1. ALL’OMBRA DELLA FORGIA
Il
primo che ha intagliato dalla pietra la prima arma
fu anche il primo a sedere su un trono.
– Fridun Nix, filosofo di Dulinhall
Ed aprì gli occhi e in
un unico, concentrato,
istante fu immediatamente sveglia. Non era insolito, per lei,
svegliarsi in una
frazione di secondo: era come protestare contro il sonno che tante
preziose ore
di lavoro le sottraeva. Cercò con le mani il berretto
accanto al letto, il suo
caro, vecchio berretto “da strillone” come si
diceva in città, perché era
spesso usato dai ragazzi che urlavano le notizie. Lo carezzò
con affetto,
congratulandosi con sé stessa per il suo buono stato.
Se si rovinasse, che penserebbero i
miei amici?
Indossandolo cercò di
togliersi
dal viso le ciocche rosse dei suoi ingovernabili capelli;
ciononostante,
svariati ciuffetti continuavano a finirle ostinatamente sugli occhi e
per
questo imprecò a profusione – sebbene anche questo
rientrasse nella normalità –
poi cercò gli occhiali da fabbro, pulendoli distrattamente
dalla fuliggine, e
li usò per stringere il berretto sui capelli. Si
guardò intorno: lo stanzino
esagonale di pietra chiara che ospitava il suo letto era debolmente
illuminato
dalla luce color crema di un cristallo, vi cercò lo
specchio, una placca
ottagonale che la rifletteva perfettamente: le occhiaie non erano
sparite con
quelle poche ore di sonno. Passò una mano sulle sue guance
nere e lucide come
l’onice, nere come il resto del suo corpo.
Magnifica presenza, un viso
aristocratico degno delle nobili stirpi dei
nani, testimone della purezza del sangue.
Chissà dove tutte le
nobili
stirpi erano andate a finire con la loro purezza? Pur infastidita da
quel
ricordo indesiderato, dovette ammettere con sé stessa che
era stato comodo
avere ancelle sempre dedicate alla sua bellezza, a mantenere lucida la
sua
pelle nera, luminoso ogni riflesso dei suoi capelli ramati, impeccabili
le sue
vesti di aristocratica purosangue; col tempo il lavoro aveva imposto i
suoi segni
sopra tutto questo e lei era troppo impegnata o stanca o distratta per farci qualcosa.
In ogni caso, mi preferisco
così. Sono più bella in questo modo…
diciamo.
Si tirò in piedi,
calpestando la
coperta di pelle d’orso. Pose una mano sulla parete e chiuse
gli occhi,
concentrandosi come solo un nano poteva fare sulle vibrazioni che
percorrevano
il suolo: percepì che la temperatura della superficie era
piuttosto bassa,
quindi infilò sopra i pantaloni dell’uniforme
un gilet rosso scuro in tartan. Un pesante sospiro e,
infilati gli
stivali, non le rimase che girare la valvola e, con essa, la parete
dell’abitacolo cominciò a roteare fino a
schiudersi del tutto. La volta della
galleria le si aprì davanti: tutti gli altri esagoni erano
già aperti e vuoti,
ciascuno degli apprendisti nani che vi riposava era sicuramente
già alla
Forgia, o quasi; sopra la galleria la città era
già sveglia e attiva, poteva
sentire il calpestio della gente che si spargeva sulle strade. La
campana
suonava la nona ora, poté sentirlo anche attraverso le mura
sotterranee, e lei
era di nuovo in ritardo.
***
Jen si sciacquò di nuovo
il volto
con l’acqua fredda del fiume, poi rimise mano al bucato. Da
ormai due anni era
diventata quel che si dice una donna di casa, ma il suo corpo di
sedicenne,
figlia maggiore che era stata coccolata e addirittura – nei
limiti della sua
famiglia, non certo abbiente – quasi viziata,
faticava ad accettare il
cambiamento. Le sei del mattino andavano bene per dormire, non per fare
il
bucato nel fiume gelato. Ma come aveva fatto sua madre a lavorare
così, da
quando suo padre era mancato? Tuttavia, senza dubbio, Jen preferiva
proprio le
ore che precedevano l’alba, quando poteva lavorare in pace
con il sole come
unico compagno, sole che era ancora soltanto un sospetto rossastro
oltre
l’orizzonte. Le ore successive andavano peggiorando, via via
che la costruzione
svettante al centro del lago in fondo alla valle prendeva vita. Suonava
quasi
la nona ora, adesso, e le bocche incandescenti della Forgia sputavano
senza sosta
fumo nero che divideva il cielo in ampie fette di azzurro; e come ogni
giorno,
intorno le volavano in cerchio quelle
cose, che si sarebbe potuto scambiare per uccelli ma che
certamente non lo
erano. Ogni tanto qualcuna doveva spostarsi verso altre
città e passava sopra
le loro teste, spaventando gli animali. Un paio erano atterrate davanti
alla
fattoria, probabilmente avendo scambiato le pecore per un manipolo di
banditi o
qualcosa del genere, ma fortunatamente limitandosi a squadrare Lor e
Yul per un
po’ per poi ritornare al luogo che erano preposti a
custodire. Nel pomeriggio,
la struttura perdeva sempre più i suoi contorni nel cielo
che imbruniva, fino a
lasciare visibili solo le ciminiere accese, come occhi incandescenti di
un
ragno che troneggiava perfido sul lago. Di certo anche da Kalaston, le
cui
bianche case erano pigramente adagiate sul versante opposto, potevano
vedere la
Forgia, ma per loro non avrebbe mai avuto lo stesso significato: per la
città,
la Forgia che sorgeva al centro della valle significava
l’armonia tra umani e
nani, l’espansione del benessere della città, la
dimostrazione della forza di
quella comunità un tempo insignificante; per la campagna,
era un’invasione di
campo, una contaminazione del proprio spazio vitale e in sostanza una
convivenza forzata.
***
Valiel interruppe la meditazione
quasi costringendosi; il sole filtrava tra i raggi illuminando da
diverse
angolazioni proprio ciò che lo aveva disturbato. Era un lupo
enorme, dal manto
striato di diverse tonalità brune, gli occhi profondi
puntati dritti nelle sue
iridi chiare di elfo, due gemme ambrate nel suo viso olivastro.
Alzandosi da
terra, il fogliame che s’intrecciava nel mantello di Valiel
cambiò colore e
forma, abbandonando le verdi foglie ovali del suolo che imitava e
tornando alla
loro reale forma bruna e frastagliata.
Camminò verso
l’animale e gli
pose una mano sulla fronte: «Minacce?»
domandò al lupo in una lingua non umana.
