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Autore: Bali2607    28/06/2022    1 recensioni
Scosto la pesante tenda in velluto e mi si para davanti il teatro, deserto. Muovo cauti passi attraverso l’imponente stanza ma, per quanto mi sforzi di essere silenziosa, è come se rimbombassero, come se stessi in qualche modo turbando una quiete a cui non mi era consentito assistere.
I primi spettatori cominceranno ad arrivare fra poco più di un’ora, ho ancora tempo. Questo è in assoluto il momento della giornata che preferisco: rimanere sola a tu per tu con questa enorme sala, le cui sole pareti e il pavimento sembrano trasudare arte.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Pisa, primavera del 2018
 
 
“Ciao Giulia!” l’allegro saluto mi accoglie prima ancora che sia riuscita a richiudermi la porta alle spalle. 
“Buonasera, Andrea” rispondo con un grande sorriso, sistemandomi i capelli spettinati dalle folate di vento primaverile, “Certo che questo tempo non è proprio l’ideale per costringere qualcuno a uscire di casa”.
“Sai come si dice, marzo pazzerello” mi fa l’occhiolino lui, continuando a spazzare con cura il pavimento “Come è andata la giornata piuttosto?” 
“Al solito, ho fatto i salti mortali per finire la presentazione da consegnare lunedì, passare a trovare mamma e arrivare qui in tempo”
“È il sapere che là fuori esistono ancora ragazzi come te a darmi fiducia nelle nuove generazioni, non molta, intendiamoci”, scherza Andrea cercando di tirarmi un po’ su. “A volte però dovresti permetterti anche di riposare, non è un crimine sai?” 
“Cercherò di ricordarmelo” replico, schioccandogli un bacio sulla guancia prima di correre verso lo spogliatoio, “vado a cambiarmi, a dopo!”
 
Appena entro nel piccolo locale, i miei piedi si dirigono automaticamente verso l’armadietto che occupo da ormai ben tre anni. È praticamente mio di diritto, potrei quasi dire di esservi un po’ affezionata, tant’è che vi ho appeso sopra alcuni sticker delle mie band preferite e una piccola polaroid che mi ritrae insieme ad alcuni colleghi. Partendo da sinistra ci sono Paola, dipendente storica del Teatro Verdi e mamma di due pestiferi gemellini; Fabio, venticinquenne robusto e a prima vista burbero ma appassionato di teatro fino al midollo; Andrea, simpatico ed energico padre di famiglia che si occupa anche della pulizia delle sale prima e dopo gli spettacoli; e infine, sulla destra, una me di un annetto più giovane che cerca di non mostrarsi a disagio e sorridere. 
Dopo avere dato un’ultima fugace occhiata alla fotografia apro l’armadietto ed estraggo soddisfatta la mia divisa da maschera: una semplice camicia bianca, blazer a doppiopetto blu scuro e pantaloni dello stesso colore. Nonostante non si tratti del mio lavoro a tempo pieno, fare la maschera non è affatto male, anche se alla lunga per molti finisce col risultare stancante e ripetitivo. Si trattasse solo di strappare biglietti e indicare a ogni spettatore il suo posto a sedere potrei anche in parte concordare, ma, quando sei a teatro, niente può essere ridotto a un’azione meccanica e priva di sentimento, o almeno io la vedo così. 
È come se ci fosse qualcosa nell’aria e l’atmosfera si facesse di colpo più magica una volta messo piede in questi locali, tanto carichi di storia, dal sapore di tradizioni che si mantengono salde nel tempo, quasi fossero fissate in una dimensione immune al peso degli anni. Se mi dovessero chiedere di darne una definizione, parlerei del teatro come di qualcosa interamente impregnato d’arte.  
Ovviamente non sempre tutto è rose e fiori e non mi sono certo mancate serate no in questi tre anni, eppure non credo mi stancherò mai delle sensazioni che provo ogni volta che mancano solo pochi minuti all’inizio di uno spettacolo: il vociferare del pubblico che si spegne a poco a poco mentre si abbassano le luci, per lasciare spazio all’emozionante silenzio carico di attesa che immancabilmente precede l’apertura del sipario. 
Una volta indossata la divisa, sono ufficialmente pronta per il mio “rituale”, quello con cui sono solita inaugurare quasi ogni serata di lavoro. Esco dallo spogliatoio e mi dirigo, ora con lentezza calcolata, verso la sala principale. Scosto la pesante tenda in velluto e mi si para davanti il teatro, deserto. Muovo cauti passi attraverso l’imponente stanza ma, per quanto mi sforzi di essere silenziosa, è come se rimbombassero, come se stessi in qualche modo turbando una quiete a cui non mi era consentito assistere.
I primi spettatori cominceranno ad arrivare fra poco più di un’ora, ho ancora tempo. Questo è in assoluto il momento della giornata che preferisco: rimanere sola a tu per tu con questa enorme sala, le cui sole pareti e il pavimento sembrano trasudare arte. Amo sedermi in una delle file centrali e rimirare il palcoscenico buio e ancora vuoto, che nella mia mente si anima di colori, musica e battute. Allora chiudo gli occhi ed è come se il sipario si aprisse, facendo entrare gli attori e dando il via allo spettacolo. 
È il piccolo regalo che mi concedo prima di una lunga serata che trascorrerò strappando biglietti e ripetendo la monotona cantilena del “terzo piano, scala a sinistra” ad ogni spettatore che varcherà questa soglia. Riapro gli occhi e mi godo ancora per qualche istante la sensazione di essere dentro a una fiaba creata appositamente per me. Mi alzo a malincuore dalla morbida poltroncina in cui ero sprofondata ed esco lasciandomi il sipario alle spalle, mentre il grande lampadario di cristallo appeso al soffitto proietta dolci riflessi dorati sui miei capelli.
 
