no, non ti si vede la pancia», e tornò a leggere la pagina di giornale.

«Menomale», sospirò sollevata Gabi, che era passata a cercare di sistemarsi con le dita il nido di rondini che aveva in testa. «L’ultima cosa che voglio è che i miei genitori mi guardino mentre sono sull’altare e pensino al fatto che ho scopato».

«Ecco», l’uomo si schiarì la voce, «questo avrei decisamente preferito non sentirlo».

La ragazza voltò il capo verso di lui. «Tu hai mai fatto sesso, Levi?» gli domandò candidamente, come se non conoscesse Levi Ackerman e non sapesse che lui tendeva a non parlare di certi argomenti.

L’ex capitano del Corpo di Ricerca aggrottò infatti le sopracciglia, senza alzare lo sguardo dal giornale. «E io dovrei rispondere a questa domanda perché?» le rispose, sarcasticamente perplesso.

Gabi tornò a occuparsi della propria acconciatura. «E dài, sono curiosa».

Levi sospirò, arrendevole. «Chi si fa gli affari suoi campa cent’anni, lo sapevi?» bofonchiò poi, alzandosi lentamente dalla sedia a rotelle. Non appena lo notò, Gabi accorse per sorreggerlo. «Dài, mettiti seduta e dammi un pettine, che provo a sistemarti i capelli» borbottò lui. «Non che io ci sappia fare chissà quanto, ma almeno non sembrerai una scappata di casa pure nel giorno delle tue nozze».

La ragazza annuì e obbedì in silenzio: dopo essersi accertata che l’uomo fosse in grado di stare in equilibrio da solo gli consegnò un pettine e piazzò una sedia davanti a lui, su cui poi si accomodò. «Ti fanno male le gambe? Se non ce la fai a stare in piedi dimmelo eh, non fare l’eroe».

Levi mugugnò un verso di rassicurazione in risposta, mentre tentava di scioglierle i capelli senza strapparglieli.

«Quindi?» Gabi tornò all’attacco, dopo qualche attimo di silenzio. «Dimmi almeno se hai avuto solo esperienze con le donne».

«Perché dai per scontato che abbia avuto sicuramente esperienze con le donne? Magari neanche mi piacciono» rispose lui.

«Non ti piacciono?» domandò Gabi.

«Mi piacciono» mugugnò lui. «È solo sbagliato darlo per scontato».

«E dài, non tergiversare e rispondi. Ahia, Levi!».

«Se ti rispondo poi la pianti di rompermi?».

«Be’, se la smetti di tirarmi i capelli sì» rispose Gabi, stizzita.

«E va bene» sospirò l’uomo, arrendevole. «Ho avuto esperienze sia con le donne che con gli uomini».

«Aha!» esclamò Gabi, assestandogli delicatamente una giocosa manata sulla gamba. «Lo sapevo! Te la sei goduta eh, capitano?! E sei riuscito a fare sesso con tutte le persone con cui avresti voluto farlo?».

Levi sbuffò. «Be’, no».

Gabi esalò un verso di sorpresa esagerato, sicuramente per prenderlo in giro. «E con chi è che non sei riuscito ad andare a segno?! Uomo o donna?».

«Uomo» rispose lui. «Ora smettila di fare la scema, o ti concerò i capelli ancora peggio di prima».

«E dài, scusa» rise lei. «Concedimi solo un’ultima domanda, come regalo di nozze».

L’ex capitano del Corpo di Ricerca sbuffò di nuovo. «Che sia una, però».

Gabi sogghignò. «Tu sei mai stato innamorato, Levi?».

L’uomo sorrise appena. «Sì, credo proprio di esserlo stato. Una volta sola, però».

 

 

All Too Well (Petra’s Version)

 

Ti eri deciso a portarmi fuori a cena dopo ben due mesi di occhiate fugaci e baci clandestini, questi ultimi scambiati nel buio e nel silenzio dei corridoi sotterranei della caserma. 

