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Autore: FreddyOllow    01/07/2022    1 recensioni
Una raccolta di racconti horror, che spaziano tra l'antico e il moderno. Mostri, presenze, ombre, entità demoniache e pazzi psicopatici infesteranno queste pagine. Le storie sono scritte in prima o in terza persona, al presente o al passato.
Genere: Dark, Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1


Tra le montagne di Santa Margherita, esisteva un paese di dieci mila abitanti da sempre avvolto in una foschia malsana. La gente era schiva, poco ospitale e inquietante. E spesso non si vedeva nessuno nelle strade. Molti dei negozi vuoti avevano le saracinesche abbassate e mai un volto sbirciava da dietro le imposte chiuse. I veicoli parcheggiati accanto ai marciapiedi sembravano fermi da secoli e alcuni modelli risalivano agli anni settanta.
Nicola Farenza era nato lì, in quella valle dimenticata da Dio. Cresciuto nel silenzio, aveva fin da subito apprezzato la solitudine. E nell'Orfanotrofio Della Pietà, quella solitudine, era la sua migliora amica.
Passava le giornate a guardare dalla finestra un mondo muto, triste, sospeso nel tempo e nello spazio. Si divertiva a fissare le fronde degli alberi smosse dal vento, la pioggia picchiettare il vetro della finestra, a fare il tifo per le gocce che ci scivolavano sopra. Era poco, ma si divertiva come un matto. E quando le sue risate echeggiavano nel salone spoglio della sala comune, la quiete esigeva una punizione.
Allora arrivava la suora e gli mollava un ceffone in faccia. Per Nicola, ancora un bambino, quella suora sembrava essere la personificazione del male assoluto. Un mostro che appariva solo per punirlo, prima di sparire nel nulla.
Sapeva che al primo piano c'erano molte suore, eppure ne vedeva solo tre. Donne anziane, rugose, dagli occhi severi e spiritati, le tonache ampie e ben stirate.
Quando arrivava l'ora di pranzo, i bambini si sedevano lungo i tavoli mangiucchiati dalle tarme. Tutti composti, silenziosi, gli occhi bassi sul piatto vuoto. La suora passava con un carrello su cui era posto un grosso pentolone e riempiva i piatti di una sbobba nauseabonda, la stessa sbobba di ogni giorno. Nicola aveva l'abitudine di muovere le gambe mentre mangiava, un gesto involontario. La suora appariva alle sue spalle, gli tirava uno schiaffo dietro la testa e lo fulminava con lo sguardo. Nicola tratteneva le lacrime, finché scoppiava in un pianto sommesso.
La cena era la stessa sbobba del pranzo, il solito inferno, poi via a dormire alle nove. Le luci venivano spente, la porta chiusa a doppia mandata e la suora si sedeva lì vicino, al buio. Erano notti tormentate, sogni trasformarti in incubi. Il vento che ululava tra le foglie, una vecchia porta che cigolava nel corridoio, i rami che si allungavano sulla parete proiettando ombre inquietanti. Laggiù, in quella valle scoscesa e dimenticata, tutto era morto, sepolto sotto una fitta nebbia spettrale.
All'alba, la suora che era rimasta seduta al buio, si alzava e si incamminava lungo i letti, suonando una campanellina. Quel suono terrificava tutti i bambini, che balzavano fuori dal letto con il cuore in gola. Chi non lo faceva o non si svegliava, non faceva colazione e veniva rinchiuso nell'oscurità della soffitta, gli scatoloni come unici compagni di gioco. Nicola aveva sentito una storia su un bambino dimenticato in soffitta. Era morto di fame e di sete e nelle notti più fredde e ventose, si potevano sentire i suoi atroci lamenti.
Non era mai finito in soffitta, ma Tommaso, che aveva dieci anni, andava e veniva in continuazione. «I fantasmi non esistono» diceva con fare arrogante. «E se esistono, io non ho paura di loro!»
Poi un giorno venne condotto nuovamente in soffitta e non fece più ritorno.
«Il fantasma lo ha divorato» dicevano i bambini tra loro.
Dopo qualche giorno, nessuno parlò più di Tommaso. Nessuno lo ricordava più.




 

2


Durante la cena di Natale, arrivò all'orfanotrofio una bambina di sette anni che era stata abbandonata davanti al portone. Era taciturna e solitaria e si chiamava Gloria. Nessun bambino se ne interessò molto, ma le suore sembravano avere una sorta di ossessione per lei. La prendevano alle sei di sera e la riportavano al dormitorio alle nove, esausta e pallida.
Nicola credeva che fosse sordomuta, più bisognosa di attenzioni, perciò non aveva mai provato ad avvicinarla e si limitava a guardarla da lontano. Quando lei voltava lo sguardo verso di lui, il bambino si girava dall'altra parte. Ogni tanto si beccava due ceffoni in faccia dalla suora, perché era vietato fissare le bambine.
Durante il fine settimana, alcune famiglie facevano capolinea all'orfanotrofio. Non erano mai persone del paese, ma forestieri disposti a tutto pur di adottare un bambino. Spesso quelle stesse coppie tornavano più volte con un sorriso sinistro sulle facce inespressive. Nicola non aveva mai visto la suora madre e molti bambini la immaginavano come una strega cattiva. Ogni tanto pensava che le tre suora che vedeva raramente, non esistessero, ma che fossero un'unica persona. L'onnipresente suora che si prendeva cura di loro.
Un sabato pomeriggio Gloria venne portata al primo piano e non fece più ritorno.
Il bambino non rivide più quella bambina taciturna e solitaria, che se ne stava tutta sola in un angolo a intrecciare le dita in un gioco tutto suo, a battere le mani verso qualcuno che vedeva solo lei.
Si chiese se da qualche parte ci fosse una famiglia disposta ad adottare anche lui. Era pronto a fare il bravo, a impegnarsi, a fare di tutto pur di essere adottato. Avrebbe persino dormito in soffitta e affrontato il fantasma che lo infestava.
Il trentuno dicembre il cielo notturno si dipinse di rosso. Oltre la valle, c'era San Sebastiano, una città di sessanta mila abitanti. Tutti i bambini si affollarono davanti alle due finestre del dormitorio e guardarono i fuochi d'artificio esplodere in aria in mille colori. La suora che li sorvegliava era andata al piano inferiore e mancava già da mezz'ora.
Nicola, che era stato messo di guardia davanti alla porta, la vide sbucare da una porta in fondo al corridoio e subito rientrò dentro. «Sta arrivando! Sta arrivando! Tutti a letto!»
Quando la suora entrò nel dormitorio, tutti fingevano di dormire, mentre le luci dei fuochi illuminavano intermittenti le pareti.
Il mattino seguente non c'era la solita sbobba, ma del latte e pezzi di pane abbrustolito messi in un grande recipiente di plastica. Per Nicola era una vera leccornia. Non beveva latte da anni e non ricordava più il sapore del pane. Mosse i piedi per la felicità, quando un ceffone lo colpì dietro la testa e gli fece sputare pezzettini di pane sul tavolo.
La suora gli torse un orecchio, gli schiacciò il viso contro il cibo e lo fulminò con lo sguardo.
Nicola trattenne le lacrime e pulì il tavolo con la lingua. Appena la suora si allontanò, scoppiò in un pianto sommesso. Tutti gli altri bambini evitarono di guardarlo, terrorizzati.




