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Autore: Nina Ninetta    27/06/2022    5 recensioni
Eric La Manna è un procuratore di giovani promesse della boxe. È al verde, vive in un lugubre monolocale lungo la West Side di Chicago e ha gli strozzini alle calcagna per una vecchia “parola” non mantenuta. Una notte, però, durante un regolamento di conti, nota un giovane ragazzo che sembra avere la stoffa per diventare la nuova star della boxe, o almeno è quello che spera per redimersi…
"Seconda classificata al contest “Manuale di Sopravvivenza Vol.2” indetto da Spettro94 sul forum di Efp.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo IV
- Ben -


 
 
Eric La Manna fu costretto a rifiutare le telefonate di incontri che gli vennero proposte nei giorni a venire, a causa del taglio sulla mano del suo nuovo pupillo. Dopo il match che gli aveva spalancato le porte della boxe – o almeno così amava definirlo Eric – la mano al di sotto della fasciatura e del guantone si era rivelata gonfia, arrossata e dolorante. La mattina successiva, invece, il rossore si era convertito al violaceo e Franco aveva concluso che ci sarebbero volute almeno due settimane per evitare di compromettere una carriera agli albori.
Per questo motivo, l’agente aveva iniziato a confermare le date degli incontri nei quindici giorni successivi al battesimo sul ring di Ben.
Nel giro di un paio di mesi, Eric lasciò finalmente la casa lungo la West Side. Non poteva ancora permettersi un appartamento nei quartieri alti di Chicago, ma riuscì a trovare un bilocale nel lato sud della città, abitato da gente normale, come li definiva lo stesso Eric.
«Cosa intendi precisamente per normale?» Gli chiese Benny aiutandolo con il trasloco. Non aveva molte cose da portare con sé a dire il vero, ma l’agente aveva comunque preteso che lo aiutasse a salire le due scatole di affetti al primo piano della sua nuova casa. Forse, solo per fargli vedere che non abitava più in quella topaia e che con i sacrifici gli obiettivi si raggiungono sempre.
Benito adagiò l’ultima scatola all’ingresso, fischiando in segno di approvazione mentre si guardava attorno: nulla a che vedere con la vecchia casupola. Qui i mobili erano migliori, di seconda mano, ma ben tenuti; la pittura non si scrostava dalle pareti e nella cucina non c’era odore di stantio. Eric La Manna stava adagiando la foto con i suoi genitori sul frigo.
«Intendo persone che hanno un lavoro vero e mogli che sfornano dolci alle mele per i loro bambini.»
Voltandosi indietro notò che a quelle parole Benito si era incupito: le nozze di Maria e Alejandro si sarebbero tenute il mese successivo, poi anche loro sarebbero stati una famiglia.
«Scusa, Ben. Non volevo…»
«Tranquillo, amico. Non è colpa tua.»
«Ehi, adesso sei una star della boxe!» Eric finse di colpirlo con un paio di diretti e il giovane sorrise, seppur triste. «Beh, ti piace?» L’agente cambiò discorso, allargando le braccia a volergli mostrare la sua nuova abitazione.
«Niente male…» Ben accarezzò la superficie liscia dell’isola collegata alla cucina moderna, nei toni del grigio.
«Potresti prenderne anche tu una, magari qui vicino…»
«Così potrai tenermi sotto controllo h24? No, grazie. Ho bisogno della mia libertà. Cielo, sei peggio di una fidanzata gelosa!»
Sorrisero entrambi, quella era una frase tipica di Franco.
«O magari potresti acquistarne una più grande per tutta la tua numerosa famiglia» la buttò lì Eric, dandogli le spalle mentre prendeva dal frigo una Sprite e gliene porgeva una.
«Ah, sì? E con quali soldi?»
Dal suo primo incontro di boxe, Ben ne aveva disputati diversi in giro per la città e non sempre clandestini. Aveva partecipato a un vero torneo amatoriale, organizzato da un’associazione di ex commilitoni, ed era finalmente riuscito a mettere da parte un po’ di soldi per le spese giornaliere, ma il vero salto di qualità quello no, era ancora lontano. A volte gli sembrava di combattere per diletto e non per lavoro. Ma era una cosa che gli piaceva fare: lottare. Sentirsi potente, artefice del proprio destino. Se vinceva era merito suo, se perdeva altrettanto. Nessuno con cui prendersela, neppure con il destino. Aveva vinto la maggior parte degli incontri che aveva disputato, più nessuno gli aveva detto cosa fare: vincere o perdere dipendeva solo ed esclusivamente da lui.
Ben stappò la lattina e un po’ di schiuma gli bagnò le dita e il dorso della mano mentre ne beveva un sorso, poi Eric fece scivolare verso di lui una lettera. Il giovane la guardò prima di prenderla.
«Che cos’è?» Chiese.
«Il tuo pass per l’immortalità.» Eric sollevò la sua lattina. «A te, star della boxe.»
La lettera portava il timbro di New York. Benito sentì il cuore fare un salto nel petto, adagiò la Sprite sulla superficie del tavolo e prese il foglio contenuto all’interno della busta bianca, cominciando a leggere.
«Quando l’hai ricevuta?»
«Una settimana fa.»
«Me l’hai tenuta nascosta? Pensi sia una presa in giro?»
«No. Non volevo distrarti prima del tuo ultimo incontro. E poi avevo bisogno di fare un paio di telefonate per accettarmi che fosse tutto vero. Guarda meglio nella busta.» Eric la indicò con un dito e rimase in attesa mentre Ben tirava fuori due biglietti aerei per New York.
«Si parte fra due giorni.» Concluse l’agente emozionato.
 
