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Autore: Nina Ninetta    20/06/2022    4 recensioni
Eric La Manna è un procuratore di giovani promesse della boxe. È al verde, vive in un lugubre monolocale lungo la West Side di Chicago e ha gli strozzini alle calcagna per una vecchia “parola” non mantenuta. Una notte, però, durante un regolamento di conti, nota un giovane ragazzo che sembra avere la stoffa per diventare la nuova star della boxe, o almeno è quello che spera per redimersi…
"Seconda classificata al contest “Manuale di Sopravvivenza Vol.2” indetto da Spettro94 sul forum di Efp.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo II
Maria
 


Benito Sanchez consultò l’orologio da quattro soldi che teneva al polso. Tra meno di dieci minuti sarebbero state le tredici e Maria avrebbe raccattato le sue cose per tornare a casa, durante la pausa pranzo. Dalla sua postazione non riusciva a vederla, il salone di parrucchieri nel quale lavorava aveva le vetrate tappezzate di manifesti, i quali ritraevano giovani donne con tagli demodé dai colori ormai sbiaditi.
Di nuovo il ragazzo controllò l’ora, altri cinque minuti o poco più. Si voltò di spalle, per specchiarsi nella vetrina del negozio di alimentari. L’occhio che aveva ricevuto il pugno si era gonfiato e la pelle intorno era diventata di un viola melenzana. Avrebbe dovuto spalmarci una pomata, ma non aveva i soldi neanche per quella. Sua madre gli aveva affettato una patata, dicendogli che così almeno il gonfiore si sarebbe attutito, ma lui si era rifiutato categoricamente di mettersi quelle fettine sull’occhio e sua madre aveva risposto che le avrebbe fritte!
Si acconciò i capelli corti e ricciuti, poi decise di calarsi il cappuccio della felpa chiara sul capo, quando vide riflessa la figura di Maria che finalmente usciva dal locale. La raggiunse attraversando la strada e chiamandola per nome. Lei si voltò, sembrava spazientita di vederlo lì, di nuovo.
«Ben, che vuoi ancora?»
«Ciao Maria, passavo di qui e… come sei bella!» Lui allungò una mano con la speranza di accarezzarle il volto, ma la ragazza indietreggiò per evitare il contatto, mentre si guardava attorno con circospezione, temendo evidentemente di essere osservata.
Sapeva, infatti, che se Alejandro l’avesse vista anche solo sfiorare la mano di Ben si sarebbe arrabbiato parecchio e Dio solo sapeva cosa avesse potuto fare. Inoltre, niente escludeva che uno dei suoi scagnozzi fosse nascosto chissà dove a spiarla.
Ben la osservò, comprendendo il suo essere scostante: Alejandro era capace di tutto. La pancia spiccava ogni giorno di più al di sotto degli abiti, ormai si notava nonostante il giubbotto invernale. Se possibile, la gravidanza aveva reso Maria ancora più bella: i capelli biondi – seppur tinti – erano lunghi e setosi; la pelle ambrata liscia e senza imperfezioni; le labbra carnose erano velate di lucidalabbra; gli occhi neri avevano ciglia folte che il mascara e l’eyeliner rendevano ancora più scure.
Lei alzò lo sguardo su di lui – non era alta, arrivava si e no al metro e sessanta, ma gli stivali con la zeppa le conferivano qualche centimetro in più –, e notando l’occhio tumefatto non ebbe dubbi su cosa fosse accaduto.
«Hai litigato di nuovo con Ale?»
«Per riaverti sarei disposto a prendere mazzate ogni giorno!»
Maria scosse il capo, stanca di quella situazione, stanca del lavoro, stanca a causa della gravidanza.
«Ben, io non so più in che lingua dirtelo: sto con Ale adesso! Devi smetterla di venirmi dietro, di venire qui davanti un giorno sì e uno no!»
«Maria, io voglio solo controllare che voi stiate bene.»
«Voi chi? Questo bambino» così dicendo la ragazza posò un palmo sul pancione, «non è tuo! E anche se fosse, non potresti crescerlo. Non hai un soldo!» La voce di lei si fece più bassa, accusatoria.
«Non ci credo. I-io non posso crederci!» Benny l’afferrò per le spalle, scuotendola appena, aveva le lacrime agli occhi. «Lo dici solo perché sai che non ho i soldi per mantenervi, perciò ti sei inventata questa storia che il figlio è di quel cojone
Maria si liberò dalla presa con fermezza, abbozzando un sorrisetto all’insù.
