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Autore: Deruchette    22/06/2022    1 recensioni
[La storia segue lo svolgersi degli eventi dall'epilogo di "Hunger Games" all'epilogo di "Mockingjay"]
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Katniss e Peeta, gli Innamorati Sventurati del Distretto 12, i vincitori della 74esima edizione degli Hunger Games.
La loro storia è sotto gli occhi di tutti ma solo in pochi sanno che, in realtà, si tratta solo di finzione. La mossa strategica che li ha portati via dall'arena è costretta a continuare anche adesso che il sipario inizia a calare sull'ultima edizione dei giochi.
E se ad un certo punto la finzione si trasformasse in realtà?
Cosa succederebbe se gli Innamorati Sventurati fossero realmente innamorati?
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Dal capitolo 6:
"È evidente, chiaro come il sole, che è tutto cambiato. Che il ragazzo che all’inizio di quest'avventura consideravo un semplice amico, un alleato, adesso è diventato qualcos’altro. Per settimane mi sono chiesta se non fosse sbagliato nei suoi confronti recitare la parte della brava fidanzatina conoscendo la reale portata dei suoi sentimenti, sapendo che io non provavo la stessa cosa. Non sarebbe tutto più semplice se ti amassi?, la domanda che ronzava costantemente nella mia testa.
Ora lo so. Non solo è più semplice, più normale. È diventato anche necessario. Necessario come l’aria che respiro."
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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In The Still Of The Night - 43

In the still of the night

 

 

43.

 

La stanza in cui ho trascorso i giorni precedenti i miei due Hunger Games, quella al Centro di Addestramento, diventa il luogo in cui trascorro la mia prigionia. È una prigionia, non saprei in che altro modo descriverla altrimenti. Potrei chiedere a Peeta se anche lui, all’inizio, era stato trattato nello stesso modo in cui vengo trattata io, ma Peeta non è qui. Non so dov’è. Non so nulla. Da quando sono qui, non mi hanno più messa al corrente di nulla.
Mi hanno condotta qui, mi hanno fatta entrare nella stanza spoglia e semibuia e se ne sono andati, chiudendo a chiave la porta alle loro spalle. Mi hanno lasciata qui senza dirmi cosa dovevo fare, se avessi dovuto aspettare qualcuno, senza sapere se qualcuno sarebbe giunto per somministrarmi la stessa medicina che io ho riservato alla Coin. Seduta sul letto, avvolta ancora nella mia uniforme da Ghiandaia Imitatrice, ho atteso un movimento. Ho atteso un rumore, ho atteso un segnale, ho atteso un qualsiasi cambiamento che potesse avvertirmi di ciò che i minuti seguenti, le ore seguenti, o i giorni seguenti mi avrebbero riservato. Ma non è arrivato nulla. Sono rimasta ore ad aspettare, ma non è giunto nessuno. Sono stata ignorata. Ignorata come ho desiderato così ardentemente nelle ultime settimane. E adesso che lo stanno facendo, vorrei che accadesse il contrario. Vorrei che qualcuno venisse a parlarmi.
Ho trascorso giorni interi vestita solamente di un accappatoio di carta, dopo che ho tolto l’uniforme per fare la doccia. L’uniforme è sparita, raccolta e portata via da qualcuno che non sono riuscita a vedere e neanche a sentire. Non ho altri vestiti all’infuori di questo accappatoio, e là fuori sicuramente pensano che non abbia bisogno di altro. Cosa se ne fa una ragazza imprigionata di un guardaroba pieno di abiti? Non posso uscire, comunque, la porta è chiusa a chiave. Le finestre sono sbarrate e siamo troppo in alto per poterle usare come via di fuga. L’unica fuga che potrei trovare da quest’altezza sarebbe tramite suicidio.
Non che non ci abbia già pensato… ma come avrei potuto suicidarmi qui dentro? Non ho niente con cui suicidarmi. Niente armi, niente vestiti, niente cinture. L’unica cintura che ho è quella dell’accappatoio, e si è strappata subito appena ho provato a realizzare un cappio, così adesso ho un accappatoio che resta sempre aperto e che mostra a chiunque mi spii la mia nudità, ma non mi interessa. Che guardino pure. Le medicine che mi mandano ogni giorno insieme al cibo sono inutili, e non mi garantiscono una dose letale con cui morire. Neanche se le accumulassi potrei trovare la morte. E lì fuori, chiunque mi stia sorvegliando si guarda bene dal mandarmi medicinali pericolosi. Vorrei un bel veleno, adesso. Un veleno farebbe proprio al caso mio.
Quando le medicine, i veleni e gli altri metodi di suicidio scarseggiano, metto in atto un'altra soluzione: inizio una specie di sciopero della fame. Assaggio appena la porzione di cibo che mi mandano, fino al giorno in cui smetto di fare anche questo. Bevo sempre meno acqua. Mi lascio, a poco a poco, morire di fame. Gli effetti cominciano a vedersi notevolmente quando sono trascorse almeno due settimane: le ho contate. Conto i giorni che trascorrono da quando ho iniziato. Le costole sono evidentissime, le ossa del bacino sporgono dai fianchi e sento di essere più magra dei giorni trascorsi nell’arena, ancora più magra dei giorni e dei mesi che affrontai quando morì papà, quando la mia famiglia rischiò di morire di fame. E forse, stavolta, ci riesco davvero. Morirò di fame.
Sono così debole da non riuscire più ad alzarmi dal materasso. Striscio lungo il pavimento quando devo andare in bagno, e quando faccio la doccia mi limito a stare seduta sulle piastrelle, e lascio che l’acqua scorra lungo il mio corpo magro. Non ho altra compagnia all’infuori di me stessa. Questa compagnia potrebbe terminare presto, forse è questione di pochi giorni prima che sopraggiunga la morte. Sento che, morendo, potrei trovare quella felicità che non sono riuscita a trovare da nessun’altra parte. Solo con Peeta ci stavo riuscendo, ma poi è tornato Snow. Sono tornati gli Hunger Games, ed è arrivata la guerra. Ed io ho perso tutto. L’illusione di felicità è svanita con Prim, con Lilac…
Ho le labbra secche, la bocca asciutta. Le palpebre si aprono e chiudono con gesti automatici mentre fisso, senza guardarla veramente, la finestra bianca da cui vedo cadere i fiocchi di neve. I graffi sulla parete, i graffi che ho smesso di fare giorni fa, sono trentatré. Sono in questa stanza da almeno trentatré giorni. Non so per quanti altri giorni dovrò restarci, ma spero che terminino molto prima che possa scoprirlo da sola.
Realizzo tardi, troppo tardi che, se sono trascorsi trentatré giorni e più da quando sono qui, gennaio è finito da un pezzo. Siamo già a febbraio, febbraio inoltrato. Il sedici gennaio è passato da tempo. Il sedici gennaio… è il giorno del compleanno di Peeta.
Peeta ha compiuto diciotto anni.
Diciotto anni: è un’età importante. L’età in cui diventi maggiorenne e smetti di essere un ragazzo costretto a presenziare alla mietitura. Peeta è salvo, ora, non dovrà più partecipare alla mietitura. Ma era già salvo in precedenza, essendo un vincitore. Ma essere un vincitore non gli ha risparmiato l’Edizione della Memoria. Essere un vincitore non ha risparmiato nessuno dei due. E non ha risparmiato me, non mi ha esonerato dal portare mia figlia non ancora nata dritta nelle fauci della morte. Sono stata io a consegnare mia figlia alla morte.
Non riesco neanche a ruotare sul materasso. Resto immobile, un braccio steso sulla pancia nuda, quella pancia che si era gonfiata per ospitare una vita innocente, una vita che non desideravo ma che è arrivata come un fulmine a ciel sereno a rischiarare la mia, di vita, che stava per giungere al termine. E scopro di avere ancora acqua nel mio corpo, acqua necessaria alla mia sopravvivenza, quando inizio a piangere per quella vita che mi è stata strappata troppo presto, quella vita che non sono riuscita a proteggere. Quella vita che ho amato anche se mi costringevo a non amare, perché sapevo che sarebbe stato difficile e doloroso lasciarla andare quando sarebbe arrivato il momento di farlo. Ho scoperto che avevo ragione: è stato difficile ed è stato doloroso, è stato straziante sapere di averla perduta. Lei era così pura e così bella… sì, bella. Anche se non ho mai visto il suo viso, so che era bella. Era bella come il fiore di lillà.
Era come un raggio di sole.
- You are my sunshine, my only sunshine… - mi esce dalle labbra.
È un soffio così flebile, così debole, che quasi non lo sento. È una canzone così vecchia, quella che mi è tornata in mente, da non riuscire a ricordare dove io l’abbia sentita la prima volta. Ma la canto, e la canto nonostante la mia voce sia debole ed il mio fiato sia corto nei miei polmoni, perché scopro che cantare mi fa sentire meglio. Cantare mi aiuterà ad affrontare le mie ultime ore di vita sulla terra. Voglio che i miei ultimi giorni di vita sulla terra siano all’insegna della musica. Perché come mi disse una volta Rue, in un tempo lontano che quasi non ricordo di aver vissuto, la musica è la cosa più bella che esista al mondo.
- You make me happy when skies are gray

