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Autore: Ode To Joy    17/06/2022    0 recensioni
[Dazai & Mori Centric]
[Spin-off di “Poems By A Ghost”]
Dazai non aveva la minima idea di chi fosse Mori Ougai, ma non vi era alcun timore nel modo sfacciato in cui lo scrutava. Starnutì.
Nel silenzio assoluto della stanza, suonò come un colpo di pistola. Mori saltò come una molla e la lametta gli tagliò la pelle. Poche gocce di sangue caddero nel lavandino, andando a mischiarsi a quelle che rimanevano del vecchio Boss.
Brutto presagio.
“Oh, ti sei distratto,” commentò Dazai, con voce incolore. “Ma dalle cicatrici che hai sulla schiena, sei abituato a essere colpito alle spalle.”

[…]
Un passo indietro, all’inizio della storia, ai giorni in cui Mori muoveva i suoi primi passi come Boss e Dazai cominciava la sua educazione per divenire il più giovane dei cinque Dirigenti.
La nascita della Port Mafia come Yokohama la conosce oggi.
[Trans!Dazai] [Accenni Fukumori]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kouyou Ozaki, Nuovo personaggio, Osamu Dazai, Ougai Mori, Ougai Mori, Ryurou Hirotsu
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'These Brand New Pages'
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0.3


C’era stato un tempo in cui vedere quei cinque grattacieli neri da ogni angolo di Yokohama lo aveva fatto sentire al sicuro. Crescendo, erano divenuti il simbolo della gabbia dorata in cui era costretto. Li aveva odiati al punto che era fuggito dall’altra parte del mondo per dimenticare. Non c’era riuscito. 

A quindici anni, aveva lasciato quella città a testa alta, pronto a dimostrare a chiunque che il figlio maledetto dei Mori non aveva ragione di temere il mondo. Forse, al contrario, il mondo avrebbe imparato a temere lui.

Tre anni dopo, Rintarou ripensava a quel ragazzino e provava sincera invidia per tutta la forza d’animo con cui aveva ribaltato completamente la propria posizione.

Aveva freddo - l’inverno non era mai gentile a Yokohama - ed era stanco - suo padre aveva chiesto e preteso che se ne andasse dalla città nel cuore della notte, lontano da occhi indiscreti - e non era certo se casa fosse quella che stava lasciando per la seconda volta o quella a Weimar, in Germania, da Hans.

In Europa c’era la guerra ma lì, nella sua città natale, di sicuro non regnava la pace.

Non c’era più un posto sicuro, non per Mori Rintarou.

Nel buio della sala, il rumore dei tacchi lo raggiunse prima della voce della sua accompagnatrice. “Buon compleanno.”

Rintarou sbatté le palpebre un paio di volte, poi allontanò gli occhi scuri dalle luci di quei cinque grattacieli maledetti per incontrare quelli gentili della propria madre. La donna che lo aveva cresciuto, non quella che lo aveva messo al mondo.

“È passata la mezzanotte,” spiegò Mori Hasu[1], rimanendo in piedi al suo fianco. “È il diciassette febbraio. Auguri per i tuoi diciotto anni, tesoro.”

“Grazie,” disse Rintarou, ma il sorriso che le rivolse non raggiunse i suoi occhi.

Hasu non ne fu sorpresa, ciò non le impedì di dispiacersi. “Io e tuo padre abbiamo pensato a questo giorno per tanto tempo, sai?” Si sedette accanto a lui. 

Il giovane scrollò le spalle. “Perché dovrebbe essere un compleanno diverso dagli altri? È solo un numero, un anno in più.”

“Non hai mai mostrato timidezza nel celebrare te stesso, Rintarou.”

“Un sacco di cose a cui davo importanza non ne hanno più.”

Hasu sorrise, comprensiva. “È esattamente questo di cui parlo,” disse. “Sei diventato grande. Diciotto può essere solo un numero, ma per un genitore fa un certo effetto quando è accostato all’età del proprio primogenito.”

Rintarou scivolò contro lo schienale del suo posto, assumendo una posizione decisamente più sgraziata. “Ci sono altri tre diciottesimi compleanni nel vostro futuro. Il mio non è poi un evento così unico nella nostra famiglia.”

“Lo è,” insistette sua madre. “Io e tuo padre ci emozioneremo anche per le tue sorelle, ma tu sei il primo. Tu sei e sarai sempre il primo.”

Rintarou non sapeva davvero come replicare a quell’affermazione. Non aveva ricevuto più o meno amore delle proprie sorelle. Era solo stato il figlio più propenso a dare preoccupazioni e gli ultimi eventi non facevano che confermare quel tipo di condotta. “Me ne sono andato di casa a quindici anni. Non credo che la mia maggiore età vi abbia fatto realizzare di colpo che sono diventato grande,” disse. “Piuttosto, credo che il punto dolente sia sapere che il vostro primo figlio avrà presto un bambino.”

Hasu sollevò una mano per giocare coi suoi capelli e il ragazzo la lasciò fare. “Non chiamarlo punto dolente.”

