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Autore: Adeia Di Elferas    15/06/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Bianca aveva ascoltato in silenzio tutto il discorso della madre. In certi punti aveva fatto un po' fatica a seguirla, ma si rendeva conto che la situazione italiana, in generale, era tanto complessa che pretendere da se stessa di comprenderla integralmente al primo colpo sarebbe stato troppo.

Condivideva in buona parte le speranze della Tigre, riconoscendo, nel racconto fatto dalla donna dei grandi spiragli di possibilità di riconquista di Imola e forse anche di Forlì, tuttavia non era certa dell'oggettività del resoconto. La Riario aveva sempre apprezzato molto il realismo – a volte quasi crudele – della Sforza, ma da quando era stata liberata da Roma ed era arrivata a Firenze, le sembrava che tendesse a non essere più così inflessibilmente imparziale... La paura, la fatica e il dolore con cui aveva convissuto per infiniti mesi, parevano aver scalfito quell'equidistanza che la Leonessa aveva sempre saputo tenere, portandola a cercare sempre più spesso una verità che le piacesse, piuttosto che una che fosse realistica ed evidente.

Oltre ai progetti per la riconquista delle loro terre, nella trattazione di Caterina aveva trovato posto anche un ex cursus sulla situazione attuale del Valentino, e su come ci fossero, sembrava, segni di insofferenza tra le fila dei suoi comandanti. A questo andava a sommarsi l'ormai palese scostamento del re di Francia, che stava facendo di tutto per far capire che con i Borja l'alleanza c'era, ma era lui a comandare.

Firenze, poi, non era in una situazione meno confusa, con la politica interna, sempre più caotica, che andava a mescolarsi con quella estera, incerta come non mai, anche se in via di rischiaramento dopo l'ordine francese dato al Valentino di ritirarsi dalla Toscana, permettendo ai fiorentini di recuperare tutto o quasi ciò che era stato loro tolto.

Bianca aveva ascoltato tutto quanto, aveva fatto in modo di capire il più possibile, e cercava di tenere a mente i dettagli che le parevano più salienti, tuttavia non sapeva come ribattere alle frasi della madre. Non era nemmeno molto semplice capire su dove volesse convergere davvero il discorso della Sforza.

La Riario capì quale fosse il succo della questione solo quando la Tigre concluse: “Secondo Fortunati sto esagerando, secondo lui... Secondo lui anche l'appoggio di Bologna è solo un appoggio a parole. A stare a sentirlo, dovrei restarmene buona alla villa, con le mani in mano, aspettando che passi il tempo, mentre tutti gli altri fanno quello che vogliono con la nostra Italia. E poi non capisce che Galeazzo, Sforzino, Bernardino... Tutti loro non hanno un futuro, al momento, e sarebbe mio preciso compito trovare loro una collocazione nel mondo, o almeno aiutarli a farlo... E come se non bastasse, Ottaviano e Cesare sono via da tempo, ma non hanno ancora combinato nulla di che, e stanno diventando solo una spesa morta... Io sinceramente non so cosa fare.”

“Posso dirti cosa farei io.” sussurrò a quel punto Bianca, sistemandosi un po' sul letto, una mano sul pancione e l'altra a puntellarsi sul materasso: “E credo che sarebbe una cosa che terrebbe buono anche il piovano.”

La Leonessa, che aveva sperato in un consiglio, annuì e sollevò una mano, per incitarla a parlare.

La giovane, che aveva trascorso buona parte dei suoi quasi ventun anni ad assorbire il più possibile la logica e la mentalità non solo della madre, ma di tutti gli uomini d'armi o di potere che aveva avuto modo di incrociare anche solo per poco, si schiarì la voce e propose: “Io farei così: da quello che mi dite, il Valentino ha dei problemi non indifferenti, e i signori italiani si stanno dimostrando capricciosi e infantili. Lascia passare l'estate, che ormai volge al termine, e attendi che scorra via anche l'autunno, che si preannuncia mite. In inverno, quando inizierà a nevicare, si renderanno conto di aver perso un sacco di tempo tra litigi e giostre e feste... Se avremo fortuna, anzi, cresceranno malumori ingestibili e qualcuno attenterà al Valentino o al papa. Tu intanto tieni buoni rapporti con tutti, fai pesare anche le nostre parentele...”