 

3


Nel pomeriggio la suora che lo aveva rimproverato lo prese per un braccio e lo condusse verso la soffitta. Lui non sapeva dove si trovava quell'infernale luogo. Lo aveva sempre immaginato tutto rosso, pieno di mostri, fantasmi e ragni giganti. Lo aveva persino sognato e nei suoi incubi non trovava mai l'uscita. Si perdeva in quei cunicoli dalle pareti rocciose rosso sangue e il terreno avvolto da una foschia dello stesso colore. Camminava e correva in quegli affranti, urlava a squarciagola, chiedeva aiuto. E l'unica risposta che riceveva era l'eco distorto della sua voce. Poi cominciava a scorgere le ombre, sagome nere avvolte in lunghi cappotti neri, le facce invisibili, che fluttuavano silenti tutt'attorno.
La suora si fermò davanti a una porta bianca, girò la maniglia e accese la luce della scala.
Il bambino la guardò impaurito e non vide partire lo schiaffo che lo colpì sulla guancia. Venne spinto sui gradini e la porta si chiusa alle sue spalle a doppia mandata.
Picchiò i pugni sulla porta. «Non voglio rimanere qui! Fammi uscire! Farò il bravo, te lo giuro!»
La luce si spense.
Il bambino si accasciò contro la porta e pianse con la testa fra le ginocchia, gli occhi chiusi per paura di vedere il mostro. Credeva che tenendoli così, il fantasma che infestava la soffitta non gli avrebbe fatto del male, perché non poteva vederlo.
Quando smise di piangere, qualcosa si muoveva in cima alla scala. Forse era il fantasma del bambino che era morto di fame e di sete, così infilò ancora di più la testa tra le ginocchia. Non voleva aprire gli occhi, perché pensava che avrebbe fatto infuriare il fantasma. Era meglio starsene in silenzio e pensare alle gocce d'acqua che scivolavano lungo la finestra del dormitorio. Immaginava una gara, una goccia che sorpassava l'altra, quando qualcosa gli si avvicinò. Lanciò un urlo di terrore e martellò di pugni la porta, girò la maniglia più e più volte.
I passi si fermarono alle sue spalle.
Cominciò anche a calciarla, finché si accese la luce della scala e una chiave girò nella toppa. Nicola salì rapidamente i gradini della soffitta e si rifugiò dietro una fila di scatoloni polverosi. Aveva più paura della suora, che di qualunque cosa ci fosse in soffitta.
Poi la porta cigolò, la luce si spense e la chiave girò due volte nella serratura.
Nicola restò immobile per un lungo momento. Tratteneva le lacrime in quella oscurità più totale con gli occhi chiusi, arrossati, doloranti.
Si udirono nuovamente i passi simili a stivali che scricchiolavano sulla ghiaia. Ma il bambino si trovava in soffitta, dove il pavimento era di legno. Quindi da dove arrivava quel suono?
I passi continuarono a camminare per un lungo momento, poi tornò il silenzio.
Non sapeva dirsi quanto tempo fosse passato, ma non gli importava. Voleva restarsene accucciato, finché la suora non lo avesse riportato al dormitorio. E se non fosse venuta a prenderlo? E se sarebbe morto di fame e di sete come Tommaso?
Pensò al fantasma e il terrore tornò a tormentarlo, a farsi beffa di lui. Sentì di nuovo quei passi, seguiti da un inquietante mormorio impercettibile. Una cantilena che aveva sentito più volte cantare dai bambini piccoli che stavano al secondo piano.
«Gira e rigira, lei si avvicina. Gira e rigira, tutto spira. Gira e rigira, ecco che arriva. Gira e rigira, la morte grida.»
Ascoltò il tetro mormorio, finché le parole furono ripetute al contrario e rabbrividì. Voleva fuggire, gridare, piangere, ma non poteva. Avrebbe infastidito il fantasma o chiunque mormorasse quella filastrocca. Non voleva rivelare la sua presenza. Credeva che se fosse rimasto immobile, nessuno si sarebbe accorto di lui. Poi il mormorio scemò, i passi scomparvero e Nicola crollò addormentato.




 

4


Un calcio a una gamba lo destò dal mondo degli incubi. La suora si ergeva su di lui con il viso austero. Scattò subito in piedi e provò un senso di vertigini, seguiti da innumerevoli puntini rossi alla vista.
La suora lo fece scendere dalla soffitta e lo condusse nel dormitorio, dove gli altri bambini stavano giocando. Quando lo videro, si ammutolirono e lo scrutarono da capo a piede. Poi la suora lasciò la stanza e quelli lo accerchiarono.
«Sei stato in soffitta?»
«Hai visto il fantasma?»
«Hai visto Tommaso in soffitta? È vivo?»
«Com'è la soffitta? È spaventosa?»
«È vero che ci sono i mostri?»
Nicola non amava essere al centro dell'attenzione, così li ignorò e si sedette da solo in un angolo.
Marco Gentile gli andò dietro e lo additò con un sorriso sprezzante. «È solo uno scemo! Vuole farci credere che è stato in soffitta, quando non è vero. Se fosse stato in soffitta, non sarebbe più tornato qui, perché è un cretino come i mostri che ci vivono. E lui sta bene insieme ai cretini!»
I bambini scoppiarono a ridere.
Nicola ribolliva d'odio e di rabbia e voleva prenderlo a pugni, fargli uscire sangue dal naso, ma avrebbe solo peggiorato la situazione. Gli amici di Marco lo avrebbero picchiato e tormentato ancora di più. E poi c'era la suora che lo avrebbe rinchiuso in soffitta per un mese o più. Preferiva essere preso in giro, che ritornare in quel posto. Al solo pensiero gli veniva da piangere.
Arrivò il giorno di natale e scoprì, tramite un libro letto in biblioteca, che i bambini ricevevano i regali da un certo Babbo Natale. Perché quell'uomo dal ventre prominente e dalla lunga e folta barba bianca non gli aveva mai portato un regalo? Perché nessuno dei bambini ne riceveva uno? Erano tutti cattivi? Per questo erano nell'orfanotrofio? Per questo erano stati tutti abbandonati dalle famiglie? Anche i neonati? Anche loro erano nati cattivi? Si poteva nascere già cattivi? Volevo chiederlo a qualcuno, magari alla suora che raramente li perdeva di vista, ma non lo fece. Sapeva già la risposta, uno schiaffo, una tirata d'orecchio e dritto in soffitta. Non si fidava nemmeno dei bambini, perché potevano spifferare tutto alla suora. Era meglio tenersi per sé le domande.
Marco Gentile, che aveva preso il posto di Tommaso Orecchia come bullo, non faceva che tormentarlo da quando era tornato dalla soffitta. «Sei un codardo! Uno stupido! Non sei mai andato in soffitta. La suora ti ha portato in infermeria perché piangi sempre. Sei un piangi piangi. Uno scemo piagnucolone! Guardate, ragazzi! Venite a vedere il più stupido piangi piangi del mondo!»
Nicola incassava in silenzio e guardava fuori dalla finestra. Cercava di non sentirlo, di estraniarsi, di farsi scivolare addosso gli insulti, ma non ci riusciva. Le parole facevano male e lui non poteva farci niente.
C'erano giorni in cui osservava una o due persone camminare in strada. E si domandava se anche loro avessero figli e se li avessero abbandonati. Magari a Santa Margherita tutti i bambini dovevano stare chiusi in orfanotrofio, oppure la gente che ci viveva non aveva figli. Quella stesse persone camminavano frettolosamente, a volte tornavano indietro o si mettevano a girare attorno a un veicolo, a un palo della luce. Altre volte si fissavano per minuti, finché camminavano, correvano, saltavano e si coricavano in strada. C'era qualcosa di inquietante in quella gente, ma Nicola non sapeva se tutte le persone del mondo fossero così. Non era mai uscito dall'orfanotrofio.
Una venerdì mattina Marco cominciò a schiaffeggiarlo dietro la nuca, facendo ridere i suoi due amici Matteo Notarangelo e Stefano Fiore.
«Sembra un tamburo. Boing! Boing! Anzi, è meglio di un tamburo. Nicò, sei un tamburo, non è vero? Per questo sei stupido!»
Nicola non rispose.
Marco continuò a colpirlo sempre più forte, finché Nicola si ritrovò in piedi con la vista annebbiata.
Un urlo squarciò il silenzio del dormitorio.
Marco giaceva a terra con una penna infilata nella carotide, le mani sulla gola bucherellata da cui fiottava sangue.
Matteo, Stefano e gli altri bambini gridarono nel vedere il bullo boccheggiare sul pavimento in una pozza di sangue che cresceva sempre più dietro la sua testa.
La suora apparve dal nulla come se fosse stata sempre lì e puntò gli occhi sinistri su Nicola, senza degnare di uno sguardo Marco.
I bambini si riversarono in corridoio, terrorizzati.
La suora sapeva già chi era il colpevole e si diresse minacciosa verso Nicola, che si piegò in avanti afflitto da una tremenda nausea. Era successo tutto così in fretta. Non ricordava di aver pugnalato il bullo, aveva perso il controllo del corpo. Era come se fosse stato risucchiato nella sua mente e qualcos'altro ne avesse preso il posto.
Quando la suora sollevò una mano per mollargli un ceffone, il bambino crollò accanto a Marco, afflitto dagli ultimi spasmi di vita.