“Mamma, per favore-“

“Io e tuo padre siamo qui, Rintarou,” lo interruppe lei, ferma. “Il timore con cui sei tornato a casa è più che comprensibile, ma non esitare mai più a chiederci aiuto. Il tuo bene e quello delle tue sorelle sono la nostra prima priorità.”

Rintarou abbassò lo sguardo, fissando la punta delle proprie scarpe. “Papà non mi vuole qui.”

“Non è vero e lo sai.”

“Allora c’è qualcosa che non va.” Rintarou strinse i pugni. “Perché tutta questa segretezza? Perché questo muoversi in silenzio, quasi in punta di piedi? Di che cosa avete paura?”

Sua madre gli aggiustò una ciocca di capelli corvini dietro l’orecchio. “È meglio per te restare insieme a Goethe.”

“Hans sta combattendo una guerra mondiale, mamma,” ribatté Rintarou. “Il fatto che l’Europa sia il centro di tutto non significa che il resto del globo resterà sicuro. Non esiste un qualcosa che sia meglio per me. È esattamente il contrario. È tutto sbagliato!”

“Rintarou.” Hasu fece scivolare la mano sulla nuca del figlio, spingendolo a guardarla negli occhi. “Il potere di Goethe può fare la differenza in questa storia. Inoltre, anche se tuo padre non lo considera un punto a suo favore, è il padre del tuo bambino e la persona che hai scelto per te. È giusto che stiate insieme.”

“Non ho mai detto che non voglio stare con Hans,” replicò il più giovane. “Vorrei non dover fare questa cosa con lui o con voi. Vorrei solo che tu e papà foste sinceri con me.”

“Non abbiamo nulla da nascondere.”

“Avete nascosto me. Perché?”

Hasu si umettò le labbra. “Non sei un ingenuo, Rintarou.”

No, non lo era e proprio per questo aveva bisogno di risposte esaustive e non di quei continui messaggi tra le righe a cui non riusciva a dare una degna interpretazione. “Che cosa sta succedendo alla Port Mafia?” Aveva fatto la stessa domanda a suo padre e non era servito a niente.

La sua speranza era che sua madre fosse meno evasiva.

Ma i coniugi Mori erano sempre stati in grado di portare avanti un ottimo gioco di squadra. Non si sarebbero traditi mai, nemmeno di fronte a uno dei loro quattro figli. “Il tuo Hans starà bene,” lo rassicurò sua madre, anche se non glielo aveva mai chiesto. “Se insieme siete riusciti ad avere la meglio su tuo padre, una guerra non è poi così difficile d’affrontare.”

“Non è divertente, mamma.”

“So benissimo che non lo è, tesoro. Vuoi che ti dica che avrei voluto qualcosa di diverso per te? Se ami Goethe e lui ti ama, non c’è veramente nulla su cui posso obiettare. Avrei voluto qualcosa di diverso per me e tuo padre, questo sì. Perdonaci, Rintarou, è solo l’egoismo di due genitori che avrebbero voluto vederti diventare grande ed essere felice sotto i loro occhi e non dall’altra parte del mondo.”

Rintarou artigliò la stoffa del cappotto nero. Era grato che fosse inverno perché i vestiti gli permettevano di celare qualcosa che già si vedeva, ma che non era pronto a condividere col mondo. Forse non lo sarebbe mai stato. 

Come aveva detto Hasu, Rintarou non era timido e attirare gli sguardi gli veniva naturale come respirare. Suo figlio era una cosa diversa, che era disposto a condividere solo con Hans e le persone che considerava famiglia.

“Non preoccuparti, mamma,” disse, pensieroso. “Il karma saprà come punirmi.” 

“Non vederla così. Penso che gli errori dei genitori servano a spingere i figli a diventare migliori di loro.”

Rintarou strinse la mano di Hasu e si rese conto di quanto era piccola, rispetto alla propria. Un tempo, stupidamente, aveva associato il concetto di diventare grande a quello di libertà. L’esperienza gli aveva insegnato che era completamente il contrario. Il cuore del giovane Mori era diviso in due: da una parte, vi era la nostalgia per i giorni in cui i suoi genitori lo tenevano per mano e tanto bastava a farlo sentire al sicuro; dall’altra vi era il desiderio di fare lo stesso con suo figlio e il timore di non riuscire a dargli quello che aveva ricevuto lui.

“Immagino che il commettere errori vada di pari passo con l’essere un genitore che fa il meglio che può,” disse Rintarou. “So di essere stato arrabbiato con voi per un po’. Eppure, se avete fatto degli errori, ora non me li ricordo più.”

Perché era diventato grande, perché aveva imparato a vedere tutto in prospettiva. Perché ora la libertà non era una fuga dall’altra parte del mondo, ma la possibilità di stare con chi amava, senza che nessuna minaccia invisibile - come qualunque cosa stesse succedendo all’interno della Port Mafia - o visibile - come la guerra in Europa - impedisse loro di essere felici.