«Quanto sei ingenuo, povero Ben! Hai ventidue anni, ma il cervello di un dodicenne.»
Il giovane sembrò non averla neanche sentita, nella sua testa si riaffacciarono le parole di quello strano avvocato da strapazzo che lo aveva soccorso nella nottata. Lentamente, quasi balbettando le prime parole continuò:
«Se-se trovassi i soldi per mantenerci, torneresti da me?»
Maria aggrottò la fronte, confusa.
«Non vuoi proprio capire…» sospirò, dandogli le spalle per allontanarsi da lui. «Riguardati Ben, e cerca di crescere! Il mondo è una merda per quelli come noi.»
«Combatterò per voi, Maria, giuro che lotterò solo per voi!».
 


 
Eric tornava quasi ogni giorno sotto l’ufficio che aveva occupato per diverso tempo. Si trovava al quinto piano di un palazzo di vetro, il quale svettava tra altri simili nella cosiddetta Downtown Chicago: il quartiere degli affari. E lui, lì, di affari ne aveva conclusi diversi. Alcuni si erano rivelati un fiasco, ma l’ultimo che aveva siglato… caspita, avrebbe potuto vivere di rendita per il resto dei suoi giorni! Certo, non si sarebbe potuto permettere un attico a Central Chicago, ma una villetta a due piani, con un ampio giardino e una piscina in cui crogiolarsi durante il giorno, nel lato nord della città, non gliela avrebbe tolta nessuno.
Qualcosa però era andato storto – va sempre storto qualcosa! – e non solo si era ritrovato dalla sera alla mattina sbattuto letteralmente fuori dal suo ufficio (e pensare che si era fatto fare una targhetta in argento con incise le iniziali del suo nome da appendere davanti alla porta), ma si era anche ritrovato in uno dei quartieri peggiori di Chicago, lungo la West Side, costretto a vivere in un tugurio senza balconi, a sentire gli spari che durante la notte rimbombavano da un muro all’altro, mentre le sirene della polizia facevano da sottofondo costante.
Senza contare il fatto che aveva alle calcagna una delle peggiori gang italo-americane. Tipi loschi, che immaginava fossero sulle sue tracce poiché sapeva come funzionavano quelle cose. All’inizio erano tutti simpatici, amiconi, poi quando qualcosa non andava come loro avevano previsto, ecco che diventavi il ricercato numero uno e non si fermavano fin quando non ti avevano trovato e fatta pagare.
A modo loro, si intende.
Eric La Manna teneva gli occhi all’insù, puntati sulla finestra che un tempo era stato il suo studio. Si chiese se fosse occupato da qualcun altro adesso, magari intento a fare telefonate varie per accaparrarsi i migliori incontri di pugilato. Gli sembrava di potersi ancora rivedere, con i piedi allungati sulla scrivania, un sigaro in bocca – sebbene odiasse il fumo, infatti non lo aveva mai acceso – la cornetta fra orecchio e spalla e un mare di fogli da consultare, freschi di stampa, bookmakers e scommesse sulle quali puntare. Poi, di solito, sotto mezzogiorno chiamava il suo pupillo: Steve Mckay, un pugile inglese di rara tecnica e armonia, un out-fighter, uno stilista purosangue, scaltro e abile.
Dio, gli aveva voluto bene come a un figlio!
Eric sentì i muscoli del collo che cominciavano a irrigidirsi a causa della posizione, perciò abbassò il capo e si massaggiò la nuca. Le persone che lo superavano indossavano abiti firmati, vestiti classici i cui toni grigi facevano pendant con il cielo plumbeo sopra le loro teste. Ognuno preso dai propri affari, con le rigide valigie di pelle che strette in un pugno arrivavano alle ginocchia.
Nessuno badava a lui. Nessuno badava agli altri in generale, a dire il vero.
Steve era un tipo sveglio, gli bastava uno sguardo del suo agente Eric La Manna per capire come sarebbe dovuto finire l’incontro, la loro sintonia era perfetta. Ma, come tutte le storie d’amore fantastiche, anche la loro era giunta al termine. Steve l’aveva tradito, si era venduto a un offerente migliore e l’aveva lasciato nella merda, letteralmente parlando.