L’animale fece un cenno e
corse
in una direzione ben precisa, tra gli alberi. L’elfo
saltò agilmente tra i rami
per arrivare in alto, così da individuare cosa fosse a
spaventare la foresta, e
guardò nella direzione in cui era corso il lupo. Finalmente
riuscì a vederli:
passarono in fretta, ad una velocità che l’occhio
umano non avrebbe seguito
facilmente, erano in quantità decisamente insolita ed anche
diversi per forma e
dimensione da quelli che volavano intorno alla Forgia poco distante;
sebbene si
spostassero fluidi tra un albero e l’altro era facile capirne
la traiettoria,
erano diretti proprio lì alla Forgia o forse alla
città di Kalaston, poco
oltre. Tuttavia volavano bassi e le loro forme, che gli ricordarono dei
pesci
manta, stavano in verticale tra gli alberi, così da tagliare
l’aria come una
spada e da spostarsi tra gli alti tronchi senza essere visti: se
fossero stati
diretti ad una grande città, quella precauzione non avrebbe
avuto alcun senso.
Sicuramente volevano percorrere la foresta fino a valle e poi
raggiungere la
Forgia nascosti sotto il pelo dell’acqua lacustre. Valiel
rimase per un po’
indeciso sul da farsi; disegnò un ampio semicerchio con lo
sguardo cercando
qualcun altro sui rami, prima di constatare che era l’unico
ramingo nelle
immediate vicinanze. Non sapendo quanto fossero passati vicino a
Evalunith, era
impossibile determinare se altri elfi li avevano notati, se avessero
riportato
qualcosa ai rifugi e se avessero ricevuto ordini dalla regina. In
effetti, come
poter anche solo ipotizzare che fosse qualcosa degna di nota? Se non
vedeva con
i suoi occhi quelle cose tuffarsi nel lago, e quindi riportare alla
Forgia
qualcosa di estremamente importante, estremamente urgente ed
estremamente
segreto, non poteva concludere di aver visto alcunché di
strano. L’unica via,
dunque, era cercare di seguirli.
***
La piastra rovente faceva
sfrigolare il pane al contatto col burro fuso. L’odore di
maiale affumicato e
formaggio stagionato iniziava, con il calore, ad abbandonare il pane
tostato e
a diffondersi nell’aria.
«È bello caldo
ormai, perché non
ci spacchi due uova sopra?»
«È ancora
presto, Ed, non
cuocerebbero».
«Io dico di sì
e ho fretta».
«Ukor sia benedetto! Mi
lasci
lavorare?»
Ed decise di non parlare
più
finché Wulf non decise che era effettivamente il momento di
rompere due uova
sul toast. Si batté una mano sulla fronte nera come a
commentare lo spettacolo
di un individuo senza speranze. Dall’alto partì un
secondo flusso di calore,
che doveva cuocere le uova.
«È
inutile fare il muso.
Non ho colpa se ritardi sempre. E poi è giusto il secondo
stamattina, spero non
ti mangi solo questi per colazione. »
Ed sbuffò guardando di
lato,
mentre le sue dita nere agguantavano il pane ancora rovente. Dovette
aspettare
ad addentarlo: la pelle dei nani resisteva bene al calore, ma la lingua
non
poteva dirsi troppo migliore di quella di un umano o un elfo.
«Prendi solo quello? Sono
due
giorni che mangi come un bimbo. Fattene almeno altri due!»
«Una colazione leggera
andrà
bene, per oggi… non rischio di morire di fame ed ho fretta.
Se volevi che ne
mangiassi quattro dovevi essere il doppio più
svelto» ribatté lei alzandosi.
«Un po’ di
yogurt col miele? Del
formaggio fresco? Birra nera?» insistette l’altro.
«Non ho fame ti
dico!» sbottò
infine mentre già si accaniva senza remora su pane,
prosciutto, formaggio e
uova che soccombevano ai suoi morsi.
«Lasciami stare! Sto a
posto così»
assicurò parlando a bocca piena.
Wulf decise che era il suo turno
di tenerle il broncio. Ed lo notò all’istante.
«Scusa»
sussurrò lei «è che… sono
davvero indietro con quel lavoro… i nervi mi chiudono lo
stomaco…»
Wulf soffiò fuori dalle
narici
tutta la sua insoddisfazione per quel tentativo di scuse. Ma prima che
il
lungo, collaudato e ripetitivo rituale delle scuse tra amici potesse
durare
oltre, un tremito nella parete di roccia segnalò
l’arrivo della funivia che
l’avrebbe portata direttamente alla Forgia passando per il
sottosuolo.
«Mi farò
perdonare! Domani ne
mangio almeno sei!» cercò di scandire Ed tenendo
il toast nei denti, mentre si
avviava.
Si annunciava una pessima
giornata. Doveva arrivare alla Forgia senza passare dalla superficie
per sbrigarsi
e la cosa la indispettiva: aveva proprio voglia di vedere il sole.
Inoltre,
malgrado i Mastri avessero annunciato un giorno importante, la cosa non
aveva
avuto un impatto apprezzabile sulla sua puntualità. Questo
non sarebbe passato
inosservato.
***
Sette giovani nani muovevano il
loro corpo in sincrono, la tensione dell’attesa che esplodeva
in movimenti
spigolosi e decisi secondo un ritmo silenzioso ma ben inciso nella loro
memoria. Sette mani tracciarono in aria delle grandi rune dal medesimo
significato:
“Ukor”. Era l’ultima parola
dell’esercizio e lo concludeva, il nome del dio
patrono dei nani, il grande fabbro, e la parola finale del
ringraziamento
religioso per gioire insieme dell’opera appena creata. Il
potere della runa
richiamò quello di Ukor, il cui nome era appena stato inciso
sette volte
nell’aria, e i segni tracciati si colorarono di un bagliore
incandescente. I
sette apprendisti trascinarono rune fiammeggianti col dito indice, fino
ad
apporle nelle forme metalliche appena create, dove si incisero
oscurando
l’acciaio. Si erano incise in totale tre rune su ciascuna
delle sette lame, e
ciascuna lama aveva quindi ricevuto il medesimo nome: Spada Consacrata
ad Ukor.
Lo stesso nome di migliaia di opere identiche, prima di queste; Ed
osservò la
sua con sguardo annoiato: un’opera uguale a tutte le altre
non poteva dirsi
veramente sua ed era certa che ciascuno dei suoi compagni la pensava
allo
stesso modo. Perché solo lei non si preoccupava di
nasconderlo? Odiavale
ipocrisie anche e soprattutto quando un’intera
società le praticava.
«Bene,
bene…»
Mastro Airon si carezzò
il
pizzetto corto e appuntito e prese a camminare tra loro lasciando
ondeggiare
l’ispida, lunga coda che legava i suoi capelli bianchi. Gli
altri mastri
seguivano Airon con lo sguardo. I suoi lineamenti color cemento si
contrassero
varie volte in maniera appena percettibile e sempre differente, come se
ciascuna di quelle creazioni metalliche apparentemente identiche
meritasse un
discorso a parte; tuttavia, a causa della lente semicircolare che gli
circondava il viso, coprendo completamente gli occhi, era impossibile
determinare chi di volta in volta stesse guardando attraverso la
superficie
riflettente. Dopo aver esaminato ciascuno di loro, parlò.