Rintarou non si accorse che Hasu stava piangendo, fino a che non la sentì tirare su col naso. Si allarmò. “Mamma-“

“Hai le mani fredde.” Hasu si tolse la sciarpa nera che aveva intorno al collo e si sollevò in piedi per avvolgerla intorno al proprio primogenito. 

Alla fine di quella storia, Rintarou sarebbe anche potuto tornare a Yokohama nelle vesti di un ufficiale medico, di un eroe di guerra e anche di genitore, ma questo non gli avrebbe impedito di continuare a essere un figlio.

“È indispensabile che impari a prenderti cura di te stesso,” disse Hasu. “Non dovrai farlo solo fino alla nascita del bambino, ma anche dopo. D’ora in avanti, non ci si gioca più il tutto e per tutto.” Aggiustò i capelli corvini dietro le orecchie del figlio e il neo diciottenne alzò gli occhi per guardarla. “Non avrai più il lusso di pensare a te stesso come sacrificabile. Hai capito?”

Rintarou aggrottò la fronte. “Se paragonato a mio figlio-“

“Il sacrificio estremo per un figlio è una cosa stupida,” disse sua madre, schietta. “In questo mondo, un bambino senza qualcuno che lo protegga è condannato. Sei cresciuto alla Casa dei Fiori, sai da dove vengono la maggior parte di quelle fanciulle.”

“Mi stai dicendo di farmi da parte?” Domandò Rintarou. “Tu hai cresciuto me, hai avuto le mie sorelle e non l’hai mai fatto.”

“Sono due le parole chiave: rischi calcolati.”

“Non esistono veri rischi calcolati. L’imprevisto fa parte del gioco.”

Hasu si chinò per prendere il viso del figlio tra le mani. “E tu dovrai essere più bravo del gioco,” disse. “No, tu dovrai essere il gioco. Non deve accadere nulla che tu non abbia già preventivato, compresi gli errori dei tuoi alleati o le vittorie dei tuoi nemici.”

Rintarou non capiva. “Questi non sono consigli da genitore, questa è una lezione di guerra.”

Hasu gli prese la mano e lo invitò a portarsela in grembo. “Non ha importanza cosa farai e chi diventerai, tutto inizia e finisce con lei.”

Il diciottenne inarcò il sopracciglio destro e un sorriso curioso comparve sulle sue labbra. “Lei?”

Hasu scrollò le spalle. “Considerala l’intuizione di una mamma,” disse.

Rintarou chiuse la mano a pugno. “Non ci ho mai pensato,” ammise. “Non mi sono mai fermato davvero a pensare a quello che mi sta succedendo.”

Hasu sorrise, comprensiva. “La terrai tra le braccia, la guarderai e non saprai spiegarti come sia possibile che sia lì, con te.”

Non era nella natura di Rintarou credere a quel genere di storie. “Sono un medico, mamma, so benissimo il come e il perché e non ne parlerò con uno dei miei genitori, mi dispiace.”

Hasu rise. “Quando lo hai scoperto non lo hai creduto possibile, no?” Gli ricordò. “Non permettere a questo mondo di prenderti alle spalle, Rintarou, è pericoloso. Lei però… Lei saprà sorprenderti.”

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. “Dopo tre femmine, non hai voglia di variare un po’?”

Sua madre gli lanciò un’occhiata eloquente. “Vuoi davvero deludere le tue sorelle?”

“Per carità…” 

“Allora è deciso, amore mio, dai alla luce una bella bambina sana.”

La conversazione finì lì. 

L’eco dei passi di Hirotsu li raggiunse prima che la sua figura fosse visibile nella sala d’aspetto buia. “Mia signora, il jet per il signorino è pronto.”

Rintarou si alzò in piedi. “Mi accompagni?”

Come quando era bambino, sua madre gli prese la mano. “Certo, tesoro.”

Hirotsu fece strada. Quando arrivarono all’ascensore che li avrebbe condotti alla pista di decollo, Rintarou ebbe l’impressione che il momento di partire fosse arrivato troppo presto. “Non c’è pericolo che vi perdiate l’evento,” disse Rintarou, guardando sua madre. “La bambina dovrebbe arrivare a luglio. È mia intenzione tornare a casa in primavera, quando non mi sarà ancora troppo difficile viaggiare. Voglio che nasca qui, a Yokohama.” Una pausa. “Certo, nella speranza che non avvenga la fine del mondo.”

Alla sua battuta, Hasu sorrise ma quell’espressione non raggiunse i suoi occhi.

Rintarou se ne accorse. “Mamma?”

Le porte dell’ascensore si aprirono

Hasu strinse le braccia intorno a suo figlio con forza, come se avesse di colpo paura di vederlo partire. Rintarou ricambiò l’abbraccio, esitante. “Mamma, che cosa-“

“Sei la cosa più bella che tuo padre mi abbia mai dato,” disse Hasu, baciandogli la guancia. “E sono certa che un giorno penserai lo stesso anche di tua figlia.”

Mori Rintarou non poteva saperlo, ma quella fu l’ultima volta che sua madre lo abbracciò.


