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Autore: _camus_    19/06/2022    4 recensioni
Sembri ancora lontana ed estranea, Sorella Morte, sovrasti come stella gelida al mio destino.
[Il viandante alla morte, Hermann Hesse]

Solitudini che si intrecciano all'ombra del Grande Tempio di Atene: il "prima" e il "dopo" la battaglia delle Dodici Case raccontati attraverso quattro diversi – ma collegati – punti di vista.
Storia completamente revisionata
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Aquarius Camus, Nuovo Personaggio, Scorpion Milo, Virgo Shaka
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 16. Maia BG

 

Capitolo 16: 30 aprile 1988. Maia

 

 

Ricordatevi di me, ricordatevi di me,

dimenticate il mio destino.

Alessandro Baricco

 

 


 

 

 

 

Volgi gli occhi lucenti su di noi,

o Atena Glaucopide:

noi che viviamo con cuore saldo e pietoso,

nell’attesa del Tuo ritorno.

Era la prima preghiera che i devoti ad Atena insegnavano ai bambini: la più semplice, la più conosciuta e, come spesso accade, anche la più amata.

All’inizio della sua esperienza al Santuario Maia l’aveva sentita recitare innumerevoli volte, non di rado accompagnata da canti e altri inni che parlavano di fede e speranza; a quel tempo il Grande Tempio si stava preparando ad accogliere la reincarnazione della Dea, ed era quindi divenuto meta di pellegrinaggi da ogni parte del Mondo Segreto.

Nei mesi immediatamente antecedenti l’evento l’eccitazione e la letizia dei credenti erano state tali che neppure la strana scia di omicidi e sparizioni dipanatasi nell’arco delle settimane aveva avuto il potere di scalfirle: cavalieri di basso grado trovati senza vita negli avamposti, cadaveri di soldati semplici gettati in fondo alle rupi… eventi di scarsa rilevanza, dinanzi alla resurrezione della Divina.

Dopo la Notte degli Inganni, però, l’ombra scura della morte e del tradimento si era definitivamente allungata sul tanto atteso ritorno.

“A causa delle empie azioni di Aiolos di Sagitter, Atena bello sguardo non benedirà proprio nessuno”: questo il messaggio intrinseco racchiuso nelle parole del nuovo Gran Sacerdote, assiso sul Trono di Grecia a seguito della dipartita del vecchio Shion di Aries.

Durante il suo pontificato, poi, Arles aveva progressivamente trasformato il culto della Dea in una questione prettamente elitaria, riservata a lui e a pochi accoliti scelti.

L’iniziale divieto di presenziare ai riti, dapprima rivolto soltanto alla gente comune, in seguito era stato esteso anche alla maggioranza dei saints; un numero sempre più folto di editti aveva via via proibito ogni attività riguardante il pubblico esercizio della preghiera al di fuori delle festività stabilite, sino ad arrivare a rendere illecita qualsiasi invocazione fatta ad alta voce.

Lo scopo di una tale strategia era stato infine raggiunto: col passare del tempo, infatti, la benevola immagine di Pallade occhi lucenti radicata nel cuore dei fedeli aveva finito per lasciare il posto a quella di una divinità distante e inaccessibile – un theós di cui non era saggio attirare l’attenzione.

Ancora troppo piccola per curarsi del timore reverenziale che stava montando attorno alla figura di Atena, da bambina Maia si era divertita spesso ad immaginarne le sembianze: prendendo a modello l’enorme statua che sovrastava il Santuario e le scarne descrizioni dei testi antichi, soleva figurarsela bellissima e misericordiosa, con gli occhi grandi come quelli di certi rapaci notturni.

Neppure più tardi le subdole macchinazioni di Arles avevano attecchito troppo, nella sua mente: a minarne la fede era bastata e avanzata la cruda realtà a cui per anni aveva assistito, che sembrava prendersi gioco degli sforzi di chiunque – compresi quelli di coloro da lei amati. 

