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Autore: Shireith    30/06/2022    1 recensioni
L'Organizzazione è stata sconfitta. Una sera, Ai informa Conan che l'antidoto è pronto.
Lei sa che lui lo prenderà. Lui non sa che lei (forse) non lo prenderà.
Conan è Shinichi. Ai è Shiho senza Sherry, quello che sarebbe stata senza Sherry: ma Sherry c'è stata.
Ai Haibara? Una bugia. Una via di fuga. Le fughe sono belle proprio perché la temporaneità è la loro caratteristica; fuggire sempre è peggio che non essere mai scappati.
Shiho, Shinichi, il dopo.
‣ Sette spaccati scritti per la #CoAiWeek2022
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Hiroshi Agasa, Shinichi Kudo/Conan Edogawa | Coppie: Shiho Miyano/Shinichi Kudo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'CoAi Week(s)'
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Spaccato settimo


07. mend & break


 In qualità di scienziata, Shiho credeva solo nei fenomeni che potevano essere studiati, nei teoremi che potevano essere dimostrati con una formula matematica. Se avesse creduto nel soprannaturale, o quantomeno nel destino, forse avrebbe tracciato una linea immaginaria che ricongiungesse il 30 giugno di dodici anni prima a questo esatto momento.
 Lei e Shinichi che camminavano per le strade della città conversando e scherzando tra loro come se nulla fosse cambiato le sembrava un ricordo lontano di anni. Ora c’era solo Ayumi che la fissava da sottinsù con due occhi che Shiho giurò potessero ucciderla.
 Si sforzò di regalarle un sorriso di conforto, proprio come aveva fatto quella volta Akemi, quando Shiho era caduta dalla bicicletta e sua sorella l’aveva riportata a casa in spalla.
 Shiho ci provò davvero, ma questo non era il suo territorio, e ogni volta che le veniva richiesto di uscire dal mondo dei numeri e della ragione era come prendere una bambina e gettarla in una gabbia di leoni. Non era come loro – come Akemi, come Ayumi: non era come loro e non lo sarebbe mai stata.
 «Brucerà un po’», disse. E infatti, quando passò il pezzo di cotone col disinfettante sul ginocchio di Ayumi, la bambina non riuscì a trattenere un ahi! stridulo. Shiho la vide catturare il labbro inferiore tra i denti e mordicchiarlo per trattenere le lacrime.
Va tutto bene, Shiho, un attimo e passa tutto.
 (Va tutto bene, Shiho.)
 «Va tutto bene, ora passa.»
 Aveva sei anni. Akemi, solo tredici. Nemmeno diciotto: tredici. Lei che una madre ce l’aveva avuto il tempo necessario per impararne i meccanismi e subentrare al suo posto, poco importava che fosse figlia e non madre, e che di una madre avesse bisogno tanto quanto Shiho. Akemi era subentrata al posto di Elena e Shiho non aveva potuto fare altro che accettarlo.
 E ora, che pure Shiho di anni ne aveva diciotto, niente sembrava esser cambiato. Si svegliava nel cuore della notte e voleva sua madre, la voleva perché non ce l’aveva mai avuta – si svegliava nel cuore della notte e rivoleva Akemi, la rivoleva perché ce l’aveva sempre avuta e ora che non c’era più era come se le avessero amputato un braccio. Come nella sindrome dell’arto fantasma, alle volte sembrava che Akemi non se ne fosse mai andata: la cercava, non la trovava, e perderla faceva male come la prima volta.
 «Ayumi, tieni!»