Il modo in cui la giovane si indicò nel dire la parola 'nostre' fece intendere alla madre che si riferisse ai parenti dalla parte dei Riario, come Raffaele o, perché no, Giuliano Della Rovere, dato da tutti in ascesa, per via dei suoi buoni intendimenti con il re di Francia.

“Quando l'entusiasmo dei francesi sarà al minimo, e re Luigi penserà al ritiro, e quando il Borja avrà per le mani una banda di condottieri ormai impossibili da comandare, allora potremo valutare di riavere Imola e Forlì.” concluse Bianca, sollevando poi un dito e aggiungendo, perentoria: “Ma con la diplomazia e con i soldi: non con le armi.”

“Con quali soldi?” chiese allora la Sforza, senza intenzione di criticare il progetto, ma solo desiderosa di capire.

“Con i soldi che tu avresti usato per le armi.” spiegò subito la giovane: “Corrompere, comprare e restaurare la nostra famiglia con le parole: questa è la chiave per riuscire davvero. Sono tutti stanchi di avere la guerra in casa. Imporsi con la forza, anche in caso di vittoria, porterebbe a rivolte e ritorsioni e in un attimo saremmo costretti a tornare a Firenze. Se prometterai invece a Forlì la pace e la prosperità, saranno i forlivesi stessi a reclamare il nostro ritorno, e a quel punto tutto verrà da sé...”

La Leonessa restava silenziosa. Fissava la figlia in un modo strano e Bianca non sapeva dire se fosse sul punto di deriderla per la sua ingenuità o se stesse biasimando se stessa per non aver raggiunto la sua stessa conclusione.

“Mi hai dato degli spunti per pensare.” disse alla fine la donna e poi, accigliandosi appena, soppesò: “Comunque... Per quando arriverà l'inverno, probabilmente tu sarai già in Emilia.”

La Riario, che non osava sperare in una risoluzione tanto rapida della sua situazione, deglutì e commentò: “Se anche fosse, tu resti sempre mia madre, i miei fratelli restano i miei fratelli e, a maggior ragione, se sarò in Emilia, mi batterò con tutte le mie forze per favorire il ritorno degli Sforza Riario in Romagna.”

“Ti manca, il De Rossi?” chiese a quel punto la Tigre, cogliendo del tutto di sorpresa la figlia.

Questa, dopo un attimo di esitazione, rispose: “Molto.”

“Ho ricevuto una lettera di Gian Piero, da poco...” fece allora la milanese: “Non ne parla apertamente, ma mi ha lasciato intendere che Troilo sta sistemando la sua situazione e che ormai, con la certezza quasi assoluta della morte di Astorre, è a un passo dal chiedere al re di deliberare per il matrimonio.”

La Riario si accarezzò il ventre, ma non disse nulla, né lasciò trasparire alcuna reazione. Caterina, che pure ormai aveva accettato la condizione della figlia, si accigliò, chiedendosi se tutto andasse realmente bene.

“Ne sei felice o ci hai ripensato?” le chiese: “Perché sappi che quale che fosse la tua scelta, io ti appoggerò e...”

“Non ci ho ripensato.” ribatté subito la giovane: “Solo ho paura di illudermi. Voglio affrontare una cosa alla volta.”

“Certo...” soffiò allora la madre: “Una cosa per volta. Ascolta... Fuori c'è Galeazzo.”

“Sapevo che era lui...” sorrise la giovane, profondamente felice di poter rivedere il fratello.

“Se non abbiamo altro di cui parlare – disse Caterina, ricambiando il sorriso – io esco e vi lascio soli un po'. La suora non era d'accordo, perché temeva che Galeazzo fosse il padre del bambino, ma le ho spiegato in modo molto diretto che noi non siamo né i Borja né i Baglioni.”

“Le suore sanno essere abbastanza categoriche, a parole...” ammise la Riario: “Che lo siano coi fatti è un altra cosa...”

“Infatti.” fece la Tigre, dopo averla guardata per qualche istante di troppo, tornando a chiedersi, come aveva fatto tempo addietro se anche sua figlia, nel lungo periodo passato alle Murate, avesse approfittato dell'indulgenza che le suore sapevano dimostrare nei confronti della debolezza della carne delle consorelle: “Allora vado... Mi raccomando, stai bene. E quando... Quando sarà il momento, non esitare a farmelo sapere: se potrò e vorrai correrò qui.”

La giovane annuì e confermò: “Quando partorirò sarete la prima a saperlo.”