«Molto bene. Ora provate
a sentire ciò che avete
creato. Ad entrare
in comunione con esso».
Erano oggetti simili a ruote
metalliche; da un lato del cerchio si allungava una lama lunga, larga e
piatta:
erano spade che erano state pensate per non essere impugnate, per
muoversi nell’aria
seguendo la volontà del loro padrone, dato che di solito
questa è più veloce
della mano dello stesso. Ciascun apprendista mise il pugno chiuso sopra
il
cerchio, rivolto verso l’alto, e così
sentì una corrente collegare il dorso
della mano all’epicentro del potere che aveva appena
imbrigliato nel metallo.
Le armi scivolavano nell’aria fino a fissarsi
all’altezza del gomito, così da
essere come una prosecuzione del braccio stesso. In sincrono gli
apprendisti
sollevarono i pugni, che trascinarono con sé, sospese a
mezz’aria, le lame,
mentre come a passo di danza tutti e sette vibravano un colpo di taglio
quasi a
voler tranciare l’aria in due. Ed, proprio come ciascun altro
apprendista,
constatò con soddisfazione che la lama seguiva il braccio,
come doveva.
«Imparate ad usare
l’attrezzo più
importante: la vostra mente. Essa è a sua volta uno
strumento, uno strumento
dell’anima. E così l’anima forgia la
mente ed essa tramite il corpo forgia la
realtà. E se la vostra carne, originata da voi,
può sottomettersi all’impulso
della mente, perché non può farlo il metallo?
Convincetevi di questo!»
L’esortazione urlata dal
Mastro
Airon echeggiò nell’ampia volta della sala
tempestata di incudini di diversa
altezza poste ad ugual distanza, come capitelli ornamentali nella
sterminata
superficie di un tempio. Sembrava che avesse parlato la Forgia, nella
sua
interezza. Era piuttosto vicino ad Ed e quando urlò di nuovo
la fece quasi
sussultare.
«Convincetevi! La vostra
convinzione scolpirà la realtà stessa!
Ora… mostratemelo!»
Lentamente, le lame fluttuanti
presero a roteare su se stesse, come i loro padroni chiedevano loro di
fare.
Ben presto iniziarono a scatenare una pioggia di scintille dai colori
rosso
fiamma e verde acqua, i colori del fuoco sacro di Ukor, la cui vista
ipnotizzava i nani sin dalla nascita. L’energia magica era
intrinsecamente
legata a ciascuna lama, ciascuna runa aveva operato correttamente,
ciascun
apprendista era riuscito nell’intento.
«Il potere di
forgiare» prese a
dire Airon «è un potere creativo. È
nato per costruire e non per distruggere. E
tuttavia, ci è data la possibilità di forgiare
armi. Nell’arma imbrigliamo la
nostra voglia di distruggere, la nostra aggressività, e le
permettiamo di
resistere nel tempo, addirittura possiamo donarla ad altri
perché combattano
per noi o per sé stessi».
Il Mastro tacque per qualche
secondo, come per dare il tempo a ciascuno di pesare bene quelle
parole. Le
lame continuavano a girare descrivendo cerchi perfetti. Nessuno perse
la
concentrazione.
«Invero, quello di creare
armi è
un potere enorme e terribile. E tuttavia alcuni di voi sceglieranno di
usare
questo potere creativo, come abbiamo fatto oggi, proprio per creare
armi che
distruggono. Per combattere per gli altri o per sé stessi.
Ma chi di voi si
sente in grado di piegare tale potere? Di controllarlo? Di
dominarlo?»
Il Mastro passeggiò
pazientemente
tra gli allievi. Constatò con un dispiacere molto ben celato
che nessuno di
loro aveva perso il controllo della lama, che manteneva costanti
velocità e
traiettoria. Tutti loro, dunque, sarebbero probabilmente diventati
fabbri di
armi, un esito che negli anni era sempre più comune al
concludersi degli
apprendistati. Le altre arti, invece, si facevano sempre più
rare. Quasi che i
giovani stessero col tempo maturando una necessità ormai
insopprimibile di
violenza. Veniva da chiedersi che senso avevano avuto, per le
generazioni che
li avevano preceduti, i tanti sforzi per arrivare finalmente a lunghe
parentesi
di pace nella trama della storia, se poi anche nella pace permaneva una
atavica
nostalgia delle epoche insanguinate. Un ciclo infelice in cui gli avi
soffrono
per ottenere una pace che i loro discendenti non tengono in gran conto.
«Molto bene»
concluse a
malincuore «la vostra determinazione è forte. Ora
imponete voi stessi a voi
stessi: che si fermino le lame… ora!»
Le lame erano ormai
indistinguibili, solo cerchi di metallo acuminato e roteante, eppure
appena fu
impartito l’ordine di Airon agli studenti, e dagli studenti
ai loro strumenti,
questi si immobilizzarono a mezz’aria nello spazio di un
frammento di secondo.
Imperlata di sudore, Ed guardò la punta della sua lama
raffreddarsi e perdere
il suo bagliore rossastro mentre le scintille saltellavano spegnendosi
sul
pavimento.
***
Non ci mise molto ad individuare
Svea che passeggiava lungo la balconata, godendosi l’acqua
profonda priva di
increspature del Lago Kalst e le ciminiere che si specchiavano
perfettamente in
esso. Da sempre Ed era affascinata dalla figura del Mastro
Svea, la cui
eleganza e femminilità non avevano nulla da invidiare ad una
principessa
elfica. Dai suoi capelli, bronzei come la pelle di lei, lisci e
perfettamente
sfrangiati, partivano libere, dalla sommità del capo, tre
lunghissime trecce
che scendevano lungo tutta la figura vestita di bianco candido; intorno
al
collo e ai polsi indossava gioielli, si diceva, di sua personale
fattura, che
sembravano come di fuoco liquido e cambiavano costantemente forma,
creazioni
raffinate come Ed non aveva visto da nessun’altra parte.
Secondo l’antica
saggezza dei primi Granmastri, l’artigiano deve in generale
saper parlare con
il suo elemento, comprenderlo, fondersi con esso – creta,
roccia, legno che
fosse. A tale regola fa eccezione il fabbro, che sul fuoco deve prima
di tutto
sapersi imporre con la propria volontà, persino con
violenza; ma Svea
costituiva una ulteriore eccezione: sembrava poter ragionare col fuoco
e i
metalli e domarli come fossero docili animali ammaestrati, spingendoli
a
prendere forma con una precisione e un perfezionismo che le mani, di
umano o
nano, non avrebbero mai ottenuto battendo direttamente sul metallo
rovente. Era
un ideale a cui aspirare non solo per Ed ma per moltissimi giovani
apprendisti,
maschi e femmine. Era, oltre che una forgiatrice eccezionale,
incredibilmente
elegante e nobile nel modo in cui solo una donna può essere,
due tratti che in
lei erano in armonia e non in contrapposizione: un traguardo tanto
ambizioso
che Ed aveva da tempo scelto di rinunciarvi del tutto.