 Fu la voce di Mitsuhiko a strapparla ai suoi pensieri. Shiho lo vide puntellarsi sulle punte dei piedi per lasciare un bicchiere di succo sul tavolo su cui lei stessa aveva fatto sedere Ayumi quando, tornando a casa del professore (Shinichi aveva ceduto alle insistenze di sua madre, alla fine, e ora chissà dov’era), aveva trovato Mitsuhiko e Genta – Ayumi in spalla a Genta – che bussavano senza ottenere risposta. Shiho li aveva informati che il professore era uscito e perciò li aveva fatti entrare lei.
Shiho, cosa hai fatto? Scema! Vieni qui!
 «Com’è che ti sei fatta male?»
 La domanda era rivolta ad Ayumi, ma fu Genta a rispondere. «È caduta tra i cocci di un vaso rotto.» Shiho annuì mentre fasciava il ginocchio di Ayumi con una garza pulita. «Spero solo che la signora Yamamoto non lo scopra…»
 «Genta!» sibilò a denti stretti Mitsuhiko, dandogli un colpetto sulla spalla, ma se anche il suo intento era stato quello di impedire all’amico di tradirsi, l’esagerazione del suo intervento sortì l’effetto opposto.
 Shiho si sforzò di trattenere un sorriso. «Siete scappati senza chiederle scusa?»
 Genta cercò di mostrarsi disinvolto, ma finì solo per sembrare ancora più colpevole di quanto già non fosse. 
 «Dovreste chiederle scusa», disse Shiho. «Sono sicura che capirà.»
 «Shiho-san ha ragione!»
 (Shiho-san, non più Ai-chan: lei e Ayumi, del resto, erano estranee.)
 «Oh!» esclamò Mitsuhiko battendo il pugno chiuso sul palmo. «Potremmo portarle uno di quei dolci che fa Subaru-san per farci perdonare!»
 «Ma si è trasferito…» gli fece notare Genta.
 «Magari Yukiko-san può dirci dove trovarlo!»
 Gli scambi seguenti avvennero senza che Shiho ebbe il tempo di fare o dire alcunché: Mitsuhiko e Genta dissero ad Ayumu di rimanere lì finché la “signorina” non avesse finito di medicarla, e nel frattempo ci avrebbero pensato loro a informarsi sulla nuova abitazione di Subaru-san!
 Shiho dubitò che Shuichi Akai – o Subaru Okiya, o qualsiasi altro alias avesse deciso di adottare nel frattempo, vista la sua inclinazione a farlo come fosse uno sport – avesse il tempo di mettersi ai fornelli.
 Per l’ennesima volta, Shiho si sforzò di accantonare l’immagine dell’uomo e tutto ciò che lo riguardava, lo ripose in un cassetto immaginario e lo chiuse a chiave, sebbene fosse troppo consapevole di come funzionasse la sua mente per illudersi che ciò bastasse a scacciare per sempre la questione. Se ripensava a tutte le persone che erano state coinvolte nella lotta all’Organizzazione, Shiho si domandava come facessero loro – loro che pure di bugie ne avevano dette tante – a vivere con il piede in due scarpe. Una parte di lei avrebbe voluto chiederglielo, le sarebbe piaciuto ritrovare le sue stesse ansie nelle parole degli altri, poter dare a quelle ansie un nome e una forma. Ma di parlare Shiho proprio non n’era capace, e allora le rimaneva solo Shinichi, Shinichi che però in quella questione era così diverso da lei da risultare come l’ennesimo punto cieco, più che uno specchio in cui rivedersi.
 Si erano salutati sulla strada del ritorno quando Shinichi si era finalmente degnato di rispondere a sua madre: perché lui una madre ce l’aveva – e un padre, e degli amici, e uno scopo nella vita.
 «Shiho-san?»