 
 
Maria uscì da “Il Salone della Acconciature” più affaticata che mai. Era ormai arrivata al settimo mese di gravidanza e stare in piedi tutte quelle ore la stancava oltremodo. Contava i giorni che la separavano dal fatidico giorno, quello del matrimonio, quando finalmente si sarebbe potuta fermare e riposare almeno per un anno, poi chissà… Alejandro non sembrava troppo entusiasta che lei lavorasse, diceva che sua moglie doveva fare la signora e non la sguattera. Eppure, lei sguattera non si era mai sentita, veniva da una famiglia in cui sia suo padre sia sua madre lavoravano e non le era mai mancato nulla, anzi! Pensava che il lavoro nobilitasse l’uomo, ma soprattutto desse dignità alla donna.
Si tamponò la fronte sudaticcia – e non per il caldo, dato che le temperature erano ancora fresche – con un fazzoletto di stoffa con incise le sue iniziali. Un regalo di sua nonna, morta qualche anno addietro di cancro, quando si fermò di colpo: Ben era di fronte a lei, in piedi, con le mani ficcate nelle tasche di un giubbotto scuro, nuovo, di buona qualità. Lo osservò in volto, i capelli erano più corti, gli occhi come induriti ma comunque gentile, un sorriso velato lungo le labbra. Era più muscoloso, più alto (possibile?), più bello che mai.
«Benny» sussurrò. «Non ti ho più visto in giro. Stai bene?»
Lui si strinse nelle spalle, quasi scusandosi di essere lì.
«Ciao, Maria. Come stai? Mi sembri stanca.»
«Lo sono, stanca. Lo sono.» Sospirò.
«Dovresti riposarti, nelle tue condizioni…»
«Ce la faccio. Eri di… passaggio?»
«Eh?» Benny riconobbe in quella domanda la scusa che usava sempre quando l’aspettava fuori dal negozio, solo per parlarle. «No. No, sono passato per salutarti. Parto.»
«Parti? E dove…?» Maria dovette fermarsi per timore che la voce si deformasse a causa del pianto.
«Vado a New York. Mi hanno offerto un buon contratto. Sai, di quelli che non puoi rifiutare…»
«E quando tornerai?»
Ben fece spallucce, non lo sapeva, sperò mai ma lo tenne per sé.
«Alla fine aveva ragione quel tipo, il tuo agente, saresti diventato uno che conta con la tua forza di volontà.»
Ben si meravigliò di quelle parole.
«Il mio agente? Eric?»
«Sì, lui. Venne a parlarmi prima del tuo incontro, quando ti feristi alla mano. A proposito, come va?»
«Be-bene. Perché Eric ha parlato con te?»
«Per chiedermi di starne fuori, avevi bisogno di tranquillità. Mi dispiace, forse non avrei dovuto dirtelo.» Maria abbassò lo sguardo, evitando di dirgli la verità per intero, ossia che quell’uomo le aveva chiesto di rinviare le nozze, di attendere che Ben fosse diventato uno famoso.
«No. No, hai fatto bene. Ciao, Maria. Riguardati.»
Ben andò via, senza attendere la risposta di lei.
 
