Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Bibliotecaria    01/07/2022    0 recensioni
In un mondo circondato da gas velenosi che impediscono la vita, c’è una landa risparmiata, in cui vivono diciassette razze sovrannaturali. Ma non vi è armonia, né una reale giustizia. È un mondo profondamente ingiusto e malgrado gli innumerevoli tentativi per migliorarlo a troppe persone tale situazione fa comodo perché qualcosa muti effettivamente.
Il 22 novembre 2022 della terza Era sarebbe stato un giorno privo di ogni rilevanza se non fosse stato il primo piccolo passo verso gli eventi storici più sconvolgenti del secolo e alla nascita di una delle figure chiavi per questo. Tuttavia nessuno si attenderebbe che una ragazzina irriverente, in cui l’amore e l’odio convivono, incapace di controllare la prorpia rabbia possa essere mai importante.
Tuttavia, prima di diventare quel che oggi è, ci sono degli errori fondamentali da compire, dei nuovi compagni di viaggio da conoscere, molte realtà da svelare, eventi Storici a cui assistere e conoscere il vero gusto del dolore e del odio. Poiché questa è la storia della vita di Diana Ribelle Dalla Fonte, se eroe nazionale o pericolosa ed instabile criminale sta’ a voi scegliere.
Genere: Angst, Azione, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Note dell’autrice: Scusate l’introduzione ma avevo bisogno di fare questa precisazione: nel capitolo Luca e la guardia del corpo di Ribelle si riferiscono a quello che è successo alla fine del capitolo 5 (Ciò che era già determinato) come ad un attacco di panico. Tuttavia, quello che è effettivamente successo è un flashback, ovvero rivivere un’esperienza traumatica, essi si possono manifestare sia all’interno dei sogni che da svegli e, come scritto nel capitolo 5, si è certi di essere tornati in quel momento traumatico. Di solito questi episodi sono legati ad un trigger, qualcosa che ci ricorda quell’evento e fa ricordare quel evento (es. Sentire il rumore di un palloncino ci ricorda il suono di uno sparo e quindi si rivive l’esperienza traumatica che presenta questo dettaglio saliente per il nostro inconscio). Invece l’attacco di panico nasce da un’esperienza traumatica o una condizione clinica, ma, di solito, questi attacchi nascono da trigger vari che non necessariamente sono legati all’evento traumatico (es. Tizio perde il treno per andare all’università, questo gli causa un accumularsi di stress tale che non lo riesce più a gestire e crolla davanti alla stazione scoppiando a piangere e sentendo di non riuscire a respirare). Questi episodi, di solito, nascono dalla paura di perdere il controllo, o da un senso di terrore apparentemente ingiustificato.
Il motivo per cui Luca e Arlo parlano di questo episodio come attacco di panico è perché non conoscono bene la differenza, e lo usano come termine improprio.
 
E, per essere i più precisi possibile, Ribelle ha occasionalmente flashback e attacchi di panico come molti dei suoi colleghi, ma lei nello specifico non li ha con una frequenza tale da impedirle di essere efficiente, infatti, non soffre di PTSD (Disturbo Post-Traumatico da Stress) ma è sulla buona strada per svilupparlo allo stato attuale delle cose.
Scusate questa lunghissima specificazione ma sto studiando psicologia e ci tengo ad essere precisa quando posso. E, se desiderate avere qualche chiarimento, fatemi sapere nei commenti.
 
In conclusione: se avete questi sintomi NON FATE ASSOLUTAMENTE COME DIANA: ANDATE DA UNO SPECIALISTA O DAL VOSTRO MEDICO DI BASE E INTRAPRENDETE UN PERCORSO DI CURA. Circondarsi di una rete sociale propositiva aiuta sicuramente, ma non basta. Non c’è niente di sbagliato nel chiedere aiuto se ci si sente male, anche se è qualcosa di piccolo, anche se vi sembra stupido.
 
 
 
 
 
 
3. Echi di guerra
 
 
 
Luca Deserto, 17 marzo 2047
 
 
 
Fu un mago ad aprirci il cancello della discarica, e lì, al centro di uno spiazzo, vidi Ribelle fissare i nostri camion con le braccia incrociate, chiaramente seccata. Quando scendemmo molte reclute cominciarono a fissarla increduli e adoratori, lei ci lanciò un’occhiata rapida per poi scostare lo sguardo un secondo e in fine ci tornò a guardare.
“Beh? Che fate lì impalati? Muovetevi!” Cinquanta reclute si mossero all’unisono per fare qualcosa, anche se nessuno di noi sapeva cosa, l’importante era essere impegnati.
“Togliete quelle lamiere da quella zona!” Ci urlò contro come se avesse percepito la nostra incertezza. Pareva parecchio incazzata e il suo umore non migliorò quando arrivarono decine di alti ufficiali. Probabilmente la situazione al fronte era decisamente brutta.
Dentro di me pensai che fosse meglio così: se la guerra si fosse conclusa prima della mia entrata ufficiale nell’esercito potevo solo guadagnarci, meno rischi da correre per me.
 