Due orette dopo è l’intervallo e, almeno per il momento, posso finalmente smettere di vigilare sull’intera sala. Esco nel grande atrio luminoso e tiro un meritato sospiro di sollievo. Questa sera sono stata assegnata a gestire gli ingressi qui al piano terra assieme a Paola e devo ammettere che lo spettacolo in programma, l’Arlecchino di Goldoni, ha visto una grandissima affluenza: coppie giovani e di mezza età, anziani habitué dall’aria distinta, alcuni soli e altri in compagnia di eleganti signore, tutte incipriate e agghindate in voluminose pellicce; non mancano nemmeno un paio di scolaresche accompagnate dai professori.  
Mentre bevo un bel sorso d’acqua mi perdo a guardare quei ragazzini, poco più che bambini, e non posso evitare di farmi scappare un sorriso. Sembrano così fuori contesto, a metà tra lo sperduto e il disinteressato, come se non sapessero nemmeno come hanno fatto a ritrovarsi qui. Eppure, chi può dirlo, forse tra loro si cela qualcuno che sentirà i brividi a fior di pelle al riaprirsi del sipario, che scoprirà la sua vocazione per il teatro, insomma, qualcuno che non ricorderà questa serata solo come un noioso dovere scolastico.
Ecco che in men che non si dica l’intervallo è già finito. Mi sistemo all’entrata per controllare l’ingresso degli spettatori, ma con la coda dell’occhio vedo un ragazzino paffuto che, pacchetto aperto di popcorn alla mano, supera la fila e si dirige con tutta convinzione in sala, seguito da due amichetti che a loro volta soffocano risatine, credendo di averla fatta franca. Mi scuso con i signori che stanno aspettando ordinatamente il loro turno per entrare e mi lancio all’inseguimento dei marmocchi.  Una volta che li ho raggiunti mi piazzo davanti al primo di loro e, assumendo quella che dovrebbe sembrare una posa autoritaria ma che non so se risulti convincente, attacco con il discorsetto da proferire in queste situazioni. Lo conosco a memoria da quando sono stata assunta, ma ora che ci penso bene è la prima volta che mi capita di usarlo davvero. 
“Mi scusi, è vietato consumare cibo o bevande all’interno della sala, posso chiederle di uscire o buttare la busta?” Senza nemmeno rendermene conto ho dato del Lei a un bambino di quanto, 9 anni? Ridicola, penso fra me e me, davvero ridicola. 
“Consumare?” risponde lui con la bocca piena degnandomi appena di un’occhiata, “ma io sto solo mangiando i miei popcorn”
“Ecco, appunto, intendevo dire è che è vietato mangiare qui dentro” replico incrociando le braccia al petto cercando di darmi un tono. Intanto noto con orrore che dall’ingresso fino a noi si estende una vera e propria scia di popcorn, che il bambino deve aver lasciato cadere a terra tra un boccone e l’altro, manco fosse Pollicino che disseminava briciole sul sentiero per ritrovare la strada di casa. 
“Ah, ok, li finisco subito” prosegue, fissandomi ora con quello che è un perfetto sguardo da gnorri. 
“Senti, per piacere, devi davvero buttarli: sta per iniziare il secondo atto” sbuffo questa volta ormai spazientita. Ciao ciao alle buone maniere, sussurra una vocina nella mia testa, ma non le do ascolto. 
Gli amici alle sue spalle ridono ancora di quelle risatine infantili, probabilmente per loro lo spettacolo è già iniziato e si stanno godendo la scena.  
“Beh, allora se mi sbrigo faccio in tempo a bere anche questo” ribatte questa volta, lasciandomi di stucco mentre estrae dalla tasca sinistra della felpa un cartoncino di succo. 
“Ora basta, finisce qui”, proferisco con decisione. Che io ricordi, sono poche le volte in cui mi sono davvero alterata sul lavoro, ma ora fatico a riconoscere la mia voce talmente è velata dall’irritazione. Senza più indugiare, gli afferro il tanto prezioso sacchetto dalle mani, ma lui non molla la presa, iniziando a tirare verso di sé. In men che non si dica ingaggiamo una battaglia a chi tira più forte e alla fine mi ritrovo sì con la busta in mano, ma svuotata del suo intero contenuto, perché i popcorn mi sono ricaduti tutti addosso, soprattutto in testa, rimanendo persi fra i miei mille, indomabili riccioli.
A quel punto i tre birbanti, ormai rassegnatisi alla triste fine della loro merenda, si danno saggiamente alla fuga, lasciandomi sola per terra a sistemare tutto quel disastro. 
 