Bussò con foga alla porta di Eric, indispettendo quest’ultimo.
«Ehi! Guarda che se si rompe devo pagarla io!»
Ben entrò in casa senza neanche aspettare che lui si facesse da parte per farlo passare e per poco non lo travolse.
«Sei stato da Maria?»
Eric chiuse la porta con garbo e gli disse di calmarsi, era troppo agitato.
«Rispondi! Hai parlato con Maria?»
«Sì, Ben. Ci ho parlato…»
«Perché?» Urlò il giovane portoricano.
«Devi calmarti, ok?»
«Perché cazzo sei andato a parlare con lei?»
«Perché questo è l’effetto che ti fa quella donna, Cristo!» Eric urlò più di lui. «Guardati, cazzo, sei fuori di senno! Se affrontassi ogni incontro con questa rabbia, accecato da questa rabbia, non ne avresti vinto uno!»
«Non erano affari tuoi, Eric! Ti sei messo in mezzo a fatti che non ti riguardavano! Lo fai sempre! Lo fai di continuo! Perché non hai una vita tua? Perché devi immischiarti in quella degli altri?!»
«Le ho chiesto di aspettarti, l’ho fatto per te!» Eric gli puntò un indice contro. «Le ho chiesto se fosse sicura che il figlio fosse di Alejandro e vuoi sapere cosa mi ha risposto? Eh, lo vuoi sapere?»
Ben non rispose, semplicemente strinse i pugni lungo i fianchi, serrando la mascella.
«Sai una cosa? Non sta a me rivelartelo! Non devo più mischiarmi in fatti che non mi riguardano. Hai ragione.»
«Parla, cazzo! Lo sai? Tu lo sai?» Ben lo afferrò per il collo della maglia, spingendolo contro la parete dell’ingresso. Una cornice appesa cadde e si scheggiò: ritraeva loro due con la coppa per il primo posto del torneo degli ex commilitoni.
«Le avevo chiesto di rimandare le nozze, di credere in te e nella tua carriera. Non lo so chi è il padre, Ben.» Mentì Eric e sentì il cuore spezzarsi per quel giovane. «Non lo so.»
Benito lo lasciò andare, girò sui tacchi e uscì.
 
Nessuno dei due toccò più l’argomento. Il viaggio nella Grande Mela fu un ottimo diversivo per accantonare quella discussione e fingere che non fosse mai avvenuta. Ma fingere che qualcosa non sia esistita non significa cancellarla per sempre.
Eric e Ben furono accolti all’aeroporto da una grande macchina scura che li accompagnò nella sede centrale della BGG (sigla della prestigiosa associazione newyorchese Boxe Golden Gloves) che gestiva ufficialmente la maggior parte degli incontri di pugilato che si tenevano nel Paese. Eric La Manna sapeva che i suoi agenti erano sparsi sul territorio nazionale, sempre in cerca di nuovi talenti, per questo motivo si era stupito quando aveva ricevuto quell’invito a presentarsi nella loro sede centrale, ma non meravigliato.
La macchina virò nei parcheggi sotterranei di un’imponente struttura in vetro che svettava alta, in mezzo a tutti gli altri grattacieli di Manhattan. I due furono accompagnati da una giovane signorina all’ottavo piano del palazzo, poi la stessa invitò Eric a scendere, i dirigenti della BGG lo stavano attendendo in sala conferenze, mentre lei avrebbe accompagnato personalmente il giovane Ben a visitare la palestra a disposizione dei loro atleti.
Eric e Benito fecero appena in tempo a lanciarsi un’occhiata interrogativa, prima che le porte automatiche dell’ascensore si richiudessero per dividerli. L’egente si ritrovò da solo, con le scarpe buone piantate su una moquette tirata a lucido e una enorme porta di legno lucido dinnanzi a sé. Proprio mentre stava pensando a cosa fare, questa si spalancò, rivelando un uomo della sua stessa età, con addosso un vestito da mille dollari e scarpe da settecento, il quale lo accolse con un sorriso da tremila dollari o poco più. I suoi denti somigliavano a ballerine di ceramica bianca, impressionante, pensò Eric, ricordavano vagamente le bomboniere dei battesimi dei suoi cugini, ai quali prendeva parte quando era bambino.
«Signor La Manna! Ci stavamo chiedendo se per caso non avesse cambiato idea! Ma prego, prego! Si accomodi pure!» L’uomo si fece di lato per farlo passare, i suoi modi gentili erano falsi come i denti che teneva in bocca.
 
