Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: kanagawa    26/06/2022    1 recensioni
“Sarai forte e sarai saggio, e sarai il più coraggioso degli uomini.”
Quando lo senti muovere, riesci a non pensare al futuro.
Genere: Drammatico, Omegaverse, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Kenny Ackerman, Sorpresa, Uri Reiss
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Mpreg
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parte 3

 

 




....... mmaaaa!

 

Mammaaaa!!

 

Scalpitando con tutte le sue forze cercava di raggiungerla, gridava il suo nome, le sue piccole braccia serrate tra le braccia del padre. 
Un lamento sinistro, lungo e cavernoso, il grido della casa mentre moriva di fronte ai loro occhi. 
Tra le fiamme la videro sorridere, tremolio di un’ombra sottile, poco prima che il tetto cedesse...

Vi vorrò bene per sempre.

 

....

 

La stanza in cui riapri gli occhi ha un’aria familiare.

Sembra la stessa dove fu segregata vostra madre per decenni, e da cui era uscita solo alla sua morte. 
Le stesse pareti rosse, opprimenti… Ma tu sai che quella stanza era andata distrutta durante un incendio. 
Fu tuo fratello ad appiccarlo.
Che sia stato per salvarla, o ucciderla, non hai mai saputo dirlo...

Le imposte interne sono sparite, ma ci sono le sbarre alle finestre. Le misero quando lei cominciò a lanciare fuori oggetti in piena notte, frantumando ripetutamente il vetro e svegliando gli abitanti della casa tra grida agghiaccianti… così le privarono anche della luce del sole, affinché non si facesse del male.

Per quanto ti riguarda, non sai che fartene della luce... 

 

Sei a casa.

 

....

 

È una melodia triste, bisbigliata a mezza voce, tutta “mhh” e “naa” come i lamenti dei neonati... 

Ora sai che era una canzone che parlava del mare. 

Fissi il soffitto, immobile. Alle tue orecchie sussurrano i fantasmi.
Se potessi uscire dal tuo corpo, vedresti da lassù una maschera livida dagli occhi vitrei, vuoti.

Quanti giorni sono passati? Quanti ne passeranno ancora?  
Che sia giorno o notte, ha smesso di fare differenza...

Lo scandire delle ore viene ratificato da un vassoio pieno di cibo, che si ripresenta sul tavolo ogni volta che riapri gli occhi. Tre volte al giorno, il contenuto quasi invariato.

Ti chiedi che senso abbia...

“Stai cercando ti lasciarti morire?” 

Non rispondi. Non ci provi nemmeno. Hai solo sonno.  
Speri che se ne vada via presto, così da riavere intorno silenzio...

Un sospiro.  
È sopravvissuto, lo fa sempre, Rod. Ed è sempre l’unico a farlo, mentre i suoi uomini, ognuno dei suoi uomini, dal primo all’ultimo... Non è rimasto di certo ad assistere alla loro fine.

Viene ogni giorno.  
Si siede alla stessa sedia contro il muro e aspetta che tu dica qualcosa: una qualsivoglia forma di reazione che differisca dalla catatonia, o anche solo per girarsi i pollici e guardare il tempo che passa...  
Da quando sei sveglio, è sempre lì.

“…Mamma aspettava un bambino, lo sapevi?” Quando parli senti le pellicine creparsi lungo le tue labbra cucite insieme dalla disidratazione, la voce pastosa. “Invece di farlo nascere, lei, lo uccise nel suo grembo... Papà disse che era impazzita, per questo l’aveva fatta rinchiudere...” In silenzio, Rod alza lo sguardo su di te. “Proprio qui, in questa stanza...”

Un altro sospiro. “Perché ora ricordi quella storia?” Si incupisce. 

“Io... non riuscivo proprio a capire, perché lo avesse fatto...” come se farfugliassi tra te e te, non per replicare alla sua domanda, ma nel riesumare gli enigmi sommersi della tua infanzia. “Lei piangeva sempre e mi stringeva, chiedendomi scusa... che era tutta colpa sua…...”

Mi dispiace di avervi messo al mondo, bambini miei, voi non avete nessuna colpa...

La sua voce era così bella, e triste. Tutto ciò che c’era di bello al mondo.  
Si era spenta a poco a poco. La sua mente si era distaccata da questo mondo, ancora prima che il corpo cedesse. E poi, la notte dell’incendio... 
Non ricordi più il volto di vostra madre. Papà fece togliere tutti i suoi ritratti quando la seppellì.  
Quando si voltò dalla pira infuocata, la chioma al vento, ti era parsa un demonio sorridente...

... Vi vorrò bene per sempre.

Volgi il capo verso di lui e, per la prima volta da quando sei tornato a casa, guardi tuo fratello negli occhi. “Tu hai ucciso nostra madre.” Il tono incolore, hai scandito.

Dopodiché ritorni a fissare il soffitto.

 

*

 

Il pugnale di Kenny, hai finito per smarrirlo.
Questo pensiero ti rattrista più di qualunque altra cosa, anche più della consapevolezza di averlo visto cadere su quella collina.

“Cosa stai canticchiando?” Una voce stanca, alle tue spalle.

Deboli refoli, simili a gemiti, sulle tue labbra.  
Una ninna nanna spezzata, senza testo, reiterata per cullare i neonati, e il peso di una piccola ombra acchiocciolata nel vuoto delle tue braccia.  
La tua coscienza oscilla tra veglia e realtà, lo sguardo fisso, disabitato... Sei a letto, nella vostra mansarda splende il sole… la luce vellutata, nell’aria il fresco profumo del bucato e di tabacco che brucia. “Shhh...” La tua mano contro le lenzuola, lentamente, nell’atto di accarezzarle come accarezzi la schiena del bambino che mugola nel sonno... 

Rod sospira, non sentendo risposta. Batte sulle ginocchia e si solleva.  
Ne ha avuto abbastanza per oggi. Decide di lasciarti al tuo delirio e di ritornare ai suoi impegni odierni. 

Non lo senti uscire dalla stanza.

Continui a dormire, ma sei sempre più stanco.  
Non hai più un motivo per vivere, ma d’altro canto, non ne hai nemmeno uno per morire…
Ti lasci sopravvivere.

Il tuo mondo ha le misure di queste pareti. I tuoi pensieri vagano lungo i suoi angusti perimetri, troppo stanchi per evadere.

Nessuno entra qui dentro.  
Quasi nessuno sa della tua presenza alla villa. Sei come un fantasma, uno dei tanti che abitano questo lato del palazzo… 
Solo che, a differenza loro, non sai ancora di esserlo...

