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Autore: Glenda    28/06/2022    2 recensioni
La storia si ambienta in una nazione immaginaria di un paese immaginario, in un tempo non definito, ma in realtà non così diverso da una qualunque luogo in Europa oggi.
Noam Dolbruk, giovane attivista politico, da poco eletto in parlamento, pieno di carisma e buone intenzioni ma originario di una terra piena di conflitti, ha ricevuto una serie di minacce che lo hanno costretto a essere messo sotto protezione. Adrian Vesna, l'uomo che gli fa da guardia del corpo, ha un passato che gli pesa sulle spalle e nessun desiderio di inciampare in rapporti complicati. Ma con un uomo come Noam i rapporti non possono non complicarsi, e non solo per via del suo carattere bizzarro, quanto per gli scheletri dentro il suo armadio.
Questa non è una storia di eventi ma di relazioni: è la storia dell'incontro e dello scontro tra due diversi dolori, ed anche la storia di un'amicizia profonda, con qualche tono bromance. Ci sono tematiche politiche anche impegnative ma trattate in modo non scientifico, servono solo come sfondo alle dinamiche interpersonali.
(Storia interamente originale, ma già circolata in rete, che ripubblico qui per amore dei personaggi e piacere di condividerla con altri lettori)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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AVVISO ai miei 25 lettori (no, un po’ meno, non ho le pretese di Manzoni): è estate! (Urrà) Si va in vacanza sperabilmente dove internet prende meno possibile e il mondo è disconnesso… quindi gli aggiornamenti estivi saranno molto diradati. Ciao a tutti!

 

 

Superato il valico, la strada scendeva lungo un versante che si apriva sull’altopiano, rendendo visibile, in distanza, il profilo della città.

Noam prese un lungo respiro sprofondando nel sedile, la testa lasciata andare all’indietro.

Sund rork…” esclamò “Mòrask!”

Adrian aveva già sentito pronunciare quell’esclamazione da Vòrkne, quando aveva riconosciuto l’ospite sulla porta.

“Che significa?”

“Oh, scusa.” Noam ritrovò il suo sorriso ineffabile “Sund rork è un intercalare comune, ma suppongo sia intraducibile. Sta un po’ tra l’essere sorpreso nel suo lato piacevole e l’ansia di quella sorpresa, non so se mi spiego. Tipo quando ti selezionano per un concorso ma poi la dimostrazione vera è ancora tutta da dare. Abbiamo un sacco di espressioni intraducibili: sono quelle che mi piacciono di più. Beh, suppongo sia così per qualsiasi altra lingua, in verità, perché diverse comunità sviluppano modi diversi di definire le cose: non diversi sentimenti, quelli immagino siano universali, ma diversi modi di percepirli e quindi di dirli. Sai, il mio nome è anche lui una di queste parole che perdono un sacco nel passaggio da una lingua ad un’altra: dol bruk significa qualcosa come ritornare a casa, ma non casa intesa come famiglia né come comunità… è più la sensazione di entrare in un posto quotidiano, che ti dà benessere, in cui stai comodo: per farla facile, quella sensazione di quando apri la porta di casa e dietro ci trovi il gatto. È una parola bellissima, ed io la amo!”

“Mi piace sentirle parlare in dialetto.” confessò “Lei mette qualcosa di morbido dentro parole stridenti. Viene voglia di starla a ascoltare, sa? Anche alle tre del mattino… ”

Non voleva nascondergli di aver origliato la sua conversazione con Vòrkne. Del resto, non aveva capito una parola e Noam lo sapeva.

“Si dice lingua dar-breuk, per carità!” scherzò, con un punto esclamativo volutamente esagerato “Se ti sentono chiamarla dialetto sei un uomo morto! E comunque: se stanotte ti fossi unito a noi avrei tradotto per te.”

“Oh, ne sono certo. Lei è un uomo educato. Ma avrei interrotto la vostra conversazione, che, di fatto, non aveva nulla a che fare col mio lavoro. Dico bene?”