Eric attese Benito alla caffetteria del piano terra. Il giovane lo raggiunse e finalmente pareva che il broncio gli fosse passato.
«Accidenti Eric, dovresti vedere che palestra hanno! C’è anche una sauna e una vasca con il ghiaccio per tonificare i muscoli. Fantastico!»
Una giovane e carina cameriera gli passò di fianco, lanciando un’occhiata che Ben colse al volo, scrutando le gambe slanciate e nude della ragazza.
«Ben» lo chiamò Eric.
«Potrei abituarmi a tutto questo, sai?!»
«Ben!» Eric batté il palmo sul tavolo, la tazzina con l’espresso tintinnò sul piattino.
«Dobbiamo parlare» aggiunse quando ebbe l’attenzione del ragazzo e quest’ultimo, notando il tono grave, tornò serio.
Eric La Manna sapeva che quello che stava per dire al suo assistito non gli sarebbe piaciuto, neanche un pochino. Onestamente, neanche a lui piaceva e in circostanze diverse forse non si sarebbe neppure seduto al tavolino per parlarne, avrebbe scelto personalmente, in fondo quello era il suo lavoro. Ma questa volta era diverso. Questa volta la scelta non poteva spettare solo a lui, non dopo quello che era accaduto la sera precedente fra i due.
In quella sala aveva trovato altre due persone ad attenderlo, ugualmente gentili e garbati nei suoi confronti, ma un garbo che non era stato tanto diverso da quello del boss mafioso con il quale aveva avuto a che fare all’inizio della sua avventura con Benito. Un garbo fasullo, un pugno in una carezza. Dopo i vari convenevoli, l’uomo che gli aveva aperto la porta aveva preso la parola e cominciato a blaterare di casistica e destino. Di opportunità mancate per orgoglio, e di umiltà. Di riflettori puntati addosso e di castelli di sabbia crollati alla prima onda. Eric aveva fatto fatica a seguire il discorso, poi lentamente i pezzi si erano uniti e il disegno era venuto fuori, chiaro e infame.
I dirigenti della BGG l’avevano convocato poiché, dai talent scout insediati a Chicago, avevano ricevuto segnalazioni di un giovane e brillante pugile portoricano che stava rimescolano le carte della boxe. Tra meno di una settimana si sarebbe tenuto un evento speciale al Madison Square Garden e, tra i tanti incontri in programma, ci sarebbe stato anche quello di esordio del loro nuovo pupillo, la loro nuova punta di diamante come non se ne vedevano da tempo – disse l’uomo con bomboniere al posto dei denti. Era tutto organizzato nel minimo dettaglio, avevano speso una fortuna per pubblicizzare l’evento anche al di fuori dello Stato di New York e avevano scelto con cura l’avversario da mettergli contro.
«Perché, come lei sa signor La Manna, un buon antagonista è l’anticamera del successo per l’eroe» era intervenuto un altro di loro, facendogli l’occhiolino.
Ma, il caso aveva voluto che proprio quest’ultimo si fosse infortunato durante un allenamento e il posto era rimasto vuoto, così rischiava di saltare tutto ed economicamente parlando non potevano permetterselo. Avevano investito troppo per rimandare l’incontro, per questo motivo si erano messi alla ricerca di un pugile che potesse sopperire alla mancanza dell’avversario e – guarda caso – il profilo migliore era risultato proprio Ben.
«Quindi il mio assistito dovrebbe combattere al posto del pugile infortunato un incontro di battesimo per il vostro nuovo pupillo?»
«Esattamente» aveva risposto il terzo dirigente, mentre beveva un Martini e snocciolava olive verdi.
«Ovviamente riceverete il giusto compenso» aveva aggiunto il secondo uomo.
«Noi sappiamo riconoscere un gioiellino quando ne vediamo uno» denti di ceramica gli sorrideva mentre faceva scivolare verso di lui un biglietto. «Lo capovolga, Eric. Posso chiamarla Eric?»
Eric La Manna lo fece, capovolse il biglietto e lesse la cifra riportata. Senza distogliere lo sguardo chiese.
«È un incontro deciso a tavolino?»
«Che brutta espressione! Deciso a tavolino. Diciamo piuttosto collaudato» l’uomo con le olive aveva bevuto altro Martini.
 
