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Autore: drisinil    23/06/2022    10 recensioni
[Yurio Character Study] La medaglia d'oro di Barcellona è piatta e ha un buco al centro, come se anche a lei mancasse qualcosa. Ha un pieno e un vuoto, una parte d'oro e una parte d'aria. E' liscia e fredda sotto le dita e, alla fine, è soltanto un pezzo di metallo.
Yuri vuole di più.
Questa storia ha vinto l'Oscar come miglior film d'animazione (fanfiction) agli Oscar della Penna 2023 indetti sul forum Ferisce la penna.
Genere: Introspettivo, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Nikolai Plisetsky, Otabek Altin, Yakov Feltsman, Yuri Plisetsky
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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An ice-white m(adn)ess


A ogni risveglio, quando apre gli occhi e fissa il soffitto, nella mente di Yuri Plisetsky esiste solo una fluida, bianca inconsapevolezza. La coscienza ha bisogno di tempo per rimettere insieme i pezzi e riconoscere una stanza d'albergo, la poltrona di un aereo, la casa di Madame Baranovskaya, lo spogliatoio anonimo di chissà quale stadio del ghiaccio, da qualche parte nel mondo.
Per primi, si risvegliano i muscoli, con i loro continui, opprimenti bisogni. Muscoli che danno sostanza a un corpo d'atleta, spingendosi oltre i propri limiti e che però pretendono in cambio continue attenzioni: riposo, energia, potassio, elettroliti. Chiedono, chiedono di continuo e il lavoro di Yuri è comprenderne il linguaggio e dargli quello che vogliono, perché un corpo che vive volando sul ghiaccio, il meno naturale, il più infido degli elementi, non può concedersi imperfezioni.
Quando si risvegliano, i muscoli le loro esigenze le gridano, sotto forma di un dolore sordo e continuo con piccoli strappi acuti che si irradiano nei nervi fino alla punta delle dita dei piedi e delle mani. Fitte che disegnano la forma esatta del legamento che si è sovraccaricato nell'ultimo atterraggio da un quadruplo Lutz, dell'eccesso di torsione nella spalla destra, dell'accenno di pubalgia latente, dell'acido lattico accumulato nel sonno, anch'esso bianco, come il soffitto, come quel dolore, come il ghiaccio.

La prima volta che Yuri Plisetsky ha incontrato il ghiaccio aveva tre anni. Di quel giorno ricorda poco: alberi enormi con scure braccia spezzate e il senso di distacco improvviso dalla mano del nonno, così forte e calda che il tepore passava attraverso due strati di guanti. Ma qualcosa lo chiamava e Yuri gli è andato incontro.
Era un bagliore scintillante, dal basso, come se una nevicata avesse catturato il sole e poi lo avesse fatto a pezzettini minuscoli, schizzi di luce contro gli occhi.
Yuri è scappato via dal nonno perché doveva proprio raggiungerlo, quel sole in frantumi intrappolato nel pavimento, e doveva appoggiarci su le mani, la bocca e la fronte per sentire se era liscio e se bruciava ancora.
Bruciava tantissimo. Ma di freddo, che forse è quello che succede ai soli quando incontrano la neve.
Yuri quel giorno non aveva i pattini, è scivolato disteso bocconi e la sua lingua si è appiccicata alla pista del Gorky Park. Il nonno gli è corso dietro, lo ha tirato su e poi lo ha sculacciato e per pranzo non gli ha preparato i pirozhki. E la mamma, la sera, non ha telefonato, ma Yuri pensava ancora al ghiaccio e, per una volta, non ha pianto.
Tutto questo, Yuri Plisetsky non se lo ricorda più.
Si ricorda di aver incontrato il ghiaccio da bambino, di averlo sentito addosso, e dentro, e contro. E se chiude gli occhi può rievocare la sensazione esatta di quello scivolarci sopra con tutto il corpo, fluttuando. E l'idea nuova, bianca, senza contorni nella sua mente infantile, che in quello scivolare si nascondesse qualcosa di profondo, terrificante e bellissimo. E molto, davvero molto importante.