Si sforza di mostrarsi paziente con te, mentre ti aiuta a mangiare, ma ti rifiuti di farlo. 
Tieni premute le labbra, il naso arricciato, e tenti di sottrarti quando la mano di Rod afferra il tuo mento e ti costringe ad aprire la bocca, spingendoti il cucchiaio fin in fondo alla gola, finché non senti la trachea bruciare e il liquido risalire il setto nasale come se vi annegassi dentro. 
Ti pieghi e tossisci tutto sul letto.  
Ti osserva dall’alto con sdegno, le maniche e lo scollo della tunica unti di sudore, le ciocche grigie annodate in un groviglio viscido… 
Al suo secondo tentativo, afferri il suo braccio e affondi senza pietà i denti nella carne flaccida, usando le poche forze che hai acuite dall’esasperazione, fino a sentire la linea delle ossa sotto di essa. Rod ti getta indietro, scuotendo la parte lesa con un lamento strozzato, la mimica contorta di dolore. 
Sei senza fiato, lo sforzo prodotto ti fa vorticare la vista. Lentamente ti sollevi sui gomiti e resti piegato su un fianco, le spalle infossate, ansimante, i capelli che ricadono in avanti. 
“Ho sempre voluto solo il meglio per te, Uri,” la voce di Rod è bassa, è modulata, per nulla turbata. “Una vita agiata e confortevole, al sicuro, accanto a una persona per bene… E ora, guardati, come ti sei ridotto…” Non vedi il modo in cui storce con disgusto il naso, prima aggiungere, “per cosa, poi, uhm?” 
Sul comodino c’è il vassoio del pranzo. Il coltellino da pane avvolto nel tovagliolo intonso, lo scorgi con la coda dell’occhio.  
Il vuoto nello sguardo, dilatarsi. 
Può fare di te tutto ciò che vuole… Non ha più nessuna importanza… Nessuna. 
Non c’è più ragione per lottare, per desiderare… Allora, perché, continui ad esitare? Cosa ti tiene ancora in vita? Se codardia è premessa di sopravvivenza nello stato di natura, il coraggio è forse un atto di follia? 
Non scorgi lo sguardo di tuo fratello fisso su di te, freddo, insondabile. “Non ti lascerò morire…” lo senti pronunciare, infine, prima di alzarsi. “Anzi, puoi stare certo che mi pregherai di poter mangiare!” Pressato tra i denti, come un basso ringhio lo scandire delle parole sibilante di minaccia. 
Le tue spalle fremono, lentamente come il disperdersi delle risa fiacche dalla tua gola arida. Nel mentre ti sollevi e resti a scrutarlo con occhi fiammeggianti e lucidi di follia, macabro il sorriso che resta. “Cosa pensi che abbia ancora da perdere?”

No, non hai più nulla da temere da questa persona. Ora lo sai, con certezza definitiva e inalienabile. 
Lo stato mentale di cui disponi ora, libero da ogni legame e paura, ti permetterà di fare qualunque cosa. Nessun limite a ostacolarti, nessuna ragione a offuscarti.  
La disperazione di questo infinito orizzonte, il vuoto nel cuore… È questa, la definizione di libertà?  
No… 
Sogni la notte. Di lui, e delle sue mani strette intorno alla gola recisa, mentre geme a terra e affoga nel suo stesso sangue. Ed è un’immagine nitida quanto la certezza del tuo respiro, ora.  
Questo desiderio, feroce ed elementare, il solo che abbia ancora valore, ciò a cui potresti aggrapparti per sopravvivere…  
Perché stai ancora esitando? 
Se tutto ha avuto inizio da questa stanza, questa casa… Forse era così che doveva andare, fin dal principio, solo tu e lui, e la genealogia maledetta del vostro sangue che terminerà insieme a voi… 
Nessun altro sarebbe dovuto morire.

Rod ti dà le spalle, un bersaglio facile. Con la mano afferri il coltello, il tempo del tuo respiro si contrae e dilata come l’istante rallenta. La mente lucida.  
Mentre si allontana verso la porta, balzi giù dal letto, leggero, il rimbombo dei tuoi passi sordi come macigni sul pavimento. Rod non si volta nemmeno. 
Stringi l’impugnatura, smetti di respirare, prendi lo slancio e con tutte le forze che ti restano affondi la lama nella sua schiena affinché possa trapassargli il cuore e vedi la sua testa schiantare contro la parete.

BAN!!!

… ti senti trasalire in quell’istante. E ti svegli. 
Non ti sei mosso dal letto. E Rod ti dà ancora le spalle.

“Il tuo cane è ancora vivo.”
Parole impassibili, crudeli, definitive quanto una sentenza di morte. E la porta si chiude dietro di lui.  

Per un tempo quasi infinito sei rimasto a fissare il punto in cui ha sostato fino a pochi istanti prima, gli occhi spalancati ma senza riuscire a vedere, come se il senso di quella frase non riuscisse a raggiungerti in alcun modo. 
La tua mano in bilico, protesa all’estremità di un’azione che mai compirà, gradatamente si ritrae...

E solo allora, rimasto solo con te stesso, ti permetti di piangere. 
Calde, inarrestabili, le lacrime gonfiano le palpebre innondando le tue guance come correnti monsoniche.  
È sollievo, è impotenza. Incursione di emozioni ingolfati nel petto da cui non trovano via d’uscita. Insieme alla speranza, la disperazione che risorge in te inesorabile.

Attraverso le sbarre, un sottile fascio di luce accarezza la tua schiena nell’oscurità.  
Singhiozzi a lungo, stretto contro le tue ginocchia, ma nessun dio resta ad ascoltare.

 

 

*


 

È sempre il primo a mettersi in salvo. 

Nessun altro aveva saputo captare il segnale di pericolo, quando avevi estratto la lama di fronte a loro. Nessuno poteva capire l’etimo segreto dietro a quel tuo gesto... Tranne lui. 
Aveva cominciato a correre ancora prima di scorgervi l’inizio, senza voltarsi - non abbastanza lontano da evitare di essere travolto dall’onda d’urto della tua trasformazione - ma fu quello che subì meno danni, a dispetto di altri ignari spettatori... 
Si protesse la testa ed rimase acquattato tra i massi, con le braccia dietro la nuca, finché la tempesta non era cessata.  
Alla squadra di soccorso, giunta in un frangente successivo, diede indicazione di recuperarti.

Non fu affatto uno bello spettacolo... 
Dalla voragine dell’epicentro alla montagna di ossa fumanti laddove cadde il Titano - inseguendo le pennellate di sangue ossidato lungo le cortecce, sagome rannicchiate dentro ad enormi impronte - setacciarono la foresta sulla scia del tuo passaggio... Ma prima di te, trovarono lui.  
O, per meglio dire, lo sentirono...  
Mezzo sepolto sotto un cumulo di rocce, radici e terra, era privo di sensi quando lo estrassero, ma stretto ancora contro il suo petto quella piccola creatura strillava con tutto il fiato che aveva nei polmoni... 

Testardo. Arrabbiato.

Levi, lui voleva essere ritrovato.  
Voleva vivere. Ben lungi da darsi per vinto... Proprio come la notte in cui era venuto al mondo, aveva fatto in modo che tutti quanti lo sapessero.

 

Se le battute di caccia ti hanno insegnato qualcosa, Rod ha sempre avuto una pessima mira.



Aveva resistito fino a quando le forze glielo permisero, facendogli da riparo con il peso della sua schiena - prima contro il proiettile di Rod, poi dai detriti dell’esplosione che li aveva travolti e sommersi entrambi - in modo che avesse spazio per respirare sotto la mole di terra… e sopravvivere.
Levi non poteva sapere se il suo pianto e la sua brama di vita avrebbero anche potuto condannare quella di suo padre... Ma così non era stato.

Lui è vivo. Sono vivi, entrambi

E da qualche parte, sono tenuti prigionieri.

 

Hai perso il conto delle volte che hai battuto il palmo contro quella porta.  
Ti sembra di farlo da ore, ma nessuno vuole darti ascolto. 

BAN!! BAAN!!!

Ancora, un ultimo, l’ennesimo colpo che risuona contro il legno massiccio represso di rabbia e impotenza.  
Fronte e pugni lungo la porta, ti lasci scivolare lentamente a terra. Le palpebre compresse. Sei senza forze.  
“Fatemi…” Debole, troppo debole, combatti contro il tuo stesso respiro affannato, la voce irta di raucedine dopo ore di appello invano. “Devo uscire...”

Kenny è ancora vivo.

 

Le visite di Rod si sono fatte molto meno assidue dopo quella blanda rivelazione.