 

5


Si svegliò in quella che sembrava essere un infermeria. Non era mai stato lì, nemmeno quando aveva avuto la febbre a trentanove. Quella volta era stato rinchiuso in uno stanzino senza finestre, in fondo al corridoio. Lo stesso stanzino dove nessun bambino poteva entrare senza permesso.
Quando qualcuno si ammalava, finiva in quella stanzetta. Nessun dottore veniva mai a visitarli, perché era la suora a prendersi cura di loro.
Nicola non sapeva se l'infermeria fosse lo stesso stanzino dell'altra volta. Ricordava delle mura verde acqua, ma queste erano di un nero mai visto prima. A parte un lettino e una lampadina a soffitto al centro della stanza, non c'era niente.
Nicola aveva paura. C'era qualcosa di tetro in quell'ambiente sterile. Scese del letto e raggiunse la porta. Quando toccò la maniglia, quella non si muoveva. Cominciò a tirarla, a calciare la porta coi piedi nudi, finché gridò e si lasciò cadere a terra con le mani che stringevano i piedi doloranti.
Piangeva, singhiozzava, mentre la lampadina lampeggiava. Gli sembrava di essere sprofondato in un incubo, uno dei moltissimi incubi che lo tormentavano di notte, che gli facevano affondare la testa sotto il cuscino e le coperte.
Credeva che così fosse al sicuro, che niente e nessuno potesse tirare via le coperte, afferrarlo e trascinarlo chissà dove, magari in soffitta. Poi si calmava e pensava alla famiglia che lo voleva adottare. Per quanto si sforzasse, non riusciva a scorgere i loro volti, ma non gli importava. Gli piaceva l'idea di essere cullato in braccia amorevoli, giocare davanti al camino scoppiettante di una casa accogliente e passeggiare nello stesso parco che vedeva dalla finestra del dormitorio.
C'erano le altalene, gli scivoli e altri giochi di cui non sapeva nemmeno i nomi. Non vedeva mai un bambino lì, solo due vecchietti avvolti in spessi cappotti grigi e cappelli a tesa larga vagare senza meta. E mai una volta li aveva visti sedersi sulle panchine. Dopo un paio d'ore se ne andavano e tutto tornava immobile come nelle foto che vedeva sui libri. Quanto gli sarebbe piaciuto poter entrare in quelle foto, visitare nuovi posti, andarsene per sempre dall'orfanotrofio, il più lontano possibile dalla soffitta.
Mentre ci pensava, qualcosa serpeggiava nella mente. Un immagine, un liquido rosso che colava dalle pareti. Non capiva perché la sua mente lo assillava con quella immagine inquietante. Quando si girò sul fianco destro, sobbalzò. Il volto pallido di Marco era a pochi centimetri dalla sua faccia, una penna conficcata nella gola squarciata da cui il sangue fiottava copioso. «Nicò, ti serve una penna?»
Il bambino cadde dal letto e batté la schiena contro il pavimento. Il colpo gli fece mancare il respiro per un momento. Appena alzò lo sguardo verso il bullo, quello non c'era più. Il cuore gli martellava velocemente nel petto e qualcosa di pesante gli comprimeva il torace. Si alzò, ma le gambe cedettero e si ritrovò a terra.
Annaspava.
La forte pressione nel petto si faceva sempre più pesante, quasi schiacciante. Respirò piano, lentamente e le palpitazioni diminuirono. Cosa era successo? Perché aveva visto Marco?
Si sdraiò sul letto, quando la porta cigolò. La suora se ne stava immobile sotto la soglia, lo sguardo inespressivo.
Nicola abbassò gli occhi, intimorito. Aveva la sensazione di aver fatto qualcosa di orrendo, ma non ricordava cosa. La suora lo raggiunse, gli posò una mano fredda sulla fronte e gli porse un bicchiere con dentro un liquido violaceo.
Lui l'aveva vista arrivare a mani vuote, ne era sicuro. Quindi da dove era comparso quel bicchiere?
Bevve un sorso e subito lo sputò. Era disgustoso, la cosa più disgustosa che avesse mai bevuto.
La suora serrò gli occhi e gli torse un orecchio.
Nicola tracannò il liquido e sentì lo stomaco andare a fuoco. Poi fu afflitto da conati di vomito e si dimenò tra le coperte in preda a forti dolori addominali, finché venne scosso da violente convulsioni e perse i sensi.
La suora lasciò la stanza e chiuse a chiave la porta.




 

6


Si svegliò frastornato e fissò la lampadina che lampeggiava nella stanza. Era confuso. Non ricordava come ci era finito lì. Se lo chiese un paio di volte, poi lasciò perdere.
La lampadina smise di lampeggiare e restò accesa.
Il sangue colò dalle pareti e allagò il pavimento.
Marco apparve ai piedi del letto.
Nicola sussultò e si tirò su le coperte fin sopra la testa. Aveva freddo e tremava, anche se un secondo prima la stanza era calda. Lo sentì avvicinarsi e scorse una sagoma attraverso il lenzuolo. Chiuse gli occhi, si rannicchiò su sé stesso e scoppiò in un pianto sommesso. Credeva che così facendo, Marco se ne sarebbe andato.
Il lenzuolo fu tirato via e una mano fredda gli serrò la bocca. Marco lo guardò dritto negli occhi vitrei e gli mostrò la gola squarciata da cui zampillava il sangue. «Nicò, ti è piaciuto suonare il boing sulla mia gola? Vediamo se fa lo stesso rumore sulla tua!»
Svenne.
Passarono due settimane.
Il bambino era ancora perseguitato da quella orrenda scena che tentava di mandare via. Quando era ritornato al dormitorio, tutti i bambini parlavano dell'adozione di Marco.
«È stato fortunato. Almeno lui è stato adottato.»
«Dovevano adottare me! Non è giusto che abbiano scelto Marco...»
«Io sono più piccolo di lui. Perché non adottano me?»
Tutti parlavano e nessuno ascoltava.
Matteo e Stefano erano rimasti da soli e non sapevano più cosa fare tutto il giorno. Vagavano spaesati nel dormitorio e ogni tanto si scambiavano gomitate in modo molto blando.
Nicola se ne stava seduto davanti alla finestra a osservare il parco vuoto. Era in sovrappensiero. Aveva sempre davanti agli occhi l'immagine di Marco con la gola fatta a pezzi. Si domandava se fosse stata la soffitta a fargli venire quei pensieri orrendi. Lo aveva sempre odiato e si sentiva sollevato che fosse stato adottato. Adesso non gli avrebbe più dato fastidio e preso a schiaffi. Ma era anche invidioso che avessero scelto di adottare un idiota come lui. Perché Marco e non un altro bambino? Perché non Nicola?
Lui era più gentile, più bravo e silenzioso. Non se ne andava in giro a insultare gli altri, a prenderli in giro, quindi perché non lo voleva nessuno? Perché? Doveva comportarsi come Marco? Attirare l'attenzione, fare casino, picchiare gli altri? Se lo avesse fatto, le suore lo avrebbero fatto adottare per primo?
Il giorno seguente, mentre tornava dal bagno, rivide Gloria. Era più pallida, gli occhi celesti cerchiati, i capelli biondi puntellati da fili grigi. Cosa le era successo? La famiglia affidataria l'aveva rispedita qui? Voleva domandarglielo, ma tutti i bambini le si affollarono attorno.
«Perché sei qui? Ti sei comportata male? Non ti vogliono più?»
«Cosa hai fatto ai capelli? Perché sono bianchi come quello dei vecchi?»
«Com'è la fuori? Ti sei divertita? Com'erano i tuoi genitori? Se non ti vogliono più posso stare io con loro.»
Lei rispondeva in un sussurro, come se gli costasse fatica parlare più forte. Gli altri bambini non capivano.
«Che hai detto?»
«Alza la voce.»
«Sì, alza la voce.»
Nicola era stupito. Aveva sbagliato a pensare che fosse sordo muta. Allora perché la suora le aveva sempre dato molte attenzioni? E perché la portava sempre giù?
Stefano e Matteo, che nei giorni precedenti erano rimasti molto quieti, le tirarono i capelli.
«Sei brutta!» ghignò Matteo. «Sembri una vecchia. Ecco perché ti hanno rispedito qui. Sei brutta e nessuno ti vorrà mai più!»
«Sì, è brutta» aggiunse Stefano con una grassa risata. «E poi puzzi di mille piedi schiacciato. Avvicinatevi, sentite quanto puzza. Sei una puzzola! Gloria la puzzola!»
Tutti i bambini scoppiarono a ridere e ripeterono in coro Gloria la puzzola!
Lei scoppiò in lacrime.
Nicola serrò gli occhi arrabbiato e le si avvicinò. La bambina gli lanciò uno sguardo fugace e gli diede le spalle, pensando che la volesse insultare. Ma lui le si sedette affianco in silenzio.
«Guardate, la puzzola ha trovato un fidanzatino» rise Stefano. «Adesso faranno tante puzzole!»
Matteo la spinse addosso a Nicola e abbozzò un ghigno, soddisfatto. «Cos'è questa puzza? State lontani da noi o vi tiro un pugno!»