I suoi genitori e i loro interminabili viaggi, che spesso li tenevano lontani da casa per mesi interi; nonna Frandra e le preghiere che si ostinava a bisbigliare nel silenzio della sera; il Dottor Savasta, impegnato a salvare vite votate alla Morte; quei suoi amici pieni di solitudine, cicatrici e ossa rotte da rattoppare.

Non aveva mai compreso cosa spingesse tutti loro a lottare per un qualcuno nel cui nome si commetteva ogni sorta di ingiustizia, così si era limitata a voltare la testa dall’altra parte e tentare di rendersi utile come meglio poteva: imparare a usare un bisturi, ricucire ferite, riparare fratture, sistemare denti saltati era diventato il suo modo di combattere, la religione alla quale dedicare la propria fatica.

Non aveva più dato importanza alle fattezze di Atena… fino a che Ella non le era sfilata dinanzi.

Era successo qualche giorno dopo la cerimonia funebre, durante una visita della Dea all’ospedale da campo. 

Maia vi si trovava contro ogni ragionevolezza, i nervi sovraeccitati in netto contrasto col corpo ancora sfibrato dalla recente malattia; stava dando istruzioni agli apprendisti, quando delle voci concitate avevano iniziato a serpeggiare tra il personale.

«Atena e i cavalieri di bronzo stanno venendo qui!»

«Durante il funerale l’ho vista soltanto in lontananza: quale onore poterLa ammirare così da vicino!»

«Datevi una sistemata: mica vorrete stare al Suo cospetto in condizioni così indecenti?!»

«Maia, hai sentito? Sta per arrivare la Dea!» aveva esclamato Clio estasiata, tirandola per la manica del camice «Cosa dobbiamo fare?»

In principio, Maia non le aveva risposto. Aveva la gola troppo secca, e le dita impegnate a stringere le forbici con una foga tale da sbiancarsi le nocche.

«Non voglio incontrarla. Non voglio incontrare nessuno di loro» aveva pensato, preda di un terrore del tutto irrazionale. 

«Maia?»

Poi, facendosi forza, si era costretta a prestare attenzione ai ragazzi che la fissavano incerti.

«Maia, ti senti bene?»

«Sì. Dunque, voi…»

«Eccola lassù!»

Dopo tali parole, gli sguardi di tutti si erano sollevati all’unisono.

Sei persone stavano percorrendo la strada che, costeggiando la scalinata principale, conduceva sin lì: cinque uomini, tutti un po’ zoppicanti e malconci, circondavano una donna vestita di bianco.

Persino da quella distanza a Maia erano sembrati soltanto degli adolescenti fuori posto, stranieri in terra straniera: soprattutto colei che chiamavano Atena la Grande le era apparsa piccola e fragile. Insignificante.

Non aveva avuto il tempo di incontrare i suoi occhi, né di scoprire se essi fossero davvero lucenti come se li era immaginati durante l’infanzia; aveva lasciato cadere le forbici ed era corsa via, nell’indifferenza generale.  

 

 

*

 

La Tredicesima era la più imponente e superba di tutte le Case dello Zodiaco.

Essa sorgeva all’ombra della Collina delle Stelle, proprio accanto all’effige della Dea: da quella posizione dominava l’intera Valle Sacra come un sovrano che si lasci ammirare dalla folla esponendosi sul balcone del palazzo reale.

All’infuori dei Gold saints, Maia non conosceva nessun altro che si fosse addentrato fra i suoi colonnati – eccettuati coloro che, chiamati a comparire al cospetto di Arles, non avevano più fatto ritorno.

Neppure lei vi si era mai recata personalmente; quella era la prima volta che ne varcava l’ampia arcata, oltre la quale si distinguevano soltanto mura e penombra.

La ragazza diresse i suoi passi lungo i pavimenti di marmo con guardinga soggezione, stringendosi nella stola da viaggio che non metteva da anni. L’aveva rispolverata appositamente per l’occasione: indossare il mantello era il modo più sicuro che conoscesse per attraversare il Santuario con discrezione.