Ora che si è assicurato che tu non abbia più motivo di tentare gesti estremi, anche il suo atteggiamento nei tuoi riguardi si è gradualmente raffreddato, i suoi intenti sempre più sfuggenti. 
Se Kenny non ha ancora smantellato la gabbia che lo trattiene in quel momento, e polverizzato a mani nude qualunque ostacolo - umano o strutturale che sia - lungo la strada per venirti a cercare, i motivi che glielo hanno impedito possono essere stati solo due: il primo, se è stato ferito gravemente - se il bossolo abbia trapassato gli organi o meno, non conosci l’entità delle sue lesioni - e il secondo, è perché hanno Levi. 
Loro sono la tua debolezza. È la sola ragione per cui non li ha ancora uccisi.

Hai mandato a monte tutti i suoi piani, ma il suo obiettivo resta immutato. E forse le cose sono solo avvenute in anticipo e per altre vie…

Dal momento che sei tornato a casa, l’unico suo pensiero ora è cercare di rimediare al pastrocchio politico che si è venuto a creare dopo la tua fuga. 
Occultare il figlio avuto nel frattempo illegittimamente, e riprendere il discorso del fidanzamento con il marchese interrotto un anno fa, facendo finta che tutto questo non sia mai accaduto?  
Dubita che tu sia così docile da indossare un abito bianco e camminare lungo l’altare, dopo che avrà gettato in un fossato tuo figlio…   
D’altronde, non si può nemmeno pensare di lasciare in vita un Ackerman con l’idea astratta di poterlo in qualche modo ammansire, se il suo intento è quello di averti in suo giogo servendosi di lui e del bambino... 
E se, invece… - pensa Rod - piuttosto che sbarazzarsi di questo spiacevole incomodo, perché non adattarsi alle circostanze, e tentare di farne un uso migliore?  
E il buon marchese se ne farà una ragione.


La vestaglia a volteggiargli alle spalle, mentre a grandi falcate solca il buio della casa, disperdendo con uno sventolio della mano i pochi sprovveduti affacciati sulle soglie esortati dalle tue grida dissennate. 
Quando avverti il trambusto del pesante chiavistello in corridoio, ti scansi rapidamente trascinandoti sulle mani e i piedi - sedere a terra - indietro verso la parete opposta come un animale contro le sbarre della sua cella, finché la porta non viene spalancata con furia e una luce scabra investirti.
“Cosa credi di fare?!” La fiamma della sua lanterna oscilla impietosa davanti al tuo viso, tanto da stordirti per qualche secondo, la rabbia di Rod pressata contro le corde vocali, “hai idea di che ore siano??” 
Come ti avventi su di lui, lo vedi trasalire, quasi inorridito, le pieghe delle sue vesti attorcigliate tra le tue dita piccole e smunte.  
Sei in ginocchio.
“Voglio vederlo…” È una pietosa supplica la tua e tale è il tuo sguardo, un sibilo basso quasi fosse un ansito mentre lascia la tua gola - ma non ti importa. “Fammelo vedere, ti prego!”  
Gettato via l’ultimo strascico di dignità, vorresti convincerlo delle tue pure intenzioni, che non desideri più opporti, che sei disposto a qualunque prezzo… ma resti uno sciocco a pensare che la tua pena possa smuovere un soffio di compassione in tuo fratello.
“Non ti è permesso farlo, ne abbiamo già discusso…” Stringe il tuo polso in bilico tra l’idea di sorreggerti e la tentazione di gettarti indietro, un peso traballante a sua volta nel sostenere il tuo.
Lo sai. Lo sai… è tutto inutile, ma…  
L’esasperazione lievita in te, facendoti chiudere la gola, uno pizzico acuto e familiare che risale le narici fino a invadere gli angoli degli occhi e lasciarli liquidi. “È ancora così piccolo, ti scongiuro, fratello…” Senti il pianto bagnare la tua voce, ma le lacrime tardano a giungere. “Ha bisogno di me, sono sua madre!”  
Insofferente, si libera di te e della tua insistenza tediosa, scrollandosi di dosso il tuo peso inconsistente con l’ausilio della mano libera come se stesse levando un insetto spiaccicato sugli abiti. “Ci sono le balie a occuparsi di lui, puoi stare tranquillo,” soggiunge laconico. 
Il gesto tenue è sufficiente a farti perdere l’equilibrio. Cadi indietro e sbandi contro un tavolino basso, il gomito piegato in cerca di sostegno che rovescia il vassoio riposto sopra di esso.   
Craaaaaash.
Lo sconquasso del servizio di porcellana che va in mille pezzi sembra irritarlo più del tuo tracollo, ma non ha voglia di occuparsene al momento e tantomeno l’energia per adirarsi ancora a quell’ora tarda…  
Siedi in mezzo a una pozza chiara, la tunica insozzata. Una scheggia del piatto ha ferito il tuo braccio, sotto i palmi ne avverti i frammenti… 
Un sibilo in fondo ai timpani, lo sguardo vacuo.
I tuoi polsi tremano, a stento ti reggi in piedi. Sai che sta per andare via, ora lascerà la stanza. E tu tornerai a sussurrare ai fantasmi… 
Quante volte ti dovrai ancora prostrare? Quanto in basso ancora dovrai cadere, per riuscire a farti ascoltare?  
La verità è che sei sempre stato così… Queste mani - queste piccole mani rattrappite - non hanno mai avuto la forza di salvare qualcuno. Tantomeno te stesso. 
Eppure… anche ora, spogliato di tutto ciò che hai, umiliato, possiedi forse ancora qualcosa che né le privazioni né la morte potranno mai sottrarti… 
Nella cecità tasti il pavimento in cerca di un frammento acuminato che si possa afferrare e impugnandolo con entrambe le mani, il mento levato, lo premi contro la tua gola. Muto, inesorabile, disperato.  
I movimenti di Rod si congelano di fronte a te. Non si avvicina.  
Ti fissa a lungo, dall’alto, senza lasciarsi trapelare nulla, quasi che stesse valutando la credibilità delle tue azioni.  
“Fallo,” ti senti esortare.  
L’intensità tremula con cui stringi quell’arma rudimentale lacera le tue dita. non le vedi sanguinare, nessun cedimento nei tuoi occhi.  
Cautamente Rod si muove verso di te, i passi lenti come se stesse tastando la solidità di una lastra di ghiaccio, e nel mentre incomincia a scuotere il capo. “Non ne hai il fegato…” Senza interrompere mai il contatto visivo, una pigra provocazione a flettersi tra le sopracciglia. 
Con un fulmineo movimento si rovescia su di te, prendendoti alla sprovvista, e ti ritrovi le sue mani intorno ai polsi, torcerli nell’atto di forzarli a cedere. Scalpiti come un forsennato, rispondi con fiacche gomitate, infossandoti nelle tue spalle inferme… un patetico tentativo.  
L’affanno e la sopraffazione costringono le tue corde vocali contro la glottide e l’aria che vi attraversa libera gemiti deliranti… “Smettila!” Avverti il suo fiato sul viso, un vago retrogusto di brandy e collutorio, raccapricciante. “Basta, Uri!!”  
Le tue forze si prosciugano rapidamente. Serrate davanti al viso nell’atto di proteggersi, le braccia ti vengono forzate sopra la testa - e non puoi fare nulla, non puoi combatterlo - la pressione tale da farti spalancare le dita... Il coccio affilato infine scivola, ricadendo inerte tra le pieghe di cotone avviluppate tra le tue ginocchia. 
Costretto all’immobilità, il petto si gonfia e svuota con ritmo pressante e feroce. Le tue iridi si accendono come globi infuocati, il bianco iniettato di filamenti sanguigni.  
Un singulto di timore affiora in un angolo della mente di Rod Reiss, inducendolo a retrocedere. 
“Non avrai mai mio figlio! Lo giuro sulla mia vita!” Il ruggito di una bestia in trappola, senti la collera risalire dalle profondità delle tue viscere e plasmarsi in voce. Frenetico il movimento del capo che vi si accorda, i tuoi lineamenti distorti. “Non provocarmi, o io giuro che…!!”  
Rod solleva il mento, ansante, astioso, abiti e capelli scomposti. “Cosa?” Sovrastandoti, la sua ombra ingloba totalmente la tua sagoma rannicchiata. “Prenderai in ostaggio te stesso e l’umanità intera??” Ti senti scuotere per le spalle. “Svegliati, Uri! È solo un sogno! Un’illusione!” 
Non vuoi ascoltare, non vuoi ascoltare…  
“Smettila di scappare! Hai intenzione di abbandonarli tutti al loro destino?!” La sua voce incalza, impietosa, un tuono che percuote dai recessi oscuri della tua coscienza. Una delle sue mani a imporsi su di te, mentre l’altra si indirizza indeterminatamente alla direzione della finestra rinforzata. “Tutte quelle persone là fuori… Lascerai che questo mondo cada in rovina solo per un tuo capriccio?” 
Il silenzio che ricade tra di voi è grave e inerte. 
Rod sospira, e le sue braccia tornano a posizionarsi lungo i fianchi, come i segni dell’indignazione sbiadiscono dal suo viso.  
Il tuo sguardo è ottenebrato dietro una coltre di chioma che ricade davanti al tuo viso, le spalle abbattute.
“Non ce lo possiamo permettere, Uri…” La sua voce è un filo di sussurro, permeato di stanchezza e scoramento. “Non ce lo possiamo permettere…” ripete, le sue palpebre calate sugli occhi lucidi e afflitti. “Questo è il nostro fardello... Perché siamo nati in questa famiglia.”

