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Autore: Adeia Di Elferas    01/07/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Giulio Cesare da Varano ancora si chiedeva come fosse stato possibile che un giovane insolente come Giovanni Antonio Ferraccioli fosse riuscito a sobillare la popolazione di Camerino al punto da convincere anche l'ultimo dei poveracci a favorire gli assalitori e a far cadere perfino l'ultimo baluardo di difesa.

Certo, aveva usato temi molto cari alla plebe, come la mancanza di cibo ormai conclamata e anche lo strapotere dei Varano, che avevano di fatto imposto leggi via via sempre più dure e sempre più incomprensibili.

L'unica cosa che rendeva il cuore di Giulio Cesare leggero era sapere il figlio Venanzio in fuga e, probabilmente, già salvo. Non aveva aspettato l'ultimo momento, come invece avrebbe voluto fare, e così era riuscito a salvarsi dalle grinfie dei soldati di Oliverotto da Fermo e Francesco Orsini.

Suo figlio Annibale, invece, era caduto prigioniero come lui e, in quel momento, non lo vedeva. Si poteva immaginare che lo stessero trascinando a forza, come stavano facendo con lui, chissà dove...

Premuccio, uno degli abitanti di Camerino che aveva più strenuamente lottato contro i Varano, guadagnandosi subito il plauso degli assalitori, camminava tronfio accanto a Giulio Cesare, che, invece, tormentato non solo dall'onta della sconfitta, ma anche dalla gotta, che proprio quel giorno aveva deciso di ripresentarsi nella sua forma più acuta, si lasciava portare quasi di peso da due guardie vestite di scuro.

“Adesso vedrai!” esclamò proprio Premuccio, mentre indicava ai due borgiani da che parte svoltare: “Ho pensato di lasciarti dire addio a questa città... E poi dicono che non ho un cuore tenero...”

Il Varano non si fece domande, lasciò che lo portassero dove volevano. Ormai si sentiva perso e immaginava che anche Annibale lo fosse. Solo sua moglie Giovanna Malatesta, fuggita da tempo assieme a Giovanni Maria, e Venanzio potevano dirsi salvi...

Sgomento, Giulio Cesare si chiese come mai si fossero fermati proprio sulla porta della città. Alle sue spalle sentiva il brusio di una piccola folla di curiosi che, ben lungi dall'essere intimiditi dall'assedio appena concluso, aspettavano con trepidazione di vedere se il loro vecchio tiranno sarebbe stato ucciso proprio lì davanti ai loro occhi.

“Bacia qui.” ordinò Premuccio, picchiettando con le dita sporche sullo stipite della porta cittadina.

“Come..?” la voce di Giulio Cesare era un soffio appena udibile.

L'uomo non osava nemmeno posare i piedi in terra, perché sapeva bene che tra la stanchezza, il podagra e l'avvilimento che l'attanagliava, non sarebbe riuscito a non cadere. Preferiva che fossero le braccia forti delle due guardie a sorreggerlo.

“Bacia questa porta: così dirai addio per sempre a Camerino.” ripeté Premuccio, sputacchiando: “Ti ho detto: baciala!”

Chinando il capo canuto, Giulio Cesare fece un breve cenno d'assenso. I due uomini che ormai avevano sostituito le sue gambe lo avvicinarono alla pietra ruvida e lui, in modo molto evidente, affinché non gli venisse chiesto di ripetere il gesto, sporse in fuori le labbra e diede un bacio allo stipite.

“Bene.” fece soddisfatto Premuccio, rivolgendosi poi alla folla: “Oggi avete visto tutti la fine di questo despota! Che ora ne facciano quello che vogliono l'Orsini e l'Oliverotto!”

Il Varano chiuse gli occhi, mentre lo trascinavano di nuovo via, le punte dei piedi che toccavano il suolo, a peso morto, quasi che l'avessero già ucciso. Non ebbe neppure la forza di provare a capire dove lo stessero portando. In quel momento la stessa Camerino gli era estranea e nemica, le vie sconosciute e i volti della gente gli risultavano irriconoscibili.

Arrivati nei pressi una stalla mezza distrutta, le guardie lo spogliarono completamente, lasciandolo nudo, senza nemmeno i calzari. Il vecchio provava una vergogna che nulla aveva a che fare con le proprie pudenda: quello spogliarlo era un ulteriore simbolo della sua caduta, la conferma definitiva che lo trasformava in una nullità.