 Ayumi la strappò ai suoi pensieri e Shiho gliene fu grata. Le ci volle tuttavia ancora un attimo prima di tornare completamente alla realtà, il tempo di pensare che questa bambina meravigliosa era l’unica amica che avesse mai avuto all’infuori di Shinichi. Quanto era diventato facile per Ai Haibara abbassare le difese in sua presenza, e ora Shiho Miyano doveva ripartire daccapo. Le capitava, alle volte, di domandarsi se abbandonare la prima per la seconda non fosse stato un errore, ma poi si ricordava: una bugia cucita sulla realtà. Una fuga, che in quanto tale non può durare in eterno. Forse in un primo momento sarebbe stato più facile – lei che andava alle elementari con Ayumi, Genta e Mitsuhiko senza doversi preoccupare di costruire una nuova vita da zero – ma il passato sarebbe tornato a reclamare anche Ai Haibara.
 Il passato che le diceva: non hai sei anni, ma diciotto.
 Eppure Shiho si sentiva come se a ognuno di quelli ne corrispondessero dieci e forse più e che quelli, moltiplicandosi come cellule cancerogene, finissero per sformarla da dentro. Bambina non poteva esserlo, ma mai si era sentita più tale, così vicina alla paura dei bambini nel momento in cui si svegliano nel cuore della notte e piangendo chiamano mamma o papà. Lei, che negli studi era più avanti dei suoi coetanei, era indietro su tutto il resto. Quanto faceva male averne diciotto, di anni, e sentirsene novanta e zero al tempo stesso: troppo grande per vedere la realtà con gli occhi di Ayumi, troppo piccola per vederla attraverso gli occhi di coloro che ce l’avevano fatta.
 È come correre senza mai fermarsi per raggiungere un punto, e anche se ti sembra di scappare via da qualcosa e non verso qualcosa, anche se il petto fa male e i polmoni vanno a fuoco, anche se urli: per favore, ho tutta la vita davanti, non ce n’è bisogno, tutto quello che ottieni in risposta è: corri
 E così, Shiho correva. Ma anche mentre correva le sembrava che fosse l’intero mondo a muoversi e che lei fosse, al centro, ferma.
 «Shiho-san?»
 Questa volta, Ayumi riuscì a restituirla alla realtà. Shiho sbatté le palpebre per inquadrarla nel suo campo visivo e solo allora si accorse di un accenno di lacrime incastrate tra le ciglia. Riuscì a eliminarne ogni traccia mentre fingeva di rimettere in ordine il kit di pronto soccorso e solo allora tornò a rivolgersi ad Ayumi.
 Fu il turno di Ayumi di distogliere lo sguardo per puntarlo sulle gambe che penzolavano dal tavolo. «Secondo te Genta si sente in colpa?»
 «Per cosa?»
 «È stato lui a rompere il vaso della signora Yamamoto», spiegò Ayumi, e Shiho pensò fosse tipico di Genta, «però non l’ha fatto apposta… Non è colpa sua se poi io sono caduta…»
 Sorriderle le venne naturale. Per la prima volta da quanto era tornata Shiho Miyano, ebbe l’impressione di poter confessare ad Ayumi tutti – quasi tutti – i suoi segreti. Ayumi era sempre Ayumi. Era Shiho che, ora adulta agli occhi di chiunque, osservava i tessuti che compongono le relazioni sociali e non sapeva come discernerli.
 «Non è colpa sua.» A onor del vero, Genta era un ragazzo che difficilmente nascondeva le sue emozioni, e a Shiho non era parso incolparsi per quello che era successo ad Ayumi, ma si sentì comunque di aggiungere: «Però dovresti dirglielo, così saprà che non ce l’hai con lui.»
 