Abbandonati sul pavimento gelido, stanchi e svuotati, il peso di una solitudine atavica a piegare le vostre schiene inerti. Con l’impressione di essere gli unici sopravvissuti dopo una guerra durata mille anni... 
La persona che hai di fronte non è che un altro te stesso, la tua stessa immagine riflessa nello specchio. Le parole di Rod non sono altro che un’eco dei pensieri rivolti a se stesso. 
Se non sei in grado di ucciderlo né di uccidere te stesso stanotte… Allora, qual’è stato lo scopo di tutto questo?

Hai sempre saputo che non lo avresti visto crescere.  
Fosse per te distruggeresti questa prigione all’istante per andare a prendere tuo figlio e fuggire via lontano, fosse anche fuori da queste Mura… Dovunque possiate vivere liberi, tutti e tre insieme, per gli ultimi istanti che vi restano. 
Ma questo non avrebbe cambiato nulla… Il destino di questo mondo, la sorte che ti attende, non c’è mai stato modo di fermarlo… 
Il tempo che ti rimane non è molto.

Scegli ora, Uri Reiss, in modo da non dovertene pentire.

….

Un debole raggio di luna infiltra tra le sbarre imprimendo una griglia di luce diagonale accanto alle vostre ombre, che lentamente si sposta e allunga come il satellite si muove nella notte siderale.

“Siamo più simili di quanto pensi, fratello.” La calma della voce con cui ti pronunci non ti appartiene, ma è un bisbiglio greve in fondo all’anima, parole che giungono prima della consapevolezza.  
“Per quanto inconciliabili siano state le nostre convinzioni, abbiamo sempre fatto scelte pressoché identiche nella vita. Quali che siano le motivazioni non contano. Alla fine cerchiamo solo di sopravvivere, e siamo in grado di pensare solo a noi stessi...” La foschia si dirada gradualmente, il tuo campo visivo si espande e tutto ciò che ti circonda riacquista peso e consistenza, delineandosi nitidamente di fronte a te. “Questo vale sia per te che per me,” sussurri infine, dietro palpebre socchiuse. 
Così, investito di ineffabile fermezza, sei finalmente pronto a incontrare i suoi occhi e ad affrontare il te stesso in fondo a quell’antro oscuro. 
“Ti propongo uno scambio.” 
Rod si acciglia, ma è tutt’orecchi. 
“Poniamo in un’equazione ciò che ci sta più a cuore: tu e tua figlia, io e il mio.” Ti accerti di avere la sua completa attenzione - e così è - prima di proseguire. “Al posto di mio figlio, tu avrai me. Tornerò definitivamente a casa, vivrò nascosto finché non sarà venuta la mia ora, e non tenterò più di fuggire… E tu, in cambio, mi darai tua figlia.” 
Puoi cogliere le mille sfaccettature irrequiete dietro il suo sguardo, non appena hai nominato la luce dei suoi occhi. “Frida?” Il tono di Rod vacilla. “No, Frida no!” 
“Sì, invece!” Feroce è il fiato con cui investi il volto sconcertato di tuo fratello. “Oppure preferisci sacrificarti tu di persona?” Infidamente, lo sfidi. 
Rod ingoia a vuoto, interdetto. Il suo silenzio è la risposta che cerchi.
“Bene, abbiamo un accordo.”

 

 

 

*

 

 

Sarebbe stato meglio se non fosse mai venuto al mondo, ti ritrovi spesso a pensarlo.
Se solo fosse nato in un luogo differente, o da una madre migliore di te… perché piuttosto che lasciarlo ostaggio di un destino ingrato, sei arrivato a pensare che sarebbe stato meglio porre fine alla sua vita con le tue stesse mani… 
Ma i bambini non hanno colpe. Nessun bambino dovrebbe averne. 
Nessun bambino si sceglie il modo di venire al mondo, e Levi non ne fa eccezione.
L’amore non ha colpa.

Se questa è la tua decisione, allora non devi più esitare. Più tempo aspetterai e peggio sarà per te riuscire a separartene. 
Meglio così… 
Non avrà nessun ricordo di te. E sarà come se non fossi mai esistito…

 

 

La luce nella stanza è calda e soffusa, pura come una carezza al tramonto.  
Il bambino è seduto nella culla.

Non piange, né si affanna.  
Sembra un’immagine apparsa in sogno, la sua quiete che trascende i clamori del mondo circostante, quasi che sapesse di non farvi parte... 
Si porta un pezzo di coperta in bocca e ne saggia la consistenza ruvida, guardandosi intorno, inconsapevole.  
Ti siedi vicino a lui e lo osservi in silenzio, incosciente del sorriso che investe i tuoi occhi, quando gli accarezzi le guance delicatamente arrossate.  
Sta bene. È in salute. È al sicuro. 
E nulla, nulla potrà mai minacciarlo…

Levi rimanda il tuo sorriso, allungando le manine, un invito a farsi prendere in braccio come ti chini su di lui. Desiderio che esaudisci presto per entrambi.   
È cresciuto ancora. Il suo calore familiare è un conforto immenso contro i battiti frenetici del tuo cuore, mentre fragile si aggrappa a te e si lascia cullare.  
Ti conosce ancora. Sei sua madre… Saperlo è sufficiente a irrorare le tue iridi di commozione.  
Vi appartenete a vicenda.

“Sei amato, Levi, ricordalo sempre.” Sussurri piano tra i suoi ciuffi d’ebano, mentre il bambino si appisola sulla tua spalla.  
Preghi che la sorte sia clemente con lui, che possa ricevere gentilezza in ogni dove del suo cammino, e trovare il conforto di un abbraccio anche negli istanti più bui e disillusi…  
Ogni goccia di pioggia che toccherà il suo viso sarà una tua carezza per lui. Sarai il vento che guida i suoi passi, il buio che culla le sue notti. E lui ti rivedrà in ogni volto e sorriso che incrocerà lungo la strada…

Se è la cosa giusta, non sarà necessario che lui lo sappia.