X

 

-14 anni dopo-


Dazai si pentì di non aver indossato gli stivali nel momento in cui mise piede fuori dall’auto. La neve sul vialetto era stata raschiata via per permettere all’auto di passare, ma il sottile strato che vi era rimasto era divenuto una perfetta lastra di ghiaccio. Tempo di fare un passo e, per poco, Dazai non si ritrovò con il sedere per terra. Per sua fortuna, i riflessi di Mori erano ancora abbastanza allenati da riuscire ad acciuffare un ragazzino in caduta.

Il Boss gli lanciò un’occhiata per comunicargli: te l’avevo detto.

Il quattordicenne gonfiò le guance, offeso, e rimase in silenzio.

Non c’era vento ma il solo respirare congelava i polmoni. Dazai non era abituato a quel genere di freddo, ma Mori non ne era affatto disturbato. 

“Benvenuti a Villa Diodati, miei signori.” 

Dazai sollevò gli occhi scuri e solo allora vide l’uomo anziano che li attendeva sotto il colonnato dell’abitazione. Era vecchio, molto vecchio. Anche Hirotsu aveva i capelli e i baffi grigi, eppure Dazai era certo che quell’individuo potesse essere suo padre. I suoi abiti - che lo facevano sembrare un maggiordomo di altri tempi - non erano affatto adatti alla temperatura esterna. Ciò nonostante, se ne stava con la schiena dritta - per quel che la sua gobba gli permetteva - ad attendere che gli ospiti lo raggiungessero.

Mori mosse un passo in avanti, come se non credesse ai suoi stessi occhi. “Impossibile…” Mormorò.

Dazai notò che era sinceramente sorpreso.

“Fletcher[2], è davvero lei?” Domandò il Boss della Port Mafia.

Il vecchio chinò appena la testa. “È un onore per me rivederla dopo tanti anni, signorino Rintarou.”

Mori ridacchiò, salendo le scale dell’ingresso. “Temo di non essere più un signorino da diversi anni, ormai.”

Dazai lo seguì, stando attento a non scivolare sui gradini. Le scarpe ai suoi piedi erano a dir poco inadatte per quel luogo e la neve era arrivata a bagnargli sia l’orlo del pantaloni che i calzini.

“Non è invecchiato di un giorno,” commentò Mori, ignorando le tribolazioni del giovane alle sue spalle.

A Dazai venne da ridere. Se lo fosse, sarebbe mummificato. Pensò.

Quando arrivò al fianco del Boss della Port Mafia, aveva il fiatone e, nonostante il freddo, sentiva il sudore appiccicargli la camicia alla schiena. Se non si fosse cambiato in fretta, si sarebbe preso un bel raffreddore, forse una polmonite. Di colpo, l’idea non lo disturbò poi così tanto: se un’infezione gli bucava i polmoni, Dazai sarebbe morto soffocando nel proprio sangue ma velocemente.

Non ebbe il tempo di esporre quel pensiero al medico al suo fianco, che gli occhi del vecchio lo inchiodarono sul posto. Aveva il viso arcigno, reso spigoloso dall’età avanzata. Se la villa sembrava uscita da una fiaba, lui ne era lo stregone malefico.

“Perdonate, Rintarou-“

Mori, prego,” lo interruppe il Boss della Port Mafia.

“Ai tempi della prima estate della Grande Guerra, si vociferava della nascita di una figlia vostra e del giovane Johann,” disse Fletcher, completamente preso in contropiede dalla presenza di un ragazzino.

Dazai inarcò le sopracciglia: Mori aveva parlato di un figlio suo e del suo amante tedesco, sì, ma gli aveva anche detto che non era mai venuto al mondo. 

“Temo che si sbagli, Fletcher,” disse Mori, come se si trattasse di un errore da poco. “Io e Johann non abbiamo mai avuto figli. Non ho idea di chi sia la bambina di cui parla.”

L’espressione di Fletcher non cambiò di una virgola. “Come devo considerare il signorino?” Domandò, fissando Dazai da capo a piedi.

“Non come un signorino,” rispose Mori. “Il suo nome è Dazai Osamu. È un orfano sotto la mia custodia e mio assistente.”

A Dazai continuava a non piacere quel termine, ma stava cominciando a farci l’abitudine.

Fletcher storse la bocca in una smorfia. “Strano,” commentò, con una libertà che nessun domestico avrebbe dovuto avere. “Guardandolo, avrei giurato che fosse figlio suo, Mori.”

Il Boss prese la cosa a ridere. “No, per carità. Ho commesso tanti crimini e peccati nella mia vita ma questo…” Indicò Dazai, come a sottolineare che non era responsabile in alcun modo per la sua esistenza.

Il ragazzino alzò gli occhi al cielo. “Ho freddo,” disse, schietto. “Voglio entrare.”

Mori si finse esasperato. “Suvvia, Dazai, un po’ di pazienza ed educazione.”

“Lord Byron vi sta già aspettando nel salone della musica. Immagino lo ricordiate, Mori.”

L’uomo annuì. “Come dimenticare la mattina in cui ho svegliato l’intera villa suonando il pianoforte a coda in quella stanza!”