“Serve una mano?” la voce che proviene dalle mie spalle mi fa involontariamente sobbalzare.
Mi volto e vedo di fronte a me un ragazzo moro che mi osserva con espressione divertita.
“Perdonami, non volevo disturbarti, ma ho assistito a tutta la scena e ho pensato ti facesse comodo un aiuto”. 
“Ah, si beh, grazie”, appena il tempo di finire la frase ed eccolo chino per terra a ripulire la moquette. Se non stesse accadendo proprio a me, sembrerebbe quasi una scena da film. “Scusami se sono praticamente saltata in aria, ma tutto ciò mi ha abbastanza innervosita”, rompo di nuovo il silenzio, smettendo per un secondo di raccogliere popcorn dal pavimento per sistemarmi i capelli, che ora dovrebbero essere a posto, in una coda alta. 
“Aspetta un secondo”, il ragazzo avanza avvicinandosi al mio viso, così tanto che riesco a distinguere chiaramente che i suoi occhi sono di un verde straordinariamente vivido. Per essere un estraneo, è davvero molto vicino, forse troppo. “Ecco, ti erano rimasti questi due impigliati nei ricci”, si allontana un poco porgendomi altri due popcorn, quei maledetti. 
Mi dirigo al cestino più vicino per buttarli e noto come all’ingresso Paola mi abbia prontamente sostituita: probabilmente anche lei ha visto tutto. La vera domanda dovrebbe essere: chi non lo ha visto? Ora la platea è gremita, devono essere rientrati quasi tutti. 
Come a volermi ricordare la sua presenza, il ragazzo si schiarisce appena la voce: “Serata storta, eh?”
“Diciamo che non sta andando come mi sarei aspettata”, abbozzo un sorriso cercando di apparire cordiale e non una pazza scatenata che si è appena ripulita il corpo da degli snack. 
“Lavori qui da tanto?” mi domanda con inaspettata confidenza.
“Da tre anni, eppure ti garantisco che non mi era mai capitato di trovare qualcuno così, beh, così tenace possiamo dire”. Le parole mi escono con una naturalezza che non avevo previsto.
“C’è sempre una prima volta per ogni cosa. Certe persone non sopportano proprio che gli venga toccato il proprio cibo, sai”, annuisce convinto ostentando serietà, ma facendo trapelare il divertimento dall’angolo della bocca inclinato all’insù. 
Intanto in sala cominciano a calare le luci, segno che il secondo atto sta per cominciare. 
“Vorrei restare ma devo tornare al lavoro” gli spiego sbrigativamente, un po’ delusa di dover già porre fine alla conversazione.
“Nessun problema, ci mancherebbe. Comunque piacere, Marco”, dice tendendomi la mano. 
“Giulia”, rispondo ricambiando la sua stretta che ha un che di rassicurante, mentre tutt’intorno il buio comincia ad avvolgerci – “Io sono Giulia”. 
 