 

7


Gennaio e febbraio passarono lentamente. Nessun bambino fu adottato o abbandonato davanti all'orfanotrofio. Gloria e Nicola stavano sempre insieme, ma non si parlavano mai. La bambina riprese il suo appuntamento con la suora, che la prendeva alle sei e la riportava nel dormitorio alle nove.
Una mattina, quando i bambini si radunarono nella sala comune per guardare la tv, Matteo e Stefano afferrarono Gloria per i capelli e la trascinarono in un angolo.
«Perché la suora ti porta sempre giù?» chiese Stefano. «Cosa fai laggiù, eh? Fai la spia? Ti credi migliore di noi?»
Gloria lanciò un urlo, ma la sua vice era flebile e ne uscì un rantolo soffocato.
I due bulli scoppiarono a ridere e mimarono il suo grido. Poi Stefano le tirò uno schiaffo in faccia. L'impatto fu così forte che tutti i bambini si voltarono a guardare.
Gloria scoppiò a piangere.
Nicola scattò in piedi e spinse Stefano contro il muro. «Lasciala stare!»
Quello gli sorrise e lo afferrò per il collo, ma il bambino lo spintonò nuovamente.
Matteo gli arrivò alle spalle e gli mollò una manata sul fianco.
Stefano lo spinse Nicola contro il muro e gli tirò un pugno nello stomaco, facendolo piegare sul pavimento senza fiato.
«Cosa credi di fare, puzzola?» chiese Stefano, sprezzante. «Vuoi salvare la tua fidanzatina?» Tirò violentemente i capelli a Gloria e la spinse così forte contro il muro, che una ciocca di capelli gli rimase in mano. «Quasi quasi mi faccio una parrucca.»
Matteo scoppiò a ridere. «Stè, facciamo una gara?»
«Che gara?»
«Li afferriamo e li lanciamo contro le sedie.»
«Come il bowling?»
«Sì, come il bowling.»
«Bello! Facciamolo!»
Mentre i due bulli prendevano Nicola e Gloria per i capelli, i bambini si allontanarono dalla tv, sistemarono tutte le sedie a dieci metri dai bulli e si posizionarono ai lati, eccitati.
I bulli li trascinarono per tutta la stanza come trofei di guerra.
«Mattè, prima facciamo stretching.»
«E che sarebbe?»
«Tu muoviti.»
«Dai, Stè, facciamo 'sti tiri! Lo stecing non ci serve.»
«Stretching, non stecing.»
«Lancio per primo.» Nicola stava per alzarsi, ma Matteo gli tirò un pugno in pancia e guardò l'amico bullo. «Stè, la puzzola pesa di meno di Nicola. Facciamo a cambio.»
«No, Mattè. Tu sei ciccione. Hai più forza.»
Matteo ci pensò su. «Non sono ciccione, ma muscoloso. Guarda!» Afferrò Nicola per i capelli e lo lanciò contro le sedie.
I bambini esultarono estasiati.
Nicola superò le sedie e si schiantò contro il muro.
Matteo pompò i bicipiti grassi. «L'ho fatto finire anche contro il muro! Sono fortissimo!»
Gloria cercò di scappare, ma Matteo la prese per i capelli e le tirò uno schiaffo in faccia «Forse l'ho colpita troppo forte.»
«Stè, sei proprio scemo. Ho vinto io.»
«Non vale. Non ho nemmeno tirato e poi non hai fatto cadere tutte le sedie!»
Matteo afferrò Nicola per un piede e lo trascinò per tutta la stanza. «Sono il migliore! Ho vinto! Ho vinto!»
Stefano corrugò le sopracciglia e si voltò verso i bambini. «Posizionate le sedie!»
Quelli ubbidirono in tutta fretta, intimoriti.
«Ora toglietevi di mezzo!» Appena Stefano sollevò Gloria per lanciarla contro il muro, si udì una porta sbattere nel corridoio. Matteo e Stefano mollarono la presa e raggiunsero in tutta fretta la tv insieme agli altri bambini.
La suora entrò e si fermò sotto la porta a osservare con fare apatico Nicola e Gloria in lacrime sul pavimento.




 

8


Nei mesi successivi i due bulli continuarono a tormentarli, a picchiarli, a chiamarli i fidanzatini puzzoni.
Nicola e Gloria non reagivano e se ne stavano in un angolo, in silenzio. La suora andava via molto raramente e c'erano giorni in cui rimaneva tutto il giorno con i bambini, senza mai dormire o mangiare. Li fissava seduta accanto alla porta immobile come un Gorgoyle, lo sguardo austero. I bambini le giravano alla larga e giocavano in silenzio per non disturbarla. Matteo e Stefano si erano via via calmati, ma non smisero di prendere in giro Gloria e Nicola, sempre più isolati da tutti.
Nuove famiglie tornarono a fare capolinea e molti bambini furono adottati. Il dormitorio era diventato così silenzioso, che di notte Nicola sentiva il respiro pesante della suora seduta nel solito angolo buio.
Poi Gloria fu nuovamente adottata e Nicola restò da solo. E quando anche Stefano e Matteo furono adottati, esplose in preda alla rabbia.
Gridò, strappò le lenzuola dal letto, le gettò in aria, ribaltò il materasso e la rete del letto. Aveva perso il controllo. Non era giusto che due bulli venissero adottati prima di lui.
La suora gli arrivò alle spalle, gli mollò un ceffone, gli torse un orecchio e lo condusse in soffitta. Lui scalciava e si dimenava per liberarsi, ma la suora era troppo forte. Poi la porta della soffitta gli si chiuse alle spalle e la luce si spense.
Il bambino chiuse gli occhi e pianse, rannicchiato con le spalle alla porta. Perché nessuno voleva adottarlo? Perché adottavano sempre gli altri? Persino i due bulli come Stefano e Matteo erano stati scelti. Mentre singhiozzava, qualcosa si mosse in cima alla scala e si zittì. Non aveva il coraggio di aprire gli occhi e alzare la testa. Doveva stare fermo, aspettare che la suora lo venisse a prendere, ma per quanto tempo sarebbe stato lì? Sapeva di essersi comportato male, quindi non sperava di uscirne presto.
I passi scendevano i gradini, il legno scricchiolava. Nicola affondò la faccia tra le ginocchia. Voleva fuggire, gridare, battere i pugni sulla porta, ma nessuno sarebbe venuto in suo aiuto. Doveva rimanere immobile, estraniarsi, essere mentalmente da un'altra parte. Quando i passi si fermarono davanti a lui, si bagnò i pantaloni. Pensò subito alla suora che lo avrebbe picchiato. Non sapeva se era peggio lei o il fantasma della soffitta.
Poi i passi risalirono i gradini e si persero nella soffitta.
Nicola tirò un sospirò di sollievo e restò immobile, cercando di proiettare la sua mente altrove. Immaginava di nuovo quella famiglia, si sforzava di scorgerne i visi opachi, ma vedeva solo i loro sorrisi, le loro mani, seduti nel parco davanti all'orfanotrofio.
Poi si udì un forte tonfo dalla soffitta. Trasalì e uno strano formicolio si espanse in tutto il corpo. Cos'era caduto? Era stato il fantasma? I fantasmi potevano cadere? No, erano incorporei, non potevano cadere.
Più ci rifletteva, più non aveva il coraggio di aprire gli occhi. Voleva restarsene da solo in silenzio seduto di schiena contro la porta, aspettando che la suora lo portasse via.
I passi ritornarono.
Non camminavano più sul legno, ma riverberavano come fossero in una grande sala. Forse era un altro fantasma? Oppure lo stesso di prima? Non voleva pensarci.
Immaginò la famiglia dai volti sfocati e cercò di scacciare via il terrore che lo attanagliava.
Quando i passi scesero dalla soffitta, la porta si spalancò e la luce del corridoio squarciò l'oscurità della scala.
La suora torreggiava su Nicola, che improvvisamente si sentì indebolito. Aveva molta fame e sete e le gambe sembravano non rispondere. Cosa gli stava succedendo? Perché si sentiva così?
La suora lo condusse nel dormitorio, dove pochi bambini dormivano nei letti. Mentre lui si coricava, la suora si sedette nel solito angolo buio.