 
Lanciai una rapida occhiata a Ribelle: dopo un paio sfuriate con alcuni ufficiali ritardatari aveva portato tutti dentro ad una tenda situata dal capo opposto del campo, parecchio lontano da dove stavamo lavorando noi reclute, e rimasero lì dentro per le successive dodici ore.
Noi reclute eravamo particolarmente confusi perché in quelle dodici ore nessuno entrò, nessuno portò cibo o acqua, nessuno uscì per pisciare, non una singola anima aveva tirato fuori il muso da quel maledetto tendone se non verso le cinque del pomeriggio e non si disturbarono a darci un’occhiata.
Probabilmente avevano degli ordini da eseguire al più presto, Ribelle aveva sguinzagliato i suoi ufficiali e sembrava essere pronta a qualcosa di grosso, ma non la vidi uscire di lì; tuttavia, la presenza di due energumeni armati mi fece intuire che lei e il suo fidato secondo non si erano mossi da lì: pensai che volessero trattare delle ultime questioni.
 
Fu una sorpresa vedere il Generale Riviera ordinare ad un paio di reclute di stare fuori a fare la guardia poco dopo che l’ultimo alto ufficiale se ne fu andato. Non invidiai troppo i ragazzi che vennero scelti poiché probabilmente ricevettero una minaccia di portata galattica da parte dei due energumeni lì fuori. Probabilmente erano si trattava delle personali guardie del corpo di Ribelle e Riviera, o non mi sarei spiegato il loro aspetto così truce, professionale ed intimidatorio.
 
Ma verso le otto di sera vidi Orion iniziare ad agitarsi, non voleva lasciare la zona sguarnita ma neanche poteva pretendere che restassimo lì tutta la notte. “Deserto! Rodeghiero! Svegliate i due generali, non possiamo restare qui ancora per molto! E c’è una chiamata da Defeli per il Generale Riviera, credo che questa la voglia propria sentire.”
“Eseguiamo subito, capo istruttore Orino!” Risposi io per entrambi, sapevo che non avrei potuto dedurre molto da una semplice cartina ma se c’era anche solo una misera possibilità di svelare qualche segreto non mi sarei tirato in dietro.
 
Camminai a passo spedito con Atlas che mi trotterellava dietro decisamente meno convinto. “Cosa credi che vogliano a Defili?” Mi domandò entusiasta.
“Penso che debbano fare rapporto, malgrado il generale Ribelle abbia un’ampia libertà di manovra deve comunque rispondere a De Solis e a Roveto. Forse Riviera è quello trai due che si occupa per lo più di questi scambi.” Ipotizzai non riuscendo a mascherare del tutto la mia emozione.
“Senti, tu l’hai già incontrata. Il Generale ha veramente una terza?” Lo guardai disgustato e confuso: non riuscivo realmente ad associare il generale a qualcosa di anche solo vagamente sensuale o seducente, anzi, a stento la consideravo una donna.
“Non ci ho fatto caso, ma se proprio ci tieni svegliala tu.”
“Non ci penso neanche, a te quanto meno ti ha visto una volta, se si trova il mio brutto muso davanti potrebbe reagire male.” Sorrisi alla battutaccia, Atlas iniziava a starmi quantomeno simpatico, di certo alleggeriva la tensione.
 
Entrai nella tenda senza pormi troppi problemi sulle formalità ma ebbi il buon senso di svegliare prima le due guardie del corpo che erano crollate poco dopo l’entrata della tenda. Mentre sbadigliavano uno dei due, il gargoil, mi disse di svegliare il generale e mi consigliò di chiamarla per nome.
Non vi diedi troppo peso ero più interessato a studiarla.
La maschera il quel momento era leggermente più morbida ma nascondeva comunque i tratti del suo volto, anche se riuscivo ad intravedere chiaramente le rughe sotto agli occhi e le ciglia lunghe. Allungai il braccio e sfiorai quello di Ribelle appena e lo accompagnai con un sussurro. Volevo svegliarla il più dolcemente possibile perché temevo una sua reazione.
Ma, come appoggiai la mia mano sul suo braccio, il suo occhio si spalancò mostrando quel fuoco verde che si celava in essi. Mi ritrovai ribaltato a terra e con un pugnale alla gola senza che potessi farvi nulla. Istintivamente portai le mani in avanti per cercare di bloccare la lama che mi stava sfiorando la gola. Urlai spaventato e a quel punto il gargoil urlò. “Generale si calmi!” Gli occhi di ghiaccio di questo erano fissi su di lei ed era chiaramente preoccupato. Ma, lentamente, la potenza del corpo di quella donna si allentò e il generale mi lasciò andare, sentii gli spasmi del suo corpo contro il mio: che cazzo era appena successo?
 