Quella sera, la cosca che adesso gli stava alle costole, aveva puntato una somma di denaro davvero ingente sulla vittoria di Steve. In fondo, il suo avversario era un ragazzino imberbe alle prime armi, non sarebbe dovuto essere difficile per un pugile come lui mandarlo K.O. Inoltre, Eric aveva preso accordi sul trionfo del proprio campione, stringendo la mano a un cinese poco raccomandabile mentre gli assicurava che Steve avrebbe stracciato il pivellino.
Peccato che Steve Mckay stesse facendo praticamente la stessa cosa, promettendo l’inverso, ossia di perdere quel match. Un’altra gang mafiosa gli aveva offerto una specie di bonus extra se fosse andato al tappeto senza più rialzarsi alla fine del terzo inning.
Quando Eric l’aveva raggiunto nello spogliatoio, a fine gara, lo aveva trovato a proprio agio, rilassato, intanto che si toglieva di dosso le fatiche dell’incontro. L’agente gli aveva urlato contro, affermando che non erano quelli i patti, che avrebbe dovuto vincere il match e che adesso lo aveva messo in una situazione scomoda con quelli della malavita.
«Vedrai che riuscirai a cavartela anche questa volta, Eric!»
«Si, con una pallottola in fronte!»
Steve aveva riso, mentre si tamponava il fisico con l’asciugamano.
«Come sei esagerato!»
Eric l’aveva guardato male.
«Cosa avrei dovuto fare? Rifiutare tutti quei soldi?» Steve gli si era avvicinato, lo sovrastava di qualche centimetro, abbassò il tono di voce per non farsi sentire da eventuali ficcanaso. «Tu lo capisci che mi sono fatto il pane per la vecchiaia?» Si era poi allontanato, continuando nelle sue mansioni di vestimento. «A proposito, non avrei voluto dirtelo in questo momento, ma non penso ci sia un momento adatto per farlo.»
I sensi di Eric erano scattati in allerta, avvertivano un nuovo colpo basso in arrivo.
«Mi hanno offerto una serie di incontri da disputare in Europa. Diciamo che fa parte del pacchetto bonus e…»
All’improvviso un barlume di speranza si era riaffacciato nel suo cuore, forse non tutto era perduto, forse aveva ancora una possibilità di uscire integro da quella storia.
«… ovviamente sarò sotto contratto con il loro agente. Mi dispiace, Eric.»
Quest’ultimo non aveva avuto neanche la forza di controbattere. Nella sua testa si erano mischiate una moltitudine di parole, perlopiù insulti, gli aveva puntato un indice contro, pronto a dirgliene di ogni, invece dalla sua bocca non uscì alcun verso. Semplicemente aveva aperto la porta, lasciando la stanza.
Da quel giorno, di Steve Mckay non aveva più avuto notizie.
Appena fuori dal palazzetto però due membri della cosca, che aveva scommesso sulla vittoria del suo assistito, lo avevano afferrato per le braccia e trascinato di peso nel vicolo più vicino. Non lo avevano toccato fisicamente, si erano limitati alle minacce, ma tanto era bastato per fargli prendere la decisione di sparire dalla circolazione, con la speranza che quei tipi si dimenticassero di lui.
Rivolevano indietro tutti i soldi che avevano versato per la scommessa, non gli fregava come e quando li avrebbe racimolati, si sentivano truffati e pretendevano fino all’ultimo centesimo.
Centosessanta mila dollari.
Eric La Manna aveva temporeggiato, supplicandoli di dargli un po’ di tempo, non disponeva di una cifra del genere nell’immediato, ma sicuramente avrebbe trovato un modo per metterla insieme e pagare il debito. Gli avevano concesso una settimana, non di più.
Il giorno seguente era tornato nel suo ufficio e si era messo subito al lavoro, alla ricerca di una nuova stella del pugilato. Ma non era semplice, sapeva che Steve era stato un puntino di luce nell’oscurità, un salvagente in mezzo al mare, un’occasione più unica che rara, di quelle che capitano una sola volta nella vita. Tuttavia, essere fuori dal giro significava anche non fare soldi e i suoi risparmi si stavano consumando giorno per giorno, a causa delle spese da pagare per il fitto della casa in Near South Side e di quello dell’ufficio che gli piaceva tanto.