Mi sento quasi sciocca ad ammetterlo, ma segretamente speravo che Marco si sarebbe palesato di nuovo prima della fine della serata. Invece eccomi qui, davanti al solito armadietto, fissando il mio riflesso nel solito vecchio specchietto appeso al suo interno. Anche la sagoma che questo mi restituisce è contrariata, perciò chiudo l’anta con un colpo deciso e sfreccio fuori mestamente. 
Auguro una buonanotte ad Andrea, ancora impegnato a spazzare l’atrio, e proprio quando sto per imboccare l’uscita questi mi richiama indietro. 
“Quasi dimenticavo Giulia, un ragazzo prima mi ha chiesto di consegnarti questo”, dice porgendomi un bigliettino mezzo accartocciato.
Lo apro e dentro vi trovo scritto: «Nel caso ti andasse di rivederci, anche solo per un caffè. Marco» seguito da un numero di telefono.
Ringrazio Andrea che in risposta mi fa un occhiolino ed esco dal teatro con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia, non posso proprio evitarlo. E di colpo nemmeno la fredda aria della sera che mi sferza sul viso è così insopportabile.
 
 
 
 
Cinque giorni dopo eccomi seduta su una panchina nell’ampio spiazzo verde circostante il Duomo di Pisa, con la nota torre che si erge alle mie spalle. È primo pomeriggio e il sole è ancora alto nel cielo, concedendoci finalmente un po’ di meritato tepore dopo una settimana dal sapore ancora invernale. 
Ho appuntamento con Marco per le 15, ma ho deciso di venire un po’ in anticipo per approfittare della bella giornata e finire il capitolo del romanzo che stavo leggendo, anche se dentro di me so benissimo che il vero motivo è che non sarei riuscita a rimanere a casa ad aspettare l’ora decisiva. A volte mi domando se sia normale a ventun anni passati avere ancora quel buco allo stomaco ogni volta che si aspetta un’uscita romantica. Beh, che parolone, forse sto correndo troppo e questo incontro di romantico avrà ben poco, ma d’altronde è sempre stato un mio difetto fantasticare un po’ troppo. Se difetto vogliamo chiamarlo. 
Comunque, a quel punto cerco di rivolgere tutta la mia attenzione alle pagine che mi stanno davanti e smettere di rimuginare troppo. Dopo quelli che sembrano pochi minuti vengo interrotta da un caloroso saluto ed ecco comparire nel mio campo visivo la snella figura di Marco, che indossa un piumino, un semplice maglioncino verde e un paio di jeans. 
“Ciao Giulia! Ma stai aspettando da tanto?” mi saluta con gentilezza. Di colpo torno con la mente a quella sera a teatro in cui mi si era avvicinato per aiutarmi, come un paladino con una dama in difficoltà. 
“No, non preoccuparti, sono venuta prima di proposito”, rispondo richiudendo il libro che ha perso ora ogni attrattiva. 
“Perfetto dai. Che dici, facciamo due passi? Poi c’è un posticino carino poco distante dove potremmo fare merenda, se ti va”
“Mi andrebbe proprio una buona cioccolata calda, sai”, abbozzo un sorriso. 
Iniziamo a camminare e l’imbarazzo che avevo tanto temuto, appena scavato un poco sotto la superficie, scompare da sé. Scopro che frequenta il secondo anno della magistrale in architettura qui a Pisa, ha tre coinquilini suoi coetanei e che nel tempo libero, anche se questo lo ammette un po’ titubante, ama giocare a scacchi. 