*
 
 Le sue stesse parole continuarono a riecheggiare nella sua testa anche dopo che Ayumi se ne fu andata. Inizialmente, Shiho non seppe spiegarsi il motivo. Poi, come un fulmine che squarci il cielo all’improvviso, tracciò un filo invisibile che collegava Genta e Ayumi a lei e Shinichi.
 
*
 
 Era passata quasi una settimana quando, una mattina, Shiho scese al piano di sotto senza stupirsi che il professore si fosse alzato prima di lei vista la tarda ora, e invece scoprì che a fare rumore in cucina era Shinichi.
 «Ti trasferisci qui e nessuno mi ha detto niente?» fu il suo saluto.
 «Ti piacerebbe!» Shinichi si sporse per prendere una tazza. «Caffè?»
 Shiho non era sicura le piacesse la nonchalance con cui Shinichi si presentava a casa del professore, ma una vocina nella sua testa le ricordò che Shinichi gironzolava per quella casa da molto prima che lo facesse lei. Non volendo tuttavia cedere alla ragione, pur non di darla vinta a Shinichi, fece finta di niente.
 «Senza zucchero.»
 «Questo spiega molte cose.» Prima che Shiho potesse ribattere, Shinichi distolse la sua attenzione altrove tamburellando con due dita su un rettangolo bianco che si mimetizzava col tavolo. «È arrivata per te stamattina, il professore l’ha aperta per sbaglio», disse. «È la tua lettera d’ammissione all’università.»
 Shiho strinse gli occhi. «Quando dici che il professore l’ha aperta per sbaglio, intendi per sbaglio o per sbaglio per sbaglio
 «Per sbaglio per sbaglio. Pensava fosse una lettera di un suo amico che sta a Kyoto – davvero, chi usa ancora le lettere?»
 Shinichi le chiese se voleva sentire un aneddoto su quell’amico di Kyoto, ma la sua voce si fece ovattata come sott’acqua mentre Shiho apriva la lettera e leggeva le righe in cui la informavano che era stata presa. Non se ne stupì, eppure la notizia ebbe lo stesso effetto di una prospettiva insperata che avesse bassissime probabilità di avverarsi: eccolo, il primo passo verso una nuova vita. Una vita senza Akemi che per la prima volta le sembrava avere un senso, un accenno di normalità.
 Fu in quel momento che si ricordò della questione in sospeso tra lei e Shinichi fin dal giorno in cui aveva curato le ferite di Ayumi – Ayumi che, per la cronaca, le aveva detto che lei era la dottoressa migliore da cui fosse mai stata.
 «Kudo-kun?» lo interruppe, e la serietà nella sua voce sembrò passare da lei al volto di Shinichi. «Quando hai voluto accompagnarmi da mia sorella, tu… perché?»
 Aveva cercato di dare un contegno alla voce, ma quella l’aveva tradita. Non c’era modo in cui potesse conferire all’argomento un tocco meno personale perché era personale. In un certo senso, era per merito della morte di Akemi, se di meriti si può parlare, che lei e Shinichi si erano incontrati.
 «Te l’ho detto, no? Siamo amici.»
 Lei annuì. Gli credeva, ma…
 Ma?
 Ma c’era dell’altro; se lo sentiva, come un prurito fastidioso sotto pelle.
 Le ci volle una forza di volontà incredibile per sostenere il suo sguardo, di un blu intenso come l’acrilico fresco; la gola sembrava sul punto di bruciare al passaggio di quelle parole che per il momento restavano solo l’ennesima verità sepolta.
 Tra lei e Shinichi c’era complicità, c’erano cameratismo e onestà, ma dare una forma ai loro sentimenti più intimi non era arte né dell’uno né dell’altra.
 Shiho si umettò le labbra prima di dire, la voce così bassa da sembrare un sussurro nel vento: «Lo sai che non te ne faccio una colpa.»
 Un tempo sì. Si era chiesta perché quel detective spaccone che sembrava vedere il filo invisibile che collegava eventi che per altri erano solo un ammasso di coincidenze avesse salvato tutti tranne sua sorella. Lo aveva odiato: lui che diceva di amare e servire la giustizia e ciononostante non era stato capace di salvare l’unica persona che per diciotto anni l’aveva tenuta attaccata alla vita.
 Ma ora che l’aveva osservato in disparte per tanto tempo – lui che guardava il mondo, lei che guardava lui, che lo studiava come Shinichi avrebbe fatto con un qualsiasi caso particolarmente complesso – mai sarebbe stata capace di fargliene una colpa. Per quanto facile, persino rassicurante, fosse trovare qualcuno da incolpare, quel qualcuno non era Shinichi.
 Era Gin.
 Gin, che era dietro le sbarre.
 Perché tutto era finito.
 «Lo so.»
 
*
 
 La sapeva, eppure…
 Eppure Shinichi sapeva pure che la morte è una ferita che non puoi curare, il vaso che una volta rotto non si può né riparare né sostituire, solo piangerlo per il resto dei tuoi giorni.
 Ma quando è notte, quando la mente proietta sulle palpebre chiuse occhi vacui e vestiti macchiati di sangue, non puoi fare altro che urlare.
 Avrebbe voluto dirle: ho gli incubi ogni notte, ce li hai anche tu, vero? Mi dispiace, credimi: vorrei aiutarti, vorrei farlo ma non posso, non so come fare.
 Avrebbe voluto dirle quello e tanto altre cose, ma dare una forma ai sentimenti più intimi non era arte né dell’uno né dell’altra.
 Nella stranezza della loro condizione, uguale eppure diversa, c’era un punto di incontro ma, per arrivarci, avevano bisogno di tempo.
 Per questo Shinichi non le disse: dai, esci; dai, fai questo, fai quest’altro. 
 Però le disse, uno di quei giorni: «La tua università è vicina al Teitan. Lo so perché l’ho cercata su Google.»
 Lei lo fissò riducendo gli occhi a due fessure. «Un’allusione poco velata, la tua, Kudo-kun.»
 Lui alzò le spalle. «Era giusto per dire.»
   
 
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