I due soldati lo legarono accuratamente a un palo, muovendosi rapidi, come se stessero seguendo un piano che era loro ben chiaro fin dal principio. Il vecchio signore della città non trovò le parole per chiedere cosa lo aspettasse, quindi, in silenzio e accasciato al suolo – per quanto gli era permesso dalle corde tese – si limitò ad attendere il suo destino.

Le ore passavano, una dopo l'altra, monotone e incolori. Giulio Cesare aveva sete, aveva anche fame e si era sporcato, non riuscendo più a trattenere i propri bisogni corporali. Aveva caldo e il contatto con il terreno ruvido lo tormentava.

Si chiedeva come sarebbero andate le cose, se solo i suoi figli, a tempo debito, si fossero arresi subito, ma poi, un istante dopo, si sentiva gonfio d'orgoglio al pensiero che il sangue del suo sangue aveva venduto caro l'onore, combattendo finché era stato possibile.

Scese la notte e nessuno andò nemmeno a vederlo. I ratti e le cicale furono la sua unica compagnia fino all'alba.

Le ore di solitudine, comunque, oltre ai fastidi avevano portato anche consiglio. Il fatto di non essere stato ucciso immediatamente aveva aperto a Giulio Cesare una serie di opportunità che aveva vagliato meticolosamente e, a sole sorto, sapeva che carta giocare. Se anche quella mano fosse stata infausta, avrebbe accettato una volta per tutte il fato, ma valeva la pena fare una prova.

“Voglio parlare con messer Oliverotto.” disse, con voce tremula, quando finalmente un soldato arrivò a controllare – probabilmente – se fosse ancora vivo.

“Lui non c'è.” rispose il soldato, con un forte accento laziale: “Noi rispondiamo all'Orsini.”

“Allora fatemi parlare con lui!” ribatté, esasperato, il prigioniero.

Senza dirgli né sì né no, l'armigero voltò sui tacchi e sparì dalla sua vista. Giulio Cesare aveva ormai perso ogni speranza, quando sentì dei passi avvicinarsi alla porta della stalla.

Francesco Orsini, in abiti impeccabili, mosse qualche passo avanti, facendo segno agli uomini che lo seguivano di attenderlo fuori. Si mise proprio dinnanzi al Varano e lo guardò con aria disgustata, e poi chiese come mai lo avesse voluto vedere.

Trattenendosi dal chiedere che fine avesse fatto suo figlio Annibale, il prigioniero tossicchiò e, facendo tutto il possibile per apparire il più fragile tra gli anziani, sussurrò: “La gotta mi sta uccidendo...” e si indicò con lo sguardo i piedi e le caviglie tanto gonfie e arrossate da sembrare nere: “Non mi resta molto comunque, ma so che voi siete un uomo di valore... Vi scongiuro, vi imploro... Ho una figlia, una figlia che per riguardo a mia moglie, che non le è madre, ho mandato in sposa a Matelica... Lasciate che la riveda! Lasciate che vada nella casa di suo marito, Ranuccio Ottoni, e che mi spenga tra le braccia della mia Emilia!”

Orsini guardava il Varano con insistenza, chiedendosi quanto ci fosse di vero, in quell'arringa patetica. La gotta era vera di certo, perché poteva vedere e riconoscere benissimo i segni della malattia. Che il vero motivo di quella richiesta fosse morire presso una figlia naturale... A quello riusciva a credere molto meno.

“Vi prego! Sono solo un povero vecchio morente...” riprese Giulio Cesare, mettendosi a piangere.

Benché fosse solo una strategia, al Varano non risultò difficile far scendere dalle ciglia copiose lacrime verissime e calde. La certezza di aver perso tutto, il dolore fisico, la vergogna di essere nudo davanti al suo nemico, il timore di sapere morto il figlio Annibale... Tutto rendeva il pianto facile e quasi ineluttabile.

Francesco, intanto, stava facendo molte valutazioni tra loro contrastanti. Se fosse stato lui, il vero comandante di quella guerra, avrebbe ucciso all'istante Giulio Cesare, così come avrebbe voluto fare con il di lui figlio Annibale, che invece restava in vita e in attesa di giudizio, proprio come il padre. D'altro canto, essendo subordinato al Valentino, che ormai non stimava più né riconosceva più come suo superiore, non gli sembrava una cosa poi così sbagliata, lasciare in vita dei possibili vendicatori...