Adesso che Yuri ha quindici anni e una medaglia d'oro del Gran Prix sotto al cuscino (per poterla tenere stretta tra le dita mentre dorme), sta ancora scivolando. E l'idea nuova non è più tanto nuova, è diventata usata, comoda, come una tuta da allenamento, leggermente sformata, bianca ma un po' più sporca, un po' più vera.
E' ancora bellissima. Fa ancora paura.
E' stata promossa da idea a motivazione, ragione causale.
Nelle interviste qualche volta glielo chiedono: perché hai scelto proprio il ghiaccio?
Yuri dà sempre la stessa risposta spavalda: Il ghiaccio ha scelto me.
E mente ogni volta.

Ha impiegato degli anni a capirlo e altri anni a dare un nome a ciò che aveva capito.
E per un po' è rimasto a contemplare la verità e l'ha nascosta all'interno del ghiaccio, in un rifugio tiepido dove l'acqua accoglie ogni cosa e il gelo la custodisce. Come la vita nei laghi e nei fiumi d'inverno, giù, nel profondo, al riparo del calore intrappolato sotto tutto quel bianco.
Il ghiaccio salva. Il ghiaccio uccide. Il ghiaccio è neutrale, come tutte le divinità della natura: assiste impassibile al trionfo e alla sconfitta e li contiene entrambi. Se lo ascolti, te ne sussurra i misteri, quando cadi per la millesima volta e ti trovi lì, con il morale (e il culo) per terra, a cercare di uccidere la pista a forza di pugni. Il ghiaccio ride di te.

Fra le (poche) cose che Yuri ha compreso della vita, c'è che il pattinaggio è, in fondo, una cospirazione: si fa di tutto per ingannare un pubblico che vuole essere ingannato, per illuderlo che scivolare sul ghiaccio sia un'arte sottile, delicata, estetica. Un trionfo sovrumano della leggerezza sulla gravità.
Non lo è.
La pista è una zona di guerra. L'atto stesso di pattinare è violenza: un perpetuo ciclo di distruzione e risanamento. Si scivola sul velo d'acqua che la lama crea quando ferisce il ghiaccio, sapendo che, meno di un attimo dopo, il ghiaccio stesso rimarginerà quella ferita, lasciando solo la cicatrice umida di un ricamo.
Sotto la pelle bianca di Yuri Plisetsky esiste un ricamo lungo quindici anni, un rovo di cicatrici sottilissime, per tutto quel pattinare dentro se stesso, facendosi male ogni volta, pur di scivolare avanti e trovare abbastanza spinta per andare un po' più forte, saltare un po' più in alto, ingoiare il dolore.
E cercare risposte a domande troppo difficili

Yuri ha cinque anni, vive e respira sul ghiaccio e sa già fare tre tipi di salto, anche se cade molto spesso. Corre sulla pista a piena potenza facendo gonfiare un minuscolo paracadute colorato alle sue spalle. Salta, sostenuto alle spalle da una specie di canna da pesca. E gira, gira vorticosamente sullo spinner, per abituare il sistema vestibolare (non ha idea di cosa sia, ma non importa, basta allenarlo) alle alte velocità di rotazione.
Eppure, nessuno gli chiede mai di queste cose importanti. Fanno tutti la stessa stupida domanda, con la stessa stupida faccia a bocca aperta.
«Ma che bravura! E che visetto adorabile! Di' un po', tesoro, sei brava o sei bravo
Lui non risponde mai, li fissa con ostilità e scappa via sui pattini, dove il ghiaccio lo aspetta.
«Cosa vogliono?» domanda esasperato al nonno.
«Sapere se sei maschio o femmina.»
«Che significa?»
Il nonno inclina la testa da una parte. Quando lo fa, si vede benissimo che i suoi occhi sono identici a quelli di mamma. Per tutto il resto, mamma sembra venuta da una favola e forse ci vive anche, mentre il nonno, per fortuna, è proprio lì, con lui.
«Come che significa? Lo sai che significa.»
Yuri non risponde.
«Vogliono sapere se hai l'uccello, Yurochka!» ride il nonno. «In mezzo alle gambe» specifica con un buffetto, visto che Yuri ha già la testa per aria.
«Ce l'ho» constata Yuri. Almeno, il senso della domanda è chiaro. Farebbero prima a domandarlo in questo modo. Ora sa cosa rispondere, ma continua a non capire perché dovrebbe essere importante, neanche lo vedono, nascosto sotto i pantaloni e le mutande.