«Mastro!»
chiamò.
Svea si voltò e sorrise
nel
riconoscere la figura nerissima di Ed. L’apprendista corse
entusiasticamente
verso di lei, che si appoggiò delicatamente alla balaustra.
«Un’opera di
ottima fattura,
quella di oggi. Non ti manca molto per concludere
l’apprendistato».
Ed ribatté con una
smorfia
annoiata: «Ottima fattura? Erano tutte uguali».
Svea ridacchiò
sommessamente:
«Sei davvero benedetta da Ukor, oltre alla sua arte possiedi
la sua
impulsività. Devi avere pazienza e affrontare il percorso
per gradi. E poi non
dimostri buonsenso a lamentarti: dopotutto proprio
l’esecuzione perfetta della
prova di oggi ti è valsa il perdono per il tuo ennesimo
ritardo».
Ed sbuffò stravaccandosi
sulla
balconata. Non provò nemmeno a ribattere, si
limitò a riflettere tra sé e sé su
quanto Svea avesse, assieme al potere di affascinarla, quello di
deluderla. Per
quanto la sua mente potesse essere aperta e decisamente geniale, ogni
volta che
si aspettava più comprensione da lei, Svea era un muro di
gomma e non
rinunciava a difendere tutte le regole che governavano la vita nella
Forgia.
Stupide, inutili regole.
«Sai bene che vado molto
oltre
quella roba, Mastro» obiettò debolmente, senza
sperare di convincerla.
Per un momento Svea
sembrò
accennare un assenso: sapeva bene che quella non era semplice vanteria
ma la
sfidò immediatamente: «Perché sei qui,
se lo pensi veramente?»
«Anche qui ci sono cose
che devo
ancora apprendere».
«Non è la vera
ragione» obiettò
Svea ma non insistette oltre: «Sia come sia, devi comunque
fare il tuo percorso
come tutti gli altri. Non è bene iniziare un viaggio dalla
sua meta».
Ed nascose il volto tra le mani:
«Ancora con questi sermoni. Mi annoio talmente tanto che a
volte penso potrei
mummificarmi qui dove sono. Diventerei un caso interessante…
unico…
scriverebbero libri sulla mia mummia. Voglio dire, su di me».
«Col tempo
capirai» con questa
frase Svea intendeva ogni volta, piacesse o no, chiudere
definitivamente il
discorso.
Dopo qualche minuto, Svea riprese
a parlare: «Sei determinata ad abbandonare la Forgia?
Potresti diventare un
vice-Mastro in pochi anni. Renderesti gloria a questo luogo».
«Non
m’interessa la gloria. Anzi,
la evito».
«Allora non ti resta che
il
Pellegrinaggio dell’Apprendista».
«Infatti».
«Hai pensato a che
materia prima
cercare? A cosa creare con essa?»
«Ho alcune
idee» alluse Ed con un
sorriso.
«Sì…
Quaquathor mi ha detto che
hai sfoggiato un sacco di nuove trovate alla Prova della scorsa
settimana».
«Ha detto
così…? Di sicuro in una
luce più negativa».
«Hai pregiudizi su di
lui».
«E lui su di
me» si difese la
giovane.
Quasi come se lo avesse
richiamato, suo marito salì le scale da cui anche Ed
proveniva. Mastro
Quaquathor rappresentava tutto ciò che la sua compagna Svea
non era: aveva la
figura tarchiata, una folta barba e capelli color acciaio tappezzati di
monili
rudimentali che li dividevano in ciuffi spioventi. Gli enormi occhiali
aderenti
agli occhi, che si sarebbero quasi detti piccoli telescopi,
testimoniavano la
violenza con cui Quaquathor litigava con le fiamme, rischiando ogni
volta di
accecarsi con qualche lingua fiammeggiante che sottometteva con la
forza bruta.
E tuttavia questo incredibile impeto lo rendeva noto e temuto ben oltre
i
confini della Forgia stessa. Ma pur rispettando la sua
abilità e la sua forza,
cosa Quaquathor avesse che poteva attrarre Svea, Ed non lo avrebbe mai
capito.
«Salve,
signorina. La sua
opera oggi…»
« …era di
ottima fattura»
concluse Ed sconsolata, con un tono troppo monocorde per potervi
individuare
sarcasmo.
«Precisamente. Tuttavia
non mi
sfugge la vostra ironia. È fuori luogo, considerando il
vostro comportamento e
l’ennesimo ritardo. Signorina, portare il titolo di mastro
forgiatore
significa…»
Ed ascoltò le reprimende
di
Mastro Quaquathor appena lo stretto indispensabile per annuire poco
convintamente, quando era praticamente obbligata a farlo dal discorso.
Ed
rispettava Quaquathor ma non riusciva a entrare in relazione con
ciò che lui
rappresentava: un’altra epoca, un tempo che non esisteva
più. Un tempo passato
in cui i nani passavano la loro vita vedendo il cielo appena una o due
volte,
per lo più sepolti vivi in officine grandi quanto intere
città, dedicando
l’intera vita alla qualità –
sacrificando sé stessi e la loro intera, lunga
esistenza alla perfezione di un unico manufatto – o
altrimenti alla quantità,
ammucchiando oceani di monete d’oro che illuminavano a giorno
le volte di
pietra geometriche e solide. Un passato di nani che correvano qui e
lì lungo le
gallerie, sempre col fiatone e sempre con un boccone quasi strozzato in
gola,
sempre di fretta tra un’opera e l’altra, maschi che
si confrontavano orgogliosi
trecce e ricci delle loro lunghe barbe e donne che si vantavano di
poter
cucinare un montone intero, canzoni sempre nuove – milioni di
canzoni – che
risuonavano martellanti nei saloni sotterranei, mercanti che
negoziavano
nevrotici con gli elfi per acquistare semi e frutti di piante che
crescessero
anche sotto terra e con gli umani per recuperare congegni e macchine su
cui
lavorare. Un tempo di tradizione, identità, consapevolezza.
E anche un tempo
grandioso, di sogni e di gloria, di imprese storiche e grandi conquiste.
«Sì,
Mastro» ripeté ancora e
ancora, persino quando Quaquathor la ammoniva di non dargli ragione in
quel
modo canzonatorio.