“Ah…” Commentò Dazai, che era stanco di venir ignorato. “Eri noioso anche allora. Per non dire un rompico-“

“Le volte che hai detto una parolaccia in mia presenza le posso contare sulle dita di una mano sola,” disse Mori, seriamente irritato. “Vuoi cambiare condotta proprio adesso?”

“Ho freddo!” Si lamentò Dazai ad alta voce.

E ora chi sarebbe il rompicoglioni? Mori si tenne quella domanda per sé o nessuno dei presenti sarebbe vissuto abbastanza per vedere la fine di quella discussione - Fletcher non di sicuro.

Per un attimo, il vecchio maggiordomo li ignorò per rivolgersi al loro giovane autista, intento a scaricare i bagagli dalla macchina. “Porta tutto nelle cucine, passando dalla porta sul retro,” ordinò Fletcher. “Quando hai finito, aspettami lì e parleremo del tuo compenso.”

Dazai avvertì qualcosa di sinistro in quelle parole, ma non diede voce ai propri dubbi o sarebbero rimasti a congelare sotto quel colonnato per davvero. 

“Prego, miei signori, seguitemi,” disse Fletcher, entrando nel portone d’ingresso della villa col passo incerto di chi avrebbe bisogno di un bastone per camminare, ma è troppo orgoglioso per accettarlo.

Non appena l’aria calda della grande casa accarezzò le guance di Dazai, rendendole bollenti e rosse per il repentino cambio di temperatura, sentì Mori premergli la mano tra le scapole. “Qualunque cosa accada, rimani al mio fianco,” lo istruì il Boss della Port Mafia. “Mai un passo indietro. Voglio poterti vedere in ogni momento.”

Dazai si limitò ad annuire e ripresero a camminare. Le loro scarpe sporche di fango e neve lasciarono delle tracce spiacevoli sull’enorme tappeto dell’ingresso, ma Fletcher non sembrò curarsene. “Da questa parte,” disse il vecchio, guidandoli nella sala alla destra dell’ingresso. 

Mentre lo attraversavano, Dazai diede un’occhiata alla scalinata in marmo bianco che portava al piano di sopra. Era certo che avrebbero esplorato quella zona della villa più tardi, ma ora era il turno dell’ingresso in scena di Lord Byron.

La prima cosa che Dazai vide nell’entrare nella sala della musica fu il pianoforte a coda di cui Mori aveva parlato. Dal modo in cui gli occhi scuri dell’uomo indugiarono sullo strumento, il quattordicenne fu persuaso a credere che fosse lo stesso che aveva suonato tanti anni prima.

Il padrone di casa li aspettava poco più avanti, con il gomito appoggiato sul davanzale del caminetto acceso e un calice di vino rosso stretto nel pugno. Mori non aveva speso molte parole per descrivere Byron a Dazai e questo era bastato al ragazzino per convincersi che fosse un personaggio privo di fascino. Pur non avendo alcuna aspettative, quando lo vide, rimase deluso.

“Rintarou!” George si allontanò dal fuoco e porse la mano destra al vecchio conoscente per dargli il benvenuto. “Ma guarda un po’...” L’incanto nei suoi occhi a Dazai diede quasi fastidio. “Trentadue anni e non sei cambiato di una virgola da quando ne avevi diciassette.”

Mori forzò un sorriso cortese. “Non posso dire lo stesso di te, George.”

Era ovvio che Mori non avrebbe perso tempo in parole lusinghiere senza fondamento. Dazai non aveva conosciuto il giovane Byron, ma era certo che un tempo i riccioli neri fossero rigogliosi e non radi, che non fosse tanto stempiato e che, soprattutto, non dimostrasse almeno dieci anni di più di Mori, di cui era quasi coetaneo. Una vita fatti di vizi e sregolatezza aveva spinto George Gordon Byron verso una vecchiaia precoce e che non si addiceva per nulla alla sua antica fama di rubacuori.

Il padrone di casa non prese a male il commento del suo ospite. Al contrario, rise, come se ne fosse deliziato. “Sapevo che per avere una conversazione degna di tale nome dovevo invitare te!” Esclamò, appoggiando il calice di vino sul davanzale del caminetto. “Lo avevo detto. Vero, Fletcher?”

Il maggiordomo annuì, senza nessuna particolare espressione ad animargli il viso. “Lo avevate detto, sì, signore.”

Subito dopo, Byron fece un gesto annoiato nella sua direzione, come a dire di togliersi di mezzo. “Vai a occuparti del ragazzo che ha accompagnato i nostri ospiti. Ti ho già dato istruzioni, mi pare.”

“Sarà fatto, My Lord.” Fletcher chinò la testa, poi lasciò la sala, richiudendosi la porta alla spalle.

“Te lo confesso, Rintarou, non credevo avresti mai-“ Byron s’interruppe non appena vide il ragazzino al fianco del Boss della Port Mafia. 

La sorpresa nello sguardo dell’uomo bastò ad annoiare Dazai più di quanto già non fosse. 

Abort Mission.