Noam diede in un’ariosa risata.

“Non avresti dovuto accettarlo, questo lavoro… ” cantilenò, con ben altra leggerezza rispetto al giorno precedente “Però sono felice che lo abbia accettato, perché tu mi fai sentire solido. Ti dimostrerò la mia gratitudine svelandoti lati di Mòrask di cui neppure gli autoctoni immaginano la bellezza! Ti va?”

Adrian aveva conosciuto molte persone brave a lusingare, persone che sapevano fare il commento giusto nel momento giusto, fare leva sul dettaglio giusto, trovare l’espressione giusta, ma quell’affermazione lì – tu mi fai sentire solido – buttata in mezzo al discorso quasi come un inciso o una parentesi trascurabile, era veramente un complimento grandioso. Impegnativo, ma grandioso.

“Mi va. Purché lei non mi renda troppo scomodo guardarle le spalle mentre fa da guida turistica.”

“Giuro sulla mia testa.”

“No, per favore. La tenga al sicuro, la sua testa: ne va della mia reputazione!”

Il sole era sfacciatamente brillante e l’abitacolo dell’auto si stava scaldando. La città era ormai a due passi: l’atmosfera aspra e cupamente verde delle montagne, il silenzio immobile e l’intrinseco senso di insicurezza di quelle strade nodose (reti di metallo a contenere intere pareti di roccia, coi cartelli sbiaditi “pericolo di frana”) avevano fatto posto a un paesaggio ben più urbanizzato, per quanto con un sentore di trascuratezza diffuso: centri abitati periferici, la cui vita gravitava intorno a quella di Mòrask, qualche borgo dalle caratteristiche architettoniche antiche, forse meta turistica, alcune zone industriali e molto spazio vuoto, cantieri lasciati a metà, ampie distese di terreno, forse coltivato forse no. Passandoci proprio sotto, ad Adrian non sfuggì l’insegna sul grosso complesso che si trovò sulla sinistra non appena la pendenza si fu completamente esaurita: “Òraviy e soci”.

“Mm… non pensavo che avesse filiali anche qui.” commentò.

“Chi?”

“Il gruppo Òraviy.” sondò il terreno per vedere quanto Noam ne sapesse “L’azienda di famiglia del segretario di Kàrkoviy.”

“Ah, beh.” constatò Noam, con scarso interesse “Negli ultimi cinquant’anni aziende come quella sono spuntate come funghi in tutto il Dàrbrand, con un certo fastidio da parte della popolazione montana, che però si è appellata al protocollo di tutela ambientale per fare in modo che non si potesse costruisse sopra una certa altitudine. Insomma, come non si può produrre il liquore di Artemisia, non si possono nemmeno estrarre metalli rari dai Mor-Darèuk: ragionevole, no?” e gli strizzò l’occhio.

“Metalli rari, eh?”

“Sì. Dal punto di vista geologico il Dàrbrand ne è piuttosto ricco, è secondo solo alla regione del Thierrand, dunque la repubblica del Kònorrand, a livello teorico, ha avuto tutto da guadagnare dall’annessione. A livello teorico. Nei fatti, non è così. Questa è solo retorica del separatismo, va riconosciuto, perché la verità è che nessuno ci guadagna nulla, tranne chi le industrie già le possiede. Non è una questione di governo, ma di capitale, e le due cose, anche se non sempre è facile pensarlo, sono – o dovrebbero essere – entità con interessi piuttosto diversi. È vero che il denaro influenza le scelte politiche, nella stupida speranza che quel denaro incrementi la ricchezza dell’intera nazione. Come si dice? Mettere in moto l’economia. Ma questa è una…”

“Paraculata.”

Noam scoppiò a ridere.

“Non era la parola che stavo per dire, ma sì!”

“E che parola stava per dire?”