“Ci devo pensare.” concluse l'Orsini, voltandosi, per tornare alla porta.

Quella vaghezza fu accolta con gioia dal Varano, che sapeva bene quanto un forse fosse più vantaggioso di un secco rifiuto in quei casi. Rannicchiandosi come meglio poteva, cercò di svuotare la mente e recuperare almeno in parte il sonno perso quella notte, augurandosi come non mai di risvegliarsi solo all'arrivo di buone notizie.

 

Francesco Gonzaga si sentiva molto più rilassato ora che il re, in partenza per la Francia, gli aveva concesso il permesso senza clausole per rientrare a Mantova, per paura di un'epidemia di peste di cui si contavano già i primi morti. Era stata una buona idea, alla fine, seguire re Luigi XII fin lì a Genova e trovare il modo di parlargli a quattrocchi.

I francesi si erano opposti a una sua condotta con i fiorentini, che gli avevano promesso duecento armigeri e venticinquemila ducati di stipendio, ma in quel momento al Marchese andava bene anche così. Certo, avrebbe dovuto sopportare lei ire della moglie Isabella, una volta rientrato a casa, ma c'era pur un prezzo da pagare, per seguire la strada più sicura...

L'ultima cosa che gli restava da fare, proprio lì sulla nave regia in cui aveva preso momentaneamente alloggio, era un colloquio con il Valentino, che, accompagnato dal cognato, il Cardinale d'Albret, voleva discutere con lui della promessa di matrimonio tra la di lui figlia Charlotte e e il figlio di Francesco, ossia Federico.

“Come sta vostra sorella?” chiese il Gonzaga, quando accolse il Borja: “Mia moglie mi ha fatto sapere che ha avuto dei gravi problemi di salute...”

“Una gravidanza malvagia – rispose secco il figlio del papa, guardando il Marchese come se la colpa fosse sua – e spero che Lucrecia si sbarazzi presto del bambino e torni a esser sana...”

Quell'incipit non proprio amichevole si stemperò in fretta, nel parlare di affari. I dettagli della futura unione tra Charlotte e Federico vennero decisi in fretta, di comune accordo, e, anzi, si arrivò oltre.

Francesco, infatti, negoziò e strappò la promessa di un cappello cardinalizio e di alcuni benefici ecclesiastici legati all'abbazia di San Benedetto di Mantova per il fratello Sigismondo, concludendo l'affare alla modica cifra di venticinquemila ducati.

Che fosse proprio il patimento per la sorella malata, o chissà quali altri problemi personali, il Duca di Valentinois quel giorno era distratto e anche troppo cedevole. Forse, pensava il Gonzaga, gli avrebbe promesso addirittura il soglio pontificio, se glielo avesse chiesto!

“Ebbene, se non c'è altro di cui discutere...” concluse il Valentino, firmate le ultime carte e rimessosi in testa la berretta decorata da una lunga piuma azzurra.

Più che soddisfatto, il mantovano gli baciò le mani e le guance, proponendo – con la segreta speranza di sentirsi opporre un rifiuto – di pranzare assieme quel giorno, o, almeno, di andare a caccia assieme la mattina seguente.

“Come se avessimo accettato.” rispose freddo il Borja e, senza dire altro, salutò con un cenno dalla mano e si fece seguire dal cognato, il Cardinale D'Albret, fuori bordo.

Stavano ancora scendendo dalla nave, quando videro uno dei loro paggi sventolare qualcosa dalla riva. Presagendo che si trattasse di brutte notizie, Cesare prese a correre, fino a raggiungere il giovinetto.

Gli strappò di mano il messaggio, mentre il ragazzino spiegava come quella lettera fosse appena arrivata da Ferrara, e poi si mise a leggere furiosamente, il cuore che batteva con forza contro lo sterno e il respiro che si mozzava a ogni riga.

Gli spiegavano che Lucrecia aveva avuto un malore, una sera, una sorta di dolore incoercibile alla schiena. Soccorsa immediatamente era stata portata in stanza, doveva aveva sgravato. La bambina che portava in grembo, però, per quanto formata, era mostruosa e morta. La Borja era, al momento in cui la missiva era stata spedita, ancora febbricitante e incosciente e si chiedeva al Duca di pregare per lei, perché i medici illustri che l'avevano in carico non sapevano come curare quella violentissima febbre puerperale.