Con altrettanta spontaneità anche io gli parlo di me, dei miei studi in lettere moderne e della mia passione per il teatro, che alla fine è quello che mi ha spinto a lavorarvici, cercando di coniugare lo studio con quel piccolo impiego che mi dà tanta gioia. 
Quando più tardi, seduti al tavolino del bar con davanti una cioccolata fumante, arriviamo alla fatidica domanda: “E che mi dici della tua famiglia, invece?”, ecco però che mi chiudo a riccio. 
Questo atteggiamento mi ha sempre caratterizzato: non ho alle spalle una storia famigliare facile e, quando posso, evito sempre di parlarne. 
Eppure ora, mentre osservo Marco rigirare con calma il cucchiaino nella tazza, provo un’inaspettata voglia di aprirmi. Lo conosco appena, ma lo guardo bene e non vedo qualcuno che chiede per curiosità o per togliersi uno sfizio. Lo guardo e vedo, forse per la prima volta davvero, un ragazzo interessato a sentire quello che ho da dirgli. Qualcuno che non mi fa domande giusto per tenere viva la conversazione, ma che è qui perché vuole conoscermi meglio e costruire un dialogo. 
Allora ecco che, forse ancora per la prima volta, rispondo con completa sincerità: “Famiglia è una gran bella parola, ma non credo sia il termine giusto in questo caso. Però posso raccontarti la mia storia”.
Come a confermare tutti i miei ragionamenti di poco fa, Marco mi rivolge un’occhiata che è tutto fuorché inquisitoria e, inaspettatamente, allunga la sua mano a sfiorare appena la mia. “Non sei obbligata a parlarne se non vuoi, ma in caso contrario, io sono qui”. 
Ed è così che inizio la storia dal principio. Gli racconto degli anni in cui ancora tutto andava bene, dell’infanzia tutto sommato felice che avevo avuto, fino alla nascita di mia sorella Chiara. 
Gli parlo di quei giorni che rivedo luminosi nella mia memoria pur senza ricordarne i particolari, di quella parentesi di felicità simile a una lunga giornata di sole.  Di come però una mattina il sole fosse di colpo svanito alla scioccante rivelazione che Chiara era malata di leucemia e di come da allora le giornate avessero preso a coprirsi di nuvole. 
Gli parlo di mio padre che, invece di essere forte e prendere in mano la situazione, aveva trovato rifugio e consolazione nell’alcol, cominciando a essere sempre più assente da casa, fino al tragico giorno in cui Chiara ci aveva lasciati. A quel punto se n’era andato senza proferire una parola, ma forse era stato meglio così. Non credo mia madre avrebbe sopportato, oltre alla perdita di una figlia, anche quella di un marito. Da quel momento in poi i nostri ruoli si erano invertiti e avevo iniziato a io a prendermi cura di lei. Era l’autunno del 2014 e avevo solo 17 anni. Per i primi tempi ero riuscita a districarmi tra lei e la scuola, ma alla lunga la situazione si faceva sempre più pesante. Eppure il peggio doveva ancora arrivare, perché di lì a distanza di pochi mesi era piombato su di noi un altro macigno: a mamma era stato diagnosticato un Alzheimer precoce. 
A quel punto, realizzando che le mie sole cure non sarebbero mai bastate, mi ero presa un anno di pausa degli studi per poter guadagnare abbastanza da poterle pagare una badante. Avevo alternato ai lavori di cameriera quelli di pulizia, iniziato a dare ripetizioni, cercato di risparmiare più che potessi, fino a riuscire, due anni dopo, a farla ricoverare in una casa di riposo. Ecco qual era la storia della mia famiglia, se così si poteva chiamare. 
 