Lord Byron era l’ombra dell’uomo che era stato e non aveva assolutamente niente d’interessante da offrire. Dazai quasi sperò che Mori gli chiedesse la somma di denaro di cui avevano bisogno lì, sul momento, senza troppe cerimonie.

“Sta tremando,” commentò Byron.

Quando Dazai si accorse che parlava di lui, rimpianse di non essere più invisibile.

“Non ha voluto mettere i vestiti adatti e ora ha tutti i piedi bagnati,” spiegò Mori, come un genitore esasperato dalla condotta ribelle del proprio figlio adolescente.

“Posso chiedere a Fletcher di far preparare un bagno per lui e dei vestiti caldi,” disse Byron.

“Non è necessario,” ribatté Mori. “Farà il bagno più tardi, quando ci ritireremo nelle nostre stanze.”

Dazai capì di non aver alcuna voce in capitolo e nemmeno si disturbò a parlare. 

Byron scrollò le spalle. “Allora, sedetevi pure!”

Vi erano due poltrone alla destra del camino e un divano sulla sinistra. Mori e Dazai optarono per quest’ultimo, senza nemmeno guardarsi.

“Allora, Rintarou…” Byron si sedette e incrociò le gambe. “Questo secondo Fiore d’Oriente è opera tua?”

Dazai aggrottò la fronte: quest’uomo delirava, non c’era altra spiegazione.

Tuttavia, Mori rise, come se quello che aveva appena detto avesse alcun senso. “Credimi, non sarebbe un fiore neanche se m’impegnassi anima a corpo a renderlo tale.”

Dazai impiegò un istante di troppo a capire che stavano parlando di lui. “Cosa sarei?” Domandò, disgustato.

“Un Fiore d’Oriente,” disse Byron, felice di sentire la voce del ragazzino. “Era così che tutta Europa chiamava Rintarou, quando era solo un adolescente. Quanti anni hai…”

“Dazai,” si presentò il ragazzino. “Il mio nome è Dazai Osamu e ho quattordici anni.”

“Osamu…” Ripeté Byron, facendo pratica con il suono di quel nome straniero. Si rivolse a Mori: “di chi è?”

Mori finse di non capire. “È sotto la mia custodia. Legalmente, è mio.”

Non ho firmato da nessuna parte per una simile condanna, replicò Dazai, nella sua testa.

Byron rise. “Avanti, Ribtarou, mi vuoi dire che non è figlio tuo? Non solo ti somiglia, quando parla, ha anche il tuo stesso tono seccato.”

Quell’errore di valutazione due volte di seguito era un po’ troppo per i nervi di Dazai. “Sono figlio del Nulla,” lo disse ad alta voce, così che al padrone di casa fosse chiaro.

Byron aggrottò la fronte. “Affermazione bizzarra.”

“È la pura e semplice verità,” disse Dazai, gelido.

Mori allungò la mano e l’appoggiò sulla sua gamba. “Non essere insolente,” lo avverti. “Anzi, perché non vai a farti quel bagno?” Propose. “Le labbra ti stanno diventando blu.”

“Chiamo Fletcher.” Byron fece per alzarsi.

“Non è necessario,” disse il Boss della Port Mafia. Con un breve bagliore viola, Elise comparve accanto al divano. “Ricordiamo dove si trova la nostra camera,” disse la bambina. “Non c’è alcun bisogno di disturbare nessuno.”

Byron sgranò gli occhi. “Interessante…” Commentò. “Non te lo avevo mai visto fare.”

“Trucchetti che s’imparano crescendo e facendo pratica,” disse Mori, poi si rivolse a Dazai. “Resta con Elise,” disse, nascondendo l’ordine con tono gentile. “Non allontanarti da lei.”

Dazai voleva obiettare in mille modi. Non solo non voleva essere escluso da quella conversazione, ma rimanere da solo con Elise era l’ultimo dei suoi desideri. Qualcosa lo fermò dal fare i capricci come suo solito. Un dettaglio che Mori aveva nascosto tra le righe proprio perché era lui.

Resta con Elise. Non allontanarti da lei. Il Boss della Port Mafia non era stato schietto, non gli aveva ordinato di non toccarla. Come gli aveva già anticipato a Yokohama, Mori stava nascondendo la sua abilità a Byron di proposito.

Si alzò in piedi e mentre Elise saltellava fuori dalla stanza, la seguì.

I suoi occhi non lasciarono quelli di Mori, fino a che la porta non li separò.





 

“Sul serio, chi è quel ragazzino?” Domandò Byron, avvicinandosi al tavolo dei liquori per versare del vino rosso al suo ospite.

“Come ho detto anche al tuo vecchio Fletcher,” rispose Mori, accettando il calice pieno a metà. “È un orfano che ho preso sotto la mia custodia. Lo sto educando perché divenga un pezzo grosso all’interno della Port Mafia. La cosa non dovrebbe sorprenderti, ti ho raccontato come funzionano le cose nel mio mondo. Il sangue non è tutto, non come voi nobili.”