Raccomandandosi con la figlia una volta di più affinché stesse riguardata e affinché si facesse dare dalle suore tutto ciò di cui aveva bisogno, la Sforza le concesse un secondo abbraccio e poi, guardandola in viso e trovandovi sempre di più quello di sua madre Lucrezia, le disse: “Vedrai che andrà tutto nel migliore dei modi.”

Per Bianca, che era abituata a considerare la Tigre tutt'altro che una donna ottimista, quell'affermazione suonava come un balsamo: se perfino la Leonessa di Romagna era convinta che tutto si sarebbe aggiustato, allora doveva essere proprio così.

Dopo un ultimo saluto, la milanese lasciò la cella della figlia e, nel giro di un paio di minuti, sulla porta si profilò Galeazzo.

Era ben vestito, teneva la schiena dritta e si vedeva che doveva essersi rasato da poco, perché il suo viso era liscio come ormai non lo era più da qualche tempo. La Riario, nel vederlo, provò una gioia profonda, come se la sua sola presenza fosse per lei un ulteriore segno che tutto stava andando bene.

“Mi sei mancato.” disse, avvicinandoglisi e prendendogli la mano.

Il ragazzo, che in inverno avrebbe compiuto già diciassette anni, increspò le labbra carnose e rispose: “Anche tu mi sei mancata molto.” poi soggiunse, più serio: “So che forse è stato imprudente seguire qui nostra madre per vederti, ma...”

“Va bene, invece.” lo zittì subito lei, invitandolo, intanto, a sedersi accanto a lei sul letto, per parlare più comodamente.

Lo sguardo del Riario continuava a correre al pancione della sorella, ma quando parlò, non citò apertamente la gravidanza, dicendo solo: “Come va? Ti trattano bene?”

Bianca, che stava valutando tra sé come il fratello, dopo quelle settimane di lontananza, le sembrasse ormai più un uomo che un ragazzino, sollevò le sopracciglia e rispose: “Sì, sì, mi trattano bene... Anche se sembrano molto più interessate ai bisogni della mia anima che a quelli del mio corpo.”

Il fratello fece un'espressione interrogativa, mentre, guardando la giovane, si rendeva conto di quanto sembrasse più matura di quanto non fosse quando aveva lasciato la villa. Forse era per via del ventre ingombrante, o forse la solitudine in quel posto sperduto l'aveva fatta riflettere abbastanza da dare al suo viso una sfumatura più adulta...

“Tanto per cominciare, vorrei lavarmi più spesso.” spiegò la Riario: “Quando chiedo l'acqua per un bagno, me la portano, per carità... Però me lo fanno sempre pesare come se stessi chiedendo qualcosa di illecito, e quindi lo chiedo di rado...”

“Anche nostra madre ha avuto una breve discussione con la Superiora del convento d'Annalena, sai?” sorrise Galeazzo, ricordando l'episodio raccontato dalla Tigre proprio mentre raggiungeva assieme a lui il monastero in cui era nascosta Bianca: “Ovviamente nostra madre vorrebbe che lavassero Giovannino più spesso... Si è addirittura offerta di pagare, per i bagni in più, ma le hanno detto solo che 'lavarsi troppo è un pericolo per l'anima'!”

I due fratelli risero per qualche minuto, mentre la memoria di entrambi correva involontariamente agli anni passati alla rocca di Ravaldino, quando anche all'ultimo dei soldati era comandato di tenere un'igiene personale decorosa e ben al di sopra del livello generale della popolazione. Forse, se le suore fossero state edotte circa quella consuetudine, avrebbero detto peste e corna di quei poveri uomini, sostenendo che i bagni frequenti altro non erano se non la prova tangibile della corruzione e della perdizione delle loro anime...

“Ah!” esclamò la Riario, con ancora gli occhi lucidi per la risata: “Intanto che mi ricordo... Mi sono dimenticata di darla a nostra madre... Avrei voluto farla avere a nostro fratello Sforzino tramite Franceschino Merenda, che attendevo qui per domani, ma preferisco gliela dia tu...”

Galeazzo guardò con attenzione la sorella alzarsi, con una mano sul pancione, e raggiungere la piccola cassapanca in cui teneva i suoi pochi averi. Ne estrasse un pacchetto piatto e tondeggiante, addirittura decorato con qualche striscia suppletiva di stoffa colorata.