You’ll never know dear, how much I love you
Please don’t take my sunshine away…

 

Ho cantato per alleviare le mie ultime ore di vita sulla terra, ma a quanto pare la terra non ha alcuna intenzione di lasciarmi morire. Le persone che sono qui fuori non hanno alcuna intenzione di lasciarmi morire. Lo capisco quando, dopo almeno trentatré giorni di prigionia, la porta della stanza in cui sono rinchiusa si spalanca. La luce invade la soglia della porta, una sagoma scura entra e si avvicina fino ad arrivare davanti a me, che sono stesa e seminuda sul letto. Una mano, calda e grande, si posa sulla mia, che tengo ancora premuta sulla mia pancia vuota.
- Ciao, dolcezza – dice la voce che appartiene alla sagoma scura. – Forza. Io e te torniamo a casa.

 

 

 

 

_________________________

Saaalve dolcezze!
Vi chiedo scusa per l’ennesimo ritardo con cui aggiorno la storia. Sono, al solito, ingiustificabile. Se siete arrivati a leggere fino a qui vi ringrazio molto, soprattutto dopo tutto questo tempo
♥ 
Vi ho lasciato un capitolo molto corto, è vero, ma per quanto ci provassi non sono riuscita ad andare oltre queste poche pagine. Non succede poi molto, e in qualche modo riflettono le stesse cose che avevamo già letto ne Il canto della rivolta. Il prossimo capitolo sarà più lungo, e dovrebbe arrivare anche presto perché è già scritto ;)
Ecco, a tal riguardo: non manca molto, ormai. Ci stiamo avviando alla conclusione e da una parte non voglio che finisca ç_____ç sarà per questo che aggiorno con così tanto ritardo? Chi lo sa!
A presto, prestissimo! Vi voglio bene

D.

   
 
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