Io diciannove anni, tu sui trenta; più o meno quindici, gli anni che ci separavano. Ho sempre capito la tua preferenza a nascondere la nostra storia: io ero una ragazzina e tu un uomo adulto, tu eri il mio superiore e io una tua sottoposta. Mio padre ti aveva sempre apprezzato, ma se avesse saputo la tua vera età (durante i miei racconti mentivo, ringiovanendoti di almeno cinque anni) non ti nascondo che, probabilmente, mi avrebbe strangolata. Fortunatamente però, i tuoi lineamenti delicati rendevano le mie bugie più che credibili, e da parte mia non c’erano problemi. 

Ed era lì che entravi in scena tu, tirando in ballo Erwin. E se ci avesse scoperti? E se ti avesse rimosso dal tuo incarico? E se avesse perduto fiducia in te? Guai separarti da Erwin e lo capisco, è una cosa che ho sempre apprezzato in te, la lealtà verso il nostro comandante (a dirla tutta, la parola corretta da usare sarebbe “devozione”). È solo che… non credo proprio che Erwin ti avrebbe rimosso dal tuo incarico se avesse saputo di noi, men che meno avrebbe perduto fiducia in te. Anzi, come ti dicevo allora e come sostengo tutt’oggi, semplicemente ci avrebbe capiti e avrebbe addirittura accettato il nostro legame, in un modo o nell’altro. 

Però io ti capivo e tutt’ora ti capisco, è da quando ti conosco che provo a capirti e voglio illudermi di aver fatto qualche passo in avanti. Eppure la tua continua scelta di nascondermi, di nasconderci, mi frantumava il cuore ogni volta, senza alcuna pietà. Però ho apprezzato quella volta in cui mi hai portata fuori a cena. Hai oltrepassato il tuo essere chiuso e schivo, il rischio di perdere il tuo incarico e addirittura quello di perdere la fiducia di Erwin, solo per dimostrarmi che per te ero importante. Certo, siamo semplicemente andati a cena fuori, non è che mi hai chiesto di sposarti. Per me però era già qualcosa. 

Immaginati dunque lo stupore e la gioia che ho provato quando quel giorno d’inverno, in cui stavamo tornando alla caserma dopo aver fatto rifornimento di prodotti per la pulizia, mi hai detto: «Hanji si è presa alcuni giorni di riposo e abita qui in zona, che ne dici di andare a trovarla?». Io non ho potuto evitare di farmi cadere dalle braccia i suppellettili che stavo reggendo, tanta era la sorpresa. Portarmi a casa di Hanji? In un contesto che non aveva niente a che vedere con la vita militare? Confermandole dunque che sì, tra il burbero (e vecchio) capitano Levi e la gentile (e giovane) Petra, sua sottoposta, c’era qualcosa? Tu mi fissavi con la tua solita aria apatica, perciò mi sono affrettata a raccattare quanto avevo appena lasciato cadere e ad accettare la tua proposta.

«Oh, ma tu guarda chi si vede!» aveva sogghignato Hanji quando ci aveva visti sull’uscio. Tu eri entrato prima di me, accertandoti però che io ti fossi ben vicino. Ecco, quella è stata la prima volta in cui ti ho sentito accogliermi nel tuo mondo: mi ci hai accompagnata con cautela, facendomi inizialmente credere che si trattasse solo di una casa un po’ spoglia e di una caposquadra un po’ folle, ma si trattava di molto, molto di più. 

L’aria era fredda. Dopo aver buttato un’occhiata al camino avevo infatti notato che era spento, nonostante fosse inverno inoltrato; Hanji è sempre stata una persona calorosa, al contrario di me. Nonostante il gelo però, mi sentivo… a casa. Mi sentivo a mio agio e protetta. Tu non me l’hai mai detto, ma io so che per te Hanji è come una sorella. E so anche che farmi entrare in casa sua è stato il tuo modo di concedermi un primo assaggio del tuo lato più intimo, quello che proteggi agli occhi di chiunque e che, sinceramente, credevo che neanche a me avresti mai rivelato. 