Ben ascoltò a braccia conserte l’intero racconto, senza interromperlo neanche una volta né lasciando trapelare emozioni dal suo viso. Solo alla fine domandò.
«Di quanto parliamo?»
«Un attico in piena Central Chicago» Eric l’aveva fissato dritto negli occhi. «Uno a testa.»
«Devo perdere?»
«Sì.»
«No.» Benito si era alzato e aveva lasciato la caffetteria, seguito a ruota dal suo agente che si ritrovò a rincorrerlo fra i newyorchesi.
«Ben, ehi, Ben! Aspetta, dannazione!» Quando gli fu vicino lo afferrò per un braccio e lo voltò verso di sé, bisbigliandogli a una spanna dal viso. «Hai capito cosa ti ho detto? Potremmo sistemarci entrambi per il resto della nostra vita.»
«Ti avevo già detto che non avrei mai più accettato un incontro deciso prima. Sono io l’artefice del mio destino, non gli altri!»
«E hai ragione, ma anche in questo caso puoi decidere di scegliere di vivere una vita agiata.»
«Agiata e vergognosa. No. Torniamo a Chicago con il primo volo…» Ben si liberò dalla presa e fece per riprendere il cammino, quando le parole di Eric lo arrestarono nuovamente.
«Con quei soldi potresti fare il test di paternità e prendere un avvocato.»
Si guardarono per qualche secondo, poi il giovane portoricano sentenziò.
«Questo è l’ultimo incontro che combatto. Dopo New York io e te ci salutiamo, per sempre.»
Eric La Manna annuì.
 
 

 
Il Madison Square Garden vantava una fama che lo aveva reso famoso in ogni angolo di mondo. I migliori si erano esibiti in quell’arena, di ogni genere. Eric avrebbe raccomandato l’anima al diavolo pur di mettere piede lì dentro un giorno, mentre Ben non l’aveva sognato neanche nei suoi desideri più folli. E invece adesso si trovavano lì, insieme, per un’ultima volta.
Il primo ad essere annunciato fu proprio lo sfidante portoricano, il quale venne accolto da una serie di fischi e buu, solo pochi lo applaudirono, forse ispanici come lui. Eric La Manna lo seguiva a ruota, per quella sera sarebbe stato il suo secondo a bordo ring, il manager che si fa allenatore. Franco non era stato inviato a New York e forse neanche gli sarebbero piaciute tutte quelle moine, o scendere a compromessi. Lui era uno che non lo faceva mai.
La star della serata, la punta di diamante della Boxe Golden Gloves, era un trentenne alto un metro e novanta per almeno cento chili, i capelli chiari e gli occhi color ghiaccio erano accompagnati da un tipico nome tedesco: Günther. Il pubblico esplose in una vera ovazione quando questo salì al centro del ring e alzò entrambi i guantoni al cielo. Non degnò neanche di uno sguardo Ben, immobile all’angolo opposto del suo.
Eric gli parlò nell’orecchio, massaggiandogli la base del collo per rilassargli i muscoli. Cielo, come gli sarebbe piaciuto dirgli parole per incitarlo, per caricarlo, per spronarlo a vincere quel match e vaffanculo i patti e i soldi! Vincere contro un pugile di quel calibro, durante un evento al Madison Square Garden organizzato dalla BGG sarebbe valso tutto l’oro del mondo. Ma, purtroppo non si vive di sola fama e soddisfazioni, c’è bisogno di quattrini per mangiare e andare avanti nella vita. C’è bisogno di compromessi. Per questo motivo, semplicemente, ricordò a Ben della loro promessa e di resistere quanti più inning possibile: magari qualche altra importante associazione l’avrebbe notato e chissà… se voleva Dio, quello non sarebbe stato il loro ultimo match.
Ben neanche gli rispose, indossò il paradenti e si portò al centro del ring, saltellando da un piede all’altro. Günther era alto almeno quindici centimetri in più, ma lento come un elefante. Ci avrebbe messo un po’, ma alla fine sarebbe riuscito a mandarlo al tappeto e vincere l’incontro.
Il gong risuonò nell’arena gremita e, come era prevedibile, il tedesco gli fu subito addosso, immobilizzandogli il capo con entrambe le braccia. L’arbitro li divise, ammonendo Günther per il bloccaggio: non si poteva fare.
Eric notò i giudici seduti a bordo ring prendere nota.
Il pugile della BGG continuava a sferrare diretti e qualche gancio, ma niente di più. Günther non era agile, ma prevedibile e potente. Ben non aveva problemi a schivare i suoi pugni, anzi, sembrava quasi divertirsi nell’evitarli, facendo così andare in bestia l’avversario che, irritato dal suo comportamento canzonatorio, lo prese appena sotto la cintura, facendolo piegare in due dal dolore. Di nuovo l’arbitro fu costretto ad allontanare il tedesco e ad avvertirlo per la seconda volta: un altro di quei colpi proibiti e sarebbe stato costretto a sospendere il match.
Il pugile biondo urlò di rabbia, mentre i giudici prendevano nota ancora una volta, guardandosi di sottecchi.
Il primo round terminò.
Ben si sedette pesantemente al suo angolo, tamponandosi il sudore con un asciugamano, intanto che Eric gli diceva di continuare così, ma anche di farsi colpire ogni tanto, o quello avrebbe davvero rischiato di perdere l’incontro per espulsione.
«Non è colpa mia se quelli della BGG hanno preso un decerebrato.»
«Ben…» il match riprese e il portoricano si alzò di scatto. «Dannazione…» Eric lanciò uno sguardo furtivo al punto dinnanzi a sé, dove erano seduti i dirigenti con cui aveva parlato solo qualche giorno prima. Nessuno dei tre sorrideva.
 