“Ricordò bene le nostre conversazioni riguardo il mondo delle tenebre da cui vieni.” Byron tornò alla sua poltrona. “Quello che mi sorprende è che rammento perfettamente di aver visto quelle ombre nei tuoi occhi, durante l’inverno che tu e Johann passaste qui. Un attimo fa, mi è sembrato di rivederle anche in quelli del fanciullo…”

Mori simulò un’espressione malinconica. “Dazai è un figlio della guerra. Tutti i bambini della sua generazione hanno quelle ombre negli occhi. Non significa niente.”

Byron prese un sorso di vino. “Forse…” Concordò, ma con poca convinzione. “È vero che persone per nulla legate tra loro si somigliano senza alcun motivo, eppure ammetto di aver avvertito un brivido lungo la schiena nel guardarlo.”

Mori alzò gli occhi al cielo. “La tua memoria ti gioca brutti scherzi,” disse. “Sono i capelli scuri e gli occhi grandi dello stesso colore a ingannarti. È tutto un gioco di chiaroscuri."

Byron ridacchiò. “Se continuate a vestirvi di nero…”

“È il colore della Port Mafia.”

“Male, non lo amo particolarmente.”

Mori osservò il completo a tre pezzi che il padrone di casa indossava. Era elegante, color marrone, e doveva essere costato un occhio della testa. Lo sguardo attento del Boss della Port Mafia si accorse che era liso, forse vecchio di anni e le cuciture erano state riprese in più punti. 

Mori storse la bocca in una smorfia delusa: Byron poteva essere invecchiato male a causa della sua vita dissoluta, ma se non riusciva a permettersi nemmeno un completo nuovo per far colpo su di lui, forse la ragione che aveva spinto lui e Dazai a compiere quel viaggio non esisteva. Doveva scoprirlo in fretta. Aveva lasciato una Yokohama sospesa, in equilibrio precario e se l’esiliato della Torre dell’Orologio non poteva riempire le sue casse, la sua presenza era richiesta altrove.

“Mi hai scritto una lettera.” Mori arrivò dritto al punto.

Ogni traccia di allegria scomparve dal viso di Byron. “Ti ho scritto una lettera,” confermò.

“In quella lettera chiedevi un posto nel mondo dei dotati di abilità.” Mori non aveva alcuno scrupolo a umiliarlo, se questo serviva a raggiungere in fretta la verità. “Mi hai scritto di essere in possesso della somma necessaria per comprarti un posto da Dirigente.”

Byron allargò le braccia. “Ho le mie fonti,” disse. “Una successione per omicidio è pur sempre turbolenta e delle casse piene di denaro aiutano molto a equilibrare le cose.” Fissò l’uomo dai capelli corvini dritto negli occhi. “Perché hai ucciso il tuo predecessore, non è vero?”

Mori non si sentì sotto pressione: la morte del Boss Folle all’Europa faceva solo comodo e a nessuno importava come si era consumata. Le sue labbra si piegarono in un sorriso diabolico. “Ho fatto quel che andava fatto,” disse.

Gli occhi di Byron si riempirono di entusiasmo. “Io l’avevo detto!” Esclamò, puntando l’indice contro il suo ospite. “L’avevo detto prima di chiunque altro, anche prima di Johann stesso. Mentre nessuno di noi ti dava la giusta attenzione, saresti arrivato sopra tutti. Il tempo mi ha dato ragione.”

“Tanto ragione che non hai esitato a farti sentire e a propormi il tuo sostegno,” aggiunse Mori. “Tuttavia…” Si guardò intorno. “Dove sono le garanzie, George? Questa villa è in stato di semiabbandono. Il ragazzo che ci ha raccolti in aeroporto non è il tuo autista di fiducia e il vecchio Fletcher è l’unico domestico che ti è rimasto. Forse nemmeno lo paghi. Sono certo che resterebbe al tuo fianco solo per lealtà nei tuoi confronti.” Il Boss della Port Mafia si sporse in avanti, appoggiando il calice di vino sul basso tavolino tra di loro. “Dici di volerti comprare il posto da Dirigente e, per quanto non sia il genere di condotta che mi piace seguire, sono disposto ad accettare la tua proposta per le ragioni che hai già detto. Ma dove sarebbero tutte queste ricchezze? La fama dei Byron ti precedeva quindici anni fa, ma ora sei rimasto solo tu, con i tuoi scandali e il tuo esilio della Gran Bretagna.”

Mori prese un respiro profondo dal naso, appoggiandosi allo schienale del divano e incrociando le gambe. “Io non vedo l’uomo che ha battuto tutti andando contro l’etichetta e il sistema, vedo solo l’ombra di un giovane che era leggenda in tutta Europa.”

Fu il turno di Byron di abbandonare il proprio calice. Le sue labbra erano tirate in un sorriso che non raggiungeva i suoi occhi. “Non giudicarmi del mio aspetto,” lo pregò. “Né da quello della mia casa,” aggiunse. “La verità, Rintarou, è che non provo alcun interesse per la mia persona da molto tempo. Respiro, mi nutro e mi alzo dal letto ogni mattina, ma non ricordo l’ultima volta che ho sentito la scintilla della vita animare il mio petto.”