Quel giorno portavo una sciarpa di lana color verde bosco, che avevo trovato tra i rifornimenti. Era di pessima fattura e mi pizzicava da morire il collo, ma mi ostinavo a portarla sia perché avevo freddo, sia perché volevo anch’io portare qualcosa al collo, proprio come facevi e fai tuttora tu.

«Accendi il camino, quattrocchi» le avevi ordinato, perentorio. «Io preparo il tè», e ti eri avviato in cucina, come se quella fosse stata casa tua. Hanji mi aveva guardata ridacchiando, e aveva alzato le spalle. Io le avevo sorriso in risposta, ed ero accorsa ad aiutarla con la legna. C’era un tavolo rotondo davanti al camino, e la caposquadra era andata a prendere una sedia in più dalla sua camera da letto affinché tutti e tre potessimo sederci. Poi sei uscito tu dalla cucina, reggendo un vassoio con tre tazze, una teiera e un piattino con dei biscotti.

Una volta scaldatami, sia grazie al camino che alla bevanda calda, mi ero tolta la sciarpa e l’avevo appoggiata su qualche sgabello lì accanto. Dopo esserci seduti tutti e tre al tavolo, Hanji aveva iniziato a farmi moltissime domande sulla mia vita prima dell’arruolamento, raccontandomi a sua volta dei primi mesi in cui era entrata nel Corpo di Ricerca. 

Riscaldati, con la pancia piena e dopo qualche sana risata abbiamo lasciato la casa di Hanji, e prima che lei chiudesse la porta tu mi hai presa per mano, e hai camminato mano nella mano con me fin quando abbiamo raggiunto il viale principale, più affollato. Lì naturalmente mi hai lasciato la mano, nell’ennesimo tentativo di nascondere il nostro legame agli occhi dei passanti. Io però, ero comunque al settimo cielo. Camminavo a dieci centimetri da terra: avevamo passato del tempo con Hanji nonostante l’informalità del contesto, e tu mi avevi addirittura presa per mano davanti a lei! 

Qualche giorno dopo mi hai detto: «hai dimenticato la sciarpa a casa di Hanji. Appena me la porta te la ridò», ma non l’ho mai più avuta indietro. Così una sera, abbracciata a te sul tuo letto e con solo la luce lunare a illuminare il profilo del tuo volto, ti avevo domandato: «Hanji ti ha più ridato la mia sciarpa?». Tu avevi annuito con esitazione, schiarendoti la voce. «Ce l’ho nel cassetto. Se ne hai bisogno, te la ridò subito» avevi mormorato poi. «Vorresti tenerla tu?» avevo azzardato allora io, mossa da chissà quale coraggio. Inutile dire che mi sono intenerita all’inverosimile quando ti ho visto abbassare lo sguardo e arrossire, e infine mormorare: «sì, se per te non è un problema». Ti sarei saltata al collo dalla gioia in quel momento, ma sapevo che non amavi le smancerie troppo irruenti, così mi sono limitata a risponderti: «no, non è un problema. Tienila pure».

Lasciarti andare non è stato affatto facile, Levi. Quando ti ho conosciuto, io ero una ragazzina che sognava di diventare uno dei soldati più forti, esperti e stimati dell’intero Corpo di Ricerca e tu già lo eri, perciò non è stato affatto difficile per me arrivare a idealizzarti come una vera e propria divinità. Eri il mio maestro, il mio idolo, eri la persona che miravo a diventare. Perciò mi è venuto naturale innamorarmi di te, e anche perché, devo ammetterlo, il gusto del proibito che suggeriva l’idea di una nostra possibile relazione amorosa mi sembrava irresistibile già da lontano. 