“Tu sarai libero.”

 

 

….

 

A distanza di venti giorni, Kenny Ackerman viene rilasciato con una grossa fasciatura sul petto e nessuna spiegazione in merito.  
Tutti gli effetti personali gli sono stati restituiti. 

Per il luogo dell’incontro, hanno scelto una casa disabitata in mezzo alla radura. 
La sorveglianza resterà in disparte. Nessuno interferirà.

 

 

Ti trova seduto alla finestra al suo arrivo, Levi addormentato tra le tue braccia. Tracce di lacrime asciutte da ore. 
Kenny resta sulla porta. Senza proferire parola. Vuole che sia tu a voltarti. 
Ha quasi paura di rovinare l’immagine che ha davanti - immobile, irreale - come se potesse svanire da un istante all’altro se si fosse intromesso…   
I colori di quella stanza, cianotici e spenti, come il giorno volge al termine. Dietro i vetri, il cielo si rannuvola rapidamente. 

Buttato giù dalla carrozza su cui ha viaggiato sotto scorta, senza aspettarsi che torni indietro ha proseguito a piedi, gli abiti inzaccherati dagli schizzi di ruote. 
Un tempo si sarebbe stupito se non fosse filato dritto da Rod in cerca di sangue e regolamenti, ma nessun proposito di vendetta lo anima al momento. Per quello ci sarà sempre tempo… 
Kenny Ackerman non è uomo che rispetti i patti, eppure non è così dissennato da lanciarsi in un’incursione suicida, ancora convalescente e con l’urgenza di raggiungerti nel più breve lasso di tempo possibile. 

“Non importa cosa ti abbia detto quel bastardo...”   
È sempre stato convinto che tu sia solo una vittima nelle perverse macchinazioni di tuo fratello. È convinto che sia tutto un tranello, ed è convinto che tu sia stato raggirato dalle sue parole, o minacce, e indotto a presentarti qui oggi…  
E Kenny pensa questo, perché non si è ancora arreso. Ti chiedi se esista al mondo qualcosa in grado di piegare la volontà di un Ackerman.  
Deluderlo, forse, è l’unico modo che conosci…  
Ha ispezionato i dintorni prima di entrare, la casa sembra essere pulita, come ti è stato promesso.  
Lui ha deciso che oggi ve ne andrete via da lì, anche a costo di trascinarti per il tuo culo stanco e sentirti lamentare fino alla fine dei suoi giorni. Non vuole sentire ragioni. 
“C’è un’uscita sul retro…” Ti sta offrendo una possibilità - forse non è ancora troppo tardi - una via di salvezza in fondo a quegli occhi di graffite che sembrano racchiudere un giuramento inviolato ed eterno. “Andiamocene ora, tutti e tre insieme.” 
E ne sei tentato… per un secondo. 
È la sua presenza a farti credere che tutto sia possibile, anche l’atto più folle e rovinoso che si possa concepire, quando lui ti è accanto…  
Vorresti solo stringerti a lui e cedere ancora una volta ai desideri del tuo cuore, affidandoti alla sua forza, come hai sempre fatto… Ma non questa volta. 
Questa volta, sarai solo tu a dover scegliere… 
La sedia dondola a vuoto, privato improvvisamente del tuo peso. Ti allontani dal suo conforto, dandogli le spalle, per deporre il bambino nel suo giaciglio, con delicatezza per non turbare il suo sonno.  
Kenny è rimasto accanto alla seggiola vuota, un’ombra lunga e melanconica, in attesa di spiegazioni che non giungeranno...

“Portalo via.”

Temi solo che incrociandoli ora, i tuoi occhi si sarebbero infranti nei suoi, ricolmi di sconcerto come lo sono in quest’istante. 

“Portalo via, Kenny...” Ricordi di averglielo già chiesto una volta, e anche allora gli avevi mentito perché si fidasse di te. È ciò che hai sempre fatto, in fondo, e lui lo sa; e pur sapendolo ti ha comunque amato... Defili lo sguardo da un lato, i pugni stretti, per sottrarti alla sua vista, così agli occhi della tua coscienza. Una risoluzione immobile, spietata, si contrae nella tua voce frastagliata di una lenta disperazione. “Nascondilo. Tienilo al sicuro. Non permettergli di trovarlo!” 
Ti ritrovi a tremare contro di lui, con le tue mani chiuse lungo il suo cappotto e il peso della tua fronte ceduta sullo sterno. “Non chiedermi niente, ti prego…” Il cuore ti martella in gola, colpevole, laddove le sillabe rimbombano come in fondo a una voragine di fiamme.
“Cosa gli hai promesso?” Sa che la sua liberazione non può essere avvenuta senza un prezzo, e vuole sentirselo dire da te. Scuoti con forza la nuca. 
Kenny non ti stringerà a se. Il volto costipato e le spalle rigide. 
Vorresti che qualcuno ti dicesse ora che va bene così, che sa cosa provi e avrà cura del tuo cuore, perché non sei solo. Che un giorno capirai finalmente il valore di questo sacrificio e allora saprai che ne è valsa la pena… 
La verità è che l’esistenza di Rod Reiss non ha mai costituito una minaccia primaria per il futuro di tuo figlio, non è lui la persona da cui doverlo allontanare… 
L’impedimento più grande, l’unico… sei sempre stato tu. - E una parte di te, mentre lo supplichi di sottrarti il tuo bambino, vorrebbe solo ridurlo a brandelli per ciò che sta per fare… - Ora lo sai. 
Sopprimi lo sguardo dietro le palpebre.

“Va, ti prego…”

Frammenti di nevischio battono sul telaio della finestra. 
Solo per questa volta, mentirai a te stesso. 

 

 

 

Senza dire una parola, Kenny prende il bambino dalla culla e sparisce dalla porta da cui è venuto.

 

 

……

 

 

 

La neve scende senza sosta. Fuori, dentro. 

Speri che non smetta mai…

 

Il freddo risale lentamente dalla terra battuta su cui sei accovacciato, abbarbicandosi lungo la tua schiena, il tuo collo, le tue braccia… E ascoltando il suono della neve che cade hai lasciato che ti avvolgesse in un abbraccio di tremori attutiti.  
Non hai più motivo per restare, eppure non riesci ad andartene da lì; forse perché il tuo cuore non riesce a compensare cosa sia accaduto... 

L’ultimo residuo della brace spira nel camino. L’ultima flebile linea di difesa cede contro l’oscurità e la stanza ne viene sommersa. 
Questo silenzio… c’era anche prima? Quanto tempo è passato da quando Kenny se n’è andato? 
Due gocce picchiettano sul pavimento, ridestandoti, un volto paralizzato nei solchi del pianto.

Come se non fossi mai esistito…

Ti trascini in piedi barcollando e ti precipiti fuori, in preda a una repentina disperazione. La bufera ti investe appena varcata la soglia, ma là fuori non c’è più nessuno. Per chilometri non si scorge altro che la cortina bianca della tempesta.

“Le… Leviiiiiiiiii……” Hai gridato il suo nome contro le tenebre di neve vorticante, il gelo asfissiante scava sul tuo viso mescolandosi alle lacrime.

“Leviiiiiiiiiiiiiiii……!!!”

Sarai il vento che guida i suoi passi, il buio che culla le sue notti.  
E lui ti rivedrà in ogni volto e sorriso che incrocerà lungo la strada...

