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Autore: Glenda    13/06/2022    2 recensioni
La storia si ambienta in una nazione immaginaria di un paese immaginario, in un tempo non definito, ma in realtà non così diverso da una qualunque luogo in Europa oggi.
Noam Dolbruk, giovane attivista politico, da poco eletto in parlamento, pieno di carisma e buone intenzioni ma originario di una terra piena di conflitti, ha ricevuto una serie di minacce che lo hanno costretto a essere messo sotto protezione. Adrian Vesna, l'uomo che gli fa da guardia del corpo, ha un passato che gli pesa sulle spalle e nessun desiderio di inciampare in rapporti complicati. Ma con un uomo come Noam i rapporti non possono non complicarsi, e non solo per via del suo carattere bizzarro, quanto per gli scheletri dentro il suo armadio.
Questa non è una storia di eventi ma di relazioni: è la storia dell'incontro e dello scontro tra due diversi dolori, ed anche la storia di un'amicizia profonda, con qualche tono bromance. Ci sono tematiche politiche anche impegnative ma trattate in modo non scientifico, servono solo come sfondo alle dinamiche interpersonali.
(Storia interamente originale, ma già circolata in rete, che ripubblico qui per amore dei personaggi e piacere di condividerla con altri lettori)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il tempo era cambiato rapidamente. Da quando la strada si era incuneata tra le montagne, il cielo si era scurito, e non solo per l'ora tarda: nuvole spesse si erano addensate sui picchi e scendevano sempre più basse, borbottando roche, man mano che il loro viaggio proseguiva.

Finalmente scoppiò il temporale.

Per Adrian fu come un sollievo: quel cielo denso, rumoroso, gli aveva dato una fastidiosa sensazione di oppressione; pareva la testa di un grosso dio che non riusciva a sfogare un dolore. Ora qualcosa si era strappato, e il dolore si rovesciava fuori, a secchiate, sulla strada e sui vetri dell’auto, ma nel cadere giù già non era più dolore, era piuttosto rabbia e energia: aveva qualcosa di possente… non aveva mai visto piovere così.

Ad Adrian, che non aveva mai oltrepassato i Mor-Darèuk e che di Mòrask possedeva solo vaghe immagini trasmesse in televisione, quel paesaggio sembrava voler confermare tutti gli stereotipi del Dàrbrand: durezza, violenza, vigore. Ma Noam non aveva proprio nessuna di quelle caratteristiche: morbidezza al posto dell’asprezza, dolcezza contro aggressività, orizzonti anziché alte pareti di roccia.

“Certo che con un tempo così non si vede un accidente!” commentò, senza sgomento, aumentando la velocità dei tergicristalli.

Da un paio d’ore il suo compagno di viaggio si era fatto strano: più silenzioso del solito, ma soprattutto fisicamente teso, come se il sedile fosse diventato scomodo e l’abitacolo troppo stretto.

“Allora fermiamoci un po’.” disse “Accostiamo di lato e riposiamoci.”

“Siamo persi in mezzo al niente, dove vuole fermarsi?”

Lui accennò con la testa fuori dai finestrini, lavati prepotentemente dallo scroscio.

“Dai, accosta un attimo, non mi sento molto bene.”

Adrian rallentò, uscì dalla carreggiata e spense il motore nello sterrato che costeggiava una distesa di prato ripida, che risaliva verso le pendici dei monti.

A macchina ferma, il rumore della pioggia sui vetri sembrava il chiacchiericcio di un ruscello che scorre.

“Durerà per poco ancora. La primavera, quando vuole sostituirsi all’inverno, quassù fa così. Noi diciamo che il cielo si lava. Quando la pioggia finisce si vedono le stelle, non c’è più l'ombra di una nuvola, e tutto è così limpido che sono le notti giuste per dormire all'aperto.”

“Dormire all'aperto… ” fece eco Adrian perplesso “In marzo, in cima ai monti.”

“Dormire all'aperto. In marzo. In cima ai monti.” gli fece il verso Noam, con nella voce un'allegria triste “Capisci perché vi chiamiamo gambemolli?”

“Lo posso anche capire. Ma per il momento sta ancora piovendo.”

“Smetterà.” Noam si massaggiò la fronte con le mani, poi alzò la testa verso il vetro, dove l’acqua scivolava, effettivamente, un poco più lenta “Sta già smettendo, guarda…”

Con naturalezza, e prima che Adrian facesse in tempo a realizzare quali fossero le sue intenzioni, aprì lo sportello, uscì, e in due lunghi passi superò il basso fossato che divideva lo sterrato dal prato.

“Porca puttana! Che le prende?”

Lo rincorse d'istinto, e lo afferrò per il polso come se si trattasse di acciuffare un bambino ribelle o, davvero, di strappare qualcuno a un pericolo mortale.

“Dio!” esclamò Noam, la testa rivolta per aria, mentre la pioggia gli lavava il viso “Perché non può essere tutto così semplice?”

“Lei è matto! Mi sto facendo la doccia!”