“Luca! Tutto bene compare?” Mi chiese Atlas porgendomi la mano, la afferrai e mi lasciai sollevare. “T-tutto bene, grazie…” Ma bastò passarmi una mano sul collo per sentire il sangue che gocciolava, era solo un graffio ma comunque tremai. “Ma credo di essermela fatta sotto.” Ammisi cercando di bloccare quella sottile striscia di sangue.
 
Fu in quell’istante che vidi passarci accanto il generale Riviera che sollevò di peso il generale Ribelle. Osservai la scena, Ribelle non sembrava un peso morto ma non pareva neppure totalmente cosciente, stava andando avanti come un automa, non aveva neanche risposto al suo compagno. Il suo unico occhio visibile stava fissando il nulla e del fuoco che avevo visto la prima volta che ci eravamo incontrati ne erano rimaste solo le ceneri.
 
“Spiacente ragazzi, forza dell’abitudine!” Ci disse continuando a fissare un punto indeterminato del tendone con un tono chiaramente forzatamente spensierato.
“Faccio sempre questo scherzo ai miei uomini, pensavo che foste uno dei miei.” Ma mentre diceva questa cosa non ci rivolse neppure un’occhiata, uscì da lì farfugliando qualcosa di incomprensibile e vidi il generale Riviera trottargli dietro preoccupato.
 
Lanciai un’occhiata alle due guardie del copro, chiaramente incazzate. Il gargoil in particolare si mise d’innanzi a me e mi fissò con ira. “Se racconti di questa cosa a qualcuno, giuro che ti ammazzo.” Indietreggiai d’un passo. “Ehi! È Luca che ha subito un’aggressione…”
“Taci.” Fu l’unica parola che rivolse ad Atlas prima di tornare a fissarmi dritto negli occhi: i suoi occhi di ghiaccio contro i miei di un marrone quasi nero. “Ascoltami molto bene, ragazzino.” Da come pronunciò la parola capii che aveva in mente qualcosa di peggio ma si doveva essere trattenuto. “Se danneggi l’immagine del generale sappi che ti verrò a cercare personalmente. Ribelle ha già abbastanza cazzi a cui pensare in questo momento, ci mancavi solo tu e quel fottuto attacco!”
Mandai giù la saliva terrorizzato. Non mi sarei mai aspettato un coinvolgimento così emotivo da parte di una guardia del corpo, sembrava essere affezionato al Generale Ribelle se si permetteva di non usare il suo titolo.
Almeno ora sapevo cos’era stato: un attacco di panico. Il generale doveva averne avuto uno particolarmente violento se mi aveva quasi ammazzato.
 
“Arlo, adesso basta, il Generale starà bene e il ragazzo non ha fatto nulla con malizia.” Lo riprese una giovane fata che non avevo notato fino ad ora. Sentii il gargoil grugnire ma mi lasciò andare.
A quel punto fu lei ad avvicinarsi ed ebbi la sensazione che fosse lei quella veramente pericolosa trai tre. “Tuttavia, su una cosa Arlo ha ragione: non dovete, per nessuna ragione al mondo, diffondere quello che avete visto oggi. Abbassare il morale delle truppe è l’ultima cosa che ci serve e non intendiamo rischiare un’intera operazione o l’immagine del Generale perché a voi piace spettegolare. Ho reso l’idea?” Domandò, i suoi occhi verdi non erano spaventosi quanto quelli di Ribelle, né della stessa sfumatura, ma erano comunque incisivi.
“Sì, signora!” Esclamammo entrambi all’unisono. “Bene. Ora se volete scusarci, abbiamo del lavoro da fare.” La fata si girò e quasi riuscì a fare la sua uscita di scena. Appena fu fuori dal tendone, con tutti i documenti sottobraccio, fece per scivolare a terra ma venne salvata al volto dall’altro energumeno presente: un orco con un corto codino alla base della nuca. Arlo, il gargoil, se la ridacchiò ma comunque ci lanciò un ultimo sguardo omicida prima di uscire.
 
Una volta soli Atlas mi rivolse uno sguardo perplesso. “Secondo te è vero?” Lo guardai confuso. “Secondo te il Generale soffre veramente di attacchi di panico?” Domandò, feci spallucce.
“Non è inverosimile, Ribelle fa parte del movimento dal giorno uno, è uno dei membri fondatori dei Ribelli ed è sempre stata coinvolta negli scontri. Adesso non partecipa più attivamente alle attività del fronte, ma qualche trauma le deve pur essere rimasto.”
Atlas accennò affermativamente. “Secondo te limita le sue abilità?” Mi domandò preoccupato. Mi limitai a fare una smorfia.
“Non lo so, all’interrogatorio mi pareva estremamente lucida, ma forse riesce ad esserlo solo in certi momenti. Di sicuro non quando è al fronte.” Questo può dimostrare quanto poco conoscessi il generale all’epoca, poiché non crollò mai al fronte, mai. Neanche quando aveva tutti i motivi per farlo, per questo quell’evento nella mia memoria è sempre risultato fuori posto.
Come mai una donna che non è mai crollata davanti ai razzi, ai bombardamenti e ai fucili è potuta crollare per una cazzata del genere?
 