Il fatto era che Ed non pensava
realmente che quel tempo fosse finito: piuttosto, che non fosse
esistito mai
realmente. Ogni epoca era condannata a sentire la nostalgia di
un’altra, di un
tempo migliore eppure perduto che – se la mancanza si
avvertiva tanto
marcatamente – doveva
essere
esistito, certamente. Ma era solo un’illusione. Per lei non
c’era gloria o
onore nel passato, né valori o insegnamenti da recuperare e
da riscoprire,
tutt’al più c’era qualche conoscenza
tecnica smarrita che poteva essere
ritrovata. Non c’era nobiltà nella storia della
sua gente, né in quella delle
altre genti. I nani avevano vissuto in un modo e ora vivevano in un
altro: non
c’era un senso dietro
quel fatto. Ma per i nani come
Quaquathor,
che avevano assistito al tramonto di quei tempi, trasmetterne
l’essenza alle
generazioni successive era come una missione.
«Sì,
Mastro» annuì ancora.
Ma Mastro Quaquathor si era
interrotto bruscamente e Ed se ne rese conto. Come sua moglie Svea
rimase
immobile a fissare il lago. Ed impiegò qualche secondo di
strano silenzio per
mettere a fuoco la situazione e rendersi conto che entrambi osservavano
tesi e
concentrati la superficie lacustre. Compreso dove guardavano anche Ed
si
sporse, per vedere qualcosa di decisamente inusuale che ne increspava
la
superficie.
***
Jen fece in tempo a notarli con
la coda dell’occhio, poi l’avevano già
superata. Si erano tuffati nell’erba
alta come pesci che nuotavano tra i fili verdi, come grandi mante
volanti.
Subito avevano cambiato forma diventando più simili a dei
levrieri da caccia,
solo troppo grandi per essere scambiati per cani. L’allarme
era stato
immediato: quelle tre cose si precipitavano, velocissime, verso la
riva. Verso
Lor e Yul. Non ne aveva mai viste di simili a quelle, neppure nel
comportamento: sembravano incuranti di ogni essere vivente che avevano
intorno
e procedevano come dardi, puntando un obiettivo a lei ignoto e non
considerando
nient’altro sulla loro traiettoria. Se aveva sempre trovato
quelle cose
inquietanti, in queste in particolare c’era qualcosa di
persino terrificante. La mente di Jen si fermò e
cancellò ogni pensiero:
realisticamente, il suo intervento non avrebbe potuto cambiare nulla ma
il suo
corpo si mosse comunque da solo, correndo verso la riva.
«LOR! YUL!»
Chiamò più
volte con quel poco
fiato che la corsa le lasciava. Più volte rischiò
di cadere nella discesa, fin
quando finalmente fu abbastanza vicina da vederli. Yul era come era
sempre
stato, dalla scomparsa della madre: immobile, silenzioso e totalmente
celato
dietro i suoi lunghi capelli fluenti; Lor si agitava disperato attorno
ad una
macchia rossastra e sconquassata che imbrattava la scogliera.
«Lor! Lor!»
La capigliatura a porcospino del
ragazzo si sollevò, il suo sguardo dilatato si
staccò dalla poltiglia
sanguinolenta che aveva ai piedi e si portò sul volto della
sorella maggiore.
Il suo solito piglio spavaldo e insolente, da teppista, era sparito:
era
totalmente sconvolto, fuori di sé.
«…Jen…
Jen… io… Tiny… Tiny!»
«…Tiny?»
guardando ancora ai
piedi del fratellino, Jen finalmente comprese dove era finito il loro
cagnolino.
Ma perché quelle cose,
quei golem avrebbero dovuto
attaccare un
cane, si chiese? Che minaccia avrebbe mai potuto rappresentare? E poi,
perché
quei golem erano così diversi dagli altri della Forgia?
«Yul!» al
richiamo determinato
della sorella maggiore, Yul si avvicinò quietamente
«Cos’è successo?»
Venuta meno l’attenzione
della
sorella, Lor riprese a piangere sui resti. Sembrava quasi indeciso
sull’eventualità di raccogliere quei pezzi
smembrati con le nude mani.
«Dei golem sono arrivati.
Erano
strani, diversi. Molto veloci. Tiny è morto».
Jen piantò gli occhi ben
fissi su
quelli inespressivi del ragazzo: «Come è
morto?»
«…Tiny…»
continuava a ripetere
Lor, con voce sempre più debole, quasi con un sussurro.
«Deve averli presi per
dei lupi.
Strani, molto aggressivi. Tiny ha abbaiato contro i golem».
«Forse lui…
voleva proteggerci…»
aggiunse Lor.
«…come faceva
suo padre con le
pecore» assentì Yul con tono indecifrabile.
«Ma era ancora
così piccolo…»
l’inciso di Lor era così sommesso e distante che
avrebbe potuto venire da
sottoterra.
«I golem hanno
reagito» spiegò
Yul per concludere il racconto, lasciando il resto
all’immaginazione.
Jen si rivolse alla Forgia,
ancora immobile sul Lago Kalst. Aveva sempre pensato che prima o poi
tutte le
stranezze di quel posto avrebbero portato guai alla fattoria, era solo
questione di tempo. E il tempo era giunto.
«Corriamo a casa.
Svelti» ordinò.
***
Valiel fece un po’ fatica
a
seguire i golem che schizzavano tra gli alberi ma alla fine
riuscì a
raggiungerli poiché proprio loro rallentarono. Si
fermò sull’ultimo albero
prima che iniziasse la vallata che andava verso il lago, abbastanza in
alto da
seguirne i movimenti. Mutarono rapidamente forma, in una struttura
quadrupede
più adatta a correre nascosta dall’erba alta;
Valiel sapeva che molti golem
potevano farlo ma non aveva mai visto metamorfosi tanto
radicali e
immediate. I golem arrivarono fino ai confini della valle, alla riva
del lago,
passando bruscamente in mezzo a due ragazzini umani e uccidendo un
cucciolo di
cane che calpestarono come per togliersi di torno un fastidio. Poi
accadde
qualcosa di ancor più strano: piuttosto che tuffarsi in
acqua cambiarono di
nuovo forma in qualcosa di simile a un serpente alato, quelli che a est
chiamavano dragoni di Izun; e in questa nuova forma attraversarono il
lago a
pelo d’acqua, come volessero eludere gli sguardi. Ma di chi,
degli estranei
alla Forgia o dei Signori della Forgia stessi? E perché
evitare l’acqua? I
golem non provavano paura per l’acqua, né per
nient’altro… non provavano nulla,
se non le stesse impressioni e idee di chi li controllava. Sulle prime,
Valiel
aveva pensato ad una comunicazione da altre Forge; magari da
L’Argeant o dalle
Isole Ranaluta, riguardanti lo stato della Bocca del Chimaer che si era
schiusa
a nord-est o nuovi studi sul controllo del tempo atmosferico. I nani
pensavano
spesso di tenere per sé stessi queste cose e di comunicarle
agli alleati solo
una volta prese le proprie decisioni, come del resto facevano anche
umani ed
elfi quando si presentava l’occasione – sulle
Bocche del Chimaer comunque c’era
poco da scherzare e ciascuno pensava che fosse meglio fare a modo
proprio.