“Oh. Stavo per dire una storia vecchia. Quanto l’umanità, o, almeno, quanto la prima industrializzazione. È dalla costruzione del primo telaio che una manciata di padroni detta legge sugli altri sbandierando lo slogan della produttività e dell’offrire lavoro (che poi offrire non è per niente un termine adatto, secondo me: fa di una necessità una specie di concessione). Se un qualsiasi governo cerca di imporgli delle regole – ossia cerca di impedire a questa gente di fare sempre e assolutamente ciò che gli pare - la risposta è sempre la stessa: porteremo le nostre fabbriche altrove. Apriti cielo: quasi che la prospettiva fosse la fine del mondo. Ma non lo è. Che vuoi che gliene importi dell’incremento del prodotto interno di una nazione a coloro che, pur cittadini di quella nazione, non vedono nulla di quel prodotto? Magari la soluzione a molti problemi non è produrre all’infinito inseguendo il miraggio di una crescita di cui, francamente, il tornaconto in termini di felicità individuale non si è ancora visto. Magari la soluzione è de-crescere. Magari è dare valore al tempo anziché farlo diventare denaro. Magari l’ambizione giusta non è guadagnare di più, ma lavorare di meno.”

Ecco un tipico esempio dei discorsi con cui si è guadagnato il suo calzante soprannome, pensò Adrian. Un discorso che partiva concreto, persino con qualche luogo comune, e poi sconfinava in roba più più vaga, che tuttavia aveva molto di intimo e di personale. Spesso – se ne era accorto riascoltando, in retrospettiva, tanti suoi interventi pubblici – non erano le cose che diceva a colpire nel segno, ma il modo in cui le diceva: con un investimento emotivo evidente che però non comportava l’alzare la voce, con una convinzione che però non diventava retorica: sembrava sempre che stesse parlando con qualcuno seduto al bar al suo stesso tavolino, qualcuno a cui voleva onestamente trasmettere un pensiero ma che non aveva alcun bisogno di persuadere. Alcuna pretesa di persuadere.

“Scusa. Questo sembrava un comizio. Che rompiballe devo essere!”

“Affatto.”

“Comunque mi piacerebbe davvero vivere in un mondo in cui tutti hanno un sacco di tempo libero. Tempo per fare e anche per non fare. Tempo per le cose belle.”

“Le cose belle vanno sapute coltivare anche quando il tempo non c’è. O peggio, quando le circostanze non ci sono. Ma dal mio punto di vista trovo che lei ci riesca piuttosto bene.”

Lo pensava davvero.

“Quindi Segùr è figlio di questa gente qua…” riprese Noam, accennando ad un’altra fila di capannoni e fabbriche, che però esibivano loghi di aziende diverse “Buon per lui. O magari no.”

Possibile che non avesse fatto il collegamento prima d’ora? Incredibile ma, ohimè, probabile.

“Bene la fiducia incondizionata nel prossimo, ma da un uomo che accetta la candidatura nelle fila di un partito mi aspetterei almeno che avesse un’idea, seppur vaga, delle persone con cui collabora.” gli fece presente, con educata schiettezza “E degli interessi con cui ha a che fare, soprattutto. È una buona misura di prudenza: una misura politica, direi.”

“… Che però rende la politica più difficile. Si fanno meno compromessi coi pregiudizi, e io vorrei poter dire che ai pregiudizi sono immune, ma non è così.”

Guardò fuori dal finestrino, come a cercare nel paesaggio che gli scorreva accanto un altro interlocutore. O una conferma. O una smentita.

“Tutti hanno pregiudizi verso la gente del Dàrbrand, e la gente del Dàrbrand ha pregiudizi verso tutti. Se nessuno abbassa la guardia per primo siamo fregati.”

Uno sbiadito cartello stradale, bilingue, annunciò “Benvenuti a Mòrask”.

L’orologio sul cruscotto segnava mezzogiorno e pochi minuti.

“Penso che possiamo iniziare a pensare a dove fermarci.” disse Adrian “Immagino che, prima di affrontare i suoi numerosi appuntamenti, lei voglia almeno smontare il bagaglio.”