La risposta la capii solo quando gli incubi perseguitarono me: sicurezza. Quando si è al sicuro, tutta l’ansia e lo stress che si ha accumulato piace fare ritorno e presentarsi nei momenti più inadatti o inaspettati.
Come un’ospite fastidioso e parassitario che ti entra in casa, causa scompiglio e poi se ne va’ lasciandoti in salotto i cocci di un vaso rotto che spetta a te ricostruire.
 
 
Scortammo, o quanto meno accompagnammo, la squadra dei due generali fino a Veliesis, e, una volta arrivati mi bastò lanciare un’occhiata per poter percepire che qualunque cosa avesse turbato il generale pochi minuti fa, era stato seppellito. Adesso c’era una creatura spaventosa al suo posto, un generale assetato di sangue e con un obbiettivo chiaro in testa.
Tremai al solo guardarla, e con una certa stizza dovetti ammettere che le faceva onore tornare operativa dopo un attacco simile.
Tuttavia, non avevo dimenticato la mia missione, dovevo riferire quello che avevo visto: tutti gli alti ufficiali disponibili si erano radunati in una discarica, una volta conclusa la riunione tutti si erano diretti di buona leva in direzioni diverse e il Generale Ribelle sembra soffrire di attacchi di panico.
Ma non potevo farlo quella sera, Orion ci aveva ordinato di filare a letto non appena avessimo finito di lavarci. Eseguii senza discutere, tanto non avevo niente di strategicamente rilevante, quella maledetta fata aveva nascosto tutti i documenti prima che entrassimo. Estremamente cauto e previdente per una semplice aiutante-segretaria-tutto-fare.
Ma, se una come lei, di un grado così basso, poteva avere accesso a quei documenti senza alcuna restrizione, o quasi, voleva dire che avevo una possibilità per mettere mano a informazioni di qualche valore, senza dover aspettare di salire di grado e fare carriera. Dovevo diventare il galoppino di un ufficiale, non appena sarei stato mandato al fronte avrei dovuto trovare un modo per entrare nelle grazie dell’ufficiale di grado più alto di turno e, sperare, che mi ritenesse troppo prezioso per morire al fronte: una passeggiata di salute.
 
 
Arrivai nella mia camerata e, la prima cosa che notai fu l’assenza della famiglia di folletti: era stata finalmente mandata in città ed erano stati sostituiti con un terzetto di ragazzini troppo giovani per andare in guerra che dal minuto uno iniziarono ad infastidire le altre famiglie con le loro cazzate da adolescenti.
Dopo tre giorni che continuavano a fare casino di notte, mi decisi a fare loro un discorsetto.
 
“Basta voi tre!” Tuonai attirando la loro attenzione. “Nel caso non lo abbiate notato qui ci sono tre soldati che domani hanno un addestramento intenso, e questa gente ha comunque bisogno di dormire. Se continuate a dare fastidi giuro che vado dal direttore di questo posto e provvederò perché vi mettano a pulire le latrine, e non è un bello spettacolo, quindi vedete di tacere.” Decretai, la minaccia funzionò. “Grazie Luca era ora che qualcuno lo facesse.” Mi disse Atlas ma tra me e me mi chiesi perché non ci aveva pensato prima lui che erano tre giorni che si lamentava.
 
 
Forse dovrei essere più preciso sul periodo d’addestramento, ma ad essere sincero per me fu tutto abbastanza prevedibile, quasi tutte cose che conoscevo già avendole compiute solo qualche anno fa durante l’addestramento per diventare un agente S.C.A. che poi mi aveva portato ad entrare nella sezione dei servizi segreti.
In compenso ero il migliore del gruppo quando si trattava di eseguire degli esercizi o cose simili, tuttavia le mie relazioni umane, proprio per i miei risultati, mi avevano inimicato il resto dei miei compagni d’addestramento e alle volte faticavo a convivere in quell’ambiente formato da norme così simili, eppure così intrinsecamente diverse da quelle a cui ero abituato.
 