C’era un’altra possibilità, che
non si trattasse di comunicazioni segrete
ma di un attacco a sorpresa alla Forgia, evidentemente eseguito con
l’aiuto di
un mastro forgiatore nanico. Ma un nemico che pensasse di attaccare la
Forgia
doveva essere pazzo oppure abbastanza potente da impensierire persino
Valiel e
la sua gente. I golem continuavano a sfrecciare sul pelo
dell’acqua zigzagando,
forse tentando di distrarre eventuali osservatori, era difficile dirlo.
Certo
fu che i golem che sorvegliavano le ciminiere, volando in circolo, non
notarono
i nuovi intrusi e li lasciarono passare con facilità.
L’elfo li osservò con
ammirazione cambiare ancora una volta forma e, mutati in figure
vagamente
aracnidi, risalire metodici le pareti della Forgia senza attirare
l’attenzione.
Un potere davvero grande era quello all’opera, di sicuro
c’era dietro un mastro
forgiatore abile e creativo. L’attacco alla Forgia si
consumò in tutta la sua
forza distruttiva in appena una manciata di minuti.
***
Erano passate diverse ore ormai.
Ed trascinava il suo corpo nell’erba con una stanchezza
infinita. Sopra di lei,
il cielo era una coltre nerissima e opprimente che celava potenziali
pericoli.
Tutte le stirpi più antiche dei nani avevano una certa paura
degli spazi aperti
e sconfinati, paura che qualche volta sfociava in una vera e propria
agorafobia, ma mai come in quel momento Ed poteva comprendere il timore
atavico
che la sua gente provava sotto il firmamento notturno vertiginosamente
ampio e
l’impellente necessità di seguire il proprio
istinto e nascondersi sottoterra.
«Nelle
braccia di Isor si culla Ukor, dormono i nani protetti sotto la
terra degli elfi» recitò con amara
ironia, sputando il sangue che aveva
succhiato dal suo labbro spaccato e rimpiangendo di non avere una bella
tana
profonda in cui rifugiarsi.
Si voltò ancora,
d’istinto, pur
consapevole dell’impossibilità di determinare dove
fosse il pericolo. L’erba,
chiazzata qua e là dal sangue che le sgorgava dal braccio,
aveva lasciato un
sentiero di fili spezzati a testimoniare quanto a lungo aveva
camminato: aveva
fatto pochi passi, fu costretta a constatare, molti meno di quanti le
erano
sembrati – la riva, nera di tenebre, la Forgia in preda alla
confusione e alle
fiamme, erano ancora vicini, eppure ogni passo le era pesato
indicibilmente.
«Zahnrad!»
chiamò, ma poi si rese
conto che aveva paura di farsi sentire e si rannicchiò su
sé stessa come se le
sue parole potessero tornare indietro e colpirla.
«Zahnrad! Dove diavolo
sei?»
nessuna risposta.
Il corpo decise che non ce la
faceva più. Si lasciò cadere a terra e
strisciò fin dove le sembrò che l’erba
coprisse la sua figura. E finalmente la sua giornata ebbe fine. La
stanchezza
era tale che persino in quel giaciglio le sembrò di riposare
meravigliosamente,
per delle ore che fluirono con naturalezza una dopo l’altra.
Il risveglio fu
caratterizzato dall’amara realizzazione che la giornata
precedente, che tanto
bruscamente era cambiata nell’arco di pochi istanti,
apparteneva alla realtà e
non al mondo dei sogni che aveva appena lasciato. La Forgia ora era
avvolta dal
fumo bianco, mutilata di una delle sue ciminiere ma comunque quasi
tornata alla
normalità di una giornata di lavoro – era
difficile del resto che dei nani che
non fossero gravemente invalidati interrompessero il loro abituale
ritmo di
lavoro, se non erano obbligati. Ed la scrutò tra le fronde,
badando a non
uscire troppo allo scoperto, e provò un senso di sollievo ma
anche una
istintiva tristezza: non poteva che fuggire lasciandosi dietro una vita
interrotta e non era la prima volta che era costretta a farlo.
Guardò il cielo
e le colline circostanti: di certo, i golem non avevano lasciato la
zona e la
tenevano, per quanto possibile, sott’occhio.
Avanzò verso gli alberi, dove
sarebbe stato più difficile individuarla, piegata e
intirizzita dal freddo:
scegliendo di fuggire a nuoto nel lago, la sera prima, la sua posizione
non era
stata scovata né intuita ma aveva dovuto fare i conti con la
pessima attitudine
della sua specie al nuoto e passare in acqua diverse ore.
«Muoviti, Yul!»
Ed sobbalzò e subito
dopo cercò
di farsi tanto piccola da scomparire: non aveva la benché
minima intenzione di
scoprire a chi appartenesse la voce. Con il palmo della mano sinistra
accarezzò
la pelle nerissima del braccio destro, fino a individuare una delle
numerose
rune incise sull’avambraccio, e percorse la forma della runa
col dito; il
simbolo risplendette di giallo e divenne un varco tra lo spazio e il
tempo,
attraverso il quale poté richiamare a sé una daga
d’acciaio.
«Zahnrad!
Vieni, Zahnrad!»
Niente da fare. Doveva
accontentarsi dell’arma che aveva.
«Ma vai a
quel…»
Si zittì. Gli occhi non
abbandonavano i fili d’erba, cercando la possibile posizione
del ragazzo che
aveva sentito o dell’altro che aveva chiamato. I movimenti le
dissero che erano
vicini e le parve di stringere tanto forte il pugnale che quasi lo
frantumò:
detestava l’idea di assalire qualcuno di nascosto ma in quel
momento era
disposta a tutto pur di evitare anche la minima eventualità
di essere ritrovata
da quelle cose. Qualcuno le passò davanti, doveva essere
quel tale Yul o la
persona che lo aveva appena chiamato, ma date la corporatura e le
calzature
doveva comunque trattarsi di due giovani contadini. La sua mano intorno
all’elsa si rilassò, come tutto il suo corpo,
registrando che non aveva da
temere. Dietro il ragazzo che calpestava energicamente l’erba
a pochi passi da
lei ne arrivò un altro, con passo più lento e
tranquillo. Poi in una frazione
di secondo entrambi si immobilizzarono e anche lei percepì
con chiarezza quelle
cose, quei golem, che passavano in volo sopra di loro. Uno dei due
ragazzi fece
un movimento brusco, come volesse saltare verso il cielo, e
urlò una serie di
ingiurie oggettivamente indistinguibili. Poi fu atterrato
dall’altro ragazzo,
evidentemente determinato a non attirare l’attenzione dei
golem: non bastò, era
tardi ormai. Ed ne sentì uno planare verso di loro. Si
presentavano ben poche
alternative: fuggire ancora, rischiando di essere scovata comunque e
abbandonando i due ragazzi al loro destino oppure affrontare
direttamente i
suoi inseguitori e semplicemente vedere come andava a finire.