Con la bocca asciutta e le mani sudate, Cesare non perse tempo e, gonfiando più che poteva i polmoni ordinò: “Un cavallo! Tu, cognato! Verrai con me! Andiamo immediatamente a Ferrara!”

 

Giovanna Malatesta guardava con disprezzo la nuora, che cercava invano di far attaccare la figlia di pochi mesi al seno. Per quanto la Della Rovere si sforzasse, però, Porzia, macilenta e svogliata, non dava segni di volerla assecondare. Ormai erano più le poppate che finivano a quel modo di quelle in cui la piccola riusciva a succhiare un po' di latte.

“Di questo passo – sentenziò la moglie di Giulio Cesare da Varano – la farai morire di fame... Sei incapace perfino di nutrire mia nipote! Già non ti occupi come dovresti di Sigismondo e Battista, ma almeno di questa, è nata da poco..!”

Tutto l'astio che usciva dalla voce della cinquantanovenne andò a soffiare su una brace sempre pronta a riprendere vita, nell'animo di Maria Giovanna. Trovava la suocera un essere ignobile, incapace di supportarla e intenta, giorno e notte, a criticarla. Almeno, quando erano ancora a Camerino, non era costretta a subire le sue angherie in modo tanto continuativo. Lì a Venezia, invece, con Giovanni Maria spesso fuori per cercare di tessere amicizie con nuovi alleati o per avere notizie della famiglia, la giovane restava ore intere da sola con la rugosa suocera.

“Se proprio ti dimostrerai incapace, allora mi convincerò a cercare una balia... Ma sappi che una balia costa!” l'ammonì la Malatesta, sollevando l'indice un po' storto per via dei reumatismi: “Se almeno avessi partorito un maschio, spenderei più volentieri dei soldi per una nutrice... Per questa bambina... Io al massimo posso cercare una schiava, una di quelle africane, magari, o una di quelle che arrivano dalla Schiavonia...”

La Della Rovere era sull'orlo delle lacrime per il nervosismo. Da un lato c'era Porzia che iniziava a piangere – con un lamento che la faceva assomigliare a un gatto – e dall'altro la suocera che non la smetteva di umiliarla. Anche se era già settembre, faceva ancora caldissimo e Venezia, con tutta quell'acqua e quegli acquitrini luridi sparsi ovunque, si trasformava ogni sera in un nugolo infinito di zanzare.

“Non è colpa mia, se non ho latte.” si difese la moglie di Venanzio da Varano, tenendo gli occhi sulla bimba, paonazza per il frignare: “Non mangio quasi nulla da giorni! I vostri amici ci ospitano qui, ma non ci danno cibo a sufficienza! Se dovevo morire di fame, preferivo restarmene a Camerino!”

“Insolente e linguacciuta!” scattò la Malatesta, indignata: “Questa è la riconoscenza per averti salvata da morte certa?! Con tutte le donne migliori di te che avrebbe potuto sposare il mio Venanzio!”

“Davvero...” commentò a denti stretti Maria Giovanna, non riuscendo a trattenersi: “Con tutte le donne che poteva sposare, il destino crudele ha proprio scelto me...”

La suocera, che non era certa di aver capito bene il tono usato dalla nuora, stava comunque per ribattere, senonché si sentì del trambusto arrivare dal salone e, dopo pochi istanti, qualcuno arrivò da loro per annunciare l'arrivo di un drappello di uomini che aveva bisogno di parlare con urgenza con Giovanni Maria da Varano.

“Al momento non c'è – disse prontamente Giovanna Malatesta – ma parlerò io con chi è arrivato: ne ho piena facoltà. E tu, copriti, svergognata!” aggiunse, rivolgendosi alla Della Rovere, che stava ancora cercando invano di allattare.

Non avendo tempo, più che non avendone la voglia, di mandar via la nuora, la moglie di Giulio Cesare da Varano ordinò che il drappello di uomini entrasse pure nella saletta.

Maria Giovanna, intimidita dall'arrivo di circa quindici uomini – tutti armati e tutti coperti dalla polvere del viaggio – tenne lo sguardo basso, verso la figlia. In cuor suo, quando sentì dire dal portavoce del gruppo, che c'erano notizie gravi da Camerino, sperò di sapere morti il marito e il suocero, ma il soldato fece sfumare subito ogni suo entusiasmo.

“Camerino è caduta in mano al nemico – spiegò l'uomo, con gravità, mentre Giovanna Malatesta fremeva a ogni parola – e vostro marito, il valoroso Giulio Cesare, è stato fatto prigioniero, assieme al figlio Annibale.”