Tuttavia, giunta dinanzi a un alto portone, dovette abbassare il cappuccio e palesare la propria identità ai soldati di guardia lì presenti. Erano due, un ragazzo e un uomo in età matura.

«Dichiarate chi siete e cosa vi porta all’ingresso della Sala del Trono».

«Sono Maia Ninis, nipote della custode Frandra Ninis. Sono stata convocata da Lady Saori con l’intermediazione del cavaliere d’oro di Leo» rispose lei, porgendo al più anziano dei due una pergamena siglata da Aiolia.

L’uomo ruppe la ceralacca ed esaminò il documento con espressione incolore, poi lo passò al compagno; questi si chinò a sussurrargli qualcosa all’orecchio, coprendosi la bocca con la mano.

Maia assistette alla scena senza muovere un muscolo, troppo occupata a pensare a cosa avrebbe fatto e detto una volta dentro per lasciarsi infastidire da tutto quel rigorismo. Era così tesa che il lieve cigolio prodotto degli enormi cardini placcati d’oro la fece sobbalzare.

«Potete passare» esclamò infine il soldato, mentre si scostava leggermente per lasciarla entrare.

Non appena ebbe attraversato  la soglia, la porta si richiuse dietro di lei con uno schiocco repentino. 

«C-c’è qualcuno?» chiese quindi, intimorita dal silenzio sacrale che le era improvvisamente piombato addosso.

La sala era vasta e spoglia, decorata soltanto da un tappeto di velluto rosso che attraversava gli spazi come un simmetrico rivolo di sangue rappreso; nessun lume rischiarava l’ambiente, fatta eccezione per il fioco chiarore che filtrava dai pesanti drappeggi collocati sul lato opposto della stanza.

Maia si avviò svelta in quella direzione, gli occhi puntati sulle tende. Era inspiegabilmente attratta da ciò che doveva esserci al di là di esse, tanto da dimenticare per un attimo che la sua domanda non aveva ancora ricevuto risposta.

Quando ne tirò una a sé, venne inondata da un brillante fascio di luce pomeridiana.

La vetrata affacciava sul lato destro del Grande Tempio, il meno scosceso; oltre i profili delle Case dispari era possibile osservare il resto del Santuario digradare dolcemente fino alle scogliere che calavano a picco sul mare.

Pur non volendo, la sua attenzione fu ben presto catturata dai contorni dell’Undicesimo Tempio. Sembrava strano guardarlo da quella posizione, perché contemplarlo dall’alto sottintendeva che aveva avuto il coraggio di attraversarlo.

Nei suoi incubi, invece, non ci riusciva mai.

Aveva sognato la sua personale “scalata” per innumerevoli notti, ripercorrendo la stessa scena – quella, già vissuta, dell’11 settembre 1986 – sino a svegliarsi tremante.

Il Tempio scintillante, il respiro condensato in nuvolette di vapore acqueo, i contorni azzurrati delle cose; Camus a terra, perfetto nella sua stasi ormai immutabile, coi capelli intessuti di ghiaccio e lo sguardo vuoto.

«Camus. Camus. Camus!»

Maia lo chiama, lo scuote come se quel corpo potesse ancora destarsi e parlarle; poi, vinta dal freddo e dall’inutilità dei suoi sforzi, si accascia sopra il cadavere.

Non si rialza più.

«È bellissimo, non trovi?»

La voce, limpida e soffice, si era levata da qualche parte alle sue spalle.

«Sì, Camus era davvero bellissimo».

«Bellissimo...»

Maia aveva risposto automaticamente, senza riflettere; quando se ne rese conto, si affrettò a voltarsi.

«… il Santuario».

«Certo: il Santuario. Sai, mio nonno era un appassionato di storia e cultura antiche. Soprattutto l’Ellenismo lo affascinava: non si stancava mai di parlare della civiltà greca, dei suoi personaggi illustri e dei suoi miti. Poter vivere in un luogo come il Grande Tempio l’avrebbe reso immensamente felice».