 

9


Il mattino seguente Nicola era più debole del giorno precedente. Un forte mal di pancia lo aveva piegato in due con lo stomaco che gorgogliava senza sosta. Non capiva se aveva fame, oppure qualcos'altro.
I bambini, una decina in tutto, gli si affollarono intorno con fare curioso.
«Sei mancato per tre settimane. Dove sei stato?»
«Eri in soffitta, vero?»
«Eri stato adottato? Non ti hanno voluto più?»
Nicola li guardava, confuso. Per lui era passata solo mezz'ora. Come poteva essere stato lì per tre settimane? Era impossibile.
Si girò dall'altra parte e si contorse per i lancinanti dolori all'addome.
Una bambina avvisò la suora, che arrivò con un bicchiere di liquido violaceo. Nicola lo bevve tutto d'un sorso, resistendo a non vomitare per il disgusto.
Il mese seguente, tutti i bambini furono adottati e Nicola restò solo con Gertrude, la bambina che aveva chiamato la suora. I due si costrinsero a parlare, a fare amicizia.
«Un giorno andrò in bicicletta, sai» disse Gertrude. «La voglio gialla con un campanellino sul manubrio.»
«Buon per te» rispose Nicola, che guardava dalla finestra i due vecchietti vagabondare nel parco.
«Sei mai andato in bici?»
«No.»
«Ti piacerebbe andare?»
Lui le lanciò un'occhiata. «Non so nemmeno cos'è una bici.»
«Ma hai detto che non ci sei andato.»
«Infatti, perché non so cos'è»
Restarono in silenzio per un momento.
Gertrude gli si fermò accanto. «Che colore ti piace? A me piace il giallo.»
«Il verde.»
«A me il verde non piace.»
«Ok.»
La bambina si accigliò. «Sei antipatico, sai.»
«Anche tu.»
Passavano il resto delle giornate a scambiarsi sguardi fugaci, alcune volte a ignorarsi, ma non si allontanavano mai l'uno dall'altra.
La suora si assentava spesso e c'erano giorni che appariva soltanto per portarli alla mensa. Di notte erano quasi sempre da soli e capitava, seppur raramente, di vederla seduta al solito angolo come uno spettro. I due bambini non la sentivano mai entrare o uscire. Sembrava apparire dal nulla e questo li spaventava.
Un sabato mattina la bambina fu portata al primo piano. Nicola si precipitò alla finestra del dormitorio e osservò lo spiazzo, dove le nuove famiglie parcheggiavano le auto. Era vuoto e questo lo turbò non poco. La sua nuova famiglia affidataria doveva essere venuta a bordo di un veicolo, ma allora dov'era?
I due anziani arrivarono, vagabondarono nel parchetto per un lungo momento e andarono via.
Nicola passò tutto il pomeriggio e la sera affacciato alla finestra. Sperava di vedere Gertrude uscire con la sua nuova famiglia, ma lei non lasciò mai l'orfanotrofio.




 

10


La porta cigolò. La suora andò a sedersi al solito posto e fissò Nicola con occhi spiritati.
Il bambino rabbrividì e spostò lo sguardo fuori dalla finestra, mentre il sole rosso-arancio veniva lentamente inghiottito dalla nebbia.
Allo scoccare delle nove, Nicola si infilò sotto le coperte. Fuori pioveva e lui osservava le gocce scivolare lungo il vetro della finestra. Pensava a com'era stata fortunata Gertrude ad essere stata adottata. Nessuno si era mai interessato a lui e forse nessuno lo avrebbe mai fatto.
Si girò sul fianco e iniziò a piangere in silenzio. Ogni tanto, senza accorgersene, lasciava partire un forte singhiozzo. E in quel momento credeva che la suora tirasse via le coperte e lo rinchiudesse in soffitta per aver interrotto il silenzio.
Non lo voleva nessuno. Era una nullità, non sarebbe mancato a nessuno e nessuno si sarebbe accorto della sua scomparsa. Le lacrime fluivano abbondanti sul viso e il muco colava dal naso. Poi si addormentò, cullato dal suono della pioggia che picchiettava contro il vetro della finestra.
Nicola passò ventuno giorni in completa solitudine. Aveva bisogno di compagnia e si era messo a parlare da solo, immaginando risposte e argomenti di conversazione. Ma ogni discorso sembrava troppo pilotato, artificiale. Aveva persino pensato di parlare alla suora, ma la donna non c'era quasi mai e la vedeva soltanto di notte. Alla fine, spinto dalla disperazione, si avvicinò nell'angolo dov'era seduta. «Vuoi parlare con me?»
La suora sbarrò occhi spiritati come se gli avesse detto qualcosa di orrendo, gli tirò un ceffone, gli torse un orecchio e lo chiuse in soffitta. Nicola non aveva fatto resistenza. Anzi, voleva incontrare il fantasma. Forse gli avrebbe parlato, stretto amicizia e magari si sarebbe persino divertito. Meglio lui, che nessuno. Non sopportava più la solitudine. Salì la scala con una mano poggiata sul muro e raggiunse la soffitta. Il silenzio e l'oscurità erano totali, inquietanti. Ogni tanto le assi del pavimento scricchiolavano e qualcosa zampettava nelle pareti.
Sentì i passi.
Il bambino camminò a tentoni nella soffitta, sbattendo e facendo cadere diversi scatoloni. Il rumore gli faceva schizzare il cuore in gola ogni volta che si scontrava contro qualcosa.
Uno strano mormorio arrivò da più punti nella soffitta e i passi diventarono più pesanti. Il bambino si sentiva vulnerabile in quella fitta oscurità, ma continuava a muoversi. La voglia di parlare con qualcuno era più forte della paura.
Il mormorio lasciò il posto a una serie di voci profonde e gutturali. Si avvicinavano a lui da ogni direzione. Chiuse gli occhi, si rannicchiò in posizione fetale e si tappò le orecchie con le mani, ma le voci non si affievolivano. Provenivano dalla sua mente. Era terrorizzato. Cominciò a sentire uno strano formicolio in testa, quando una luce rossastra sventrò il buio.
Mantenne gli occhi chiusi. Aveva creduto di non avere paura, invece ora si ritrovava a volere uscire dalla soffitta. Da dietro le palpebre chiuse vedeva il rossore della luce, come se li tenesse chiusi verso il sole.
Aprì un poco gli occhi e scorse una figura sfocata immersa in una flebile foschia rossastra che fuoriusciva dal pavimento.
Era alta quanto lui e tutto il suo corpo sembrava l'ombra proiettata di un uomo.
Pensò a Tommaso, scomparso dopo che era stato condotto in soffitta. Forse era lui quella sagoma o il primo bambino morto. No, la sagoma era alta e snella. Doveva essere qualcun altro.
La figura si diresse verso di lui con passo lento, quasi a rilento. Poi il suo corpo cominciò a vibrare, come un segnale tv disturbato. Si fermò davanti a Nicola, che non riusciva mettere a fuoco la faccia. La sagoma gli puntò il dito in faccia e bisbigliò qualcosa.
Il bambino non capiva. Le parole gli arrivavano distorte, al contrario. Aveva già udito qualcosa di simile quando la suora li portava raramente in sala comune a vedere un cartone animato. Il fantasma non muoveva la bocca, ma si limitava a fissarlo, a puntargli un dito. Nicola era troppo spaventato per rispondere o fuggire e non si sentiva nemmeno le gambe, che parevano due blocchi di cemento.
La nebbia rossastra si dissolse.
Il fantasma smise di sussurrare, abbassò il dito, indietreggiò e svanì nella nebbia. Nicola restò seduto sul pavimento, mentre i passi tornarono a muoversi nella soffitta.