Günther ricominciò la ripresa da dove l’aveva interrotta: aggressivo e violento come un animale da combattimento. Ben però non intendeva restare a guardare come aveva fatto durante il primo round, voleva divertirsi, giocare un po’ con il biondo e il pubblico sugli spalti.
Il portoricano schivò l’ennesimo diretto di Günther e lo colpì con un gancio, il tedesco rimase meravigliato e lo fissò negli occhi, rabbioso per l’affronto. Di nuovo si lanciò contro Benito, e di nuovo questo deviò il pugno sfiorandogli il mento con un montante, poi gli fece il gesto di farsi avanti:
«Biondone» gli mandò un bacetto.
Günther non se lo fece ripetere due volte e con un urlo gli fu addosso, ma Ben riuscì a evitare ogni diretto, gancio o montante che quello menava grazie al suo gioco di gambe, svelto e imprevedibile. Saltellava a destra e a manca sul ring, girandogli intorno e facendosi beffe dell’altro che si arrabbiava sempre più. Il viso era diventato paonazzo dall’ira, si sentiva preso in giro senza riuscire a fare nulla, se solo fosse riuscito a colpire quel folletto almeno una volta, sarebbe riuscito a fermarlo e poi a suonargliele quanto più poteva. Invece, il portoricano sembrava conoscere e prevedere ogni sua mossa, anticipandolo fastidiosamente. Anche il pubblico adesso pareva fare il tifo per lui, li stava facendo divertire come bambini al circo. Ecco cos’erano diventati lì, al centro del ring, due fenomeni da baraccone. E mentre pensava a tutte quelle cose e si stancava senza riuscire a concludere nulla e la lucidità veniva sempre meno a causa del nervosismo, Ben lo colpì alla guancia con un diretto ben assestato. Il pubblicò urlò e incitò il giovane di continuare, di menarlo ancora e ancora e Ben lo fece, dimentico di tutto: del patto con la BGG, di Eric all’angolo che gli chiedeva che cazzo stava facendo, di Maria che si sarebbe sposata tra meno di un mese, del suo pancione appuntito che era agli sgoccioli. Di nuovo, come gli capitava ogni volta che saliva sul ring, esistevano solo lui e il suo avversario e nulla più. Il mondo spariva, tutto si faceva sbiadito: i colori, i suoni, le sensazioni.
Benny lo colpì una volta e poi un’altra, e giù di combinazioni semplici ed efficaci – sinistro sinistro destro – e ricominciava. Günther non era in grado di difendersi, il sangue prese a scorrergli dal naso e da una vecchia ferita sul labbro superiore, poi finalmente parve riprendersi e si portò i guantoni davanti al volto, alzando la guardia, ma era troppo tardi. Il gong segnò la fine del secondo round e questa volta il vincitore era stato il pugile di Chicago, non c’era bisogno di aspettare i voti dei giudici.
Ben si sedette al suo angolo e Eric La Manna non perse tempo a rimproverarlo, guardandolo dritto negli occhi.
«Sei impazzito, eh? Vuoi farci ammazzare?»
«Ammazzare? Che c’è, hai paura di perdere la tua bella casetta da impiegato mediocre di Chicago?»
«Non me ne fotte niente della casa, Ben. Quelli non scherzano, indosseranno abiti costosi, ma non sono brave persone come non lo erano i mafiosi che avevo alle costole mesi fa.»
Ben alzò gli occhi per studiare i dirigenti della BGG, questi sostennero il suo sguardo, i visi torvi.
«Ben, ehi Ben!» Eric gli afferrò la mascella affinché lo guardasse. «Non ti sto chiedendo di farlo per me, ma per Maria. Ben, le ho chiesto di aspettarti, di rimandare le nozze per te…»
«Che hai fatto?»
«… il bambino è tuo, Ben. Lo so, me lo ha fatto capire. Mantieni i patti, Ben, mantieni i patti per lei.»
Gli occhi scuri del portoricano si indurirono, sembrarono svuotarsi di ogni emozione.
«Che figlio di puttana che sei! Sei un lurido pezzo di merda!» Il ragazzo si alzò, l’arbitro stava invitando i due concorrenti a tornare al centro del ring per l’ultimo round.
«Ben! Ben!» Eric sussurrò il suo nome sperando che il giovane si voltasse almeno a guardarlo, ma questo non lo fece e l’ultima ripresa incominciò.
 