La sua interlocutrice era una ragazza dalle spalle minute e le guance rosee come petali; aveva meravigliosi capelli castani e grandi occhi di un blu così scuro che si sarebbe potuto confondere col nero.

«Perdonami: ti sto trattenendo con inutili chiacchiere senza nemmeno essermi presentata. Sono Saori Kido» disse poi, eseguendo un inchino appena accennato.

Maia, che aveva una conoscenza assai superficiale delle usanze giapponesi, ricambiò il gesto in modo goffo: «Maia Ninis».

«Sei stata gentile a rispondere al mio invito così rapidamente, Maia. Ma adesso vieni, ti prego: sediamoci un po’».

Saori si mosse leggera verso il centro della sala, per poi fermarsi ai piedi di una piccola scalinata che Maia, entrando, non aveva notato; sulla cima di questa si ergeva una specie di altare marmoreo, basso e disadorno. L’effetto finale restituiva all’osservatore un senso di incompiuto, quasi che ci fosse uno spazio vuoto da riempire.

La greca fissò per un attimo la sommità dei gradini, immaginando Arles assiso su un enorme trono intarsiato e tutti i Gold saints chini al suo cospetto; se lo figurò in maniera sorprendentemente nitida, l’ex Gran Sacerdote, mentre osservava ghignando quelli che avrebbero dovuto essere i suoi parigrado porgergli degli onori del tutto indebiti.

«Manca il Trono» constatò allora, sottovoce «questa viene chiamata la “Sala del Trono”, però qui non c’è nessuno scranno».

«Hai ragione» asserì l’altra con un cenno della testa «A quanto pare il Seggio pontificale è andato distrutto durante lo scontro tra Ikki di Phoenix e Saga, ma io non ho ritenuto necessario sostituirlo».

La frase fu pronunciata con un’autorevolezza e, al contempo, un’umiltà tali da far accapponare la pelle di Maia.

Non ho ritenuto necessario sostituirlo equivaleva a dire Non ne ho bisogno, eppure le due espressioni non suonavano affatto alla stessa maniera.

«Perché una Dea dovrebbe dissimulare la propria potenza, specialmente di fronte a qualcuno che non è neppure un saint? Si tratta forse di falsa modestia?» pensò, mentre si appoggiava cautamente al bordo dell’altare su cui Saori si era seduta nel frattempo.

Quest’ultima, se anche fece caso alla sua diffidenza, non lo diede ad intendere. Rimase anzi in silenzio per qualche secondo, lisciandosi le pieghe di un abito rosso dall’aria antica e piuttosto costosa; poi, tutto a un tratto, il suo sguardo insondabile si alzò a cercare quello di Maia.

«È curioso: nonostante tu sia poco più di una semplice civile, qui al Santuario il tuo nome è più noto di quello della maggior parte dei saints minori. Ho sentito molte cose su di te, Maia Ninis: so che sei la nipote di Frandra Ninis, custode fedele da più di mezzo secolo; so che i tuoi genitori, Eleni Ninis e Federico Spadaro, sono morti in missione per conto del Grande Tempio; so della tua vocazione per la medicina e del prezioso contributo che da anni fornisci al personale sanitario interno».

Saori si interruppe un istante, le mani poggiate in grembo e un sorriso discreto sulle labbra: «Ma queste sono informazioni che ho reperito soltanto dopo qualche tempo, in virtù della frequenza con cui i cavalieri d’oro sono soliti rammentarti – spesso inconsciamente. Mi ha colpito non poco il fatto che tu sia presente in quasi tutti i loro ricordi… esclusi quelli più recenti».

A quelle parole, Maia sentì il corpo farsi pesante.

«Ecco, ci siamo».

Benché fino ad allora si fosse mantenuta sul vago, era spaventosamente ovvio che la sua interlocutrice non l’aveva convocata solo per fare conversazione.

Cosa sapeva, Saori? I cavalieri di bronzo le avevano sicuramente riferito quanto accaduto subito dopo il rito di restaurazione delle armature, ma poi?