Per esempio, Orion pretendeva la disciplina e il rispetto per lui e tutti i superiori da parte di tutti e spesso ci trattava come degli animali da soma, ma non lo avevo mai visto alzare un dito su uno di noi perché aveva raggiunto il suo limite.
I pigroni venivano umiliati pubblicamente, però chi si impegnava, ma non riusciva a completare l’esercizio, per un motivo o per un altro, gli veniva concesso aiuto e sostegno.
Inoltre, mi resi ben presto conto di quanto valore dessero al gioco di squadra. Non che per l’esercito del Governo non contasse, tuttavia l’esercito della Neo-repubblica aveva dato un nuovo valore alla fiducia nella propria squadra e il sostenersi. Non si trattava solo del fidarsi che il compagno al proprio fianco ti avrebbe avvertito in caso di necessità, era una vera e propria convergenza delle forze per trovando soluzioni creative tutti assieme. Era un aspetto vitale del nostro addestramento, e io ero una schiappa totale.
Non che mi mancasse l’impegno, ma non riuscivo a collaborare coi miei compagni. Ero stato addestrato a trovare soluzioni per conto mio che non richiedessero l’intervento di terzi. Invece i miei compagni avevano appreso a cercarsi l’un l’altro per trovare soluzioni e sostenersi dove altri faticavano o non riuscivano.
 Lo capii più lentamente degli altri, ma verso le ultime settimane di addestramento lo riuscii a capire: se per me era scontato scalare una pare rocciosa, per Karlo non lo era, lui doveva per forza affidarsi alla singola forza delle braccia per sollevare il suo peso complessivo e questo gli richiedeva più forza ed energie degli altri, poiché era un centauro e arrampicarsi in verticale non era fattibile per il suo corpo, in compenso era fottutamente veloce e riusciva a sollevare molti più pesi di noi, problema diametralmente opposto a quello del nostro medico da campo, una fata di nome Caino che riusciva ad avere un vantaggio incredibile in tutti gli spostamenti in verticale e che quando si appendeva a mezzaria riusciva ad usare le sue ali come sostegno anche quando non doveva volare, ma, proprio a causa delle sue immense ali, la sua schiena era in gran parte occupata e, per permettergli la migliore mobilità, usava uno zaino speciale che era studiato al millesimo per permettergli di portare più oggetti possibili con il poco spazio a disposizione, adoperava persino una borsa da campo piena di pesi quando si addestrava per abituarsi a correre e muoversi con quel impiccio che in futuro avrebbe contenuto il materiale medico che non riusciva ad infilare nello zaino.
Le nostre diversità singolarmente potevano essere uno svantaggio estremo o un vantaggio considerevole in base alle occasioni e per vincere dovevamo comprenderle al volo, intervenire per sostenere i compagni in difficoltà e sfruttare al meglio quelli che eccellevano su certi compiti.
 
Questo modo di pensare, in cui, invece di negare o condannare le differenze le si abbraccia appieno e si cerca di sfruttarle al meglio mi disorientava. Avevo lavorato sempre ed esclusivamente con umani, e tutti noi possedevamo gli stessi limiti, non ci serviva spiegare perché non potevamo semplicemente annusare l’aria per capire se c’era qualcuno nelle vicinanze. Per questo rimanevo scioccato quando uno dei miei compagni di addestramento dal naso sopraffino mi avvisavano con largo anticipo del passaggio di altri durante un’esercitazione.
All’inizio negavo questa situazione, non mi fidavo delle capacità dei miei compagni o non credevo alle loro difficoltà: non importava che Atlas potesse vivere sott’acqua, non gli permettevo di aiutarmi ad attraversare un fiume in piena o, non importava che avessi sotto orecchio gli zoccoli di Tony, non riuscivo credere al fatto che scivolasse sempre nello stesso punto del percorso ad ostacoli. Poi, un giorno, senza rendermene conto, afferrai al volo Tony prima che sbattesse il muso contro quella parte del percorso. Lui mi guardò accennandomi un ringraziamento silenzioso, ma non ricambiai, quasi mi vergognavo di quello che avevo fatto. Ma mi vergognai molto di più quando mi resi conto di aver preso una borraccia d’acqua extra per Atlas prima di uscire perché faceva più caldo del solito e lui doveva bere molto più di noi.
Odiai ammetterlo, ma stavo diventando, piano piano, parte della squadra, anche se a solo una settimana dalla fine dell’addestramento.
 
 
 
Ciò a cui invece mi abituai quasi subito fu il via vai di immigrati. Erano ombre silenziose che venivano e se ne andavano senza lasciare traccia.
Erano presenze effimere tutte uguali tra loro: stessi occhi provati, stesse cicatrici su schiena, mani e braccia, stesse lacrime per aver perso tutto. Non osavo chiedere le loro storie perché erano tutte simili eppure tutte così diverse, miracoli di disperazione quotidiani. Le loro storie iniziavano sempre con la paura di ciò che c’era a casa, poi il dolore e la fretta di abbandonare quei luoghi natali, seguiva il viaggio, in cui si riducevano a bestie da comprare e vendere, poi le prigioni in cui venivano fermati al confine, da una parte o dall’altra. E poi succedeva sempre che i soldi che si erano portati dietro non bastassero mai, e allora ore interminabili ad attendere che qualcuno pagasse per loro, in fine ci si affidava al fato e spesso si moriva lì, ad un passo dalla libertà.
Dopo la terza storia che sentii scelsi di non chiedere più nulla, preferivo non pensare a quanto fossi stato fortunato io quando mi ero trasferito a Libris. L’aver accettato la missione aveva trasformato quello che per molti era un viaggio della speranza e della disperazione in poche ore di viaggio in un treno con aria condizionata, poi qualche ora di tensione in un carro di massima sicurezza per un infiltraggio oltre i confini rapido e indolore, e poi qualche ora di cammino fino alla città più vicina. Quasi provavo vergogna per me stesso, ufficialmente sarei dovuto essere un profugo, ma non ne avevo l’aspetto e la storia che avevano inventato per me pareva una barzelletta in confronto a quello che quel oceano di persone aveva vissuto. Così smisi di vederli e, in men che non si dica, mi resi conto che era molto meglio ridurli a ombre schive nella mia vita.
 