Finito il racconto, che è durato più di quanto avessi previsto, prendo un respiro profondo e osservo Marco. Lo sguardo che vedo nei suoi occhi riflette solamente un’infinità tenerezza, nessuna traccia della compassione che mi sarei aspettata. 
“Sai Giulia”, attacca a parlare con tono estremamente serio, “Ti conosco appena, ma sei una delle persone più forti che abbia mai conosciuto”. 
 
 
 
 
Qualche settimana dopo 
 
“Ma quindi carbonara?” esordisco uscendo dal soggiorno di Marco per dirigermi lesta in cucina. 
“Certo che sì! Te l’ho detto o no che sono il mago della carbonara?”, ribatte lui, chino sui fornelli scoppiettanti. 
“Certo che se non diminuisci un po’ la fiamma qui diventi il mago del bruciato, però!” scherzo amichevolmente, sapendo che non se la prenderà. Difatti si gira a rivolgermi uno sguardo di finto rimprovero per poi continuare a dedicarsi al guanciale. 
Un quarto d’ora dopo siamo seduti al tavolo della cucina a gustarci la tanto decantata carbonara e devo ammettere che è davvero buona.
“Se con architettura dovesse andarti male, potresti ripiegare sulla carriera di chef” lo stuzzico. 
“Dopo questo complimento, Cracco levati proprio” mi risponde tra un boccone e l’altro.
Non so ancora bene cosa siamo o cosa stiamo diventando: quel che è certo è che ho scoperto e continuo a scoprire in Marco un amico, qualcuno con cui potermi confidare, e penso lo stesso valga per lui. Quando stiamo insieme, a differenza di tutti i ragazzi che abbia mai incontrato, non mi sento mai a disagio. La sua sola presenza mi fa sentire leggera, quasi felice. 
“Sai, stasera al Verdi va in scena Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, mi spiace quasi non essere di turno”, butto lì per riempire una pausa, “Anche se questa cena vale decisamente la candela”
“Ti piace come opera? Ricordo di averla vista con la scuola, forse ancora alle medie..”
“Se mi piace? Vi ho assistito così tante volte che penso di conoscere le battute a memoria, se potessi salirei sul palco io stessa!”
“Immagino”, mi rivolge un sorriso sghembo. “Ma scherzi a parte, ti piacerebbe recitare? Cioè, sento il modo in cui parli del teatro ogni volta. Si percepisce un attaccamento, una passione nella tua voce che non è da tutti. Anzi.”
“Beh, sì, sarebbe bellissimo. Ma i sogni ad occhi aperti non portano da nessuna parte.”
“Perché dici così?”
“Dai, sii realistico. Come farei a portare avanti università, lavoro, andare a trovare mamma e persino studiare recitazione... Non è qualcosa cui poter dedicare un paio di ore a settimana e via. C’è un lavoro talmente duro dietro”
“Non lo metto in dubbio, ma è davvero solo una questione di tempo?”
“Anche, ma non solo…”
“Che c’è di più?”
“C’è che…”, alzo lo sguardo titubante, “e se non fossi abbastanza? Se non ne fossi capace?”
“È davvero questo a spaventarti? Giulia, ora dimmi, in tutta sincerità: cos’è quello che ti piace davvero? Cos’è quello che ti fa brillare gli occhi al solo pensarci?”
Quello che mi piace? Non ho nemmeno bisogno di starci a pensare. “Amo quando il sipario si apre, le luci si accendono e gli attori iniziano a recitare. Mi piace che le loro parole assumano in quel momento il massimo valore alle orecchie degli spettatori, come si facciano strada sulla scena a testa alta, senza mai indietreggiare o subire in silenzio.. È questo quello che amo del teatro. Anche quando attraversavo i momenti più bui con mamma la sola visione di un’opera teatrale riusciva a farmi tornare il sorriso. Non so spiegarlo diversamente, è così e basta. Ma se non ne fossi all’altezza? Se mi ci buttassi di petto e non riuscissi a farcela, non perderei anche tutto quello che di bello nutro nei confronti del teatro in sé?”
Marco mi guarda fisso negli occhi, con una tale intensità che mi porta a distogliere lo sguardo: “Giulia, nessuno crederà mai in te senza che tu lo faccia per prima”. Queste poche parole schiette e senza peli sulla lingua bastano a riportarmi a ricercare il suo contatto visivo. La sua espressione non vuole essere superiore né tantomeno giudicante, ma ha un che di determinato che non gli ho mai visto prima. “Perché, Giulia, a volte la vita è come viaggiare su un treno e ritrovarsi a un bivio. Se vuoi scendere ma il treno prosegue la sua corsa, tu che fai: salti o non salti? E in certi casi, se non segui quella voce, se non assecondi quell’istinto, finirai col pentirtene per sempre. Allora? Salti o non salti?”
 