“E Venanzio?” chiese la donna, stringendosi le mani al petto.

“Lui è riuscito a scappare, per il momento.” la rassicurò il soldato.

La Malatesta si lasciò scappare un singhiozzo di sollievo, mentre Maria Giovanna, incapace di governarsi, scoppiò a piangere a dirotto, liberando in un solo momento tutte le frustrazioni accumulate in quei giorni, la rabbia che l'accompagnava da che era diventata la sposa di Venanzio e, più forte di tutto il resto, la delusione nel saperlo ancora vivo.

“Non fate così, mia signora...” sussurrò il soldato, convinto che la giovane sposa del Varano fosse solo preoccupata per il marito: “Di certo si salverà e sarà qui da voi prima che possiate accorgervene!”

Mentre i singulti e le lacrime di Maria Giovanna si moltiplicavano, nelle retrovie del drappello un armigero che fino a quel momento non si era sentito molto partecipe di tutto quel teatrino, si accigliò osservando con cura colei che portava in braccio una bambina piccola. Gli bastarono un paio di minuti per inquadrare la situazione: ne aveva già viste anche troppe, di giovani donne che altro non speravano, se non di rimanere vedove anzitempo.

“Perché siete venuti qui tanto numerosi, se dovevate solo riferire una comunicazione come questa?” domandò a un certo punto Giovanna Malatesta, asciugandosi un po' gli occhi e ignorando del tutto la nuora che ancora non riusciva a smettere di piangere.

“Ci manda Giudobaldo da Montefeltro.” spiegò allora l'uomo che sembrava essere alla guida di tutti loro: “Per farvi da scorta, ora che la situazione è peggiorata.”

La donna parve convinta da quelle parole, ma ribadì più volte come fosse importante che le stesse parole venissero ripetute a Giovanni Maria, una volta che fosse tornato al palazzo.

Il capo dei soldati si trovò d'accordo, ma ci tenne a presentare uno per uno gli uomini che lo seguivano, tenendo per ultimo proprio quel soldato che aveva capito – unico tra tutti – il vero motivo del pianto dirotto di Maria Giovanna: “E lui – disse il comandante del drappello, indicando il giovane – è Giovanni Andrea Bravo, di Verona.”

Giovanna Malatesta ebbe parole buone per tutti, specie proprio per Giovanni Andrea, chiedendo poi: “Ma siete proprio quel Giovanni Andrea Bravo che è prediletto tra tutti dal Duca d'Urbino?”

“Così sembra, mia signora.” rispose questi, con una voce tanto profonda e accattivante da portare Maria Giovanna Della Rovere a smettere di singhiozzare per un istante e sollevare lo sguardo, per cercare la fonte di quel suono così piacevole e intrigante.

Per una frazione di secondo appena, lei e il soldato incrociarono lo sguardo e poi entrambi, come scottati da quel fugace contatto, guardarono altrove.

Il portavoce del manipolo riprese a discutere con la Montefeltro, ma ormai Maria Giovanna non li ascoltava più. Stava pensando tra sé e sé a quando aveva sentito fare il nome di Andrea Giovanni Bravo. Scavando nella memoria, riuscì a collegare qualche ricordo a quel nome al bel viso del soldato. Ne aveva in effetti sentito parlare come di un uomo dal fascino innegabile e dal bell'aspetto, e, ora che l'aveva visto, poteva confermare che i suoi lineamenti erano simili a quelli di una statua classica e che per altezza e fisicità era molto più attraente della maggior parte degli uomini che la Della Rovere avesse mai incontrato.

Scottata dal suo matrimonio – partito malissimo e continuato anche peggio – per anni Maria Giovanna aveva vissuto il rifiuto per tutto ciò che riguardasse gli uomini e i sentimenti e gli istinti che essi le scatenavano, ma in quel momento, forse anche per la lontananza di Venanzio, si scopriva sensibile a quel genere di attrattive. O, se non altro, forse per la prima volta si trovava a provare un lieve interesse verso qualcosa che, fino a poco prima, le aveva procurato solo repulsione se non addirittura disgusto.

Ripescando nella memoria stralci di conversazione in cui aveva sentito nominare quel bel veronese, si ricordò di come venisse sempre indicato come uno degli armigeri migliori d'Italia, al soldo provato di Guidobaldo da Montefeltro, strappato ai migliori eserciti della Penisola, che avrebbero fatto a gara per aggiudicarselo.