 
Mi abituai anche all’ansia costante di essere chiamati al fronte con urgenza, diverse squadre erano state chiamate a combattere in prima linea in anticipo per un motivo piuttosto palese: la conquista di Calante.
Ribelle non aveva perso tempo, il giorno dopo era partita per il fronte assieme ad una squadra e, una settimana dopo, centinaia di soldati erano partiti per il fronte. Erano stati richiamati tutti i veterani in permesso e quelli appena usciti dagli ospedali ancora interi, avevano anche spostato tutti i soldati impegnati nella ricostruzione delle città.
Chi aveva quasi finito l’addestramento veniva chiamato alle armi e per qualche giorno tememmo che saremmo stati chiamati tutti al fronte, l’idea ci terrorizzava perché non eravamo pronti.
 
Il capo istruttore Orino cercò di rassicurarci ma non servì a molto, dopo due giorni di terrore ci prese tutti e ci portò a guardare i ragazzi che partivano. Restammo lì immobili a fare il saluto, paralizzati sul posto per quasi venti minuti, poi tronammo al campo d’addestramento e ci parlò.
“Sentite ragazzi, non vi addolcirò la pillola: la situazione fa schifo. Sì, potreste essere chiamati al fronte da un momento al altro e sì, se lo facessero morireste tutti perché non siete pronti.” Tutti noi ci guardammo terrorizzati.
“Ma, stare qui a piangervi addosso non servirà a un cazzo. Quello che potete fare al momento è ascoltarmi ed impegnarvi al centodieci per cento perché queste settimane che passerete qui sono vitali. E, in quanto vostro istruttore, sono responsabile della vostra preparazione, e non intendo mandare al fronte della carne da macello, né intendo sprecare un secondo di più a consolarvi. Se volete essere pronti alla guerra dovrete fare esattamente come vi dico, niente domante, niente dubbi, eseguite gli ordini ed entro una settimana sarete in grado di badare a voi stessi, in due riuscirete a fare lavoro di squadra ad un livello accettabile, in tre potreste riuscire ad essere utili alla causa. Il resto sarà solo un bonus e la vostra sopravvivenza dipenderà da quanto impegno metterete nell’addestramento. Il mio impegno verso di voi è quello di insegnarvi tutto quello che so nel minore tempo possibile, il vostro è di impegnarvi ad imparare e di aiutarvi a vicenda. Sono stato chiaro?”
“Sì, capo istruttore Orion!” Esclamammo tutti in coro. “Bene. Detto questo. Soldato Vele, adesso sei tu il capo squadra, li guiderai tu quando sarà il momento.”
“Sì, capo istruttore Orion!”
 
Mi trovai d’accordo con la scelta di Orion, Tony era trai più grandi, subito dopo di lui in ordine d’età c’ero io, ma, al contrario del sottoscritto, sapeva fare un ottimo gioco di squadra e tutti lo rispettavano e molti gli volevano bene.
“Bene. E adesso al lavoro.”
 
Furono le tre settimane di addestramento più intensive della mia vita, e, a conti fatti, credo che imparai più cose lì che in qualsiasi altro posto. Orion era un genio nel metterci alla prova e sapeva esattamente come raffinare le nostre abilità ed appianare le nostre difficoltà. Era il miglior istruttore che esistesse, malgrado il caratteraccio.
Per questo quando sentimmo che rischiava di essere messo a riposo tutti i ragazzi vollero scrivere una lettera agli ufficiali illustrando i motivi per cui senza il capo istruttore Orion non saremmo diventati una delle squadre con i punteggi più alti degli ultimi anni. Non so quanto ci diedero retta, sta di fatto che non servì a nulla, noi saremmo stati i suoi ultimi allievi. Ci aspettavamo che Orion si rivoltasse ma la prese con dignità, limitandosi a dire che ci avrebbe addestrati a dovere.
Se alcuni di noi sopravvissero alla guerra è grazie a lui.
 
 
 
Generale Ribelle, 18 marzo 2047
 
 
 
A svegliarmi fu il telefono. Rotolai fino al comodino e afferrai la cornetta. Dopo lo spettacolo della scorsa sera, avevamo deciso di rimanere a Veliesis per la notte, ed ero riuscita a farmi qualche ora di sonno filato in un letto. Ma il dovere chiamava.
 