Avevano concordato di lasciare il più ampio margine all’improvvisazione e quella misura di prudenza era piaciuta a Noam fin da subito, così come l’idea di ridurre al minimo i contatti con lo staff: i loro telefoni erano rimasti spenti per tutta la durata del viaggio, con buona pace di Kàrkoviy che non ne aveva gioito.

“Vero.” fece Noam lottando con la cintura di sicurezza per estrarre il cellulare dalla tasca dei pantaloni “E visto che mi hanno affibbiato una trasferta ad alto rischio abuserò della mia posizione per avere una finestra aperta sulla mia piazza preferita!” spippolò velocemente sul telefono in cerca dell’hotel che aveva in mente “Eh, i benefici di una carica pubblica! A vent’anni guardavo gli edifici affacciati su piazza Xolk pensando a quanto costassero al metro quadrato, e adesso prenoto una camera all’Universale. È straniante, sai?”

Scherzava, ciarliero e entusiasta come nei suoi momenti migliori: le ombre del giorno precedente sembravano proprio essersi dileguate, come il temporale inaspettato che aveva lavato il cielo.

“Piazza Xolk è piena di respiro: il mio piccolo orizzonte personale. E poi ci sono dei lampioni che sembrano rimasti in piedi dal secolo scorso e che quando c’è nebbia tingono tutto di rosa: in certe sere creano un’atmosfera surreale. Ma non credo troveremo nebbia: a scapito di ogni mia previsione, la primavera è arrivata presto anche qui!”

Compose il numero dell’albergo, prenotò, come da piano, a nome di Adrian, e poi, nel giro di pochi minuti, venne sommerso dalle notifiche e dovette rispondere ad una serie infinita di telefonate.

 

***

 

L’ultima volta che si era trovato in una situazione così bizzarra era appena un ragazzo, il suo primo incarico per l’agenzia: vestito con gli stessi abiti e lo stesso trucco da idiota di un attorucolo di vent’anni che spopolava nelle fiction per adolescenti. Aveva un paio di stalker che lo spaventavano, anzi, no, a ricordare bene spaventavano sua madre, una donna invadente e improbabile, e lui era stato messo lì, a fare da diversivo. Umiliante, ma ben retribuito. Ai tempi aveva giudicato quel ragazzetto un imbecille patentato: oggi, a più di dieci anni di distanza, lo rivedeva con gli occhi della mente e gli faceva quasi pena, così intrappolato nella rete della popolarità, con due genitori che succhiavano da lui come vampiri un po’ di fama riflessa, e tanta, tanta confusione nella testa, confusione tra ciò che voleva essere e ciò che gli veniva chiesto di essere, tra se stesso e il personaggio che interpretava, con una paura che se lo divorava ogni giorno, tra minacce e lettere d’amore, assalti di fan e cattiverie.

Era strano come si fosse ritrovato a pensare a lui – come diavolo si chiamava? Lo aveva dimenticato - mentre usciva dall’Hotel Universale pochi minuti prima di Noam e si dirigeva – con addosso lo stesso cappotto, la stessa iconica sciarpetta a righe e la coppola di lana perfettamente giustificata dal clima di Mòrask – in una direzione diversa da quella che avrebbe percorso il suo cliente solo pochi minuti dopo.

Per una volta, era stato Adrian a prediligere l’opportunità di separarsi: a Noam, che si muoveva in una città che conosceva meglio delle proprie tasche, una guardia del corpo alle calcagna non era altrettanto utile quanto un perfetto imitatore capace di confondere le idee a chiunque avesse voluto sapere esattamente chi si trovasse dove. E poi, nessuna informazione a nessuno, ogni notte un albergo diverso, e un programma concordato praticamente un giorno per l’altro.

Quel pomeriggio avrebbe incontrato di persona Lant Màrna, che si era prestato al gioco con ottimo spirito e lo aveva invitato amichevolmente a casa propria, rivelandosi più elastico di quanto entrambi si fossero immaginati.