“Questa spongata l'hanno fatta le suore...” spiegò la Riario, posandola tra loro sul letto: “L'ho fatta confezionare in questo panno che dovrebbe preservarla un po'... Non so dire come sia venuta, sappilo: ho dato loro la ricetta, ma nessuna è di Milano e quindi...”

“A Sforzino piacerà molto.” la interruppe Galeazzo, sicuro che sarebbe stato davvero così, specie perché, per l'indomani, il 17 agosto, probabilmente nessun altro oltre a Bianca si era preso il disturbo di preparare qualcosa per festeggiare Sforzino.

“A quindici anni forse cominciano a interessargli altre cose, oltre ai dolci, ma...” soppesò la ragazza, per poi stringere appena gli occhi e chiedere: “A proposito... Tu non hai ancora trovato nessuna che ti piaccia?”

Il Riario arrossì violentemente e poi, grattandosi la tempia, rispose, evasivo: “Viviamo isolati, lo sai.”

Resasi conto di essere stata indelicata, la sorella scosse il capo e ribatté: “Non c'è fretta, stai tranquillo. Lo dicevo solo per dire qualcosa...”

“Bernardino, anche se senza cattiveria, a volte mi prende in giro – confessò Galeazzo, che su quell'argomento riusciva a confidarsi solo con la sorella – perché dice che sono un imbranato, per la mia età, e che lui, quando avrà sedici anni, sarà già molto più... Sveglio di quanto non sia io.”

La Riario fece un breve cenno con il capo, come a minimizzare ciò che il giovane aveva appena riferito. Tuttavia, prima che potesse dire la sua, il fratello riprese la parola.

“Bernardino dice che appena potremo andare liberamente in città girerà tutti i bordelli di Firenze e...” la voce morì nella gola di Galeazzo, spenta dalla risata spontanea della sorella.

“Bernardino non ha nemmeno dodici anni... Se davvero si mettesse a girare tutti i bordelli della città, non ci sarebbe meretrice a Firenze che non scoppierebbe a ridere solo a vederlo...” fece la Riario, mentre placava a stento il riso: “Avanti, è poco più che un bambino... Lascia perdere quello che dice lui. Non sa ancora nulla del mondo, non lasciarti influenzare dalle sue chiacchiere...”

“Lui avrà appena undici anni – concesse a quel punto il Riario – ma io ne avrò diciassette a dicembre. Dopotutto nostro fratello Ottaviano è diventato padre quando aveva un paio d'anni scarsi più di me... E anche... Insomma quando Giacomo è diventato l'amante di nostra madre, non era poi tanto più vecchio di me: aveva appena diciassette anni... Io, però... Non mi sento pronto... Io non so come... Però anche Bernardino ieri diceva che...”

“Te l'ho già detto – lo frenò a quel punto Bianca, vedendo gli occhi del fratello farsi sempre più spersi e confusi – non dare troppo peso a quello che dice Bernardino. Anzi, dagli argomenti che gli piace affrontare, mi sa che appena sarà un po' più grande, ci toccherà stare attenti a quello che farà, prima che si cacci in qualche guaio...”

Senza volerlo, entrambi i Riario alla parola 'guaio' abbassarono gli occhi verso il pancione di Bianca.

Questa, sentendosi in dovere di dire qualcosa, provò a scherzare: “Abbiamo già abbastanza guai così, non credi?”

“Non parlare di mio nipote in questi termini.” si irrigidì Galeazzo, assecondando addirittura uno slancio protettivo che lo portò a posare una mano sul grembo rigonfio della sorella.

Ella, posando a sua volta la mano su quella del fratello, gli sorrise con un misto di dolcezza e orgoglio: “Sarai uno zio come pochi.”

Tutti e due ebbero un fugace pensiero per la loro nipotina Cornelia, figlia di Ottaviano. Per lei nessuno dei due sentiva di essere stato fino a quel momento uno zio degno di nota. Anche la Riario, che pure aveva vissuto assieme alla piccola per qualche mese, non poteva dire di provare nei suoi confronti un affetto profondo e tanto bastava a farla sentire in colpa.

“Comunque...” riprese Galeazzo, schiarendosi la voce: “Mi pare di aver capito che davvero non è stato un errore... Tu questo figlio l'hai voluto.”

Bianca si prese qualche istante per analizzare sia il tono sia l'espressione del fratello minore. A volte, per quanto molto giovane, il Riario sapeva essere rigido come un uomo fatto. Quella volta, però, non c'era traccia di rimprovero nel suo atteggiamento, solo un accorato bisogno di sapere.