Questa volta Benito Sanchez non attese che il suo avversario facesse la prima mossa, fu lui a prendere l’iniziativa, prendendolo alla sprovvista con un diretto in pieno volto. Il naso dell’altro, giù arrossato, gonfio e medicato alla bell’e meglio con un tampone ficcato su per una narice, riprese a sanguinare.
 
Lui lo sapeva. Eric sapeva che il figlio che Maria portava in grembo era suo e non gli aveva detto nulla. Nulla. Come se non bastasse, gli aveva anche mentito, non una, ma due volte. La prima volta quando non gli aveva detto che era stato da Maria, la seconda quando gli aveva chiesto se sapesse chi fosse il padre di quel bambino.
Era lui.
Lui era il padre.
Lo aveva sempre saputo, così come lo sapeva Maria. Eppure, era disposta a sposare quel cojone di Alejandro per dare a suo figlio una vita dignitosa, permettergli scuole migliori delle loro e una casa con un giardino, lontano dalle strade pericolose e sudice del loro quartiere.
 
Il pubblico era in visibilio per quel giovane pugile portoricano venuto da Chicago, anche chi all’inizio aveva omaggiato l’ingresso del tedesco. Adesso erano tutti con lui, scandendo il suo nome in un unico coro ritmato. In fondo, si finisce sempre per tifare il pesce più piccolo, si spera che almeno una volta il più debole abbia la meglio sul più forte. Che la squadra di football con meno soldi riesca a battere la super titolata del campionato; che il novellino vinca sul pluripremiato campione; che un giovane pugile dai lineamenti ispanici colpisca così forte un lottatore grande, grosso e biondo da mandarlo al tappeto.
Oppure che una giovane neo mamma sposi l’uomo che ami e non il boss della cosca solo per avere una vita più facile.
Girava sempre, tutto, intorno ai soldi.
Ben si fermò di colpo quando l’arbitro si frappose fra lui e Günther. Quest’ultimo aveva il volto che era una maschera di sangue, barcollava all’indietro, tenendosi su gambe non proprio ferme, mentre gli occhi erano fermi su un punto non proprio preciso sopra di loro.
Soldi.
Eric aveva parlato di una cifra che avrebbe sistemato entrambi. Sarebbe potuto tornare a Chicago, nella sua Little Puerto Rico, prendere Maria e andare lontano, in un paesino di campagna, nel Maine magari, aveva sentito parlare di immensi laghi e distese incontaminate di verde.
 Gli sarebbe piaciuto vivere lì…
(«Ben, dannazione! Ci farai ammazzare entrambi!»)
La voce di Eric gli giungeva quasi ovattata, mischiandosi a tutte le altre che ritmicamente intonavano il suo nome.
(«Pensa a Maria, Ben! Pensa a lei, cazzo!»)
Benito Sanchez sollevò lo sguardo, puntandolo contro il suo avversario, il quale pareva essersi ripreso dallo shock. Gli fece cenno di farsi sotto e quando Günther avanzò verso di lui, restando in piedi per miracolo, lo colpì così forte da farlo vacillare all’indietro, ma Ben incassò il pugno e aprì la bocca per sorridergli. Ne uscì un ghigno spaventoso. Il tedesco continuò a picchiarlo, nella foga a volta mancava il bersaglio, ma non si fermò e Ben lo lasciò fare: era un buon incassatore, lo era sempre stato, il dolore non lo spaventava, poteva sopportarlo.
Günther era una maschera di sangue e anche il portoricano lo stava diventando. Non riusciva più a pensare, era in trance agonistica, l’adrenalina era così tanta che non avvertiva neanche più il dolore per i tanti colpi subiti. Ben si era trasformato in una specie di fantoccio da poter prendere a pugni come meglio credeva, e non si fermò neppure quando cadde disteso sul ring, ormai privo di sensi. Günther gli fu cavalcioni in un secondo, continuando a colpirlo alla testa, all’addome, al volto. L’arbitro lo tirò via di peso, mentre Eric era praticamente saltato sul ring cercando di coprire Ben con il suo corpo.
«Ben, ehi, Benny!» Ma quest’ultimo non rispose, i respiri rochi uscivano a fatica dalla gola. Eric sentiva le lacrime bagnargli il viso, quel giovane si era fatto letteralmente pestare a morte, il suo volto era irriconoscibile. D’istinto glielo ripulì dal sangue con la manica del vestito buono, continuando a sussurrargli che gli dispiaceva, gli dispiaceva tantissimo.
Intanto l’arbitro aveva afferrato Günther per un polso alzandogli il braccio al cielo per incoronarlo vincitore; il pubblico tutt’intorno lo stava sommergendo di fischi e insulti vari.
 