“Pronto…” Borbottai con la bocca impastata. “Chi è?” Domandai sbadigliando senza pudore. “Arron.” Mi strofinai gli occhi, non riuscivo a capire più nulla, ero ancora mezza addormentata. “Chi?” Sbadigliai nuovamente, mi serviva dello zucchero, e in fretta. “Arron De Solis? Il presidente della neo-repubblica? Il tuo capo? Quello che dirige tutta la baracca?” Mi ricordò parecchio seccato.
Feci schioccare la lingua domandandomi cosa volesse quell’idiota proprio adesso, a poche ore da una delle operazioni più importanti degli ultimi anni. “Presidente… che piacere sentirla.” Commentai con non velata ironia.
“Generale sii seria, abbiamo poco tempo.” Mi bacchettò con il suo modo di fare da professore so tutto io che mi faceva saltare i nervi.
Feci schioccare nuovamente la lingua, volevo strozzarlo e la nostra conversazione era durata appena un minuto.
 
“Cosa vuoi Arron?” Domandai mandando a fanculo le formalità. “Il capo della sezione strategica mi ha informato del andamento per gli accordi con gli Ashari.” Mi misi a sedere e tornai ad essere il Generale Ribelle. “Dunque?” “Vogliono Alto-Colle e la zona meridionale dello Shakarm. E… supporto militare per la conquista del territorio.”
Sospirai esasperata. “In cambio cosa avremo?” “Il Deserto è a nostra disposizione, le loro armi sono le nostre e il petrolio da oggi costerà molto meno.” Mi informò De Solis ma sentivo il risentimento nella sua voce. “Che ti prende De Solis, sembra che stai parlando di chi ti ha ammazzato il gatto?”
Arron si bloccò un secondo per trattenere la rabbia e mi rispose. “È troppo bello per essere vero. Sento che ci sarà una fregatura.” Mi informò De Solis.
“Anche se ci fosse a noi frega qualcosa? Siamo seriamente nella posizione di poter rifiutare? Le casse degli Antichi sono agli sgoccioli, e anche le nostre non sono messe bene. E sai bene quanto me che se ad Alto-Colle e nello Shakarm sono impegnati a combattere gli Ashari per noi è un vantaggio: i rifornimenti da Libris arriveranno più lentamente, perderanno molti uomini e non potranno farci nulla perché gli Ashari conoscono quei territori meglio di qualunque altro bastardo potessimo trovare.”
 
De Solis sospirò. “Lo so, ma comunque non mi fido.”
“Rilassati, non ci volteranno le spalle. Odiano tutto ciò che riguarda l’Ovest ma odiano molto di più il Governo che noi. Non ci tradiranno. Sarebbe soltanto una perdita dal loro punto di vista.” Gli ricordai, comprendevo le sue remore, ma avevamo le mani legate.
“Ti devo ricordare che se non attuiamo la nostra parte del contratto non ci arriverà più neanche un barile di petrolio?” Domandò De Solis infastidito.
“Rilassati ciccio. Ho un piano B, in caso non riuscissimo a conquistare la strada elfica, e ho un piano D in caso gli accordi crollassero.” A dire la verità non avevo un fottuto piano di riserva, avevo solo un asso nella manica da sfoderare in caso di emergenza o per dare al Governo il colpo di grazia. Ma era meglio che De Solis lo considerasse un effettivo piano.
 
“Ribelle… ti ho promesso tre anni per concludere la guerra.”
“Lo so.”
“Ma se iniziamo a perdere e mi offriranno un trattato di pace, non importa quanti territori perderemo, io lo firmerò. Sono stato chiaro?” De Solis ci teneva veramente a ricevere un pugno la prossima volta che incontravo il suo brutto muso.
“Abbiamo già avuto questa conversazione e la mia risposta è sempre la stessa: sei stato cristallino ma non sarà necessario.”
“Lo spero, per il bene di tutti noi.” Concluse chiudendo la chiamata.
Sbattei la cornetta e alzai il culo dal letto: lanciai un’occhiata all’orologio, le 6:30. Era decisamente l’ora che mi alzassi dal letto e riprendessi il lavoro.
 
La prima cosa che feci fu recarmi da Oreon per parlare con lui, dietro di me c’era Arlo che mi seguiva come un’ombra fedele, le sue grandi ali da pipistrello erano ripiegate e si guardava attorno con sguardo glaciale. “Rilassati Arlo, siamo al sicuro qui.”
“Il mio dovere è proteggerla Generale, sarebbe una mia mancanza abbassare la guardia.” Rispose seduta stante, senza un accenno di esitazione nella voce e non mi sorpresi.
 