 

11


La suora lo venne a prendere e lo portò in dormitorio, dove il bambino si era aspettato ingenuamente di trovare altri bambini. Sapeva che era rimasto da solo, ma aveva sperato che nel frattempo fosse arrivato qualcuno. Andò alla finestra e guardò fuori.
I due anziani vagabondavano nel parco. Si voltò verso la suora, seduta al solito posto con lo sguardo inespressivo. Voleva chiederle quanti giorni fossero passati da quando lo aveva rinchiuso in soffitta. L'ultima volta erano passate tre settimane, ma a lui era sembrato mezz'ora. Le lanciò un'occhiata. Forse era meglio non chiederle niente.
Si voltò verso la finestra. I due anziani erano andati via.
Passarono tre mesi e arrivò maggio. La solitudine era diventata una compagna fedele per Nicola, che passava i giorni vicino alla finestra a immaginare come sarebbe stato giocare in quel parco. Si vedeva fare su e giù con l'altalena, scivolare sullo scivolo, correre qua e là fino a stancarsi. Ci vedeva anche la sua famiglia immaginaria e Gloria, la sua migliore amica, che gli mancava tanto. Spesso si domandava cosa stesse facendo, se era felice, se era nei suoi pensieri. Voleva incontrarla, parlarle o anche stare in silenzio in sua compagnia, come accadeva spesso. Ma sapeva che non sarebbe mai successo, quindi doveva eliminare certi pensieri dalla testa o lo avrebbero annientato.
La suora non c'era quasi mai, se non la sera in cui appariva e spariva dal suo solito posto come per magia. A volte Nicola si chiedeva se fosse reale o solo frutto della sua immaginazione, poi pensava a tutte le volte che aveva picchiato lui e gli altri bambini e smetteva di pensarlo. C'erano notti in cui il bambino, con le lenzuola tirate fin sopra il naso, cercava con lo sguardo la suora e si addormentava scorgendo vagamente la sua sagoma nel buio. Era l'unica persona che gli era rimasta da quando tutti i bambini erano stati adottati, a parte i due vecchietti nel parco. Si era persino chiesto se nell'orfanotrofio ci fosse qualcun altro oltre loro, perché non sentiva nessuno ai piani superiori o inferiori. Nessun neonato che piangeva, nessuna voce, nessun rumore.
Solo lui e la suora.
Una domenica, mentre era da solo nella sala comune, aprì la finestra e gridò verso i due anziani che vagavano nel parco. Quelli si voltarono verso di lui e lo guardarono per un momento, poi ritornarono a girovagare in tondo.
Nicola urlò più forte, gli occhi e il viso bagnato dalle lacrime. Quelli lo ignoravano. Si sedette sulla finestra, quando qualcosa lo tirò all'indietro e lo face cadere di spalle sul pavimento. La suora gli mollò due ceffoni in faccia con lo sguardo spiritato, gli torse un orecchio e lo trascinò in soffitta.
Il bambino non oppose resistenza.
Aveva richiamato l'attenzione dei due anziani per poter parlare con loro e ora poteva farlo con il fantasma sussurratore, come lo aveva rinominato.
Prima sentì lo scricchiolio del pavimento e lo zampettare frenetico nelle pareti, poi i soliti passi. Salì la scala con una mano poggiata sul muro e subito un mormorio si espanse tutt'attorno.
«Ciao...» disse Nicola, intimorito.
Nessuna risposta.
Ci riprovò alzando la voce e il mormorio gli si strinse attorno, mentre una nebbia rossastra fuoriusciva dal pavimento. La sagoma vibrante gli apparve di fronte e gli allungò una mano. Il bambino la fissò per un attimo. E quando la sfiorò, quella cosa si lanciò contro di lui a una velocità impressionante e gli entrò negli occhi, facendolo crollare al suolo.
Nicola si svegliò nel letto del dormitorio.
Scorse la suora accanto a lui, che lo guardava con occhi spiritati. Sussultò nel vederle l'iride tutta nera e il viso puntellato di macchie e bubboni violacei. Chiuse gli occhi e cercò di svegliarsi. Appena li riaprì, la suora era ancora lì. La fissò nuovamente. Aveva qualcosa di diverso. Non gli sembrava più la stessa suora, anche se era fisicamente uguale. C'era qualcosa di terrificante nei suoi occhi, nel suo viso, qualcosa di demoniaco. Non erano mai stati di quel colore e ora non ricordava nemmeno di che colore fossero, come non ricordava neanche la faccia.
Il bambino abbassò lo sguardo. Lei si alzò e andò a sedersi al solito posto.
Nicola passò tre settimane con quella che sembrava un mostro. Più passavano i giorni, più la suora perdeva l'aspetto di un essere umano. La pelle le era diventata violacea, butterata, piena di bubboni e macchie. Gli occhi neri e infossati e il mento poco sporgente. Le labbra si erano ritirate, mostrando gengive e denti storti e giallastri. La metamorfosi era avvenuta lentamente, giorno dopo giorno.
Il bambino si chiese più volte se fosse caduto in un incubo senza fine o se fosse morto.
Pensò che la solitudine lo stesse facendo impazzire, che gli stesse facendo vedere cose che non esistevano, ma il suo istinto gli diceva che era tutto reale. Stava guardando il mondo con occhi diversi, senza filtri.
Si girò sul fianco e chiuse gli occhi, ma il sonno non venne. Era troppo teso, troppo spaventato. Aveva ancora davanti agli occhi la faccia mostruosa della suora. Credeva che si sarebbe avvicinata di soppiatto e lo avrebbe divorato. Si voltò verso di lei, seduta al buio con le mani incrociate sul grembo. La fissò con le coperte tirate fin sopra il naso, finché si addormentò.




 

12


Un martedì mattina di un giugno freddo e ventoso, Nicola trovò Gloria nella sala comune. Era cresciuta un po' dall'ultima volta che l'aveva vista. Aveva i capelli un poco corti e tagliuzzati male e lo sguardo spento, vacuo.
Il bambino aveva le lacrime agli occhi. «Gloria!»
Lei si limitò a fissarlo.
Lui l'abbracciò. «Perché sei qui? Cosa è successo?»
La bambina alzò le spalle come se le costasse una gran fatica.
«Ti hanno lasciata qui? Non ti vogliono più?»
Gloria si limitava a fissarlo.
Nicola continuò a farle le stesse domande, finché si arrese e restarono insieme in silenzio.
Nei giorni successi la suora tornò a prendere Gloria. La portava ai piani inferiori alle sei di sera e la riportava al dormitorio alle nove. E ogni volta se ne veniva esausta e pallida, come se le avessero prosciugata l'energie.
Nicola desiderava tempestarla di domande, chiederle cose facesse con la suora là sotto, ma la bambina voleva starsene da sola.
Spesso la notte la sentiva singhiozzare sotto le coperte. Non sapeva se piangeva o rideva, perché si copriva la testa con le lenzuola.
Una mattina, mentre ritornava dalla mensa diretto al dormitorio, vide Gloria seduta sul bordo della finestra. Guardava in direzione del parco. Il bambino lanciò uno sguardo verso la sedia vuota della suora e si avvicinò alla bambina. Scorse i due vecchietti che la stavano fissando in modo inquietante.
Nicola si accigliò, turbato. Non gli piaceva affatto il modo in cui la guardavano. «Scendi, o potresti cadere.»
Gloria non gli rispose.
Il bambino la prese da sotto le braccia, la portò dentro e chiuse la finestra. Quando si girò verso Gloria, sobbalzò. La suora era alle sue spalle. Il suo viso mostruoso gli ricordava un demone di un fumetto. E dietro le spalle della donna, aleggiava un'oscurità impenetrabile, come le pareti nere dello stanzino in cui era stato curato.
Poi l'oscurità si dissolse.
La suora li schiaffeggiò, torse loro l'orecchio e li trascinò in soffitta.
Era la prima volta che Gloria si ritrovava in quel posto. Scoppiò a piangere e abbracciò Nicola, che restò sorpreso.
Subito si udirono gli stivali camminare sulla ghiaia e la bambina si strinse al bambino con tutte le forze.
«Stai calma» disse Nicola in tono rassicurante. «Non avere paura. Andrà tutto bene.»
Lei non si calmò.
I passi cominciarono a scendere i gradini, il legno scricchiolava. Gloria affondò la faccia nel petto del bambino.
Nella soffitta scese un tetro silenzio, poi la bambina urlò. Qualcosa la afferrò per i capelli e la trascinò lungo la scala. Nicola le corse dietro e inciampò sui gradini. «Lasciala andare!»
Le urla di Gloria cessarono di colpo.
Il bambino raggiunse la soffitta e restò immobile nel buio. Non sapeva cosa fare, aveva paura. Tutto era immerso in una quiete inquietante. Era abituato al mormorio, alla nebbia rossastra che fuoriusciva dal pavimento, alla sagoma vibrante, ma ora era da solo. Dov'era finita Gloria? Era stato il fantasma a rapirla? Forse la bambina aveva perso i sensi lì da qualche parte.
La cercò nella soffitta, sbatté contro gli scatoloni, ne face cadere qualcuno. Più proseguiva, più gli sembrava di camminare all'infinito. Era terrorizzato.
«Gloria! Dove sei?» gridò con tutta la voce che aveva in corpo. «Gloria!»
Nessuna risposta.
Continuò a muoversi in quella fitta oscurità per molti minuti, quando la luce della scala squarciò il buio e lo accecò. Si coprì gli occhi con le mani.
Non era possibile. Era rimasto fermo per tutto il tempo, eppure aveva camminato molto. Forse aveva girato in tondo? Anche quello era impossibile. Sarebbe inciampato sugli scatoloni contro cui si era scontrato poco prima, invece andava a sbattere verso altri scatoloni o si muoveva in una soffitta che sembrava continuare all'infinito.
La suora salì la scala, si fermò sulla soglia e lo fissò con occhi mostruosi.
«Gloria è sparita» disse Nicola in preda al panico.
La suora lanciò uno sguardo a Gloria, che se ne stava in piedi accanto a Nicola. Quello sobbalzò per lo spavento e la squadrò, confuso. Era sparita. L'aveva sentita gridare, venire trascinata sulla scala. Come poteva essere di fianco a lui?
«Dov'eri finita?» chiese, preoccupato. «Ti ho cercata dappertutto. Come stai? Stai bene?»
La bambina si limitò a fissarlo.
Nicola stava per farle un'altra domanda, quando la suora li afferrò per le braccia e li condusse nel dormitorio.