E dunque mi sono innamorata di te, e ti ho idealizzato ancora più di quanto avessi fatto precedentemente. Perciò, quando mi mostravi anche un minimo spiraglio di dolcezza, come portarmi una tazza di tè caldo a letto o lasciarmi un fiore sul cuscino prima di uscire la mattina presto, mi apparivi come l’uomo più dedicato che avrei mai potuto avere, la fortuna più grande che mi sarebbe mai potuta capitare, neanche avessi sollevato le Mura a mani nude per farmici passare sotto. In quei momenti mi dimenticavo di quanto il mio cuore sanguinasse quando ti vedevo mettere in atto tutti quei sotterfugi per far sì che nessuno scoprisse ciò che c’era tra noi. Certo, come ti ho già detto all’inizio, era eccitante essere la giovane e innocente recluta che l’invincibile e misterioso capitano Levi si portava a letto all’insaputa di tutti, ma col tempo questa storia ha iniziato a starmi stretta.

Ed è così che la magia tra noi si è pian piano logorata, fino a sparire: prima tu per me eri l’eroe, il soldato più forte dell’umanità che mi amava in segreto, e io ero una fanciulla qualunque, ma col privilegio di maneggiare quel tuo lato sensibile che ti ostinavi a non mostrare a nessuno; poi però sono cresciuta, e ho iniziato a vederti come un uomo fragile e troppo codardo per amarmi alla luce del sole. Certo, non avrei mai preteso di entrare con te in sala mensa mano nella mano, né che mi baciassi durante gli allenamenti, ma avrei voluto che tu trovassi il coraggio di non trattarmi come una totale sconosciuta quand’eravamo fuori dalla tua camera da letto, o di dire ad Erwin e al resto dei nostri commilitoni come stavano davvero le cose. 

A dirla tutta, neanche con me eri completamente sincero. Anzi, sicuramente non lo eri neanche con te stesso. Quando riuscivamo a ritagliarci dei momenti solo nostri, quasi sempre nel segreto della notte, il mio cuore accelerava e pensavo: “ora ammetterà di essersi innamorato di me”, ma tu non lo facevi mai. Non hai mai avuto il coraggio di chiamare col suo vero nome il sentimento che c’era tra noi: amore.

E sebbene io sia sopravvissuta alla nostra separazione, sappi che non sto affatto bene. Certo, sono perfettamente consapevole che ormai non c’era più niente da fare, ma il problema sono i ricordi. È passato tanto tempo, eppure non vogliono saperne di sparire, anzi, si ripresentano in continuazione come coltellate. 

C’eravamo io e te, soli. Ci trovavamo oltre il Wall Rose, e attraversavamo le strade di un piccolo villaggio di montagna, abbandonato dopo la caduta del Wall Maria. Non ricordo per quale motivo fossimo lì, ma ho ben in mente che era autunno, perché le foglie colorate cadevano dagli alberi e scricchiolavano sotto gli zoccoli dei nostri cavalli. 

Era una delle mie prime volte fuori dalle Mura ed ero terrorizzata, tenevo gli occhi spalancati alla ricerca di un qualsiasi segnale di pericolo. Così, per tranquillizzarmi, tu hai iniziato a canticchiare a bocca chiusa un motivetto che non conoscevo, e io ho provato a seguirti, naturalmente sbagliando. Allora avevo iniziato a cantare la mia, di melodia, e dunque eri stato tu a cercare di seguire me. Erano le prime risate che condividevamo, e quell’iniziale connessione ci aveva portati a rinchiuderci in una bolla solo nostra, e ci eravamo fatti due o tre volte il giro di quel villaggio abbandonato, proprio come due sciocchi, nonostante i giganti che avrebbero potuto spuntare da un momento all’altro, nonostante i nostri commilitoni che ci stavano aspettando, solo per ridere insieme un altro po’. E la risata più sincera e incontrollata a cui ci siamo lasciati andare è avvenuta quando tu hai quasi guidato il cavallo contro a un albero perché non stavi guardando dove stavi andando, ma stavi guardando me. Io ero proprio lì, Levi, e mi ricordo di ogni dettaglio. Mi ricordo la sensazione del vento tra i capelli. Mi ricordo di tutto, e fin troppo bene.