Cadi sulle ginocchia, annaspando e ingoiando neve a ogni respiro. Un lungo grido lascia la tua gola, sovrastando il dolore muto, e il suo eco viene inghiottito dalle raffiche, disperdendosi nella tormenta… 

 

Levi è nato in una notte come questa.

Ha appena compiuto un anno.

 

 

 

 

 

*

 

 

La strada che originariamente avrebbe dovuto percorrere con te, ora Kenny la percorre da solo.
Beh, non del tutto solo… 
Levi se n’è stato buono e tranquillo per tutto il viaggio fino ai cancelli delle scale, dove ha pagato il pedaggio prima di iniziare la discesa.
Sempre sperando che la squinternata non abbia cambiato recapito nel frattempo… Kenny bussa alla porta di un cubicolo di fango, lungo il vicolo largo appena per passarci dove le puttane si allineano per mostrare le mercanzie in offerta. 
Gli apre una magra figura femminile in camicia da notte, lunghe ciocche d’inchiostro si raccolgono su una spalla, e così alta da poterlo guardare senza difficoltà negli occhi, appuntandovi un’espressione tipicamente diffidente - truce anche dopo che lo ha riconosciuto.
La prima cosa che nota fuori posto è l’esserino attaccato al suo petto. “È mio,” dice solamente Kenny, anticipando il suo stupore imminente e l’interrogativo che sta per schiudersi sulle labbra della sorella.
Lei lo fa entrare, scrutando circospetta le due direzioni della strada, prima di chiudere la porta.

C’è shock e incredulità sul viso di Kuchel Ackerman. “Hai sempre detto di non volere figli…”
Non c’è molto su cui potersi accomodare lì dentro. Solo un letto squallido e un vecchio cassettone per gli abiti; all’angolo della finestra, la stufetta di mattone imbrattata di unto e fuliggine. Non è mai eccelsa in ospitalità, Kuchel, né in pulizia a quanto pare… Non che lui se ne faccia un problema. 
Forse si aspetta una spiegazione da parte sua. Irrompere improvvisamente a casa sua, nel pieno della notte, e con una faccia così grave…
“Non posso tenerlo…” chiarisce infine il fratello. “Ho bisogno che ti prenda cura di lui.”
Kuchel si acciglia, ancora non convinta. “Non c’è problema, ma… cos’è successo?” domanda lei inquieta, accorgendosi dell’espressione funesta sul volto del fratello, prima di porre lo sguardo sul fagottino tra le sue braccia. “Chi è la madre?”
La sua stretta attorno al bambino si fa inavvertitamente più salda, come se avvertisse una minaccia indeterminata in quella domanda del tutto legittima da parte sua. 
Dopo un intervallo combattuto, Kenny relega un fievole “è complicato…” glissando così la questione. Stacca invece il neonato dalla spalla su cui ha dormito per tutto il tempo, e sostenendogli la nuca come è abituato a fare - con cura e una delicatezza che non gli appartiene - lo solleva per passarlo alla sorella. 
Il marmocchio ha un’aria vagamente intontita, la fronte corrugata mentre strizza le palpebre, turbato dal lieve cambio di posizione e temperatura. 
Quella notte ha preso la prima cosa che gli è capitato sottomano, con cui coprirlo perché non prendesse freddo e portarlo qui - era lo scialle che avevi lasciato sullo schienale di una sedia in quella casa, il tuo preferito tra l’altro…
Lo accarezza per accertarsi che non abbia freddo, i modi pazienti e materni, il tepore del bambino si raccoglie tra le sue braccia smunte come un peso estraneo e familiare. Al lume di candele, lei nota il colore dei suoi occhi e un sorriso sghembo le affiora in viso, infuso di affetto innato.
Ora non ha più dubbi che sia suo…
“Tu, invece,” Kenny scaccia via il disaggio e prova a cambiare argomento. “Ho saputo che hai avuto un figlio qualche tempo fa… quanti anni ha adesso, due?”
“Una bambina,” soggiunge lei, abbassando inconsciamente lo sguardo. “Era una bambina… È morta durante l’epidemia, e sì, avrebbe compiuto due anni lo scosso novembre.” Kuchel sorride di un sorriso mesto, stringendosi al nipote ora accovacciato sulle sue ginocchia.
“Mi dispiace.” - Lo è davvero, anche se sa di non sembrarlo ai suoi occhi… perché ora sente di poterla comprendere un po’ meglio di prima.
“Già.”
Kuchel sospira con fare liberatorio, intenta a stroncare il discorso. “Gli hai già dato un nome?” domanda schiettamente al fratello.
“Levi,” replica lui. “Si chiama Levi...”
“Levi!” gli fa eco lei imitando una voce infantile e inclinando il profilo raggiante. “Ma che bel giovanotto che abbiamo qui, eh?” Lo fa saltellare sulle sue gambe e gli fa le facce per vederlo ridacchiare in modo adorabile. 
Lei gli piace. E lui piace a lei.
In quel sorriso affabile Kuchel scorge le tracce di un volto che non sembra appartenere al fratello - Kenny, con tutto il bene che gli vuole, non è mai stato un campione di allegria. Si chiede a chi possa assomigliare… “Come si chiama sua madre?” 
Kenny serra le mascelle, sottraendosi infastidito allo sguardo della sorella. “Non è così semplice… te l’ho detto.”
“Ma non possiamo dargli il nostro cognome,” ha insistito lei, restia e angosciata al pensiero. “Non uno come il nostro!”
“Allora non avrà un cognome!!” 
Le sue parole esplodono sotto quelle basse travature e tutto tace per un secondo. 
Le spalle di Kuchel sussultano senza volerlo, ricordando sulla pelle una fastidiosa sensazione del passato - quando, con lo stesso tono di esasperazione e rabbia, veniva messa a tacere dai maschi della sua famiglia, solo perché recava opinioni differenti dalle loro menti rattrappite dalla paura… 
Lei resta in silenzio e lo fissa a lungo, attonita. “Con te erano sempre segreti e bugie… Non sei cambiato affatto, fratello,” mormora Kuchel, la voce imparziale che tenta solo di comprenderlo, il coraggio inalterato, “eppure sei diventato padre, mi chiedo come sia possibile…” Ma lo conosce abbastanza da dire che il suo segreto - qualunque esso sia - lo porterà con sé nella tomba. Sorride tra se e se con melanconia, e soggiunge infine nella solita atipica gentilezza, “ma puoi stare tranquillo, mi prenderò cura di lui.”
“Bene,” conclude lui guardandosi intorno. “Piuttosto, perché non ti trovi un posto più decente dove stare?”
“Non ho bisogno che tu mi dica come devo vivere la mia vita.” Fredda, bella, orgogliosa; come la ricorda sempre.
“È quello che hai detto al vecchio quando te ne sei andata?” 
Il vecchio, il nonno che li aveva cresciuti e che portava lo stesso nome di suo figlio… lei gli aveva spezzato il cuore, e quel dolore il vecchio se l’era tenuto dentro fino alla fine, senza fargliela mai pesare...
Kuchel distoglie lo sguardo, adombrandosi. “Ero solo stufa di vivere all’ombra di uomini grandi e grossi che hanno paura perfino della luce del sole…” E dopo una parentesi di sconforto rinviene in sé, come fa sempre, scacciando via i sensi di colpa - o qualunque cosa sia stata, perché appartiene ormai al passato. “Io me la caverò, non ti preoccupare,” si rivolge decisa al fratello. “E tuo figlio sarà al sicuro con me.”
Kenny le rifila un mezzo sorriso. “Non ne dubito.”
Sulla porta, Levi incomincia a piagnucolare e Kuchel tenta di tranquillizzarlo. Tende le manine invano nel tentativo di raggiungere il padre che se ne sta andando, e lei ne sposta il peso continuamente da un braccio all’altro per sottrarlo alla sua vista, dandogli pacche che non sembrano confortarlo.
“Ti manderò del denaro,” aggiunge prima di levare il disturbo, raddrizzandosi il fedora in testa. 
“Fatti vivo ogni tanto.” Kuchel accenna un saluto corrucciato, ma sa che non lo farà.