La settimana passò velocemente, senza che lui avesse raccolto un centesimo. Anzi, i suoi soldi erano diminuiti, senza alcuna entrata sarebbe stato difficile mantenere quel tenore di vita. Perciò, aveva deciso di lasciare la casa da miliardario in cui abitava e di trasferirsi in una soluzione decisamente più economica, forse troppo, oltre il fiume, nella West Side.
Aveva però tenuto il suo ufficio, il cui fitto era già pagato per altri quindici giorni, peccato che allo scoccare dell’ottavo era stato fermato dal portiere, giù all’ingresso:
«Mi spiace signor La Manna, non può passare.»
«Mike, sono io!»
«Spiacente, devo pregarla di lasciare subito l’edificio.»
«Ma che dici? Devo andare a lavoro…»
«La prego, non mi costringa a chiamare la vigilanza, signore.»
Eric allora aveva capito: senza Steve Mckay, la star Steve Mckay, lui non era nessuno. L’uomo alla reception che gli aveva dato il buongiorno ogni mattina, da qualche mese a quella parte, si era rivelato un essere freddo e senza sentimenti, che non si era fatto scrupoli a metterlo alla porta. Anzi, Eric non aveva più visto né sentito alcuna persona con la quale gli era sembrato di intessere un qualche rapporto fino a quel momento.
Ognuno per la sua strada, quindi.
La cosca mafiosa, dal canto suo, sembrava anche fin troppo trepidante di incontrarlo per scambiare due chiacchiere. Era Eric però a farsi desiderare e, dopo le continue minacce ricevute, ora pareva che le acque si fossero calmate. Da quando viveva in quello schifo di quartiere nessuno si era preso la briga di andare a cercarlo fin lì. Forse non credevano avesse il coraggio di vivere in quella topaia, forse pensavano fosse andato via da Chicago, o semplicemente avevano affari più grandi a cui badare.
Fino a quel giorno.
Qualcuno lo urtò, distraendolo dai suoi pensieri. Era un giovane uomo in carriera, con la ventiquattrore color cuoio stretta in una mano e il cellulare nell’altra, così intento a parlare al telefono da non essersi nemmeno accorto di aver quasi spinto Eric sul marciapiede.
«Ehi!» Gli urlò dietro quest’ultimo, ma l’altro parve non sentirlo neanche.
Eric diede un’ennesima occhiata intorno a sé, era inutile indugiare ulteriormente in quella zona di Chicago, inoltre non poteva rischiare di essere visto dai suo aguzzini, perciò sarebbe stato meglio tornare lungo la West Side e magari mangiare qualcosa. Si frugò nella tasca del cappotto (ultimo baluardo della sua amata vita agiata) e ne pescò pochi spiccioli. Erano diverse ore che non metteva qualcosa sotto i denti, qualcosa di solido, soppesò l’idea di compare una bottiglia di vino, ma il solo pensiero di quel liquido rossastro gli dava il voltastomaco. Con i soldi che aveva avrebbe potuto fermarsi da qualsiasi venditore ambulante di hot-dog e, se avesse rinunciato alle salse, magari si sarebbe potuto permettere una birretta da poco. Meglio di niente comunque.
 
Quando quella sera rientrò erano le 18 passate. Stando alle previsioni, avrebbe dovuto piovere e invece il tempo aveva retto, al costo però di un cielo livido e un’aria pesante, umida, con i vapori dei veicoli che non riuscivano ad alzarsi, rimanendo sospesi nell’atmosfera. Nei giorni come quelli riusciva difficile respirare, sembrava che l’aria rimanesse invischiata nella gola, senza raggiungere i polmoni.
Eric svoltò lungo la Pearson Avenue, dove un venticello freddo lo colse alla sprovvista, quindi si alzò il bavero del cappotto scuro e proseguì ingobbito fino a raggiungere la propria misera abitazione. In una mano teneva una lattina di birra scadente: la sua cena. Alla fine aveva mangiato l’hot-dog (senza salse era stato come ingurgitare polistirolo) e tenuto la bevanda per la sera, sperando si sentirsi meno solo.