Hai iniziato a raccontarmi qualcosa del tuo passato dopo più o meno tre mesi dal nostro primo bacio. Non hai avuto un’infanzia felice: sei nato in un bordello della Città Sotterranea, e tua madre è morta tre o quattro anni dopo la tua nascita, a causa di una malattia. Di lei ti ricordi la sua s sibillina e il suo profumo, un misto tra muschio e vaniglia. Nonostante avessi paura di intristirmi, spaventarmi o addirittura farmi inorridire, pian piano mi hai raccontato tutto. Mi hai parlato di quel Kenny, di come ti ha insegnato a maneggiare le armi da taglio per poi abbandonarti a una vita in cui l’unica scelta che avevi era commettere crimini per portarti a casa qualcosa da mettere sotto i denti. Credo che una delle tue paure più grandi fosse che io potessi compatirti, ma non era così. Certo, mi dispiaceva per te, ma perlopiù provavo una furia cieca a pensare alla crudeltà che il destino aveva avuto nei tuoi confronti. 

Mi hai raccontato di Farlan, di Isabel, di come sono morti e di come Erwin ti ha salvato la vita. Infine, con una punta d’imbarazzo, mi hai confessato che ti sarebbe piaciuto aver avuto un’infanzia più serena, e io mi sono chiesta che cosa ci fosse di vergognoso in quel tuo desiderio. Così mi sono alzata dal letto, mi sono seduta allo scrittoio e ho preso una matita e uno di quei fogli che usi per redigere i rapporti dopo ogni spedizione, e ho iniziato a disegnare. 

Ho tracciato i contorni di un letto matrimoniale, con al centro un bambino che aveva i tuoi stessi lineamenti. I capelli corvini, un paio di occhiali sul naso, una camicia da notte e i piedini scalzi, che giocava spensieratamente con alcuni animaletti di legno. «Forse una cosa del genere non ti è mai successa» ho detto, mostrandoti in disegno «ma mi piace immaginarti così. Non so per quale motivo io ti abbia fatto un paio di occhiali, ma credo che conferiscano un’aria ancora più divertente al ricordo. Potremmo far finta che sia successo davvero, per regalare un po’ di serenità al bambino che eri». Tu non mi avevi risposto, ti eri limitato a osservare il disegno e a sorridere, arrossendo appena. Infine, mi avevi tirata a te per lasciarmi un bacio tra i capelli, e avevi poi piegato il foglio in quattro per infilarlo nel taschino della giacca della divisa, in modo che fosse sempre con te.

Ulteriori dettagli sul tuo passato li ho ottenuti durante altri incontri con Hanji, sempre davanti a una tazza di tè caldo con i biscotti e al camino di casa sua. Hanji mi raccontava aneddoti dei tuoi primi mesi d’addestramento: tu eri appena entrato nel Corpo di Ricerca, ed eri un famigerato ex criminale da cui tutti si tenevano ben alla larga, ma Hanji ti vedeva per quello che eri veramente: un ragazzino arcigno che sotto sotto era buono come il pane, ed è stato questo che le ha permesso di avvicinarsi a te. Mi ha detto degli scherzi che i vostri commilitoni facevano al tuo muso perennemente imbronciato una volta che avevano capito che non li avresti sgozzati nel sonno, delle volte in cui le hai salvato la vita e poi ti sei arrabbiato con lei, delle avventure e anche delle, seppur rare, risate. Le tue guance erano scarlatte dall’imbarazzo eppure, stranamente, non sembravi infastidito da quella situazione; ti eri perfino lasciato scappare qualche sorriso. 