***
Finalmente Valiel poteva vederne
uno a terra, intento a battersi. Certamente non poteva dire di aver mai
visto
golem così meravigliosamente elaborati e potenti: i corpi,
realizzati non con
minerali lavorati ma da una massa fluente di sabbia finissima, senza
dubbio
tenuta insieme da rune molto potenti e complesse, ora modellatisi come
umanoidi
alti e slanciati, erano mutevoli ed inafferrabili. Invece la maschera,
un volto
inumano dal lungo naso appuntito e occhi vuoti, sembrava di un
materiale simile
alla ceramica intarsiata di centinaia di caratteri runici microscopici.
«Scappate, rustici
idioti!
Levatevi dai piedi!»
La giovane nana dalla pelle nera
che si avventava contro il golem doveva essere gravemente ferita, a
giudicare
dalla lentezza con cui muoveva un braccio. Dietro di lei
c’erano due ragazzini
umani, uno intento a dimenarsi in preda ad una furia incontrollabile,
l’altro a
trattenerlo con tutta la sua forza. La ragazza lanciò una
spada corta verso il
corpo del golem ma la sabbia lo inglobò senza subire alcun
danno. Cercò con le
dita una runa nell’avambraccio e da essa evocò un
maglio imponente, quasi
troppo grande per reggerlo con un braccio solo.
«Qui! Vieni da me, brutto
schifoso!» provocò lei preparandosi a colpire con
una postura che Valiel
giudicò non eccezionale ma sopra la media.
Dal nulla aveva fatto apparire
un’arma: la profondità delle conoscenze runiche
era davvero eccessiva per una
semplice allieva della Forgia, anche se l’elfo ebbe
l’impressione che non fosse
altrettanto esperta nel combattimento corpo a corpo. Ne conosceva i
principi
teorici, però: faceva roteare la mazza in una danza di
eleganza e forza a cui
il golem rispondeva minuziosamente, opponendo armoniose schivate ad
attacchi
altrettanto fluidi, ma nei pochi secondi che la creatura aveva
impiegato ad
abituarsi al ritmo degli attacchi la nana, che aveva aspettato appunto
questo,
accelerò bruscamente finendo per colpirlo in pieno. Il
metallo attraversò il
torso sabbioso come un coltello nel burro caldo, ma subito il corpo del
golem
si ricompose identico a prima. La nana sembrava intenzionata a colpire
la
maschera dall’alto verso il basso ma un braccio del golem
cambiò forma in lungo
sperone che cercò di trapassarle il ginocchio;
nell’atto di salvarsi la gamba
lei perse l’equilibrio e cadde di lato, lasciandosi sfuggire
l’arma dalle mani
per atto della forza che lei stessa le aveva impresso, complice la
debolezza
del braccio ferito.
«Lasciamelo
ammazzare!» gli parve
di distinguere nelle urla del ragazzo umano irrequieto ma
l’altro lo tratteneva
con forza, rimanendo impassibile.
Il ragazzo era pazzo o stupido:
se una forgiatrice abile come quella non reggeva il confronto,
figurarsi un
giovane contadino. Il golem tentò una seconda volta,
modellando il suo braccio
come una palla chiodata, di rompere una gamba alla ragazza, che
evitò il colpo
rotolando pietosamente, tradendo così tutta la sua
stanchezza. Il suo
avversario di sabbia sembrò seguire i movimenti di lei con
calma misurata, come
se fosse ormai certo del risultato; in quel momento il ragazzo irruento
riuscì
a liberarsi dall’altro e a precipitarsi sul golem, che si
voltò di scatto
pronto a reagire. In quella frazione di secondo, Valiel seppe che il
Trattato
dei Popoli era violato: un golem, evidentemente frutto della scienza
runica dei
nani, aggrediva un umano, un membro di un’altra specie, e
questo lo autorizzava
ad intervenire; non impiego più di una frazione di secondo a
decidere di
piazzargli un pugnale nella fronte. Il lancio fu preciso, la lama
interruppe il
complesso circolo di rune che animava la creatura e un corposo mucchio
di
sabbia si sparse inanimato nell’erba. La ragazza
crollò sfinita e i due umani
si paralizzarono, indecisi sul da farsi. Valiel rimase quieto sul suo
ramo.
***
Le costò
un’enorme fatica
riaprire gli occhi, le palpebre erano pesanti e le sembrò
che l’aria stessa
bruciasse. Nelle orecchie, che sembravano farle male
dall’interno, le ronzava
una odiosa canzoncina dal ritmo melodico e sdolcinato, del tutto
estranea ai
ritmi serrati e incalzanti delle canzoni naniche. Si guardò
intorno, cercando
una qualche presenza con lo sguardo, e subito individuò la
fonte di quella
canzone: era una ragazza umana alta e bionda, imbacuccata in vestiti
troppo
larghi per lei, curva su un calderone di qualcosa che ribolliva,
rilasciando un
odore di verdure (per quel poco che poteva sentire, col naso
semichiuso)
piuttosto sciapo e privo di carattere.
«Come sta Lor?»
Una voce piatta rispose alla
ragazza da qualche parte che Ed non vedeva: «Non si
alza dal letto».
Si guardò intorno: mura
di legno
umili, attrezzi rudimentali ricavati dal riciclaggio di altri, diversi
barattoli di conserve impolverati e qualche marmittone. Ma
c’era anche un tocco
di femminilità nella stanza: fasci di spighe dorate e di
piante dalle grandi
foglie verdi, fiori lilla e grossi frutti lucidi color rosso vino. Era
la casa
di una contadina, senza dubbio, probabilmente di colei che stava
cucinando.
«Bè, tanto
sarebbe impossibile
lavorare con questa tempesta, quindi che faccia come gli
pare».
Ed drizzò le orecchie:
sì, poteva
sentire fuori il battere incessante di grosse gocce, il vento che
soffiava
senza riposo e pochi spazi di silenzio tra un tuono e
l’altro. Pioveva: doveva
trattenersi per non scoppiare a ridere fino a morirne.
«Al… sei stato
fregato».
Lo bisbigliò appena ma
la ragazza
reagì subito alle sue parole e si voltò. Ed la
studiò con quel poco di occhi
che riusciva a tenere aperti: i capelli sembravano paglia giallastra e
strapazzata, gli occhi azzurri erano ben incassati nelle occhiaie,
scavate
dalla stanchezza che rovinava i suoi lineamenti dolci, le forme un
po’ troppo
abbondanti tradivano la tipica alimentazione dei contadini che non
giovava né
alla salute né alla linea. Era complessivamente una ragazza
che avrebbe potuto
essere bella se fosse cresciuta in un ambiente aristocratico.
«… Al? Chi è Al?»