Yakov Feltsman è il primo adulto a non chiedere a Yuri Plisetsky, cos'abbia in mezzo alle gambe. Invece, gli chiede se vuole vincere le Olimpiadi.
Yuri ha appena sbaragliato gli avversari alla sua prima competizione, con un doppio axel senz'ombra di rincorsa, che ha marcato come un pennarello rosso l'equilibrio precario e la goffaggine degli altri
Quando Feltsman gli chiede se vuole vincere le Olimpiadi, Yuri dice di sì. Ha nove anni, ma non ha bisogno di pensarci neanche un secondo.
Feltsman arriccia le labbra e replica che sarà dura. Che dovrà cambiare città, lasciare il nonno e la scuola. Che sarà faticoso, dovrà allenarsi molte ore.
«Sul ghiaccio?»
«Anche fuori.»
Yuri esita. Fuori dal ghiaccio, si sente sempre sbagliato. Senza il nonno, poi...
«Il ghiaccio ti spezza se non sei forte abbastanza» dice Yakov. «E a me i deboli non servono.»
«Sono un maschio» risponde Yuri. I maschi sono forti, lo sanno tutti.
«Sei un paio di pattini, un'uscita imprecisa dall'Axel (perché sbagli il tempismo), una spalla più alta dell'altra, un corpo promettente su cui possiamo lavorare. Per il resto, sembri un pezzo di legno.»
Nessuno gli ha mai parlato in questo modo.
«Non sono un pezzo di legno!» protesta Yuri, piccato. E intanto pensa che essere un paio di pattini gli piace moltissimo.
Feltsman lo ignora. «Ti servono lezioni di danza. Molte, moltissime lezioni di danza. La sbarra, prima del ghiaccio.»
«Danza? Ma sono un maschio...» ribadisce Yuri, incerto, frustrato.
«Danza» conferma Yakov. «Maschio o femmina, fa lo stesso. Meglio maschio: con un po' di testosterone in circolo salterai più in alto e morderai più forte.»
Yuri lo fissa con gli occhi sgranati. Non sa cosa sia il testosterone, né chi dovrebbe mordere. Ma vuole farlo. Vuole danzare. Vuole saltare più in alto di tutti. E vuole mordere la vita.

Il ghiaccio è la culla della vita.
L'ha portata con sé dallo spazio, nel ventre di una cometa o un asteroide: protomolecole organiche incastonate nel bianco.
E' una delle poche cose di scuola che ha capito e che ricorda.
Un'altra è la storia del prisma, che scompone le lunghezze d'onda della luce. E quindi il bianco è il colore dei colori. Colori ghiacciati, fusi e condensati. Il che spiega tutto.
O quasi. C'è sempre qualcosa che sfugge.
Qualcosa che Yuri, quel giorno al Gorky Park, a tre anni, ha assaggiato sulla lingua incollata alla pista. Che Yuri, quel giorno di fronte a Yacov, a nove anni, ha avvertito agitarsi nello stomaco. E quell'altro giorno, a dodici anni, a lezione di ballo, l'ha sentito scorrere nei nervi, lungo le linee arcuate ed eleganti del suo corpo, dal collo, alle spalle, fino alla punta delle dita che sfioravano lo specchio.

A dodici anni Yuri è molto più che un paio di pattini: è una spaccata completa, una gamba capace di sollevarsi fino alla punta del naso senza la minima flessione del ginocchio, e poi di piegarsi all'indietro, a sfiorare la nuca, con la schiena inarcata. A dodici anni Yuri è la grazia di un arabesque così lungo e delicato che sconfina oltre i bordi della stanza, è un profilo perfetto da bambola, labbra colorate a pastello, capelli come oro filato. A dodici anni Yuri, come sua madre, viene da una favola.
Per il suo primo juniores, Yakov gli impone di tagliarsi i capelli. Glielo comunica così, come se fosse niente, un giorno qualunque a bordo pista.
«Viktor Nikiforov portava i capelli lunghi, alla mia età!» protesta Yuri, imbronciato.
«Tu non sei Viktor» lo liquida Yakov, scacciandolo con la mano, come un insetto molesto.
«Che significa? Sono meno bravo?»
Yakov non risponde, Yuri stringe i pugni e un attimo dopo pattina furiosamente, il suo corpo si tende, si apre e si stacca dal ghiaccio. Una, due, tre, quattro rotazioni. Feltsman seppellisce un sorriso enorme dentro la sciarpa, lo ricopre di collera. «Vuoi spaccarti la schiena? Stupido! Vedi di non cadere sui tripli, piuttosto. E domani ti tagli i capelli!»
«Ma Viktor... »
«Piantala Yurik! Vitya era Vitya e tu sei tu!»
«Che cazzo significa?»
«Che sembri una femmina, ciòrt poberì!»
Ogni ciocca bionda che raggiunge il pavimento, Yuri si sente un po' più insicuro, un po' più nudo, un po' meno se stesso. Sempre più solo. E inizia anche a sentirsi arrabbiato, senza sapere con chi.