Se davvero ella aveva parlato con tutti i Gold saints, allora era molto probabile che fosse a conoscenza anche del resto; non poteva neppure escludere l’eventualità che sapesse tutto a prescindere.

Le stava forse per chiedere di dare conto delle proprie azioni? In fondo, secondo le leggi penali vigenti al momento del fatto, ciò che Maia aveva detto contro il Grande Tempio e la Dea stessa costituiva un’eresia passibile di condanna a morte…

«Leggo la paura sul tuo viso, Maia. Ma se pensi che io ti abbia fatto venire fin qui per metterti sotto processo, stai sbagliando».

Le si era rivolta con un’espressione serissima, quasi che dalle convinzioni di Maia dipendessero le sorti del mondo intero. 

«Non ho alcun diritto di giudicarti, e neppure ho mai avuto l’intenzione di farlo; piuttosto, volevo… ringraziarti».

«Ri… ringraziarmi? E per cosa?»

«Per il tempo che hai trascorso con Aldebaran, Mu, Aiolia, Shaka e Milo mentre io non… potevo esserci. Seppur in diversa misura, ognuno di essi nutre sincero affetto nei tuoi riguardi. Ti sono grata per esserti presa cura di loro – e non soltanto di loro – come se fossero parte integrante della tua famiglia».

“Quella stessa famiglia di cui TU li hai privati”: in un passato non troppo remoto, Maia avrebbe senza dubbio risposto così.

Avrebbe accusato Saori di quella e mille altre cose, dando finalmente voce a una lista di recriminazioni allungatasi per anni, ma adesso le pareva un gesto stupido e inutile.

Gettò un’occhiata in tralice alla ragazza che le sedeva accanto, silenziosa e composta in maniera impeccabile: aveva l’aspetto di un’adolescente, eppure la sua presenza incuteva indubbio rispetto.

Non avrebbe saputo dire se ciò dipendeva più dalle consapevolezze che aveva faticosamente raggiunto o dalla dignità che trasudava da lei; tuttavia, c’erano delle responsabilità che non potevano non esserle addossate.

Stava ancora cercando qualcosa con cui ribattere, quando l’altra prese nuovamente la parola: «Non aver timore di esprimere ciò che senti: so che imputi a me la colpa di quanto è accaduto. Parla pure liberamente».

«Atena propugna la pace, è vero, ma è stato Arles a volere la guerra: senza il suo imbroglio, la battaglia delle Dodici Case non avrebbe avuto ragion d’essere».

«Io non… non riesco a capire!» esclamò allora Maia, le palpebre serrate nello sforzo di non esagerare «Gli dei sono esseri primigeni. Creature immortali, onniscienti, onnipotenti: è questo che insegnano tutti, dai maestri laici sui banchi di scuola ai rappresentanti dei culti più svariati. È questo che proclamano i sacerdoti del Mondo Segreto ad aspiranti e fedeli. Ma se così è, che senso ha servirsi di braccia armate umane? Perché mandare a morire i propri adepti, quando basterebbe schioccare le dita?»

La sua voce, resa più acuta dalla concitazione, rimbombò fra le pareti della sala vuota come un grido di sdegno mai del tutto represso: «Quando iniziò la sua ascesa al potere, Saga di Gemini aveva appena diciassette anni: un ragazzino prodigio che ha saputo ingannare il mondo intero, costruendosi un alter ego attraverso cui distribuire vita e morte ad esclusivo piacimento della sua mente malata. Un semplice uomo che ha finto di agire in nome e per conto della divinità a cui si era votato, la quale, una volta accortasi della frode, avrebbe dovuto polverizzarlo seduta stante. Invece, a combatterlo, sono stati mandati altri umani: saints poco più che bambini, che hanno ucciso per non essere uccisi. Arles è stato sconfitto, sì, ma a quale prezzo? Vincitori con le mani intrise di sangue, superstiti devastati da senso di colpa, soccombenti ammazzati senza possibilità di redenzione… mi risulta davvero difficile credere che non esistesse altro modo per giungere al medesimo risultato».