Stringeva il suo il braccio e non capiva perché non riusciva a far forza; non capiva perché non lo lasciasse lì, a lavarsi da capo a piedi, razza di deficiente; non capiva perché quell'uomo così irreale riuscisse a coinvolgerlo in pagliacciate simili senza che lui finisse per vergognarsi di se stesso, o di entrambi; non capiva perché si sentiva la gola stretta, il petto soffocato.

“Noam, la prego… !”

Lui si lasciò trascinare indietro docilmente e rientrarono macchina.

I loro abiti erano bagnati fradici: erano bagnati i sedili, faceva freddo.

“Sì, hai ragione, sono matto… ” sospirò Noam, la voce ridotta a un sussurro “Ma soprattutto, sono una persona pericolosa. Non avresti dovuto essere qui. Non avresti mai dovuto accettare questo incarico.”

Hai ragione - pensò Adrian – tu sei pericoloso. Tu stai diventando pericoloso per me.

Tuttavia pacatamente rispose: “Si traquillizzi. So valutare la pericolosità degli incarichi che accetto. Quelli meno pericolosi sono i meno interessanti. E lei non è matto. È solo infelice.”

Gli occhi chiari di Noam si spalancarono, fissi come se quelle parole gli stessero sospese davanti e lui potesse leggerle.

“Scusami.” disse.

Poi, come se si fosse appena svegliato da un sogno, guardò Adrian, i suoi capelli inzuppati, le condizioni dell’abitacolo...

“Che pasticcio. C'è un rifugio a due passi da qui. Conosco… conoscevo bene il proprietario. Ci possiamo fermare per la notte, o ti prenderai un malanno a causa mia.”

“Se lo prenderà anche lei, checché stia giocando alla favola del darbrandese che sfida i gambemolli come me. Tra parentesi: non ci riesce.”

“Quindi ok? Facciamo tappa?”

“Noam: se lei desidera rendere questo viaggio il più lungo possibile – e non mi dica che non è così, perché offenderebbe le mie capacità di osservazione – per me non è un problema. Lo chieda pure, ma lo faccia in modi meno stupidi.”

 

***

 

 

È solo infelice, gli aveva detto, e mai come nel momento in cui glielo aveva detto quel fatto gli era stato tanto chiaro.

Tutta quella luminosità, gli entusiasmi facili, la leggerezza di cui il Noam Dolbruk “pubblico” si ammantava, erano in qualche modo il riflesso di una sofferenza, e quel dolore rendeva più splendente la luce che mostrava all’esterno.

La sua energia incontenibile, il suo desiderio di fare tanto, troppo (“folla-dipendente”, già, “eccessivamente gentile”, e quant’altro) avevano radici in una ferita. Votato alla gente, disposto a dire sempre di sì, ma terrorizzato di non essere all'altezza, e soprattutto lì, nella terra dove era nato. Quanto era spaventosamente fragile, e quanto avrebbe voluto davvero poterlo proteggere.

Ma non era cosa che lui poteva fare: nessuno poteva farlo per nessuno.

Ripensò a ciò che aveva raccontato a Noam a proposito di suo padre. Anche lui, avrebbe voluto proteggerlo: proteggerlo dalla penosa scoperta che tutto ciò che aveva fatto nella vita, il suo impegno nella scuola, la sua devozione per i giovani, alla fine fossero solo un mucchietto di cenere. Avrebbe voluto fargli sentire che, mentre il mondo in cui aveva sempre creduto d'essere al centro, gli crollava addosso, c'era pur sempre lui a restargli accanto, a tenergli la mano. Ma aveva dovuto scontrarsi con la delusione che per le persone come suo padre l'amore di pochi non bastava, anche se si trattava di quello della propria famiglia. Di chi Noam cercava disperatamente l'approvazione, la fiducia, l'amore? Solo della “folla” da cui dipendeva? No, ovviamente. C'era qualcosa di sepolto nel luogo in cui si stavano imprudentemente recando, e Adrian non sapeva se fosse opportuno andare a scavare per tirarlo fuori: eppure Noam aveva chiesto che lo accompagnasse lui e non lo aveva fatto perché temeva per la propria vita. Solo adesso capiva quanto fosse grande la fiducia che gli aveva concesso in esclusiva, l'uomo che diceva di fidarsi di tutti.

Rimasero in silenzio per i pochi minuti di strada che li condusse davanti ad un casolare rustico con l'insegna che lo indicava come albergo, ma che di albergo non aveva l’aria. Il posto appariva desolato, soprattutto dopo quella pioggia che aveva disegnato chiazze più scure sulle pareti in corrispondenza di grondaie che stavano ancora buttando fuori acqua come fontane: ma Noam aveva previsto bene, il temporale era cessato.

Le finestre erano tutte chiuse: Adrian pensò che fosse improbabile che in quel posto abitasse qualcuno al di fuori della stagione estiva. Invece, dopo pochi istanti dal suono del campanello, la porta si aprì, e un uomo alto e grosso, dai capelli e barba fulvi, comparve sulla soglia.