Alzò gli occhi sul palazzo grigio, senza balconi, così simile a tutti gli altri, che si innalzava ritto e squadrato verso nubi basse e plumbee. Eric cercava di passare meno tempo possibile nel tugurio in cui viveva. All’inizio usciva di casa la mattina presto e si recava nei quartieri degli affari, dove lo conoscevano, sperando di trovare un nuovo pugile a cui fare da agente. Era stato anche nelle palestre, aveva ingaggiato qualche giovane – senza contratto, ovvio –, ma quando lo aveva presentato a chi contava, a chi stava nel giro, aveva scoperto che nessuno era più disposto a contrattare con lui. Nessuno pareva disposto a dargli una seconda chance e lui, che un pochino ci aveva bazzicato in quell’ambiente e sapeva come andava, aveva compreso di aver perso ogni stima. Un agente che non fosse capace di farsi rispettare dal proprio cliente era un fallito, un senza palle, uno che poteva essere manipolato a proprio piacimento e questa cosa non andava bene, non in quel frangente. Era una specie di mina vagante, a cui non poter dare credito poiché la sua parola valeva meno di zero.
Così aveva smesso di andare alla ricerca di nuovi talenti, ma non passava giorno che non facesse visita al suo vecchio ufficio, come un uomo miserabile che torna ogni notte sotto alla finestra della propria amata con la speranza che questa lo ricambi.
Eric infilò la chiave nella serratura del portone, ma non riuscì a fare il primo scatto che sentì una presenza alle sue spalle e lo seppe fin da subito: lo avevano scovato.
«Signor Eric La Manna? O forse dovremmo chiamarla Enrico?» La voce rauca, dal tipico accento italiano – maccheronico – scatenò alcune risatine.
Eric si voltò piano, senza tuttavia togliere la chiave dall’imboccatura, il viso pallidissimo, mentre cominciava già a sudare sulla fronte e lungo la nuca. Si sforzò di sorridere, erano tre in tutto: due cinesi e quello al centro, colui che aveva parlato.
«Enrico è un bel nome, altisonante, dimostra da dove vieni, perché ti fai chiamare Eric?» Quasi biascicò l’ultima parola, teneva un sigaro fra le dita grassocce e gesticolava molto. «Eric…» ripeté, guardando i suoi accompagnatori. «Sembra un nome da checca: Eric.»
Gli altri risero, di nuovo, invece Eric non si mosse di una virgola, era pietrificato, incapace anche solo di pensare. Avrebbe potuto far fare un altro giro alla chiave nella toppa e il portone si sarebbe aperto, quindi avrebbe potuto sgattaiolare all’interno e richiuderlo. Certo, sarebbe stato salvo per il momento, ma sapeva che già l’indomani avrebbe dovuto cambiare casa, di nuovo.
Lo fece, mentre gli sgherri se la ridevano (l’italo-americano rideva e tossiva insieme, intanto che la sua enorme pancia tonda andava su e giù: era il classico uomo che sarebbe morto d’infarto intorno ai sessant’anni). Eric girò la chiave nella serratura, il portone si aprì e lui fece per oltrepassarlo, ma i cinesi furono più svelti e afferrandolo per il collo del cappotto lo trascinarono all’indietro, facendolo finire con il culo sull’asfalto. La lattina di birra scoppiò, spargendo il liquido biondo e schiumoso tutt’intorno.
Perfetto, pensò, non solo adesso le prenderò di brutto, ma non avrò neanche qualcosa non cui consolarmi dopo.
Il ciccione occidentale lo fissò dall’alto, inspirando un tiro dal sigaro e rilasciando il fumo che si addensò intorno alla sua faccia tonda, poi ordinò ai cinesi di rimetterlo in piedi. Questi obbedirono, avvicinandogli il volto a quello del loro capo, mentre lo tenevano per entrambe le braccia. Eric sentì un forte odore di dopobarba, misto a quello acre del fumo e non poté evitare di tossire.
«Che c’è Enrico? Ti dà fastidio il fumo?» Rise l’omone, mostrando denti gialli e cariati.
«Per piacere, per favore, non fatemi del male!» piagnucolò Eric.
«Vedi, Enrico, noi non vogliamo farti del male. Devi credermi quando ti dico che vogliamo solo il bene per le persone. Ma queste a volte ci deludono, ci tradiscono. Allora ci sentiamo presi in giro e questa cosa non va bene.» Il mafioso si muoveva avanti e indietro mentre parlava, continuando a gesticolare. Eric non cercò neanche di liberarsi dalla presa dei cinesi.