Senza farsi notare, la giovane sollevò di nuovo gli occhi verso l'armigero, tornando nelle retrovie.

In effetti spiccava, in mezzo agli altri. Le spalle larghe e le membra armoniose facevano da supporto a un viso che sembrava scolpito da un angelo. Il lucore dei suoi occhi, però, tradiva una natura estremamente terrena e sanguigna. Anche da quella distanza, Maria Giovanna poteva sentire il palpitare rosso delle sue vene e la tensione viva dei suoi muscoli che, anche sotto ai vestiti da viaggio, apparivano tesi e ben delineati.

Aveva un portamento elegante, ma poi bastava che facesse un'espressione particolare o un gesto inconsapevole per sprigionare un che di selvaggio che la Della Rovere trovò più interessante di tutto il resto.

Alla fine Giovanna Malatesta concluse che fosse proprio il caso che quegli uomini attendessero Giovanni Maria, per accordarsi bene su ogni cosa, e, parlando con tono di immotivato rimprovero, disse alla nuora: “Ora vado dai tuoi altri figli, e faresti bene a venire anche tu!”

La giovane, senza avere la forza di ribattere, la seguì a capo chino, tenendosi in braccio la piccola Porzia che, ancora digiuna e innervosita da chissà cosa, non smetteva un momento di piagnucolare.

Solo dopo cena, quando Giovanni Maria da Varano ebbe discusso a fondo con il capo dei soldati inviati dal Montefeltro, Maria Giovanna ebbe modo di rivedere da vicino il veronese Bravo.

Su decisione del Varano, sarebbe spettato proprio a lui, in caso di necessità stretta, difendere la Della Rovere e, soprattutto, l'unico figlio maschio che aveva, ossia Sigismondo.

“Lui da solo – aveva assicurato il capitano della brigata – vale tanto quanto dieci uomini. Con lui al fianco, non potete temere nulla.”

Fu proprio nell'immediato momento che seguì alla cena, approfittando della tranquilla confusione che era venuta a crearsi nel salone grazie sia ai soldati, sia agli proprietari del palazzo, che ci tenevano a conoscere quei nuovi ospiti, che Giovanni Andrea trovò il modo di avvicinarsi alla moglie di Venanzio da Varano.

Lo aveva incuriosito a tal punto da portarlo a non pensare ad altro, per tutto il pasto, se non a un modo per parlarle e provare a capire meglio che tipo di donna fosse davvero. Più l'osservava, infatti, più si convinceva che sotto alle vesti della giovane madre e moglie, compita e silenziosa, si nascondesse qualcosa di molto più tumultuoso e fiero.

“Avete molta paura, per la sorte di vostro marito?” domandò Giovanni Andrea, appena fu a tiro d'orecchio della Della Rovere.

Questa, sorpresa nel sentirsi chiamare in causa in modo tanto diretto, d'istinto scosse il capo, e poi, per dissimulare quella reazione, cambiò discorso e chiese: “A Verona avete tutti quest'accento strano?”

Bravo, che aveva mitigato molto la sua cadenza negli anni, restò un istante in silenzio. Poi, quasi in imbarazzo, rise, mettendo in mostra una fila di denti bianchi e regolari che sorprese la donna, abituata a vedere i soldati spesso con dentature accidentate e ingrigite dalla scarsa cura e dal vino.

“Non lo so, mia signora...” disse l'uomo, ancora piacevolmente spiazzato dalla battuta un po' pungente della sua interlocutrice: “Ho trascorso molti anni a Senigallia e a Urbino... Penso che ormai la mia sia una pronuncia ibrida.”

Maria Giovanna, come rendendosi conto di aver osato troppo, abbassò lo sguardo e borbottò: “Io adesso dovrei andare, scusatemi... Devo... Devo andare a pregare per la sorte del mio povero marito...”

“Aspettate...” fece allora lui, bloccandola subitaneo, prendendola per un braccio con la mano e inducendola a fermarsi proprio accanto a lui.

Quel contatto fisico, inatteso, che li aveva portati ad avvicinarsi tanto non sfuggì all'occhio vigile di Giovanna Malatesta, che, dal suo cantuccio, seppur intenta a discorrere animatamente, notò all'istante quel gesto. Vide anche il volto della nuora avvampare e la stessa schiudere le labbra, gli occhi fissi in quelli del soldato, e andarsene quasi di corsa. Tranquillizzatasi, la moglie di Giulio Cesare da Varano fece tra sé una smorfia divertita: non doveva temere, per il buon nome della famiglia, dato che Maria Giovanna era talmente d'indole debole che mai e poi mai avrebbe trovato il coraggio di trovarsi un amante...