Adrian cercò di trattenersi dal pensare che il suo aspetto confermava anch’esso abusati stereotipi: quanto Noam aveva l'aria accogliente, tanto questo individuo emanava durezza e diffidenza. Eppure, a osservarli bene, i loro occhi erano molto simili: avevano la stessa sfacciata vivacità, la stessa acquamarina limpida, troppo chiari, troppo acquatici per essere aggressivi.

“Ho già chiuso la cucina.” disse, con una voce quasi fievole che stonava con la sua mole.

Mise a fuoco la vista nella penombra, strizzò le palpebre, le sbatté.

Sund rork! Noam!”

Poi gridò altre due o tre parole in quella lingua tagliente e del tutto incomprensibile, afferrò il suo compagno di viaggio quasi di peso, lo trascinò dentro casa e lo abbracciò come si abbraccia un figlio tornato dalla guerra.

 

***

 

Il proprietario del rifugio, che si era presentato come Vòrkne, li sistemò nelle due stanze migliori, e, per una forma di cortesia rivolta ai loro abiti bagnati e alle abitudini gambemolli-cittadine, si preoccupò di accendere il riscaldamento che, aveva detto a bella posta, in quella stagione aveva già spento da un pezzo. L’albergo era completamente vuoto. Le camere erano piccole e scarsamente arredate, ma questo fece sì che si scaldassero in fretta. La moglie dell’albergatore (forse tirata giù dal letto, data la grossa cuffia di bigodini in testa), si preoccupò di preparare del cibo e si prese la briga di cucinare un piatto tipico del luogo, sulla cui ricetta intrattenne Adrian come un’operatrice del turismo che si rispetti. Alla faccia della cucina già chiusa, era chiaro che li stavano trattando come ospiti speciali. Noam era un ospite speciale: per tutta la durata di quella cena né lui né Vòrkne dissero molto, ma quest’ultimo non finiva di guardarlo, come se dovesse studiarlo o, più semplicemente, riconoscerlo.

Andarono a dormire presto, stanchi del viaggio, ma erano passate poche ore quando Adrian si svegliò, forse per un cigolio delle imposte o un soffio di vento. Per un attimo si maledisse: aveva sviluppato una naturale attitudine a stare sempre all’erta che anche quando la razionalità gli diceva che tutto era sotto controllo. I suoi sonni erano di carta velina.

Si affacciò nel corridoio, e si accorse che la porta della camera di Noam era aperta; magari era stato questo a interrompere il suo riposo, e tuttavia, contestualmente, si fermò di nuovo a pensare a come quell’uomo avesse interiorizzato una sorta di abitudine a muoversi in silenzio: camminava lieve, senza pesare sul suolo.

Nella stanza dove avevano cenato c’era una luce accesa.

Sapeva che non era professionale, ma non si sforzò di trattenersi: da quando era iniziata quella faccenda aveva già violato il proprio stesso codice più volte, ed era inutile continuare a fare finta.

Si sentiva come impigliato in quella vita non sua, e il guaio era che non era sicuro di volerne uscire.

Non comprese molto di ciò che i due si stavano dicendo, ma sentire Noam parlare la sua lingua d’origine era affascinante: sulle sue labbra il darbrandese aveva una strana musicalità, per quanto spigolosa, e Adrian si trovò a pensare che quell’uomo riusciva veramente ad addolcire ogni cosa; chissà se anche Kàrkoviy l’aveva pensato, chissà che la sua presenza lì non sarebbe riuscita ad addolcire anche i conflitti. Ma va là! Il sonno interrotto e tanta acqua nelle ossa rendevano tutto meno lucido, persino i desideri: figuriamoci se c’erano delle sincere intenzioni di conciliazione nei piani di Liberi insieme. Non ce n’erano e non ce ne sarebbero state mai. Noam era per il partito uno strumento pubblicitario e non erano le aspirazioni di un idealista come un altro a far girare la politica, ma il denaro della gente come gli Òraviy. La cinica verità, ancora più chiara ai suoi occhi dopo nove ore su quella strada impossibile, era che un Dàrbrand autonomo, o in regime di semi-indipendenza, non faceva comodo a nessuno, che il libero passaggio attraverso il traforo del Nòdoask era centrale per l’economia dell’intera Repubblica, e che il gioco non valeva la candela, almeno finché il terrorismo fosse rimasto un problema circoscritto là dentro, tra quelle montagne inospitali.

Povero Noam.

Dalla posizione in cui si trovava non poteva vederlo in viso, vedeva solo la schiena di Vòrkne, ma fu contento di sentire la sua voce più distesa rispetto a qualche ora prima, e la prossemica dell’interlocutore esprimeva una relazione cordialmente paterna.

Sentì un rumore di bicchieri, sentì Noam ridere. Parlarono a lungo.

Poi Vòrkne fece una domanda e lui rispose “no”. E lo ripeté una seconda e una terza volta. “No”. “No”. E la terza volta gli sembrò quasi una preghiera.

  
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