 

…..

 

Non aveva niente quando era arrivato da lei, a parte il suo nome e la pezza in cui era avvolto.
Kuchel l’avrebbe lavata e messa via per lui, custodendola per molti anni, in attesa di riconsegnarglielo un giorno.  
Quando Levi crescerà lei gli dirà che è appartenuta a sua madre, la sua vera madre, perché è giusto che lo sappia… ma il bambino le avrebbe risposto che è lei la sua mamma, e lei avrebbe pianto e lo avrebbe stretto a sé, sentendosi colmare di una felicità e completezza mai provate, grata per quel dono immeritato che la vita le ha concesso…

Da allora quell’indumento è divenuto il ricordo delle sue due madri. Una gli ha donato la vita, l’altra gli ha insegnato ad amare.
Quello scialle bianco, Levi non conosce la storia intessuta nelle sue trame, né il volto celato dietro al suo mistero. Ciononostante lo porterà sempre con sé, anche quando Kuchel non ci sarà più, anche quando lascerà la Città sotterranea…
Accompagnandolo sempre, in ogni viaggio avventuroso e per tutte le rotte di questo mondo, affinché sappia sempre la direzione di casa…

 

 

*

 

 

Da allora sono trascorsi molti anni.

Kenny ha continuato a lavorare per conto della corona, ma le sue visite alla tenuta sono state sempre più sporadiche.
Il vostro rapporto si è incrinato col passare degli anni. La separazione da Levi ha fatto solo affiorare qualcosa che aveva già cominciato a traboccare da tempo, finendo per allontanare i vostri cuori.
Sai che la colpa è tua… Kenny non lo dice, ma in cuor suo lo pensa.
Non hai voluto lottare per tuo figlio, ma non hai saputo nemmeno lasciarti completamente alle spalle il tuo passato insieme al retaggio della tua famiglia, né hai avuto abbastanza coraggio per distruggerli…
Alla fine quella decisione è stata tua, non hai mai pensato di sottrarti alle sue conseguenze, ma Kenny dal canto suo non l’avrebbe mai accettata o perdonata del tutto… Forse, nemmeno tu ci riesci.

Non hai voluto rivolgergli la parola quella notte, quando tornò da Mitras dopo averti portato via Levi.
Ti aveva trovato abbandonato sul letto, avviluppato in un bozzolo di pianto ormai inaridito. Aveva voluto consolarti e si era teso per toccarti la spalla, ma tu ti eri voltato dall’altra parte e “lasciami stare…” lo avevi lasciato solo a consumare il suo dolore...
E non hai voluto farlo neanche in seguito, per molti molti anni, rifiutando di parlargli, e addossandogli tutta la responsabilità di una scelta che tu stesso avevi compiuto e che Kenny aveva solo eseguito.
Lo accusi con incoerenza e crudeltà, lo biasimi per non averti fermato quando poteva, ma di fronte al tuo rancore ingiustificato lui non si è mai difeso, neanche una volta. E odi quando se ne sta in silenzio, come se non provasse niente, quando sparisce, quando ti lascia solo… Ma soprattutto odi te stesso per averglielo lasciato fare.
Il silenzio con cui ha sempre vegliato su di te, il modo in cui ti amava e che tu amavi di lui... 
Ti chiedi da quando questo silenzio ha iniziato ad esserti intollerabile… Da quando, incontrarsi, fa così male…
Che Kenny lo andasse a trovare di nascosto, il bambino, lo hai sempre saputo.

Tu sei morto per il mondo.

Questo è stato il patto con tuo fratello, in cambio della vita di tuo figlio.
Uri Reiss, sulla carta, sarebbe scomparso in un tragico incidente e avrebbe vissuto nascondendo la sua identità, da quel momento, fino allo scadere del suo tempo.
Come un fantasma.
Rod ha predisposto tutto affinché la successione avvenga senza intoppi, occupandosi al tempo stesso della facciata pubblica di fronte alle ingerenze dell’Assemblea. Cedendo la corona, gli hai ceduto anche il destino dell’umanità di cui è divenuto segretamente sovrano. 
E Frieda, l’erede designata, avrebbe ricevuto il potere dopo la tua scomparsa - almeno per il resto del mondo - in anticipo rispetto ai tempi, ma l’avrebbe custodito solo per poco, prima che... 
Di certo nessuno poteva sapere come gli eventi di lì a poco si sarebbero rovesciati, travolti da un’incognita ancora sconosciuta, gettando così il mondo in un’era di caos e sconvolgimenti…

“Lo aspettavamo a gennaio, te lo ricordi?”

“Sì.”

Lui è venuto da te. Mancano solo due giorni al rituale, e tu credi di non poter più aspettare.

“Ma è giunto in anticipo, insieme alla neve, come se avesse fretta di vedere il mondo…” Il tempo scorre a ritroso nella tua voce, modulandosi dolcemente. “Credevamo di aspettare una femmina...” Sorridi, e le rughe che ricoprono il tuo viso sorridono con te. “Ci ha fatto una sorpresa in tutti i sensi.”
Il viso di quel bambino ormai è un ricordo lontano e sbiancato, fermo eternamente nella tua memoria, dove non crescerà mai e sarà sempre amato…
Alzi la fronte e poni lo sguardo al di là delle pareti che sovrastano le vostre esistenze, immaginando un cielo più alto e vero di qualunque privazione e menzogna. “Fuggivamo da un posto all’altro e non potevamo disfare le valige che, ecco, dovevamo andarcene di nuovo: a ripensarci, però, quello è stato forse il periodo più bello della mia vita...” L’ultima parte l’hai sussurrato, non sei certo che ti abbia sentito. “Non avevamo niente allora, ci tenevamo aggrappati uno all’altro, così da sentirci completi e lo eravamo, tu, io e Levi…”

“……”

“……”

“Ho provato ad aggiustare le cose, ci ho provato davvero…” 

“Lo so.” Ingoi stentatamente, trovando ogni sillaba bruciare.

“Pensi che sia stato tutto un errore,” domanda Kenny, descrivendo lo spazio tra di voi con un movimento casuale della mano, “tu, io?”

Sorridi, perché non sai che altro fare. “Non eravamo fatti l’uno per l’altro come pensavamo…”

Lo accetta. Gli sta bene.
E si sente sconfitto, Kenny, ancora prima di dichiarare la resa ne assapora la malinconia. 
Se ti stringesse a sé ora, sarebbe potuto sembrare un atto di insensibilità. Allora se ne sta distante, senza riuscire ad avvicinarsi, e ti parla attraverso la cortina degli anni, immaginando il tepore del tuo viso sulle dita... “Questo non vuol dire che non ti amo.” 

Anche questo, lo sai.