Di giorno in giorno riuscivo ad avere qualche nuovo frammento di te, e a ogni dettaglio scoperto mi sentivo sempre più parte del tuo mondo, e dunque sempre più onorata e felice. Immagina dunque le capriole che il mio cuore ha fatto quando, una notte, mentre mi tenevi stretta a te, hai mormorato l’accenno di un piano per il futuro che sembrava includere anche me. «Un giorno vivremo in pace e serenità» avevi detto. «Saremo insieme, lontani da queste dannate Mura e da questa maledetta guerra. E finalmente saremo felici».

Lo so, che è inutile crogiolarsi nei ricordi. E, l’ho già detto e lo ripeto, so anche che ormai non c’era più niente che potessi fare per salvare il nostro rapporto. Per quanto tu ti sentissi bene tra le mie braccia e amassi lasciarti trasportare da quei nostri momenti rubati, hai preferito tener fede al tuo incarico e a Erwin. O meglio, li hai talmente preferiti da non voler nemmeno contemplare il rischio di poterli perdere. Come ti ho già detto non sarebbe mai accaduto, Erwin non potrebbe mai perdere fiducia in te. Chiunque sì, perfino io, ma non Erwin. Ma tu non volevi neanche sfiorare quel rischio e ti ostinavi a mantenermi segreta, mentre io mantenevo fede al nostro amore come se fosse il più solenne dei giuramenti. 

Pensa che a volte mi dimentico di te per un po’, mi dimentico di te abbastanza a lungo da scordarmi per quale motivo un tempo tu mi fossi necessario. Poi però, quando sono stata tranquilla per troppo tempo, quei bastardi dei ricordi si ripresentano. E mi si ripresenta alla mente quella notte, in cui “per caso” ci eravamo incontrati nelle cucine della caserma. Era trascorsa qualche settimana dal nostro primo bacio, ed entrambi non vedevamo l’ora di assaporarci nuovamente. Era notte inoltrata, e dopo esserci baciati per minuti interi vicino alle scale eravamo scoppiati a ridere, come due ragazzini. La luce lunare illuminava candidamente i nostri profili, e senza dire una parola tu mi avevi preso delicatamente la mano e mi avevi invitata in una danza lenta e silenziosa attorno al grande tavolo di legno. Io c’ero, ero proprio lì. E mi ricordo fin troppo bene di tutto quanto, Levi.

Comunque, la colpa della nostra separazione non è solo tua. So che sembra che io la pensi al contrario, ma non è così. Forse ci siamo semplicemente fraintesi, magari tu intendevi una cosa e io ne ho capita un’altra e ci siamo fatti innumerevoli castelli in aria, che alla fine crollando sono arrivati a distruggere il nostro rapporto. Oppure è stata solo colpa mia, perché ho preteso troppo da te, ti ho chiesto molto più di quanto tu potessi darmi. O, in fin dei conti, forse il nostro legame era un vero e proprio capolavoro fino al momento in cui tu hai deciso di distruggerlo, scappando via come un codardo. Io ero lì, e mi ricordo fin troppo bene la tua paura che, alla fine, ha avuto la meglio su di te.

E poi è arrivato quel giorno di primavera in cui mi hai chiesto di parlare, sapendo in anticipo che mi avresti distrutta. Freddo quanto l’acciaio delle nostre lame, mi hai spiegato che per te andare avanti stava diventando troppo difficile, e che il rischio che correvi stando con me era troppo grande. Nascondendoti dietro alla scusa di voler semplicemente essere onesto con me, hai crudelmente distrutto ogni promessa che ci eravamo fatti. E una volta terminato il tuo bel discorso non hai fatto altro che girare i tacchi e andartene, riconfermando la tua codardia, e lasciandomi lì come un foglio di carta stracciato, gettato sul pavimento dopo che ci si è resi conto che su di esso si aveva scritto solo cose sbagliate. Mi ricordo ogni dettaglio di quella maledetta giornata, e me lo ricordo fin troppo bene. 