Rimasto a mani vuote, Giovanni Andrea Bravo sospirò un paio di volte e poi, indeciso sul da farsi, tornò al tavolo a prendere un po' di vino e si riunì agli altri uomini, distraendosi come meglio poteva a suon di battute mordaci e motteggi da soldataglia.

Per parte sua, invece, la Della Rovere aveva raggiunto il suo alloggio, dove già dormivano i suoi figli. Non li guardò nemmeno, troppo concentrata su se stessa e sulla strana tachicardia che l'aveva presa e che non voleva lasciarla. Aveva avvertito una sorta di scossa, quando il veronese l'aveva toccata, e il braccio ancora sembrava vibrare. Era stata una presa solida, quella dell'uomo, ma anche incredibilmente gentile. Venanzio non l'aveva mai toccata a quel modo, mai, nemmeno una volta...

Andandosi a coricare ancora vestita, lo sguardo rivolto al soffitto, ignorando il pianto di Porzia, che si era svegliata e reclamava le sue attenzioni – e forse anche del cibo – Maria Giovanna premette il viso contro il cuscino e, dando sfogo a tutto quello che le si agitava nel petto, si sciolse in lacrime, andando in fretta a coprire i lamenti della figlia più piccola e inducendo gli altri due, Sigismondo e Battista, a mettersi a frignare per conto loro, ignorati dal mondo crudele e dalla loro confusa madre che, ad appena vent'anni, sentiva nel cuore una tempesta impossibile da debellare.

 

Caterina aveva le mani sporche di sangue, le nocche doloranti e i polmoni in fiamme. Le sembrava di essere su una barca, che ondeggiava senza sosta, e la nausea era così forte da portarla di continuo a piegarsi in due nel tentativo di vomitare.

Sotto ai suoi piedi, scalzi, sentiva il viscidume di decine di corpi senza vita. Il profilo sventrato e scuro di Ravaldino incombeva su di lei e le grida, in lontananza, parlavano francese...

Come se fosse l'unica cosa logica da fare, riprese a dare calci a un qualcosa che stava proprio davanti a lei. Sembrava un fagotto, ma ogni volta che veniva colpito, emetteva un gemito di dolore.

Solo quando, con un colpo più forte degli altri, riuscì a farlo voltare verso di sé, si rese conto che quello che aveva dinnanzi altri non era che Ludovico Marcobelli...

Svegliandosi di soprassalto, la Tigre quasi cadde dalla panchetta di pietra su cui si era appisolata. Si era messa lì, nel cortile interno, ad aspettare Fortunati, che era stato chiamato da un servo alla porta, per ritirare dei messaggi indirizzati a lui. Evidentemente il piovano doveva essersi assentato più del previsto, oppure le recenti notti passate insonni l'avevano provata più del previsto...

“Caterina, stai bene?” la voce di Francesco ebbe il potere di svegliarla una volta per tutte.

Mentre l'uomo si sistemava accanto a lei, con due missive in mano, la Leonessa annuì e spiegò di aver solo fatto un incubo.

“Marcobelli, di nuovo?” chiese il fiorentino, quasi distrattamente, iniziando a spiegare una delle due lettere: “Ultimamente di notte lo nomini spesso, quando riesci ad addormentarti...”

La milanese, che non aveva memoria di quegli incubi, non faticava comunque a credere che fosse davvero così, perciò evitò di ribattere e chiese invece: “Ci sono notizie importanti?”

“Ecco, guarda qui...” fece lui, porgendole il primo messaggio e facendo già un riassunto a voce: “Si dice che Lucrecia Borja stia morendo... O, almeno, così si diceva il tredici settembre... A oggi potrebbe o essersi ripresa o essere già morta...”

“Mi spiacerebbe per una ragazza così giovane – commentò Caterina, ricordandosi come Lucrecia avesse la stessa età della sua Bianca – ma se morisse, forse il figlio del papa e il papa stesso perderebbero la testa a tal punto che...”