Mori non ne era sorpreso. Quella era la fine a cui andavano incontro la maggior parte degli uomini come Byron: volevano di più, sempre di più, finché non c’era altro da ottenere e non rimaneva che il vuoto.

“Il denaro che mi è rimasto è sufficiente a far gola alla Torre dell’Orologio stessa,” disse Byron. “Ma non devo altro che disprezzo a quelle persone. Ho vissuto fuori dalle loro regole tutta la vita e voglio concludere in bellezza, come Dirigente della tua Port Mafia.”

Mori appoggiò il mento al pugno chiuso. “Vuoi dirmi che le ricchezze ci sono, ma che tu non hai più interesse ad usarle per te stesso.”

“Ho fatto tutto quello che un uomo può fare su questa terra,” ammise Byron. “Ho fatto mio ogni vizio, ogni fonte di piacere. Ti confesso che neanche il sesso riesce più ad appagarmi.”

“Non m’interessa.”

“La Grande Guerra non ha distrutto solo il mondo tuo e di Johann, Rintarou,” disse Byron. “Quello che ti chiedo è un senso agli anni che mi rimangono. Le mie mani sono sporche di sangue. Sono già un criminale sotto molti punti di vista. Dammi quella poltrona da Dirigente, fammi sentire ancora vivo!”

Mori avrebbe mentito se avesse detto che non si era aspettato una cosa del genere. George Gordon Byron era sempre stato alla spasmodica ricerca di qualcosa, un posto da poter occupare e chiamare suo. Non riuscendoci, aveva tentato di appartenere a ogni luogo, di far sua ogni storia del mondo. Aveva reso se stesso un personaggio, qualcuno di cui parlare e, alla fine, si era perso. Senza radici, senza una casa o una famiglia da cui tornare, si era rifugiato dove i suoi anni migliori gli avevano dato le emozioni più forti ed era rimasto lì, nella polvere, ad aspettare un’occasione per vivere di nuovo.

Mori scrollò le spalle. “Hai dei documenti contabili?” Domandò. “Non posso accettare nessuna proposta sulla parola, penso che questo tu possa capirlo.”

“Domani!” Promise Byron, con entusiasmo. “Questa sera tu e il ragazzino sarete distrutti dal viaggio. Mangiate, riposate e domani parleremo di affari.”

Mori annuì, poi cercò Elise con la mente: la trovò al fianco di Dazai, nella stessa sala da bagno in cui si era lavato quindici anni prima. Parlavano, ma Mori non aveva ragione di origliare quella conversazione. Più tardi, ogni parola che Elise si era scambiata con Dazai sarebbe comparsa sotto forma di ricordo direttamente nella sua mente, come se Mori fosse stato presente per tutto il tempo.

“Sul serio non è tuo?” Domandò Byron.

Mori tornò presente a se stesso. “Prego?”

“Da quando Osamu ha lasciato la stanza, sei più teso. Sei preoccupato?” Domandò il padrone di casa. “Che cosa vuoi che accada nella mia dimora? Siamo lontano da tutto e da tutti.”

Mori si umettò le labbra. “Non credo ti faccia piacere ricordare che i tuoi salotti erano frequentati anche da individui raccapriccianti.”

Byron sgranò gli occhi e si fece rigido, cogliendo l’allusione senza alcuna difficoltà. “Nell’inverno che tu e Johann passaste qui, ancora non si sapeva nulla di chi fosse realmente Louis De Sade.” Era un tentativo di giustificarsi, di lavarsi dalla coscienza le morti che erano seguite.

“Ciò non toglie che molte delle sue vittime successive le ha conosciute qui, tra queste mura,” disse Mori, gelido. “E hai davanti agli occhi l’unica che è sopravvissuta.”

Byron ingoiò a vuoto. “Louis De Sade è morto in guerra.”

“Louis De Sade è scomparso nella polveriera che è stata la Grande Guerra, ma nessuno sa che fine abbia fatto,” lo corresse Mori. “Dato che ho un ragazzino di quattordici anni sotto la mia custodia, puoi garantirmi la sua sicurezza all’interno di queste mura?”

“Non devi neanche chiedermelo,” disse Byron. “È un bambino, non farei niente per attentare alla sua incolumità. Gli unici in questa villa siamo io, te, Fletcher e il piccolo Osamu. Il vostro autista tornerà in città non appena riceverà il suo compenso. Non hai nulla da temere da me, Rintarou. Sono un uomo che ha smarrito l’orgoglio e mendica un posto nel mondo in cambio delle sue ricchezze, nulla di più.”

Mori si alzò in piedi. “Domani mostrami i documenti contabili e potremo cominciare a discutere in modo serio,” disse. “Ora penso che raggiungerò il piccolo Osamu e mi assicurerò che si prepari per la cena.”




 

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Note:

[1] Il termine giapponese per indicare il fiore di loto è hasu 蓮 e significa "purezza dell'anima". Non è una citazione. Mi è piaciuto immaginare tutte le donne della famiglia Mori con un nome di fiore.

[2]William Fletcher fu il maggiordomo personale di George Gordon Byron.

 
   
 
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