Poi tacque di botto, il respiro incastrato tra i denti per l’affanno.

Aveva la sensazione di aver detto troppo e, insieme, di non aver detto abbastanza.

La sua mente tornò alla notte precedente l’attacco al Santuario, alla figura di Camus avvolta dalla luce bianca della luna.

«Per la gloria. Perché l’essere saint mi ha dato la possibilità di far sì che, alla mia dipartita, il mio nome non divenga una semplice incisione su una tomba bianca. Troppo spesso ci si scorda dei deceduti e delle loro gesta: desidero andarmene sapendo di aver lasciato una traccia del mio passaggio su questa Terra. Solo così sarà valsa la pena di aver sofferto tanto».

Aveva pronunciato quelle parole con tono ed espressione ferrei, addirittura feroci, quasi che già conoscesse cosa sarebbe accaduto a neppure 24 ore di distanza.

Ma che traccia aveva lasciato Aquarius, in fondo, se non quella dell’avversario battuto?

L’essersi opposto senza riserve a Hyoga del Cigno aveva del tutto oscurato la persona eccezionale che era stato, consegnandolo alla storia e agli occhi della sua Dea quale traditore; era morto così, senza grazia né gloria. Invano.

Il solo pensiero le provocava la nausea – anche se Aiolia aveva detto che dare un senso alla morte spesso non serve a nulla.

«…»

Per la prima volta da quando le si era palesata, Saori non la stava guardando; anzi, il suo accorato discorso sembrava averla messa a disagio. Adesso teneva la schiena leggermente incurvata e il viso nascosto tra i capelli.

«I tuoi sono dubbi legittimi,» sussurrò dopo un po’, le braccia rigide «ma ricorda ciò che sto per dirti: non c’è nulla di davvero onnipotente. Esiste un equilibrio di forze a cui niente e nessuno può sottrarsi».

Poi si alzò in piedi e fece qualche passo in avanti, dando le spalle a Maia: «Nel settembre del 1986, quando giunsi al Santuario coi cavalieri di bronzo, non era mia intenzione ingaggiare una guerra aperta contro Arles. Avrei voluto percorrere le Dodici Case in maniera pacifica, parlare con ogni Gold saint disposto ad ascoltarmi e arrivare alle stanze del Gran Sacerdote senza versare una sola goccia di sangue. Purtroppo, però, la ferita inferta al mio corpo mortale dalla Phantom Arrow non me l’ha permesso; così, per salvarmi, Pegasus e gli altri non hanno avuto altra scelta che quella di combattere».

Il suo tono precedentemente gentile aveva lasciato il posto a un’amarezza che ella non fingeva neppure di nascondere; persino il piccolo corpo le si era trasfigurato, dandole un’aria quasi senza tempo.

«Sono rimasta per dodici ore sulla scalinata della Prima Casa, impotente, ma ho condiviso con tutti i miei cavalieri più di quanto fossi capace di sopportare. Non c’è stato un solo spasmo di dolore che non abbia morso anche le mie carni, non un turbamento che non abbia adombrato anche il mio cuore. Tempio dopo Tempio, ho sentito agitarsi dentro di me i timori di Mu, i dubbi di Aldebaran, la paura di Death Mask, la rabbia di Aiolia, la confusione di Shaka, il dissidio di Milo, il rimorso di Shura, la disillusione di Aphrodite… lo sdegno di Camus».

Al nome del fu Undicesimo Custode, Saori finalmente si voltò; i suoi occhi, dapprima blu cupo, ora brillavano di un’incredibile luce celeste.

Maia prese a fissarli senza alcun pudore, ammaliata e sconvolta. Quella luce…

«Maia, guarda quella luce… c’est si belle, n’est-ce pas?»

Non era paragonabile al crepuscolo azzurro e impregnato d’addio che affollava ogni suo ricordo alla Casa dell’Acquario; piuttosto, le rammentava certe immagini indistinte, forse provenienti da un qualche sogno pieno di pace. Di punto in bianco ebbe la certezza che sarebbe potuta rimanere a guardarla per ore intere.