Io non te l’ho mai detto, ma Hanji non era l’unica a sapere di noi. E non prendertela con me, anch’io avevo bisogno di qualcuno con cui parlare. E quel qualcuno era Gunther. Quando tra noi è finita, lui mi ha detto: “tutto è bene quel che finisce bene”, facendo riferimento al fatto che, se tu non eri in grado di amarmi come meritavo, tanto meglio essermi liberata di te. Gunther aveva completamente ragione, eppure io mi ritrovo a esperire il vero e proprio inferno ogni volta in cui mi ritorni in mente (e capita abbastanza spesso, dato che lavoriamo insieme). Mi ritorna alla mente il vivido ricordo della giornata in cui mi hai lasciata, in cui mi hai detto che se tra noi ci fosse stata meno differenza d’età forse avrebbe potuto funzionare. Ecco, sentirti dire quelle parole mi ha uccisa in un modo in cui i giganti non potrebbero mai fare. Ho sempre temuto che tu tirassi fuori il problema della differenza d’età, e lo temevo perché era una delle poche cose a cui non potevo porre rimedio. Ed è stata proprio la carta che temevo tu giocassi per uccidermi. L’unica cosa è che non pensavo l’avresti mai fatto davvero.

E dopo la tristezza e la malinconia, sopraggiunge la rabbia. Sapevi fin dall’inizio che dal tuo punto di vista non avremmo mai potuto funzionare. E allora perché ti sei ostinato a coinvolgermi in una relazione romantica? A presentarmi ad Hanji e a sussurrarmi progetti per il futuro nel buio della tua camera di letto. Per non parlare di quella volta in cui mi hai proposto di farti incontrare mio padre, e quando ti ho portato a casa sei stato addirittura brillante, e sorseggiavi il tuo tè con nonchalance, come se fossi completamente padrone della situazione. Avevi fatto addirittura qualche battuta. 

A volte penso che l’immagine che avevi di me te la fossi totalmente inventata. Chi pensavi fosse quella ragazzina con i capelli ramati? Un dolce e innocente gioiello che non aveva bisogno di niente, il cui unico scopo era quello di brillare per far ricadere un po’ della sua luce su di te, e per farti sentire una persona un po’ meno di merda, dato che una pura e innocente fanciulla aveva scelto proprio te, un misterioso ex criminale dall’anima nera? 

A volte mi ritrovo a piangere nelle stalle. M’impegno più che posso per non farmi scoprire naturalmente, ma a volte è capitato che qualche soldatessa mi si avvicinasse per chiedermi che cosa fosse successo. E in quei momenti io avrei solo voluto gridare tra i singhiozzi: «Il capitano Levi, ecco cos’è successo». 

Sai, prima ti ho detto che mio padre ti ha sempre apprezzato, ma non credo sia interamente vero. Credo che abbia sempre saputo che per te soffrivo. Ricordo quando il giorno del mio ventunesimo compleanno, che ricade durante la pausa d’inverno, avevo organizzato una piccola festa a casa con i miei amici d’infanzia ed Erd, Gunther e Oruo. Avevo invitato anche te, ovviamente, ma tu non ti eri presentato. Avevo passato tutta la sera a lanciare occhiate agitate alla porta, nella speranza che tu comparissi sull’uscio. A un certo punto mio padre mi si è avvicinato, mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha detto: “Tutta quest’agitazione mi confonde: compiere ventun anni dovrebbe essere divertente, Petra”.

Il tempo non passa, Levi. O meglio, passa ma io mi sento cristallizzata al suo interno. Tutto si muove intorno a me, mentre io rimango fissa a quel momento, in cui ci siamo io e te, abbracciati sul tuo letto. Vorrei tornare a essere la ragazza che ero prima di conoscerti. Vorrei tornare a essere dolce, gentile, serena e ad avere fiducia nel prossimo. In realtà non vorrei dimenticare neanche l’inferno che mi hai fatto passare, perché in parte è servito a farmi crescere, ma vorrei recuperare la fiducia e il coraggio. Ci sto provando, a ritrovare la vecchia me, non sai quanto.