Ciò nonostante, non poteva negare a se stesso che quei brevi tragitti in cui Noam avrebbe dovuto spostarsi da solo gli erano causa di una certa tensione. Non si trattava solo di timori razionali, era più una questione di atmosfera – di pregiudizi, forse, gli stessi dai quali anche lui non era immune – che permeava quella città, all’apparenza quieta, fin troppo “educata”, quasi esteticamente opposta alle caratteristiche con cui venivano dipinti i suoi abitanti, ma di fatto sfuggente, come se la vera Mòrask non fosse visibile, come se ci fosse un’altra città sepolta sotto le sue fondamenta. Probabilmente era la sua visione da “straniero” a confonderlo: ciascun luogo poteva essere conosciuto solo vivendoci dentro, non passandoci attraverso con gli occhi di un turista o di un lavoratore in trasferta. Ma conoscere quella città – quella invisibile e sommersa - forse significava anche conoscere Noam.

Vagò a piedi per circa il tempo che lui avrebbe impiegato per arrivare a destinazione, convergendo poi nel medesimo luogo in modo da ripetere lo stesso gioco al ritorno, ma quando raggiunse la meta si trovò di fronte una sorpresa che non gli fece piacere: seduta sotto una pensilina del tram, dall’altro lato del viale su cui si affacciava l’abitazione del professor Màrna, con le gambe accavallate e un falso sguardo al cellulare che teneva in mano – l’attenzione altrove, tutto intorno a sé – c’era Karìma Mirèl, bella e disinvolta in un’infantile minigonna scozzese, come una studentessa svogliata che aspetta chissà chi.

Si sottrasse al suo campo visivo e si diresse verso di lei: la giornalista si accorse della sua presenza solo quando il tram stridette sulle rotaie e lui, mentre una piccola folla scendeva e qualche maleducato spintonava per salire, si sedette al suo fianco.

“Immagino che sia qui per via del suo lavoro, signorina. Io, purtroppo, invece, per metterle i bastoni fra le ruote. Lo sa, vero?”

Dopo un primo sussulto, che però si impegnò per celare, lei diede in un ampio sorriso.

“Adrian Vesna! Che piacere vederla! Certo che lei ha la dolcezza di uno yogurt scaduto: poteva almeno salutarmi, o chiedermi come sto, dato che l’ultima volta che ci siamo visti mi ha scaricata in mezzo ad una strada! I convenevoli fanno sempre piacere, anche quando sono falsi!”

Aveva labbra tinte di un rosso opaco e occhi scuri e affilati, da gatto, con lunghe ciglia curve; si scoprì di nuovo a pensare che fosse una donna bellissima, di quelle bellezze che fingono di non essere tali: bellezze insidiose. C’era qualcosa che la rendeva simile a Noam, pur se lei era tanto terrestre quanto lui era aereo: entrambi erano persone che si trovavano a proprio agio nell’avere gli sguardi altrui addosso, entrambi erano di quella razza che amava fare luce. Lui, invece, era cresciuto nell’ombra degli altri, aveva imparato a nascondersi in quell’ombra e, quando era stato abbastanza forte da venirne fuori, di quell’ombra aveva fatto un mestiere.

“So essere un maestro di convenevoli, ma mi è più utile essere diretto, dunque lo sarò: la sua presenza qui per me è un problema, perciò sloggi.” abbozzò un sorriso artificioso “per cortesia.

A quella frase, Karìma rise con franchezza: “Vede che invece è spiritoso? Facciamo così: mi tolgo subito dai piedi, se lei mi accompagna per pochi minuti. Facciamo due chiacchiere: scommetto che le cose che ho da raccontarle le saranno molto più utili di quanto potrebbero essere a me le poche che vorrei sapere da lei! Le proporrei un caffè, ma mi rendo conto che non è in vena… ”

“Sto lavorando.”

“Anche io.”

“Ma dal suo lavoro non dipende la sicurezza di nessuno. Semmai il contrario.”