Galeazzo aveva sempre vissuto con un esempio di femminilità dirompente e fuori da ogni schema sociale. Probabilmente, pensava la sorella, negli anni aveva anche imparato a comprendere una vita tormentata come quella della loro madre e scusarne gli eccessi e tutte quelle libertà che agli occhi dei più, essendo state prese da una donna, erano peccati imperdonabili.

Così, con una certa leggerezza di spirito, sicura di non trovare un censore nel fratello, ma un orecchio amico, Bianca confermò una volta di più anche a se stessa: “Sì, questo figlio l'ho voluto, con tutta me stessa. E anche Troilo l'ha voluto.”

“L'importante è che foste d'accordo.” convenne il ragazzo, chiedendosi, comunque, come si potesse anche solo pensare di affrontare un discorso del genere con un'altra persona, specie senza esservi legati da un matrimonio, il quale implicava – era nell'ordine delle cose – che fosse naturale generare della prole.

“Sì.” annuì di nuovo la Riario: “Lo siamo stati subito.”

“Sei davvero coraggiosa.” disse allora Galeazzo, con un sorriso velato di timidezza che intenerì la sorella: “Molto più di me.”

“Ricordati sempre che siamo entrambi figli di una leonessa.” fece Bianca.

Il Riario deglutì un paio di volte. In realtà non si sentiva coraggioso come il figlio di una leonessa, tutt'altro. Se ripensava alla serva che lavorava alla villa e che gli era piaciuta fin dal primo momento, si sentiva un grandissimo codardo. L'aveva osservata di nascosto, ne aveva studiato le forme, si era consumato di rabbia quando aveva capito che suo fratello Ottaviano l'aveva avuto per due soldi, eppure, malgrado tutto questo, non aveva mosso un dito per provare anche solo a parlarle.

“Dici che sarà un maschio o una femmina?” chiese Galeazzo, volendo distrarsi.

“Un maschio.” rispose, con assoluta certezza Bianca, accarezzandosi il ventre.

“Come fai a esserne così sicura?” ribatté il fratello, divertito.

“Perché scalcia di continuo e mi mette una fame tremenda... Quindi ho pensato che potrebbe essere un maschio, uno di quelli con l'istinto da guerriero e sempre affamati – spiegò la Riario, per poi aggiungere – oppure sarà una femmina e assomiglierà in tutto e per tutto a sua nonna...”

Quell'accenno allo spirito bellicoso e ai forti appetiti della Tigre fece ridere entrambi per qualche istante, finché le campane della chiesa del convento non si misero a suonare con forza, richiamando entrambi alla realtà.

“Temo di dover andare – disse Galeazzo, allargando un po' le braccia – le suore non volevano concedermi più di un minuto... Nostra madre già è riuscita a ottenere il permesso per un po' più di tempo, ma...”

“Tranquillo.” la voce di Bianca era sottile, come se non volesse dare a vedere quanto le spiaceva doversi separare già dal fratello: “Spero che tornerai a trovarmi, prima che nasca tuo nipote.”

Il ragazzo gonfiò un po' il petto, quasi a voler dimostrare di avere tutte le carte in regola per essere un ottimo zio, e poi soggiunse, a mo' di congedo: “Vedrai che andrà tutto bene. So che stanno già pensando a come farvi sposare ottenendo il massimo vantaggio per tutto... Spero che risolvano tutto il più in fretta possibile, anche se mi spiacerà, quando non vivrai più con noi alla villa...”

“Potrai venire a trovarmi tutte le volte che vorrai.” si affrettò a promettere la giovane.

“Se ti servisse un soldato, in Emilia, conta su di me.” fece eco il Riario.

Senza più aggiungere nulla, i due si strinsero di nuovo la mano e poi Galeazzo fece un mezzo inchino, diede un buffetto al pancione della sorella, come a voler salutare anche il nascituro, e poi andò alla porta, salutando con un cenno del capo.

 

Cesare Borja guardava torvo l'orizzonte oltre le merlature del castello di Pavia. Gli avevano detto che proprio lì, per anni, l'erede legale al Ducato di Milano, Gian Galeazzo Sforza, era stato tenuto alla stregua di un ostaggio, e che anche la sua consorte, la stessa Isabella d'Aragona che in quei giorni si comportava da gran signora nel barese, aveva trascorso in una di quelle torri momenti a dir poco drammatici.