Alla fine, però, quello che voleva capire, l'ha capito. Durante un'incomprensibile lezione di matematica, Yuri Plisetsky ha guardato la lavagna e la verità l'ha attraversato tutto.
Perché hai scelto il ghiaccio?
Perché è continuo.

Anche Beka, forse, l'ha capito. Non del tutto, magari. (Ancora) non sa cosa si nasconda sotto la pelle pallida di Yura, fra le costole sottili, al riparo del ghiaccio. Ma ha capito abbastanza. Lui quella guerra la conosce e la combatte, sa la fatica che scolpisce i movimenti, l'estenuante morire e rinascere dal ghiaccio e, fuori, quel penoso trascinarsi a terra, dovendo staccare ogni passo, ogni pensiero, dovendo scegliere e scegliere e scegliere ancora, ogni momento, da che parte stare.
Yuri però non lo sa da che parte stare.
Neanche il suo corpo lo sa e arranca confuso fra dolori che vanno e che vengono, tentando di crescere. Ai dolori, Yuri non dà alcun valore, se non quello di far scattare come una molla il suo senso del tempo.
Quanto gliene resta? Quanto prima della prossima esibizione? Della prossima medaglia? Quanto prima che quel corpo perfetto lo tradisca, ingrossandosi, ispessendosi, deformandosi e cambiando tono e volume e accampando nuove pretese, esigenze sconosciute, una diversa idea di se stesso?
Yuri conta quel tempo che resta e gli fa una paura fottuta.
Pensano tutti che sia per un motivo tecnico: dover cambiare assetto, punto di stacco, potenza, angoli di bilanciamento. E c'è anche questo, naturalmente.
Ma più ancora, il terrore di Yuri è di non riconoscersi. Di cambiare in qualcosa che non possa più contenere i suoi impeti. Di attraversare un prisma e scomporsi in frequenze discrete, che non dicano nulla di lui. A crescere, non si è ancora arreso.
Conta il tempo che resta, mentre si guarda nudo allo specchio. Oltre alle ossa sporgenti, ai rilievi dei muscoli, ai lividi violacei dei quadrupli falliti, non si vede nulla.
Invece lui la sente, la lotta che infuria lì dentro: anime diverse che si contendono il suo corpo da efebo, premendo forte sui confini, lasciando filtrare luci e ombre, a chiazze. Parolacce intrecciate ai passi di danza, furia e poesia. Yuri Plisetsky è la risultante di una guerra a oltranza fra la potenza e la grazia, che continuano a spingerlo in fiamme sul limite dei propri limiti. Senza tregua. Senza controllo.
Di nascosto, Yuri piange di confusione e di sconforto. Di malinconia. Di solitudine. Di collera. Di impotenza, talvolta, perché non è giusto che lui debba soffrire per conquistarsi anche quello che per il resto del mondo è banale.

Yuri conta, ma i numeri naturali non bastano. Perché le cose importanti della vita sono raramente semplici e quasi mai numerabili.
Quanto tempo si accalca fra un istante e l'altro?
Fra il momento del distacco dal ghiaccio e quello della prima rotazione?
Fra il respiro di Beka sulle labbra e l'attimo in cui lo sta baciando?
Quanta distanza corre fra giusto e sbagliato? Fra norma e deviazione?
Fra ragazzo e ragazza?