La voce dell’altra, però, attirò nuovamente la sua attenzione. 

«Cancer, Capricorn, Aquarius, Pisces… sono riuscita a raggiungerli soltanto in punto di morte, quando erano ormai disposti a lasciarsi toccare, ma il Dio dell’oltretomba ha risucchiato le loro anime prima che io potessi chiamarle a me. Non sono stata abbastanza forte da impedirglielo».

«Contrariamente a quanto credi, Atena ha tentato con ogni mezzo di salvare – anche – i nostri caduti. Ma essi Le erano troppo distanti: quando la Sua luce li ha raggiunti, le loro anime stavano già rispondendo al richiamo dell’Ade. Non è stato possibile riportarli indietro».

Maia si lasciò sfuggire un gemito: non si era trattato di un’impressione falsata dalla devozione del Quinto Custode, era tutto vero. Era sempre stato vero, nonostante avesse passato l’ultimo anno e mezzo a consumarsi per l’opposto.

«A dispetto della loro miscredenza, Atena non ha rinnegato i suoi cavalieri. Nessuno di essi, neppure Camus».

Con gli occhi di nuovo aggrappati a quelli di Saori, stavolta convincersene le venne facile e naturale come respirare. L’aria stessa pareva entrare e uscire dai suoi polmoni in maniera più fluida, quasi che si fosse dissolto un qualche residuo di brina ancora nascosto.

Assurdo: sapere che Aquarius non era spirato da reietto non gliel’avrebbe affatto restituito, ma per la prima volta da moltissimo tempo si sentiva, per dirla alla maniera di Aiolia… sollevata.

Si chiese se anche Camus, nello spegnersi, avesse provato lo stesso; se, una volta al cospetto della luce celeste, non avesse compreso tutto ciò che c’era da comprendere nell’arco di un solo minuto.

«C’è un’altra cosa che vorrei sapere. Una soltanto, l’ultima. Giuro che non domanderò di più».

«Mi auguro di poterti rispondere».

 «Lui… se n’è andato in pace?»

Dinanzi a quella richiesta, l’espressione della sua controparte tornò nuovamente ad addolcirsi: «Durante gli scontri al Settimo e all’Undicesimo Tempio ho tentato in più occasioni di lambire il cosmo di Aquarius, trovandomi sempre davanti un granitico muro di ghiaccio – che, date le mie condizioni, non avrei avuto la forza di penetrare».

Saori fece una breve pausa, forse per darle modo di interiorizzare ciò che stava dicendo un poco alla volta; a dispetto di qualunque logica, la cosa fece sentire Maia stranamente protetta –  come quando, da bambina, sua madre la consolava dopo un brutto episodio.

«Tuttavia, al termine della battaglia alla Sacra Anfora, ciò che ho avvertito è stato completamente diverso. Il cosmo può rivelare molte cose sul proprio portatore, nel momento in cui questi acconsente a farsi toccare: dietro quel muro, l’aura del saint dell’Acquario era bianca e morbida come la neve appena caduta. Nulla ne turbava il candore… a parte una lieve ombra di malinconia. È stato così fino alla fine».

Lo sguardo della Dea, fisso su di lei, ora brillava più che mai. Lo vedeva perfettamente, nonostante i contorni delle cose le si fossero fatti appannati e tremuli.

«La prima: quelle che vedo dovranno essere le ultime lacrime che verserai per me».

Quante lacrime avesse effettivamente versato sulla memoria di Camus, Maia non avrebbe potuto contarle; sapeva, però, che quelle che adesso scorrevano lungo le sue guance avevano un sapore diverso dalle precedenti. Decisamente meno acre e, forse, anche un po’ liberatorio.

Furono davvero le ultime.



Note dell’autore

 

Buonsalve, brava gente. Spero stiate tutti bene.

Circa due anni fa, quando decisi di dare una seconda chance a questa storia, giurai a me stessa che non avrei mai più fatto passare troppo tempo da un aggiornamento all’altro: promesse da marinaio – un po’ come quelle di Maia, in fondo. 