Il Valentino non si era intenerito, davanti a quella storia, benché il re di Francia ne avesse parlato in modo molto accorato. Non ci vedeva nessun dramma umano: era solo il naturale svolgersi degli eventi... Un erede troppo debole, come Gian Galeazzo, era stato messo da parte da un erede collaterale più forte, ossia Ludovico Sforza, detto il Moro. In fondo, non era successo un po' così anche tra lui e suo fratello Juan? Il più debole era finito in fondo al Tevere, mentre l'altro guidava l'esercito più forte d'Italia...

Il cielo sopra Pavia si stava scurendo. Alcuni cortigiani avevano spiegato al Duca di Valentinois che in quel periodo dell'anno non era strano che il calore eccessivo causasse dei temporali tremendi, con grandine e lampi, e probabilmente stava per vederne uno dal vivo.

Il vento caldo di metà agosto si sollevava da ogni angolo e creava dei piccoli mulinelli, mentre le nubi si addensavano sopra la testa del figlio del papa, oscurando il sole. Era pieno pomeriggio, ma sembrava già sera. In lontananza si sentì un tuono, profondo, roco, persistente.

Il buon senso gli avrebbe detto di rientrare, per non rischiare di bagnare e rovinare il farsetto nuovo che portava addosso, un vestito raffinatissimo, di un azzurro sgargiante e rifinito con fili d'oro e perle. Eppure c'era un forza misteriosa che teneva il Valentino ancorato alla pietra calda della merlatura.

Malgrado tutti i problemi più pressanti che lo assillavano, l'unica cosa a cui riusciva davvero a pensare quel giorno era Lucrecia. Aveva avuto notizia giusto la sera prima, da parte dei medici che aveva inviato personalmente a Ferrara, che la sorella non stava ancora bene e che il suo stato di gravidanza – che nessuno dei dottori aveva avuto la capacità di valutare con precisione nelle tempistiche – sembrava essere la vera ragione di ogni suo male.

Uno dei medici più esperti in materia, addirittura, aveva spiegato senza mezzi termini che la giovane non si sarebbe ripresa e sarebbe morta, se il bambino non fosse stato subito eliminato. Non era il termine esatto che aveva usato, ma nella testa di Cesare era il vocabolo più azzeccato.

Quell'intruso, messo a forza da Alfonso Este nel grembo della sua Lucrecia, era l'unico responsabile della sua malattia. Eliminato. Suonava così bene, come termine...

Sollevando gli occhi al cielo, nel momento in cui una prima calda goccia di pioggia colpiva la sua fronte, il Borja si chiese se anche a Ferrara stesse montando il temporale, o se, invece, ci fosse il sole.

Nella lettera di risposta ai dottori, si era permesso di suggerire che il bambino venisse 'eliminato' anticipando ciò che di certo la natura avrebbe fatto da sé, ma immaginava già le risposte piene di paura di quegli uomini di scienza. Gli avrebbero detto che il rischio superava i benefici, che nessuno di loro aveva il coraggio di fare una cosa simile, sapendo che la gestante avrebbe anche potuto morire dissanguata o per 'sangue avvelenato', come piaceva tanto dire a loro...

Con uno sbuffo, il Borja accolse il primo chicco di grandine, grosso più o meno come una noce. Si era misurato altre volte con quei pezzi di ghiaccio tondeggianti che cadevano dal cielo, ma ogni volta si chiedeva come fosse possibile che non si sciogliessero prima di toccare terra, con il caldo tremendo che faceva.

Si infilò il cappello con la piuma, per proteggersi un po' la testa, e guardò con aria di sufficienza le sentinelle che andavano a mettersi al riparo. Altro che la ferrea disciplina dei soldati lombardi di cui aveva tanto sentito parlare...

Con una smorfia tra il divertito e il rabbioso, l'uomo ricordò i soldati di Caterina Sforza e la loro incrollabile bellicosità. Un principio di grandinata come quello non li avrebbe fatti spostare di mezzo passo. Se non per senso del dovere, avrebbero tenuto le posizioni per non incorrere nelle ire della loro signora...

I colpi si facevano sempre più ravvicinati e pesanti, ma Cesare faceva come se nulla fosse. Si copriva il viso di quando in quando, ma provava uno strano piacere in quel lento tartassamento, così come stava apprezzando il freddo della pioggia che si mescolava alla grandine. Sentiva i propri abiti inzupparsi e non avvertiva alcun fastidio...