Piuttosto che rispondere, Ed
alzò
di nuovo gli occhi al soffitto e si abbandonò nuovamente ai
pendii scivolosi
del dormiveglia. La ragazza non sembrò voler insistere e si
rimise a trafficare
attorno al pentolone. Lo stato letargico durò fino a quando
un rumore di porta
che sbatteva annunciò l’arrivo di una folata di
vento gelido e umido nella
stanza; Ed sgranò subito gli occhi, sorpresa dal freddo. Un
ragazzino emaciato,
dai lunghi capelli fluenti color paglia, si svelò
togliendosi di dosso un manto
inzuppato.
«E allora?»
«Dorme ancora».
«Digli che la pianti,
Yul, non
può passare tre giorni a lutto per un cane».
«Non credo che a Lor
importi»
constatò l’altro, neutro.
«Importa a me. Digli che
scenda
dal fienile domattina o nessuno gli porterà più
da mangiare».
Yul reagì con quella che
poteva
essere la stretta di spalle di qualcuno che non voleva neppure sprecare
troppe
energie per stringersi le spalle.
«Invece dimmi, che fanno
le
nostre vecchie signore?» chiese la ragazza dopo un
po’ che il ragazzino si
stiracchiava sul pavimento davanti al fuoco come un gatto.
«Il temporale non le
spaventa più
ormai, solo i vitellini hanno paura. Ma sono sotto controllo».
«Speriamo
bene… ci aspetta almeno
una settimana di pioggia».
Al pensiero Ed riprese a ridere
sommessamente ma di gusto, prima di rigirarsi nel letto decidendo di
disinteressarsi a qualsiasi altra cosa quel tale Yul e la misteriosa
padrona di
casa si sarebbero detti.
***
Addentando una enorme fetta di
soffice torta al miele, Ed guardò ancora una volta Jen di
sottecchi. Dopo una
abbondante sorsata di latte caldo si rifugiò un
po’ di più sotto le coperte
come volesse rifuggire lo sguardo della ragazza.
«Capisco che hai la
febbre ma
potresti almeno parlare. Sono tre giorni che dormi, mangi e non
spiccichi una
parola».
Per tutta risposta, Ed
lasciò sul
vassoio di legno la torta e il latte e spinse il vassoio verso Jen, con
aria di
sfida. La contadina ci mise qualche secondo a decifrare le azioni della
giovane
nana. Poi afferrò il latte e la torta smangiucchiata con
aria di sufficienza.
«Ah, è
così? Immagino che una
giovane massaia non sia degna della considerazione di una Maestra
Forgiatrice».
«L’hai
detto».
Jen, già in piedi e di
spalle, si
paralizzò di colpo. Sentiva la voce di Ed per la prima
volta, tagliente e
leggermente annoiata. Si voltò, rossa in volto.
«Come, prego?»
«Hai sentito»
tagliò corto Ed
cercando di rimettersi a dormire.
«Siete tutti
uguali!»
«…tutti?»
ripeté Ed inarcando
appena un sopracciglio «Tutti chi?»
«Voi! Voi nani! Vi
credete chissà
chi perché portate l’industria, il progresso, e
tutti i vostri congegni
spaventosi. Ebbene…»
«Usi un sacco di parolone
difficili per una contadinotta sciupata» disse, riprendendo
irrispettosamente
la torta dalle mani di lei e sbocconcellandola «I tuoi
genitori pidocchiosi ti
hanno pagato la scuola di città? Bè, vero
è che a Kalaston anche la scuola è
piena di caproni».
Ed dovette appena inarcare la
testa all’indietro per evitare il vigoroso schiaffo che Jen
cercò di darle.
«Bella mira, brava. Voi
umani
siete tanto lenti da sembrare fermi».
«Perché ti
comporti così? Ti ho
salvato la vita, lo sai questo?»
«E io quella dei tuoi
stupidi
fratellini» ribatté a bocca piena, sorridendo e
sputacchiando briciole «Quindi direi
che siamo pari, no?»
Jen restò in silenzio,
non
sapendo cosa obiettare, ma respirando rumorosamente come un toro
infuriato.
«Giusto… siamo
pari».
«Ecco, così mi
piaci. Il vero
problema… è che non so davvero come».
L’espressione di Jen si
colorò di
curiosità: «Come scusa?»
«Non so come ho fatto.
Quel golem
avrebbe dovuto fare a pezzi i tuoi fratelli e poi…
prendermi. Invece s’è
sfasciato. Strano davvero. Ma sia come sia…» un
dito di Ed indicò il cielo
rabbuiato dalle nuvole, che si vedeva appena dalla finestra
«…appena finirà la
pioggia, sarete tutti morti».
Jen balzò in piedi, col
volto
dilatato dall’orrore: «Cosa?»
«Rilassati, stavo
scherzando.
Forse».
«Forse?»
«Già. Forse.
Però sarà davvero un
bel casino quando finisce la pioggia. E non so davvero cosa
farci».
Jen l’afferrò
per il bavero,
stavolta fu troppo brusca perché Ed trovasse la presenza di
spirito per
reagire: «Non sai cosa farci?» non era in lacrime o
fuori controllo, anzi
sembrava fredda e determinata «Certo che sai cosa farci. Sono
golem. Siete voi
che li costruite. Mi stai dicendo che torneranno?»
«Finita la
pioggia… sì.
Probabilmente».
«E poi cosa faranno?
Dimmi tutto
quello che sai!»
«…altrimenti?»
provocò lei.
«Altrimenti non ti
dirò come
scappare».
La giovane nana si
bloccò,
sorpresa: «Scappare? Perché pensi che vorrei
scappare da qualche parte?»
«Non sono idiota. Hai
detto che
quel coso doveva ammazzare i miei fratelli e prendersi
te. Quindi cercava te, per portarti da qualche parte dove
non vuoi andare».
«Mi sembra
sensato».
Jen alluse ad uno dei vestiti di
Ed, l’unico che non era steso in un filo che passava in mezzo
alla stanza, poco
oltre il suo giaciglio: una uniforme di maglie esagonali che
scintillavano,
lucenti.
«E vieni dalla Forgia ma
nessuno
della Forgia è venuto a chiedere di te. Danno per scontato
che tu sia stata… presa…
come dici tu. E se d’altro canto
potessero proteggerti, l’avrebbero già fatto
prima. Quindi… certamente non vuoi
tornare lì e non hai miglior occasione per
scappare».
«Molto acuta».
si congratulò
acidamente l’altra «Quindi?»
Jen prese un respiro, come
esitasse un momento, prima di decidere di proseguire il discorso.
«Io so come farti andare
ovunque
tu voglia immediatamente e senza essere vista. È un mio
segreto. Ma in cambio
mi dirai come evitare che ne vengano altri e infastidiscano me o la mia
famiglia. E lo farai adesso. Tutto chiaro?»
Ed scostò delicatamente
le mani
della ragazza dal vestito che stringevano: sentendo la delicatezza del
tocco,
Jen accettò di mollare la presa.
«Tu… mi sei
proprio simpatica».