A mia discolpa posso solo dire che questo capitolo aveva un focus particolarmente ostico da sviluppare: non ho mai fatto mistero di quanto poco apprezzi la figura di Saori, che io trovo vergognosamente priva di spessore (nonché di credibilità logica, ma ciò risente del mio essere irrimediabilmente atea).

Ho dunque provato a “correggere” un poco il tiro, motivando il personaggio e il suo agire nel modo che mi pareva più plausibile. In tale contesto, grande rilevanza assume la scissione Saori/Atena, ove la seconda, quando si manifesta, è comunque soggetta ai limiti del corpo mortale della prima; quest’ultima, di contro, possiede un’autorevolezza e un’attrattiva che io immagino irresistibili – o, se preferite, straordinarie.  

Per ciò che invece concerne il ruolo della suddetta negli eventi legati alla battaglia delle Dodici Case, torno a ribadire la centralità dell’avvertimento “What If”: non ho nessunissima pretesa circa l’esattezza canonica della ricostruzione da me operata, che ho modellato a esclusivo uso e consumo di questa storia. Stesso dicasi per il cambio di colore degli occhi; giocando un po’ con le differenze fra le prime serie (dove gli occhi di Saori sembrano quasi neri) e quella di Hades, mi sono divertita a ipotizzare che le iridi celesti siano il segnale più evidente del momentaneo prevalere della divinità sulla donna.  

Del resto, quest’ultimo dettaglio si appalesa fondamentale soprattutto per l’altra protagonista del presente capitolo, il quale rappresenta l’apice di un percorso emotivo iniziato grazie a Shaka, consolidatosi per merito di Aiolia e terminato proprio con Saori. 

Confrontarsi col motivo principale della morte di Camus – ossia, Atena – ha dato a Maia la forza di perdonare Aquarius, così come a suo tempo l’intervento di Hyoga e Atena medesima fu fondamentale per consentire a Milo di assolvere se stesso. 

Adesso c’è solo da andare avanti, un passo alla volta. A voi di indovinare quale sarà il prossimo. 

Prima di lasciarvi definitivamente in pace, qualche precisazione più tecnica: 

-theós: termine con cui nella lingua greca antica si indica genericamente un dio. Ho scelto questa parola perché rimandasse a un qualcosa di impersonale, quasi di estraneo;

-«Atena propugna la pace, è vero, ma è stato Arles a volere la guerra: senza il suo imbroglio, la battaglia delle Dodici Case non avrebbe avuto ragion d’essere» : frase tratta dal capitolo 14;

-«Per la gloria. Perché l’essere saint mi ha dato la possibilità di far sì che, alla mia dipartita, il mio nome non divenga una semplice incisione su una tomba bianca. Troppo spesso ci si scorda dei deceduti e delle loro gesta: desidero andarmene sapendo di aver lasciato una traccia del mio passaggio su questa Terra. Solo così sarà valsa la pena di aver sofferto tanto» : frase tratta dal capitolo 9; 

-«Maia, guarda quella luce… c’est si belle, n’est-ce pas?» : frase tratta dal capitolo 10, parte II; 

-«Contrariamente a quanto credi, Atena ha tentato con ogni mezzo di salvare – anche – i nostri caduti. Ma essi Le erano troppo distanti: quando la Sua luce li ha raggiunti, le loro anime stavano già rispondendo al richiamo dell’Ade. Non è stato possibile riportarli indietro» : frase tratta dal capitolo 15; 

-«La prima: quelle che vedo dovranno essere le ultime lacrime che verserai per me» : frase tratta dal capitolo 10, parte II. 

Ringrazio a cuore aperto chi ancora ha la pazienza di seguire – e magari commentare – “Sorella Morte”: abbiate fede, il traguardo potrebbe essere più vicino di quanto non sembri ;) 

Un abbraccio a tutti, (spero) a presto!

Irene

 

 

   
 
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