“Mio signore! Mio signore!” uno dei suoi paggi, quello più sgraziato e brutto, uno di quelli che teneva come ultima risorsa per divertirsi la notte, quando non trovava di meglio, lo stava raggiungendo di corsa, con le mani a coppa sul capo per proteggersi.

“Che c'è?” chiese il Duca, incrociando le braccia sul petto, ben deciso a non muoversi, malgrado i colpi di grandine alle gambe e alle spalle.

“Ho un messaggio da Governatore di Camerino per voi!” gridò il paggio, contrastando a fatica il frastuono della tempesta: “Dice che è urgente!”

Solo sentir nominare Camerino – caduta e presa, de facto, ma con una sacca di resistenza dei Varano ancora da debellare – irritò oltremodo il Borja che, con arroganza, allungò una mano e ordinò: “Dammi qua!”

“Ma con quest'acqua la lettera si distruggerà!” fece notare il ragazzo.

Suo malgrado il Valentino dovette dargli ragione e, seppur controvoglia, lo seguì sotto una delle tettoie. Il fracasso là sotto era ben peggiore che sui camminamenti, ma non c'era bisogno di parlare.

Il figlio del papa afferrò il messaggio, cercando di non bagnarlo troppo con le mani umide, e poi lesse in fretta le parole del Governatore di Camerino. Ciò che trovò scritto lo sorprese parecchio. Si era convinto di leggere notizie sui Varano, sulla loro sconfitta, o, nel peggiore dei casi, su una loro rivincita. Invece si parlava solo di Oliverotto da Fermo e di come stesse lasciando i suoi uomini liberi di fare scorrerie nella zona di Camerino, andando a impegnare inutilmente tanti soldati papalini che sarebbero serviti per debellare la minaccia dei Varano.

In altri tempi, Cesare avrebbe liquidato la cosa posponendo una decisione, ma dopo Forlì, dopo la guerra con la Leonessa di Romagna, qualcosa era cambiato in lui e stava capendo, passo a passo, che certi errori non andavano fatti. Così, con uno sguardo malinconico alla tempesta, decise di andare nei suoi alloggi per scrivere subito una risposta al Governatore.

“Vieni. Aspetterai la risposta e la farai partire all'istante.” decretò il Valentino, facendo in modo che il paggio lo seguisse.

Una volta in camera, ignorando il suono sgradevole che i suoi calzari zuppi facevano a ogni passo, il Borja andò alla scrivania e scrisse in pochi istanti un ordine categorico diretto proprio al Governatore di Camerino e a tutte le truppe papaline che si fossero trovate in zona: arrestare qualunque soldato di Oliverotto avessero trovato nei confini di pertinenza di Camerino. Inoltre, diede formalmente al Governatore il permesso di pretendere la restituzione immediata di tutti i capi di bestiame rubati dai fermani, nonché il risarcimento per quelli che invece erano stati già uccisi.

“Ecco.” disse Cesare, porgendo il foglio sigillato al paggio: “Fai in modo che la staffetta che mi ha portato il messaggio del Governatore torni subito a Camerino portando questo: è un ordine di massima urgenza.”

Il ragazzino non se lo fece ripetere, ben conoscendo l'irascibilità del suo padrone e, non appena ebbe il messaggio tra le mani, corse via per fare quel che gli era stato detto.

Rimasto solo, il Borja si rese improvvisamente conto di quanto fosse fradicio. Di colpo gli abiti pesanti e freddi gli davano fastidio e il cappello – su cui era rimasto qualche chicco di grandine a sciogliersi – gli pareva ingombrante e inutile.

Gettato di lato il copricapo, la cui piuma candida era ormai quasi distrutta, il Borja si spogliò del tutto, restando nudo. Scavalcando gli abiti che aveva lasciato in terra, raggiunse il piccolo camino della stanza e si adoperò finché non riuscì ad accenderlo. Faceva caldo, eppure l'odore familiare del legno che ardeva lo tranquillizzava, andando a coprire in parte la confusione del temporale, che ancora sferzava il castello di Pavia.

Tolse con fare nervoso il lenzuolo dal letto e se lo sistemò attorno alla vita, mimando quello che nella sua mente ricordava l'abito di un antico romano. Presa la sedia della scrivania, poi, andò a mettersi davanti al fuoco, rimirando le fiamme.