L’agente Eric La Manna tenne lo sguardo dritto verso i dirigenti della Boxe Golden Gloves, fissandoli senza smettere, mentre sorreggeva fra le braccia il capo del suo assistito, simile a una principessa con il proprio amato. I tre uomini in giacca e cravatta erano in piedi ad applaudire il loro pupillo, nessuno sorrideva…


 
 
 
 

Ciao Lettori!
La storia termina qui... adesso attendiamo il responso finale del giudice Ghostro per capire la fine che spetta ai personaggi...
Grazie a chiunque abbia letto e recensito, ve ne sono grata,
Nina^^

 

 
 


Segue ipotesi di finale:


Nonostante l’agio ottenuto e Maria di nuovo al suo fianco, Ben non perdonerà mai Eric. Aver assaggiato per quelle poche ma intense settimane il brivido della ribalta, il calore di un sogno, dopo aver passato ventidue anni di meschine parole di disprezzo, invidia, o piatta saggezza, ha lasciato sulle sue labbra un amaro che l’amore e la quotidianità non possono liberare. Persino la nuova vita, i doveri di padre, quel magnifico luogo di paradiso fuori dalla città, da sogno di tramuterà ben presto in catene. Aveva riconquistato Maria, ma il brivido dell’euforia ben presto si è macchiato nella consapevolezza della sporcizia e la polvere che giace sotto quel teatrino di apparente felicità. Per riaverla aveva dovuto vendere l’anima al diavolo, diventare un cojone come Alejandro: uno scarto di uomo che ha comprato ciò che ha. Una falsa stabilità, il dubbio onnipresente che, per qualsiasi motivo, per un litigio più intenso, o per un capriccio, lei possa fuggire di nuovo. Non vuole dare ragione a Eric, odia ciò che ha fatto. Ma persino una volontà ferrea come la sua, un amore nonostante tutto vero come il suo, può essere erosa del rimpianto e vecchie ruggini che non sono mai state lavate del tutto.
All’improvviso alcol diventa il miglior amico e il peggior nemico…
Al funerale di Ben, Eric è distrutto. Ha ottenuto tutto ciò che aveva perso: rispetto, soldi, la vita che aveva sempre desiderato ottenere. Non aveva mai capito quanto alto era stato il prezzo della sua felicità. Vedere Ben, per caso mesi prima, trascinarsi ubriaco sul ciglio della strada. Sentire il suo alito puzzolente mentre lo caricava in taxi. La storia si era ripetuta e non se n’era nemmeno accorto. Adesso era lui il carnefice. Adesso era lui che aveva ridotto quel povero, magro ragazzo, nella parodia di sé stesso.
Avrebbe potuto essere qualcuno, avrebbero potuto essere qualcuno.
Perché i soldi, per quanto appetibili, non danno la felicità. E all’improvviso capisci cos’è che davvero ti aveva spinto a sopravvivere finora: sognare, e avere un amico con cui instaurare quella complicità che dura una vita. Una vera, sincera.
Quel giorno Eric non aveva perso solo un amico, al prezzo di qualche moneta sonante: aveva perso la grinta. E all’improvviso, anche l’attico più lussuoso della città diventava lurido e solitario come quella vecchia casa diroccata.
E allora, di ritorno dal funerale, quella notte fissa in silenzio la parete spoglia di fronte al divano.
Immaginandola riempita dei trofei e le foto che avrebbero potuto essere. Ma che non ci saranno mai…

  
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