 

13


Quella notte Nicola osservò Gloria alzarsi dal letto e danzare tra i letti vuoti del dormitorio.
La suora sedeva nel solito angolo buio. Il bambino non sapeva se fosse sveglia, ma doveva esserlo, perché lei non dormiva mai. Non ne era certo, ma doveva essere così. Allora perché non si era alzata per punire Gloria?
Quando scoccavano le nove, tutti i bambini dovevano trovarsi sotto le coperte. Era una regola che esisteva da sempre e la suora puniva duramente chi non la rispettava, ma non punì Gloria.
Forse c'entrava il fatto che si era trasformata in un demone dalla pelle ruvida e violacea? Spesso si domandava perché non provasse più terrore nel vederla. Poi Gloria si coricò accanto lui e trasalì. Lanciò un'occhiata alla suora, che se ne stava seduta al solito posto come uno spettro annidato nell'ombra.
Nicola si voltò verso la bambina, che aveva gli occhi tirati all'indietro e un sorriso sinistro sulle labbra. Il bambino la fissava, terrorizzato. Non poteva scendere dal letto, perché sapeva che la suora lo avrebbe punito. E se invece non lo avesse fatto?
La bambina scattò verso il suo orecchio. «Arig e arigir, iel is anicivva. Arig e arigir, ottut arips. Arig e arigir, occe ehc avirra. Arig e arigir, al etrom adirg.»
Gli gelarono le carni. Era la cantilena inquietante che cantavano i bambini piccoli, solo che le parole erano invertite.
Gloria smise di cantare e gli annusò il collo e la faccia.
Nicola saltò giù dal letto e la bambina si mise a quattro zampe, la faccia contratta in un espressione animalesca, i denti in mostra, la saliva che colava dalla bocca semi-aperta, la testa preda di tic nervosi.
La suora si alzò dalla sedia e si diresse verso il bambino con passo pesante, che si precipitò alla finestra e la spalancò. Restò sorpreso nel vedere i due vecchietti vagabondare nel parco in piena notte. Poi si arrampicò sulla finestra e si voltò verso Gloria, che gli saltò addosso. Precipitarono lungo i rami dell'alto pino che rallentò la loro caduta. Poco prima di toccare l'erba, restarono impigliati tra le fronde.
Nicola si districò rapidamente dal groviglio e corse verso il muro perimetrale dell'orfanotrofio. Gloria si liberò poco dopo e gli corse dietro a quattro zampe come un lupo affamato.
Il bambino superò i due vecchietti, che sembravano due ombre proiettate sul terreno. Si arrampicò sul basso muro e guardò verso l'orfanotrofio. L'edificio spiccava tetro sotto un cielo stellato la cui luna si nascondeva dietro un ammasso di nuvole all'orizzonte. Le pareti annerite e piene di muffa, erano percorse da numerose e lunghissime crepe che in alcuni punti si aprivano in veri e propri squarci. Alcune finestre erano sbarrate da assi marcie e altre erano scure come buchi neri. Una dozzina di gargoyle puntellavano i cornicioni in pose mostruose e minacciose, pronte a scattare verso di lui.
Nicola sbarrò gli occhi, spaventato. Non poteva credere di aver vissuto in un edificio del genere. All'interno era tutto curato, pulito. C'era sempre odore di candeggina, di alcool etilico e anche di medicinali. Non era possibile che l'esterno fosse così decadente, spettrale.
I due anziani si voltarono e scattarono nella sua direzione con una rapidità e una leggerezza inquietante, impossibile per la loro età.
Il bambino saltò dall'altra parte del muro e corse lungo il vialetto di ghiaia cinta da grovigli di alberi morenti e cespugli ingrigiti. Quando arrivò sulla strada asfaltata, la seguì fino a raggiungere Santa Margherita.
Bussò velocemente a tutte le porte che vedeva. «Aiuto! Aiutatemi, vi prego! Aiuto!»
Nessuno apriva, nessuno rispondeva. Dietro le tapparelle abbassate non c'era nemmeno una luce accesa. Tutto era fermo, vuoto. Un paese fantasma.
Lasciò quel paesino desolato e avvolto da una fitta nebbia e si inoltrò nel bosco, i fasci della luna che filtravano tra i contorti e spogli rami degli alberi. Corse in preda alla disperazione per molto tempo, finché i polmoni iniziarono a bruciargli e si piegò sulle ginocchia per riprendere fiato.
Tutt'attorno il vento ululava, minaccioso. Dov'era finito?
Si guardò intorno, tutto gli pareva uguale. Gli alti pini si allungavano al cielo, piccoli avvallamenti e cunette puntellavano il terreno scosceso e numerosi cespugli formavano un impenetrabile muro naturale. Sembrava che qualcuno avesse preparato quella stradina per lui.
D'un tratto si udì un mormorio impercettibile, parole al contrario, distorte, che lasciarono il posto a un inquietante cantilena.
«Gira e rigira, lei si avvicina. Gira e rigira, tutto spira. Gira e rigira, ecco che arriva. Gira e rigira, la morte grida.»




 