Per quanto non riesca a perdonarti, non riesce nemmeno a mentire a se stesso.
Questo dolore lo hai inventato per celare dentro il peso dei tuoi rimorsi, seppellendo le grida del tuo cuore dietro a grida più forti, fino a lacerarti l’anima. Cedendo la tua libertà per quella di tuo figlio, perché ormai non ne hai più bisogno…
E questo è il momento di riscattare quella promessa, siglandola con la tua morte.
È tutto ciò che tu possa fare per lui, come madre, in questa vita. Più dell’amore, più del perdono. 
Con la certezza che Kenny veglierà sempre su di lui, anche quando non ci sarai più.
Ciò che avete lasciato al mondo, è qualcosa di cui non potrai mai pentirti… No, come non potresti rinnegare i suoi sentimenti, il vostro amore imperfetto che da tempo è sfuggito alla definizione di se stesso, per divenire qualcos’altro… Forse nulla, forse tutto.
È un sentimento delicato, dolce e amaro, di chi sa di appartenersi a vicenda e comprendersi al di sopra delle parole.
Ora riesci a sentirlo vicino a te - nonostante quello che avete passato e tutto il male che vi siete recati - più che in qualunque altro istante di questo legame che la vita vi ha costretti insieme.

Le sue mani risalgono le tue braccia, fermandosi sulle tue spalle dove stringono incerte. Come sempre è rimasto a un passo dietro di te, a osservare in silenzio il mondo dalla tua prospettiva senza riuscire a vederlo. La sua vicinanza, il suo calore. Mentre quelle braccia ti si avvolgono attorno, non ti rendi conto di piangere da ore. 
Una mano sulla bocca, sentendoti soffocare.
Dimeni le spalle per riuscire a voltarti nel suo abbraccio, e ti ci aggrappi con tutte le tue forze e le tue colpe, lasciandoti affogare. 
Scivoli a terra e lui si lascia scivolare insieme a te, sorreggendo il tuo peso e tremando con te. Il tuo volto tra le sue mani, e il suo volto tra le tue. Le narici occluse e gli occhi traboccanti. Come due patetici vecchi che inciampano uno sull’altro, tenendosi stretti. “Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace…” gli chiedi perdono a non finire, come il giorno in cui vi siete conosciuti, senza sapere per cosa o a chi lo stai chiedendo… 
Forse a Dio - se davvero esiste -, forse all’umanità... o forse, solo a tuo figlio…

È l’ultima volta che ti permetti di essere egoista.

 

 

 

……

 

 

 

844 non è stato un anno particolare. 
Il raccolto è stato scarso, nonostante le piogge abbondanti. E il prezzo dei generi alimentari ha battuto più volte record secolari.
Non c’è malcontento, ma non c’è nemmeno gratitudine. 

Anche quel giorno, non è stato un giorno particolare...

Drappelli di civili e famiglie si spintonano ai due lati della strada battuta, liberata apposta per la partenza delle cappe verdi. 
Due monelli si arrampicano sull’albero per vederli passare, al lento incedere dei cavalieri, e le donne gettano fasci di fiori ai loro piedi. Sguardi colmi di apprensione, ma anche di aspettative.
Quando il fragore delle campane si innalza sopra i cieli di Shiganshina, annunciando l’imminente apertura della porta, dietro di loro si intravede anche un vecchio fantasma incappucciato.
Curvo sotto il mantello bianco, il passo zoppicante, e tutto il suo peso infermo sorretto su un bastone. 
Se ne sta un po’ distante, all’imboccatura di un vicolo, rescisso dal clamore della folla - ma va bene così, perché quello è un posto speciale, il posto a cui è riservato il suo cuore e da cui potrà vegliare indisturbato...

 

 

Lo guarderai uscire da quei cancelli larghi e maestosi, sorridendogli, per la prima e l’ultima volta…
Sono trascorsi 25 anni da quel giorno innevato. La neve l’aveva portato, e la neve se l’era portato via. Non è passato giorno che non hai pensato a lui.
Ti dispiace di non essere potuto essere una madre per lui, di non averlo visto crescere mentre imparava a parlare, a camminare… a volare.
Ti dispiace di non averlo potuto stringere quando era solo e abbattuto, consolato per una perdita o una delusione d’amore, quando il cielo sembrava non bastare... Avresti voluto essere presente in tutti quei momenti della sua vita, per gioirne e soffrire insieme a lui… Avresti voluto essere lì per avvolgere i suoi dubbi e le sue paure, ogni volta che si fosse perso o arreso, consigliarlo e prepararlo all’ignoto che lo attende…

Ma ora lui potrà finalmente essere libero.

 

 

I tuoi sentimenti non sono cambiati.

Quando avevi giurato di abbattere le Mura per tuo figlio e incendiare il mondo per difenderlo, non era una promessa a vuoto.

Magari non sarai tu a dare inizio alla valanga, magari non sarai la persona destinata a cambiare, distruggere, e salvare il mondo…

A te è toccato solo spingere il sassolino giù dalla scarpata. Questo non fa di te un Dio.

 

 

 

…….

 

…..

 



Senza nome, senza retaggio.

Questa è una storia di cui hai smesso di fare parte. La storia di un ragazzo nato con le piume innestate sulle scapole.

 


La brezza estiva smuove le tende contro gli infissi. Il ragazzo osserva il cielo, il lento transitare delle nuvole in cui si rincorrono mostri di gobbe e pesci alati. Candide lenzuola, un letto disfatto che profuma di sole.
C’è tanta tanta luce, quasi da fargli ammiccare.
Dita ruvide ripassano tra fasci di ciocche chiare e indisciplinate - dita abituate a stringere solo acciaio e mani insanguinate, capaci di infliggere morte come di dare vita. 
Ciglia pallide socchiuse, un sorriso baciato dal tepore del sole.

“Che stai canticchiando?”

Quella melodia, è come se la ricordasse da sempre… ma non ha idea di chi glielo abbia insegnato; forse sua madre, il ragazzo non ne è convinto.

“Non so quando l’ho imparato…” replica Levi, continuando a conteggiare le nuvole, la coscienza sospesa in luoghi lontani. “È una canzone che parla di marlei…”

“Vuoi dire il “mare”?” Il biondo ridacchia, la voce che riverbera tutta attraverso il suo addome.

“Beh, sì, quello che è!” sbotta il compagno.

Capelli biondi, occhi chiari…

Somigli a tua madre, un tempo gli disse il bastardo, ma Levi non avrebbe saputo dire cosa intendesse o cosa vedessero di preciso i suoi occhi in quei momenti…
Cioè, sì, da quando è entrato in pubertà ha cominciato ad assumere molti aspetti di Kuchel, sia nei tratti somatici che negli atteggiamenti, ma.. sono fatti risaputi quelli.

Ci sono certi dettagli di sé a cui, invece, non riesce a trovare collegamenti o spiegazioni… Reminiscenze di pelle, discrepanze viscerali, particolari che hanno sempre indirizzato il suo istinto senza che lo sapesse... Come quel senso di mollezza contratto al petto, la prima volta che si è concesso di adagiarsi alla sua nuca e lasciarsi trasportare; quella sensazione di familiarità rinvenuta addormentandosi sulla spalla di Erwin, ancora oggi, quasi da fargli venire nostalgia… 
Cose misteriose, inspiegabili, come gli strani eventi che si ripetono ogni anno, sempre a ridosso dell’inverno, fin da quando ha memoria.
Quando è stato abbastanza grande da rendersene conto forse non sapeva ancora tenere in mano un pugnale: la mattina, al suo risveglio, e solo in quel giorno specifico dell’anno, Levi trova sempre un fiore sotto la propria finestra.
Una genziana.
E poco cambia se quella in cui risiede è una proprietà dell’esercito, interdetta ai civili.
Chi glielo lascia non si firma né si palesa. Forse si tratta solo di uno scherzo, o di una minaccia… Non saprebbe.
L’opera di un ammiratore segreto, crede Erwin. 
Baggianate, pensa il moro, sarà senz’altro uno stalker seriale con poca fantasia...

 


 

 

  
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