 
 
 
Sono passati due mesi dal mio primo incontro con Marco. Molte cose sono cambiate da marzo, forse troppe per raccontarle tutte. Ora è maggio inoltrato e la primavera è esplosa intorno a noi, con i suoi colori e profumi che hanno invaso Pisa rendendola più bella che mai.  
Qualche settimana fa ho preso coraggio e mi sono iscritta a un corso di teatro. Certo, sono ancora ben lontana dal fare la mia comparsa su un palcoscenico, ma è pur sempre un inizio. Anche mamma pare aver risentito positivamente della venuta della primavera e della fine del lungo inverno: in questo periodo è più sé stessa del solito. Sembra quasi felice e forse lo sono anch’io.
Oggi è domenica e io e Marco ne abbiamo approfittato per darci al relax più totale. Siamo qui, sdraiati su un prato dopo un picnic improvvisato, a ridere e ascoltare musica. Ad un tratto parte questa canzone, le cui note prendono a risuonare dalla cassa portatile nei dintorni. 
 
“Met you by surprise
I didn't realize
That my life would change for ever
Saw you standing there
I didn't know I'd care
There was something special in the air”
 
Le parole sono di una semplicità disarmante, eppure comunicano così tanto che mi sento il cuore accelerare. Mi guardo intorno e noto con sorpresa come i gruppetti di persone che prima ci circondavano si siano quasi del tutto diradati. Ora ci siamo solo noi, distesi sull’erba i cui fili sottili fremono appena all’alzarsi della brezza. In sottofondo, un vago frinire di grilli. Marco afferra tra le dita una mia ciocca ribelle sfuggita all’elastico e sorride, così di sfuggita. 
 
“Dreams are my reality
The only kind of real fantasy
Illusions are a common thing
I try to live in dreams
It seems as if it's meant to be”
 
Detto così sembra quasi la perfetta conclusione di una storia a lieto fine, ma la realtà è ben diversa dalle apparenze. Quello di cui mi sono resa conto in questi mesi è che la perfezione è qualcosa di idealizzato e non esiste per nessuno. Sono consapevole che momenti no e nuovi scogli da superare in futuro non mancheranno, ma ora so di non essere più sola. E non parlo tanto di Marco, certo anche di lui, ma soprattutto di me. So di non essere più sola perché quel coraggio di saltare l’ho trovato, ho finalmente trovato la mia voce e non ho più paura di usarla. E, dopo tanto tempo, sento di aver dato alla mia vita una svolta di cui vado fiera. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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