“Non augurarti la morte di una cristiana solo per averne un tornaconto personale.” l'ammonì allora Fortunati, con fermezza: “Questa è una notizia di cui tener conto, ma non farlo: non sperare che questa giovane donna muoia solo perché facendolo i Borja abbasserebbero la guardia nei tuoi confronti. Senza contare che potrebbe anche capitare il contrario: ognuno reagisce al dolore a modo proprio.”

“Già...” sbuffò, indispettita, la donna: “C'è chi reagisce piangendo e chi facendo una strage, come ho fatto io alla morte di Giacomo, giusto?”

Il piovano strinse le labbra, non volendo gettare legna sul fuoco, e poi riprese: “In più si dice che a Roma, malgrado le notizie arrivate da Ferrara, si sia festeggiato come non mai nel sapere che Camerino è finalmente caduta... A quanto pare hanno fatto suonare a festa la campana del Capitolo e hanno celebrato il trionfo in piazza San Pietro con luminarie e fuochi d'artificio.”

“Sempre i soliti arroganti...” bofonchiò la Tigre, scuotendo il capo e ricordando bene le sceneggiate, molto simili, che aveva sopportato nell'arrivare a Roma come prigioniera, in catene d'oro, alla guisa di una schiava.

“In questa, invece – riprese Francesco, porgendole la seconda lettera – si dice solo che i francesi hanno finalmente lasciato Arezzo e si conferma che tra pochi giorni si voterà e si deciderà chi sarà il Gonfaloniere a vita.”

“Bene...” fece la Sforza, ridando le due pagine all'uomo senza nemmeno leggerle: “Io voglio andare a caccia.”

“Caterina...” provò a dire lui, come se stesse cercando di convincere una bambina molto capricciosa a essere più assennata.

“Voglio andarci.” ribatté lei, guardando il cielo limpido di quel metà settembre: “Presto sarà inverno e allora sarà ancora più difficile. Adesso i francesi sono distratti, il Borja pensa alla sorella morente, il papa festeggia e Lorenzo, che il Diavolo lo porti, è già troppo impegnato, come mi dite tutti, a spendere i soldi che sarebbero miei al solo fine di non farsi processare da Firenze come colui che ha venduto la Repubblica a re Luigi... Se non esco a caccia adesso, che nessuno ha il tempo di controllarmi, quando dovrei farlo?”

“E allora fallo.” rispose il piovano, estenuato da quella richiesta che, negli ultimi giorni, era diventata sempre più frequente.

“Vieni nei boschi con me.” propose la Leonessa che, tutto sommato, non si sentiva ancora pronta per una battuta di caccia proprio da sola, in un bosco che ancora non conosceva bene.

“No.” si ostinò lui, alzandosi dalla panchetta e sistemando le lettere nella tasca del vestone scuro che portava.

“Perché no?” a Caterina non piaceva assumere quel tono, ma era così esasperata dall'ostinazione di Francesco, da non riuscire a frenarsi.

“Abbi pazienza, che ti costa?” fece lui, allargando le braccia.

“Ma io sono mesi che ho pazienza!” si arrabbiò allora lei, alzandosi a sua volta, non curandosi dello sguardo curioso che una serva, passata dal cortile per motivi di servizio, le aveva appena lanciato: “Io non sono nata per avere pazienza! Non ne ho mai avuta! Se avessi avuto pazienza non sarei mai scesa in battaglia, non avrei mai preso Castel Sant'Angelo e tanto meno avrei mai ammazzato con le mie mani degli uomini solo perché era fuori di me dal dolore per la morte di Giacomo!”

Quella sfuriata, inattesa e veemente, zittì per qualche secondo Fortunati che, dopo averci riflettuto, ribatté, con calma: “Hai ragione. Non hai mai avuto pazienza. Se ne avessi avuta anche solo un briciolo, probabilmente molte cose sarebbero andate meglio, non credi?”

Ferita da quell'insinuazione, la donna si morse le labbra e poi ribatté: “Stanotte non perdere tempo a passare in camera mia. Ho bisogno di dormire, non ho tempo per te.”

“Tanto avevo in previsione di rientrare a Cascina per un paio di settimane.” annuì lui.

“Fai anche tre.” concluse la Tigre e poi, senza guardarlo più, gli voltò le spalle e tornò nella villa, trovando quanto mai difficile contenere il mostro distruttivo che albergava nel suo animo e che minacciava costantemente di distruggere tutto quello che lei era riuscita faticosamente a ricostruire proprio grazie a quella pazienza che Fortunati l'accusava di non aver mai avuto.

   
 
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