«Siamo persone comprensive, noi. Non siamo come le banche, quelle sanguisughe, che se ne fregano di come vivrai, di dove vivrai, se riuscirai a mangiare. Loro ti portano via tutto e ti lasciano in mutande in mezzo alla strada. Noi no! Noi siamo compassionevoli!» L’omaccione si fermò di nuovo di fronte a Eric, colpendosi più volte il centro del petto con la punta delle dita mentre pronunciava il pronome “noi”.
«Ma non facciamo beneficenza, quella la lasciamo alle associazioni succhiacazzi dei politicanti. Noi diamo il tempo alle persone di rimettersi in sesto, di vivere la propria vita ma…» alzò un indice, «ma ogni tanto ci piace passare a ricordare il debito. Sai, con tutta questa vita frenetica, uno potrebbe anche dimenticarsene.»
Per un attimo l’omone ed Eric si fissarono negli occhi, poi il primo spalancò le braccia e con aria bonaria chiese:
«Quindi, caro Enrico, dove cazzo sono i miei soldi?»
«Io-io non ce li ho ancora.»
L’altro allungò il muso a cuoricino e fece schioccare la lingua contro il palato, fingendosi dispiaciuto.
«Sono davvero costernato di questa risposta, sai?! Perché adesso sono costretto, costretto cazzo, a ricordarti del debito che ci devi.» Con uno scatto fulmineo afferrò Eric per i capelli e gli parlò così vicino che i loro nasi si toccavano, tanto che l’ex procacciatore di talenti poteva avvertire non solo il suo alito pestilenziale, ma anche tutte le goccioline di saliva che gli imbrattavano il volto.
«Per colpa tua e del tuo essere senza palle ho perso parecchi dollari, senza contare la reputazione che mi precede! E visto che sei già un senza palle, caro Enrico, potremmo darti una mano a diventarlo anche fisicamente, oltre che spiritualmente, eh? Che ne dici?»
«No, vi prego, vi prego… troverò il modo di ripagarvi…»
«Di ripagarvi fino all’ultimo centesimo»
«… sì, sì, fino all’ultimo centesimo, lo giuro. Ma vi prego, vi scongiuro, non fatemi del male.»
L’italo-americano lo lasciò e si acconciò la camicia, i cui bottoni sembravano facessero una fatica immane per restare ancorati alle asole.
«Vedi, Enrico, io non vorrei mai arrivare a tanto, ma se adesso non ti diamo una lezione, chi mi assicura che il messaggio ti sia arrivato? È come i genitori con i bambini: se questi fanno una marachella e non vengono sculacciati, la prossima volta la faranno di nuovo e poi ancora e ancora. Capisci? Devo insegnarti la lezione, è mio dovere morale accettarmi che-»
«Lasciatelo andare.»
Una voce chiara e cristallina giunse alle loro spalle, ferma e sicura.
Benito era a qualche metro sul marciapiede, la felpa chiara calata sul capo e le mani ficcate nelle tasche dei jeans.
Vedendolo, Eric quasi pianse di gioia.
«E tu chi cazzo sei? È un tuo amico?» Domandò l’omone rivolto a Eric, ma, senza aspettare la risposta di questo, si mosse in direzione del giovane, indicando Eric alle sue spalle. «Sei un suo amico?»
Benny non rispose e non abbassò lo sguardo, né indietreggiò quando l’altro gli posò una mano grossa e sudaticcia alla base del collo, colpendolo con un paio di buffetti.
«Sei un pugile, eh?»
«No» rispose con onestà Ben. «Ma voglio diventarlo.»
L’italo-americano rise, buttando la testa all’indietro, poi tirò un paio di volte dal sigaro, tossendo e ridendo contemporaneamente, come al solito.
«Perché non me l’hai detto subito, Enrico, che avevi questo futuro Mohamed Alì fra le mani?» Questa volta l’uomo indicò Eric La Manna, ancora trattenuto dai cinesi. «Ti concedo una settimana di tempo, poi un mio uomo di fiducia verrà a farti visita e ti darà data, ora e luogo dell’incontro che dovrai disputare per saldare il tuo debito. Hai capito?»
«S-sì.»
L’uomo guardò un’ultima volta il ragazzo con la felpa, inspirando a fondo; una nuvola di fumo si alzò dalla sua persona, mentre di allontanava seguito a ruota dai cinesi, ridendo e tossendo insieme.


 

 
  
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