Arlo era la mia ombra da quasi quattro anni, un record, di solito erano costretti al ritiro prima che mi ci potessi affezionare, e c’era un buon motivo: Arlo non era solo grande e grosso, era competente, sapeva come proteggermi preservando sé stesso e aveva abbastanza fegato da imporsi quando stavo per fare qualcosa di impulsivo che avrebbe messo a repentaglio la mia sicurezza.
Era lui quello che sottostava a me, ma sapeva quando doveva invertire i ruoli e assumere lui il comando. Lo rispettavo e mi piaceva per questo, era un ragazzo in gamba e per questo gli avevo proposto una promozione diverse volte ma si era categoricamente rifiutato.
Una volta, poco dopo che sua figlia era nata, circa un anno prima, lo avevo preso da parte e avevano fatto una lunga chiacchierata. Gli avevo detto e ripetuto che se avesse continuato con questa vita non avrebbe visto sua figlia crescere e che la mia non era una punizione, ma un premio per il servizio reso. Gli avevo offerto di andare a capo di una divisione per la sicurezza, gli avevo offerto di entrare a far parte della logistica, gli avevo offerto una carriera che gli avrebbe permesso di vedere sua moglie e sua figlia con una cadenza decente e di non rischiare ogni due per tre di beccarsi una pallottola al posto mio, ma niente. Aveva decisamente la testa più dura della mia.
 
 
Arrivai davanti al nostro ufficio mobile e lì trovai Atos, la guardia del corpo di Oreon, aveva la pelle nero-bluastra che contraddistingueva ogni orco e uno sguardo di ghiaccio terrificante, ed era immenso anche rispetto ai suoi co-razza, raggiungeva l’altezza di Arlo, circa due metri, ed era più ampio di lui. Io, in confronto a quei due, parevo bassa con il mio metro e settantaquattro.
Atos era molto più rude nei modi e Oreon a tratti lo mal tollerava, ma ne comprendevo i motivi. La sua ultima guardia, Dario Olmi, era morta appena tre mesi fa, si stava ancora abituando, anche se quella che l’aveva presa peggio era stata Nim. Sospettavo che lei e Dario fossero diventati amici intimi in quei due anni di collaborazione, erano anche relativamente vicini come età, sarebbe stato strano il contrario.
Arlo invece lo aveva accettato più in fretta, probabilmente perché era stato addestrato a non crollare. Poi c’ero io che avevo sofferto per Oreon più che per il ragazzo.
 
Entrai senza preoccuparmi di bussare e trovai Oreon intento a sistemare gli ultimi documenti assieme a Nim che stava scorrazzando da una parte al altra della stanza. Ma come mi vide si bloccò per un’istante facendomi un cenno di saluto, rispettoso ma sbrigativo. Feci un mezzo cenno del capo in risposta.
 
Oreon mi guardò con un mezzo sorriso. “Ben svegliata.” Mi stava prendendo in giro.
“Ho dormito mezz’ora in più.”
“De Solis ti ha rimproverata? Ti ha dato una nota?” Abbassai la maschera e gli feci la linguaccia. “Matura.” Commentò Oreon con un mezzo sorriso.
“Mi dici a che cazzo devo il tuo buon umore? Sarebbe adorabile se non avessimo un coltello alla gola.” Risposi irritata.
“Camilla è in cinta.” Quattro parole che mi fecero strabuzzare gli occhi.
“Di nuovo?” Domandai sconcertata: Camilla era più giovane di me e Oreon però avere un figlio a trentasette anni è comunque un impegno non da poco, anche se il quarto.
“Che vuoi che ti dica? Facendolo succede.” Disse Oreon facendo spallucce.
“Non avevate litigato?” Alzò appena le mai in un gesto che diceva chiaramente: che vuoi che ti dica?
“A che settimana è?” Domandai, era passato parecchio tempo dall’ultima volta che eravamo tornati a Defili. “Ottava.” Questo mi sorprese: Camilla aveva un sesto senso per le gravidanze, si era accorta di essere in cinta del primo figlio di Oreon, Teseo, ad appena due settimane dal concepimento. Il fatto che avesse aspettato così tanto lo trovavo strano. Dovevano aver litigato in maniera veramente violenta se aveva deciso di tenerglielo nascosto per tutto questo tempo. Ma non dissi nulla, non volevo far preoccupare il mio amico con le mie paranoie.
“Sono contenta per te. Sanno già il sesso?” Risposi con il mio sorriso più dolce.
“No, ma spero che sia femmina, ho già tre maschi, quattro se contiamo Nat. Sarebbe anche ora di avere una bambina.” Gli sorrisi e poi batté le mani per chiudere la questione.
“Bene, detto questo, ho notizie dal fronte.”
Mi risistemai la maschera, sentivo lo sguardo di Nim su di me, aveva scoperto cos’ero due anni fa, dopo quasi quattro anni che serviva Oreon. Ma non ci aveva ancora totalmente fatto l’abitudine: il fatto che io fossi umana la metteva a disagio. Ma quando indossavo la maschera tornava quella di sempre.
“Aggiornami.”
 
 

  
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Bibliotecaria