“Ecco, appunto. Mi spieghi di più, per fare in modo che io possa evitare di far danni. Le giuro che mettere in pericolo qualcuno è l’ultimo dei miei interessi, specie se si tratta di uno così carino come il signor Dol…”

Adrian la interruppe fulminandola con uno sguardo, poi le afferrò il braccio e la forzò ad alzarsi con scarsa delicatezza.

“Va bene, va bene. Ma togliamoci di qui ed evitiamo di fare nomi.” sospirò “Non capisco se lei è stupida o lo fa apposta.”

Entrambe le cose, forse.

“Per la miseria, lei è veramente la negazione della galanteria!”

 

***

 

Contro ogni previsione, accettò quel caffè.

Parlare in strada non gli era sembrato opportuno, troppe orecchie in giro, troppi sguardi da sorvegliare: a pochi metri dalla pensilina, all’angolo di due strade, c’era un baracchino arrangiato – assolutamente fuori luogo in quel quartiere elegante – con un tavolino di plastica e persino un ombrellone aperto a riparare da raggi inesistenti di un sole appannato di marzo, mentre un vento gelido sembrava volerlo buttare giù senza mai riuscirci. Il gestore era intento a seguire una partita sullo schermo di un telefonino: il suo repertorio offriva panini strabordanti di salse, dolcetti da prima colazione che nessuno quel mattino aveva comprato e una macchinetta da caffè casalingo; li accolse parlando darbrandese stretto e Adrian si fece capire quasi a gesti. Non riusciva a credere che a Mòrask ci fosse gente che non conosceva la lingua ufficiale, eppure Noam glielo aveva detto: uno dei principali problemi che sperava potesse essere risolto da una parziale autonomia riguardava proprio la scelta della lingua d’istruzione; la legislazione vigente imponeva infatti a molti bambini cresciuti parlando solo lingua dar-breuk di imparare a leggere e scrivere in una lingua diversa: la cosa non era frequente a Mòrask, dove ormai quasi ogni famiglia era bilingue, ma sulle montagne il problema era reale.

“Che poi io ritengo che imparare la lingua Vàrnava sia fondamentale per muoversi nel mondo, ed è pure una lingua tanto bella!” (c’era qualcosa in cui Noam non trovasse del bello?) “Ma tutti la studierebbero più volentieri se la sentissero come un arricchimento e non come una privazione!” (il solito conciliatore, che forse si illudeva, ma magari no… )

Di fronte a due bicchieri di plastica, in una posizione che gli permetteva di vedere benissimo il portone della casa di Màrna, e sotto gli occhi distratti di un ometto che forse non capiva nemmeno bene la loro lingua, Adrian si sentiva piuttosto tranquillo.

Nascosto in bella vista, per usare un luogo comune.

“Senza cattiveria, signorina Mirèl,” (ma in realtà un poca sì) “Mi sono documentato sulla rivista per cui lavora, e, francamente, che lei scriva storie acchiappa-pubblico sul mio cliente non mi riguarda. Magari è un fastidio per lui, ma questo è un problema suo o, al massimo, della dirigenza del partito e di chi ne cura la propaganda. Il mio problema è che mi sto occupando della sicurezza di un uomo che ha ricevuto delle minacce, e la presenza di una giornalista curiosa tra i piedi mi rende il lavoro più complesso. Esistono le conferenze stampa, esistono i talk show, esistono le tribune politiche per sciacallare: pedinare un uomo invece è stalking.”

La donna sorrise con un solo lato della bocca.

“Non tutti hanno facile accesso alle tribune politiche e affini, signor Vesna. E comunque io non scrivo di politica: io scrivo storie di gente. Io curioso nella vita segreta dei personaggi pubblici.”

Era il suo modo più elegante per ammettere che un inviato di “Scheletri nell’armadio” non sarebbe mai stato invitato ad una conferenza stampa con un minimo di serietà!

“Perché, allora, invece di fare informazione non ha scelto di scrivere romanzi?”

Il volto di Karìma si adombrò, fino a risultare persino serio.