Le dita di Beka sono calde. Scivolano sulle guance e sul collo di Yuri, sfiorandolo appena. Sembra che abbia tutto il tempo del mondo, anziché pochi minuti rubati in uno spogliatoio. E' calmo, Beka, compassato, rispettoso. Accarezza il profilo della medaglia d'oro, accenna uno di quei sorrisi adulti di chi ha tutto sotto controllo.
L'incendio gli divampa solo negli occhi, dilatati da un'adorazione vorace e disperata.
«Chi stai guardando, Beka? Cosa vedi?» domanda Yuri, in un sussurro.
La risposta è una mano infilata fra i suoi capelli, a sfilare l'elastico che li tiene raccolti. Piovono forcine, il ticchettio metallico riecheggia nella schiena, una vertebra alla volta.
Yuri non ha mai baciato nessuno. Non ha mai pensato di baciare nessuno.
E ora che sta succedendo, gli sembra un salto quintuplo destinato a finire schiantandosi.
«Chi stai baciando, Beka? Lo sai, almeno? Lo sai chi sono?»
«Sei un cazzo di miracolo» farfuglia Beka, sopraffatto. E riprende a baciargli il viso, i polsi e i palmi delle mani, con devozione e con una foga appassionata e tenera.

Anche Beka, ora, fa parte di quel conto alla rovescia.
E Yuri conta, ma non con le dita. Conta con i pattini ai piedi, che invece di staccare i passi scivolano. Perché in questo ottuso mondo discreto, dove ogni cosa è definita da se stessa ed esclude ogni altra, dove bisogna scegliere chi essere e restare confinati nei propri contorni, Yuri non sa stare.
Yuri sceglie il ghiaccio, che accoglie tutto (e tutti) in un bianchissimo spettro continuo, che si arrende alle lame, che lascia che ogni spinta si trasformi con naturalezza nella successiva, senza forzature, senza strappi.
Sul ghiaccio, Yuri non deve scegliere, sul ghiaccio gli basta essere.
Ed è questa la verità. Non due Yuri, né uno spezzato e ricomposto a ogni respiro.
Un solo Yuri, dai confini più ampi.
Fluido, che prende la forma delle proprie emozioni e le fa esplodere sugli spalti.
Esposto, con le costole all'infuori e la schiena che disegna archi perfetti, i polpastrelli sul ghiaccio, la pelle che brucia da fuori e da dentro.
Completo, in una miriade di contraddizioni che s'incontrano a mezz'aria all'apice della rotazione, quando il tempo, per un attimo, si ferma.

La medaglia d'oro di Barcellona è piatta e ha un buco al centro, come se anche a lei mancasse qualcosa. Ha un pieno e un vuoto, una parte d'oro e una parte d'aria. E' liscia e fredda sotto le dita e, alla fine, è soltanto un pezzo di metallo.
Yuri vuole di più.
Il programma per il gala di stasera, se lo è coreografato da solo. Yacov gli ha urlato contro, alla Baranovskaya è quasi caduta la faccia, ma alla fine si sono dovuti arrendere al fatto che Yuri sta crescendo. Che Yuri è un artista, oltre che un atleta e sono loro ad averlo reso tale.
Che Yuri appartiene soltanto a se stesso: introverso, indefinito, un nodo inestricabile di meravigliose complicazioni.
Che Yuri è rosso fuoco di una passione fatale, rosa trasparente come ali di fata, verde livido di rabbia, grigio denso di nebbia, oro fuso di tutte le medaglie non ancora vinte.
​Yuri è blu profondo striato di carminio e arancione, come un cielo graffiato dal tramonto. E' viola come il mare di notte con la luna piena, quando si levano i sogni e l'aria è fresca e facile da respirare.
E ognuno di questi colori, che Yuri è, ha una frequenza propria, un battito cardiaco. Fuse insieme, mischiate, impastate senza regole, senza logica, senza discontinuità, sono un bianco radioso e accecante, che è Yuri.
Yuri che non sceglie e muta continuamente in se stesso.
Un cazzo di miracolo. 

E ora, ora guardatelo!
Welcome to the Madness.



***
Questa storia partecipa al contest "La genesi del tuo colore" del profilo @WattpadFanfictionIT per il colore bianco, anzi, bianco ghiaccio.

Non è facile parlare di identità non binarie e non pretendo di esserci riuscita. Ho solo provato a entrare nel meccanismo di rifiuto di una dicotomia preconfezionata, in cui non ci si riesca a riconoscere. Etichettare le cose è già difficile, farlo con le persone è riduttivo ed è anche sbagliato. Quando ho visto Yuri on Ice, il personaggio di Yurio mi ha dato subito l'idea di qualcuno che fosse impossibile rinchiudere in una definizione senza snaturarlo.
   
 
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