Non gli piaceva, quello che stava capitando vicino a Camerino. Era una crepa in un sistema che gli era sembrato perfetto fino a quel giorno. Quanto peso aveva avuto realmente Oliverotto in quelle scorribande? Ne era l'ideatore, aveva solo chiuso un occhio, o ne era addirittura all'oscuro?

Mordendosi il labbro, Cesare si passò distrattamente una mano sul petto. Oliverotto era l'unico cui tenere testa? Qualcun altro avrebbe alzato i toni, approfittando della sua lontananza?

Ormai il re di Francia era prossimo a tornarsene in patria, dunque da un lato avrebbe allentato il suo controllo sul Valentino, ma dall'altro avrebbe di certo dato l'illusione ai vari signorotti d'Italia di aver riacquistato una certa autonomia... Quanto poteva essere pericoloso per lui, quell'illusorio senso di libertà?

E poi non riusciva a non nutrire una segreta paura, riguardante la Tigre di Forlì. Fino a quel momento, quella donna era stata l'unica a saperlo mettere concretamente in difficoltà. Tutti gli altri, quando erano riusciti a rallentarlo, l'avevano fatto con la diplomazia, i sotterfugi o con le paroline giuste sussurrate all'orecchio di Luigi XII. La Sforza, invece, l'aveva messo in crisi con le armi, sul campo, il che per lui era qualcosa di inconcepibile, dato che poteva contare su uno degli eserciti più forti, meglio equipaggiati e più numerosi del mondo. Lei, con appena un pugno di uomini, aveva quasi indotto i francesi a ritirarsi e costretto lui alla resa...

Ultimamente aveva sentito troppe chiacchiere circa la volontà di Ippolita Sforza – ai suoi occhi un'inutile ragazzina – di influenzare il marito Alessandro e, di rimando, Bologna al punto da convincere tutti i Bentivoglio a sostenere e aiutare la Tigre di Forlì, qualsiasi cosa avesse deciso di fare, fosse anche riprendersi la Romagna. Il Borja riteneva che fossero tutte sciocchezze, perché era convinto che nessuno avrebbe avuto il coraggio di fargli un affronto del genere, ma la vita gli aveva insegnato da tempo che anche le ipotesi più assurde a volte si avveravano.

Dopo aver trascorso qualche minuto a rivedere il volto ferino della Leonessa, Cesare provò una paura profondissima e implacabile. Respirando in fretta e in modo irregolare, provò a dirsi che no, non era possibile: la Sforza non avrebbe mai recuperato i suoi Stati e mai, proprio mai, avrebbe trovato un esercito per fargli la guerra.

Appena riuscì a controllarsi un po', il figlio del papa si alzò dalla sedia, ritrascinandola alla scrivania con una mano, mentre con l'altra si teneva il lenzuolo attorno alla vita. Si sedette e prese subito una pagina pulita e intinse la punta della penna nell'inchiostro.

Sapeva bene che il lavoro principale che doveva fare, per proteggersi da una vendetta della Tigre era rafforzare l'esercito e, soprattutto, ottenerne il rispetto – cosa che ancora non gli riusciva affatto facile – ma era convinto anche che riordinare e rivedere laddove necessario le fortificazioni delle città al momento sotto il suo controllo fosse altrettanto importante.

Così, dopo un breve incipit, proseguì il suo messaggio chiedendo al suo destinatario – il Maestro Leonardo, quello per cui suo padre il papa aveva speso già tanti soldi e che, per ora, aveva fatto ben poco – di andare a visitare 'li lochi et fortezze de li Stati nostri, ed aciò che secondo la loro exigentia et suo judicio possiamo provvederli'.

Non nominò mai apertamente colei che più temeva, ossia Caterina Sforza, ma alluse a lei più volte, sicuro che un uomo scaltro come Leonardo capisse e si regolasse do conseguenza. Non era una novità, infatti, che la Leonessa avesse un modo tutto suo di intendere la guerra e l'esercito: dunque che il Maestro pensasse a rafforzi e tranelli ad hoc per tenerla lontana e farle passare ogni voglia di riconquistare la Romagna.

Dopo aver riletto tutto, sicuro di essere stato esaustivo, il Valentino firmò in calce e appose la data di quel tempestoso 18 agosto 1502.

   
 
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