“Quanti romanzieri conosce che campano del proprio lavoro? Deve aver visto un bel mondo, lei!”

“Mi scusi. Non intendevo fare i conti in tasca a nessuno.”

“Bene. Meno male che un minimo di educazione le è rimasta.”

Si era sinceramente rabbuiata: Adrian la trovò una reazione eccessiva e per un momento si domandò cosa ci fosse sotto; ma non era lì per darsi a congetture di psicologia.

“Allora, che cosa c’è di così importante che crede di dovermi dire?”

“Eh no, prima lei.” lo fissò con i suoi due occhi color caffè tornati d’un tratto di buon umore. “È vero che Noam Dolbruk non voleva saperne di essere scortato? E come mai ha cambiato idea?”

Per la miseria, le interessavano davvero i dettagli “romanzeschi” della vita del suo cliente! Adrian appuntò mentalmente di non acquistare mai e poi mai un numero di “Scheletri nell’armadio”, ma al tempo stesso catalogò per la seconda volta quella donna nello settore dei “fastidiosi-non-pericolosi”.

“Dovrebbe chiederlo a lui e sono sicuro che la incanterebbe con una serie di bellissime frasi adatte ad essere trascritte pari pari come sono, senza correggergli una virgola… per poi arrivare a non darle la risposte che vuole.”

“Infatti l’ho chiesto a lei.”

“Pensa che io sia capace di entrare nella testa del mio cliente?”

(Magari. Magari.)

“No. Credo solo che lei veda cose che altri non vedono. Si capisce da come osserva. E da un paio di altre cose, come, per esempio, il sapere quando è il momento di scaricare una donna in mezzo ad una strada perché ha toccato il tasto sbagliato… e sono pronta a scommettere che lei non sa – o almeno non sapeva, quella sera - un accidente della storia del Nòdoask.”

Bel colpo. Forse doveva analizzarla ancora un po’ prima di collocarla tra i non pericolosi.

“Allora?” incalzò lei, sorriso smagliante e provocatorio “Non prova a darmi almeno la sua interpretazione?”

La sua interpretazione.

Ne aveva formulata una? Ma sì, lo aveva fatto. Solo che non l’aveva mai verbalizzata.

Voleva parlarne con quella donna? Perché no: poteva essere un buon sistema per studiarla.

“Credo che il signor Dolbruk non trovi spaventosa l’idea di aver ricevuto una minaccia. Al contrario, credo che lo faccia sentire un po’ più in pace con se stesso.”

Karìma smise di sorridere e gli rivolse tutta la sua attenzione.

“Ci pensi. È nato e cresciuto in un paese dove la presenza del terrorismo è diventata abitudine, ma ha deciso di trasferirsi a Noravàl, dove impegnarsi in politica non è come giocare alla roulette russa e dove la sicurezza delle propria persona viene data per scontata. Io suppongo che, a prescindere dal caso specifico, quando un uomo lascia il paese da cui proviene per andare a star meglio, per forza di cose provi qualche senso di colpa. Sentirsi in pericolo è l’alibi del signor Dolbruk per non averne.”

“Wow.”

(Atona, senza né entusiasmo né sarcasmo.)

“Wow che?”

“Lei è psicologo?”

“No. Mi prende per i fondelli?”

“Per niente. Mi piace questa espressione: alibi contro i sensi di colpa. Posso segnarmela?”

Estrasse un quadernetto con sagome ridicole di gatti grassi e prese appunti. Era uno scherzo o cosa…?

“Ma che cazzo…?”

“Ah, bene bene… esiste qualcosa che la innervosisce, allora. O che almeno le fa arricciare le sopracciglia! Evviva, quell’espressione le dona!”

“Si può sapere a lei che importa? Ho risposto alla sua domanda. Ora mi dica quel che pensa di dovermi dire e facciamola breve.”