Io e te passavamo le giornate che avevamo libere tra le coperte, e quando ci alzavamo dal letto prendevamo i primi vestiti che ci capitavano alla mano. Quante volte sei uscito per una spedizione indossando una mia camicia. E la notte ero proprio io, a farti da coperta. Ora invece mi rispedisci i miei vestiti, come se non mi vedessi tutti i giorni, come se non potessi ridarmeli guardandomi in faccia, semplicemente perché non hai il coraggio di farlo. Io li ritiro, reprimo i conati di vomito e me ne ritorno, da sola, al mio alloggio.

Ma c’è un indumento che non mi hai mai rispedito, ed è la mia sciarpa color verde bosco. Quella della prima volta in cui mi hai portata a casa di Hanji. Io so che non puoi liberartene, perché ha il mio odore, quell’odore che ti ricorda la purezza e l’innocenza da cui ti sentivi tratto in salvo quando stavi con me. E ti ricordi fin troppo bene di quella sensazione, perciò terrai sempre con te quella sciarpa. Perché è l’unico modo che hai per aggrappartici.

E mi ritrovo nuovamente intrappolata in quel periodo, in cui ti ho amato così tanto. Il periodo che precedeva il momento in cui hai deciso di perdere quanto di più vero tu abbia mai sperimentato. Quello che c’era tra noi era estremamente raro, Levi. Io ero lì, l’ho sperimentato. E me lo ricordo fin troppo bene. 

Sai, a volte penso che c’è un momento, cristallizzato nel tempo, in cui io sto ancora ridendo tra le tue braccia, sdraiata accanto a te, sul tuo letto. E nessuno potrà mai modificare quel momento, né la nostra felicità. In quell’istante rimarremo per sempre insieme, per sempre felici. 

Da quando mi hai ferita, non sono altro che un soldato che sta cercando di riacquistare le forze e di tornare in piedi. Ma dimmi, la nostra rottura ha distrutto anche te? Perché io arrivo al punto da ricordarmi non solo che durante quella giornata d’inverno nevicava, ma perfino il modo in cui la neve luccicava mentre cadeva. Ricordo ancora distintamente la sensazione di freddo che ho provato quando sono entrata per la prima volta in casa di Hanji. Quindi dimmi, Levi. Hai sofferto anche tu per me? Anche tu ti ricordi di ogni dettaglio?



Epilogo

 

Con un sorriso emozionato sul volto, Gabi Braun scagliò il bouquet di gigli bianchi alle sue spalle, dove parenti e amici si erano radunati per tentare di prenderlo.

Levi, appena in disparte, stava pacificamente seduto sulla propria sedia a rotelle. Si godette la scena di una bambina dai capelli corvini e dalla pelle chiarissima che balzava agilmente tra tutti quegli adulti e afferrava il mazzo di fiori al volo, per poi esultare contenta per averlo preso. Quella bambina era Irene Kirschtein, la primogenita di Jean e Mikasa, e Levi ghignò perché, anche se Eren Jaeger aveva liberato da ormai quindici anni gli eldiani dal potere dei giganti, un Ackerman rimaneva sempre un Ackerman.

Levi guardò Mikasa. Suo marito Jean la cingeva, e lei sorrideva serena guardando Irene ridere a crepapelle mentre roteava in aria tra le mani forti di suo zio Armin.

Levi era convinto che Mikasa sentisse la mancanza di Eren ogni giorno. Ogni istante, forse. E lei non avrebbe esitato a trasmetterlo alle generazioni future. Ne era un indizio il nome della sua primogenita, “Irene”, che suonava tanto come “Eren”.

L’uomo alzò lo sguardo verso il cielo, e vide Petra. «Sì, anch’io mi ricordo di tutto» mormorò, a fior di labbra. «Me lo ricordo fin troppo bene».

   
 
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