Era a disagio, e non era solito che qualcuno riuscisse a farlo sentire così: era forse per via del modo in cui lei lo guardava? Per il sospetto di essere preso in giro? Perché sentiva che gli sfuggivano dei dettagli (di nuovo)? O solo, semplicemente, perché una donna bellissima stava flirtando con lui?

Karìma strappò un foglio dal suo quadernetto: ci scrisse su un indirizzo web.

“FDL: Fronte per il Dar-breuk Libero. Amichevolmente Il Fronte. Mai sentito nominare? È una specie di gruppo filo separatista: nel Dàrbrand ne esistono parecchi, ma questo è di gran lunga il più sostenuto. È gente che agisce in clandestinità, ma una decina di anni fa hanno promosso una serie di proteste e di boicottaggi alla luce del sole (in genere pacifici, anche se questo non è bastato a dissipare il sospetto che tra loro militino anche terroristi o filo terroristi). Poi sono tornati nell’ombra, anche se sono parecchio attivi sul web. L’indirizzo che le ho dato è quello di un blog molto popolare affiliato a loro: articoli in realtà innocenti, ma che forse, per gli addetti ai lavori, dicono più di quel che c’è. Il blog infatti viene oscurato puntualmente un mese sì e l’altro anche ed ogni volta riappare in una nuova veste. Non che le autorità preposte si siano mai prese la briga di perderci troppo tempo, altrimenti avrebbero dovuto ammettere di star effettuando un’operazione di censura… e la libertà d’espressione è un diritto, no?” gli strizzò l’occhio, ma rimanendo seria “Io lavorerò pure per stampa spazzatura, signor Vesna, ma so fare le mie ricerche, e sono riuscita a risalire all’identità di alcuni dei blogger più attivi. Di uno, in particolare: Thièl Dolbruk, 30 anni, nato a Mòrask; ha avuto qualche problemuccio con le forze dell’ordine quattro o cinque anni fa, per aver partecipato a manifestazioni violente, poi pare abbia messo la testa a posto. Salvo l’essere diventato uno degli ideologi di punta di FDL.”

Ripose il suo assurdo quaderno da scuola materna nella borsa e sfoggiò di nuovo il suo rosso sorriso di trionfo.

“E poi non mi dica che questa non è una storia interessante.”

Adrian rimase per un attimo stordito, con quel foglio volante tra le dita che pesava come piombo.

“Dolbruk è un cognome darbrandese piuttosto comune.”

(Ma il nome Thièl no, e lui lo aveva sentito pronunciare appena la notte precedente.)

“Ma sì, ovvio. Per questo vorrei incontrarlo: per mettere insieme un po’ di pezzi. Peccato che la sua ultima residenza risalga a qualche anno fa e non sia mai stata aggiornata. Magari potremmo chiedere allo sfuggente Noam se lo conosce… ma anche in un caso del genere mi incanterebbe con una serie di bellissime frasi per poi arrivare a non darmi la risposte che voglio, giusto?”

“Perché condivide queste informazioni con me?”

Non lo stava facendo gratis, non era possibile. Trovava forse eccitante provare metterlo in difficoltà? Sembrava, in effetti, assolutamente appagata di quel giochetto.

“Perché non dovrei?” fece, di rimando, puntandogli gli occhi negli occhi.

Adrian scosse la testa, si alzò.

“Io non capisco. Si annoia, forse? Spera che io approfondisca la questione per lei? Non è il mio ruolo. I fatti privati del mio cliente, sono i fatti privati del mio cliente: se colui che mi paga per proteggerlo non li condivide con me, il problema non è mio.”

“Ma non è lui che la paga per essere protetto, no?” Dio, quella donna era peggio di un cane che non molla l’osso! “E comunque il signor… emh, il suo cliente è piuttosto pazzo a non condividere certi dettagli…”

Continuava a provocare, voleva fargli perdere la pazienza… Maledizione: si stava divertendo, e lui non aveva intenzione di essere l’intrattenimento di una matta in cerca di sfide.

“Buona giornata, signorina Mirèl. Come da accordi spero di non rivederla in giro.”

 

  
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