14


Si lanciò verso un'altra corsa disperata. Questa volta non fece molta strada, perché sentiva le gambe tremargli per la fatica e un saporaccio ferreo in bocca. Si arrestò davanti a un grosso macigno e guardò il terreno che si elevava gradualmente. Era esausto, non ce l'avrebbe fatta a salire.
Proseguì parallelamente fino ad arrivare davanti a un ruscello, dove l'acqua sgorgava da una stretta fessura nella parete rocciosa. Scorse una stretta scalinata sul fianco della roccia che saliva in alto. Gettò un ultimo sguardo alle spalle e salì i gradini con gran fatica.
In cima c'era una capanna di tronchi cinta da erbacce, arbusti e alti pini. Un'alta parete rocciosa saliva alle spalle dell'edificio e si allargava tutt'attorno come una specie di cinta muraria naturale. Una luce fioca brillava tra le finestre.
Nicola si avvicinò a una finestra senza fare rumore, si appiattì contro la parete di legno e sbirciò all'interno. Un uomo calvo sedeva a un tavolo polveroso su cui era posta una candela. Il bambino fu tentato di battere i pugni sul vetro e richiamare la sua attenzione, ma non lo fece. Restò a osservarlo per un lungo momento, poi andò alla porta e girò la maniglia.
Entrò in un piccolo corridoio dal nauseabondo odore di muffa. Quando si affacciò nel piccolo soggiorno, l'uomo non c'era più. Dov'era andato? Lo avevo sentito arrivare?
Mentre si guardava intorno, una sagoma scattò rapidamente da una stanza all'altra del corridoio. Nicola sussultò per lo spavento e fermò sul nascere un piccolo grido. Sentiva lo stomaco attorcigliarsi, la paura trasformarsi in panico, ma si calmò e proseguì nel corridoio. Sbirciò nella stanza in cui era entrato l'uomo. Era vuota. Solo una candela di sego su un comodino cosparso di ragnatele e polvere illuminava debolmente l'ambiente. Nicola cominciò a tremare. Quella stanza non gli piaceva affatto. C'era qualcosa di terrificante nell'aria, qualcosa che non riusciva a vedere.
Si precipitò verso la porta d'ingresso con la mente attanagliata dalla paura.
Appena ci arrivò vicino, quella gli si chiuse violentemente in faccia. Il bambino si pietrificò, il cuore che gli implodeva nel petto. Si voltò per cercare un'altra uscita, quando scorse l'uomo calvo immobile nella penombra in fondo al corridoio. La luce che poco prima proveniva dalla stanza vuota, si spense e la candela che illuminava il soggiorno fremette come colpita da una folata invisibile, gettando ombre inquietanti sul muro del corridoio.
L'uomo si mosse lentamente verso il bambino, che corse in soggiorno e si nascose dietro il tavolo. Restò fermo per un momento. Gli sembrava di essere in un incubo, non poteva essere vero. Queste cose non potevano capitare anche fuori dall'orfanotrofio.
Quando non sentì più la sagoma avvicinarsi, alzò la testa e guardò in soggiorno. Non c'era nessuno. Così si alzò piano e si diresse nella piccola cucina dalle pareti annerite dal fuoco e il pavimento squarciato a colpi di piccone. Al centro c'era un grosso buco che scendeva nell'oscurità. Il bambino lo fissò per un momento, poi ci girò attorno. Appena arrivò vicino alla finestra spalancata da cui entrava un leggero venticello gelido, qualcosa lo afferrò per la caviglia e lo trascinò giù nel cunicolo. Nicola gridò per il terrore, finché sbatté la testa contro la parete rocciosa e perse i sensi.




 

15


Quando riaprì gli occhi, era steso sul letto del dormitorio con un gran mal di testa e una leggera nausea. Pensava di aver fatto un brutto incubo.
Lanciò uno sguardo alla finestra dove era caduto insieme a Gloria e la trovò chiusa. Poi fissò il letto della bambina che dormiva su un fianco con la faccia rivolta verso di lui. E si chiese se avesse fatto davvero un incubo o se fosse stato tutto reale?
Si voltò istintivamente verso la suora, che sedeva nel solito angolo buio. Si tirò le coperte sopra la testa e pensò al suo incubo. Come poteva essere stato un sogno? La paura era stata reale, niente a che vedere con i soliti tormentati incubi. La fuga dall'orfanotrofio, quell'orrendo capanno ai piedi di una parete rocciosa e l'uomo calvo che lo aveva trascinato nel cunicolo. Si portò una mano nei capelli e smorzò un gemito quando sfiorò il punto in cui aveva sbattuto la testa. Non era stato un sogno, era successo davvero. La ferita era una prova inconfutabile.
Respirò piano sotto le coperte mentre pensava a un nuovo piano di fuga. Questa volta non si sarebbe avventurato nei boschi, ma avrebbe seguito la strada asfaltata. Forse lo avrebbe condotto alla città vicina o da tutt'altra parte. Ma dovunque lo avesse portato, era sempre meglio dell'orfanotrofio.
Ormai sapeva che c'era qualcosa di strano in quelle quattro mura, a partire dalla suora dal volto demoniaco, la soffitta infestata, i due vecchietti nel parco e la solita e strana gente che veniva spesso ad adottare i bambini. E poi c'era Gloria che era cambiata in modo inquietante. Le era successo qualcosa di orribile dai suoi andirivieni con la suora ai pieni inferiori. E se non si fosse dato una mossa, molto presto avrebbe fatto la stessa fine.
Lo sentiva nelle ossa, nelle viscere, nello stomaco attorcigliato dalla paura. Doveva fuggire.
Il mattino arrivò senza che il bambino avesse chiuso occhio. La suora accompagnò lui e Gloria a fare colazione, poi li lasciò nella sala comune e andò a sedersi più in là. I bambini non si parlavano da quando Nicola era fuggito dell'orfanotrofio e nessuno dei due era intenzionato a farlo. Gloria non ricordava nemmeno cosa fosse successe quella notte.
Il bambino raggiunse la finestra e guardò fuori. C'era un albero lì vicino che poteva usare per scendere, ma non era così vicino come quello che stava fuori dal dormitorio. Non ci sarebbe mai arrivato con un piccolo salto. Si girò verso la suora, che era sparita nel nulla. Quindi guardò Gloria seduta in un angolo che batteva le mani nel vuoto, come se stesse giocando con un amico immaginario.
Si diresse alla porta d'ingresso, l'aprì e lanciò un'occhiata nel corridoio vuoto. Poteva correre e raggiungere il dormitorio, ma qualcosa gli diceva di non farlo. Guardò la porta delle scale che portavano ai piani inferiori e, prima che se ne rendesse conto, le sue gambe correvano già in quella direzione, i passi che echeggiavano nel corridoio. Girò la maniglia e scese in tutta fretta la tromba delle scale, fermandosi davanti alla prima porta socchiusa del pianerottolo. Oltre quella, dopo tanto tempo, sentì un neonato piangere.
Restò, sorpreso. Non gli sembrava possibile che ci fosse qualcuno. Forse se lo stava immaginando.
Mentre il neonato piangeva, scese le scale a due a due e arrivò al pianterreno. Si precipitò al portone d'ingresso e lo trovò chiuso. Premette con forza sulla maniglia, ma era bloccata. Non si muoveva nemmeno.
Era in trappola. Presto la suora lo avrebbe trovato e messo in punizione. Già assaporava l'odore della muffa che ammorbava la soffitta. E questa volta non sarebbe più uscito da lì. Non sapeva come faceva a esserne sicuro, ma l'istinto non lo aveva mai tradito.
Si guardò intorno con fare ansioso. C'era una porta socchiusa poco distante da cui filtrava un'intensa luce rossa. Non l'aveva mai vista prima d'ora. Era sceso solo due volte al pianterreno con la suora, ma non ricordava perché e quando era successo. E quella porta non era mai stata lì.
Si avvicinò alla porta con cautela. Una parte di lui gli diceva di non farlo, di tornare nel dormitorio e di nascondersi sotto le coperte. Forse la suora non avrebbe mai scoperto il suo tentativo di fuga. E se invece l'avesse già scoperto? E se si fosse già messa a cercarlo?
Doveva fuggire, allontanarsi il più possibile dall'orfanotrofio, magari raggiungendo il paese da cui partivano a capodanno i fuochi d'artificio. Forse lì sarebbe stato al sicuro.
Quando lanciò un'occhiata nella fessura della porta, sbarrò gli occhi. Una sagoma se ne stava immobile in fondo al corridoio, la testa afflitta da tic nervosi, le lunghe braccia che dondolavano lungo i fianchi. Era lo stesso essere del capanno, solo che ora sulla testa calva aveva delle numerose e spesse venature nere e due lunghe corna ricurve che gli spuntavano dalle spalle.
Nicola si nascose dietro la porta e spiò con un occhio. Cosa ci faceva quell'essere nel corridoio? Perché se ne stava fermo? Aspettava lui? Sapeva che sarebbe passato da lì? Se fosse così, allora la suora doveva essere sulle scale.
Si allontanò dalla porta e guardò attraverso la tromba delle scale, ma non vide nessuno dietro i corrimano di marmo.
Non sapeva cosa fare. Passare dal corridoio era impossibile. Quella cosa lo avrebbe preso, portato chissà dove o fatto chissà cosa. Rabbrividiva al solo pensiero.
Appoggiò un piede sul primo scalino e guardò il primo pianerottolo, drizzando le orecchie. Non sentiva nulla, forse non c'era nessuno.
Salì le scale.
Arrivato sul pianerottolo in cui aveva sentito piangere il neonato, si accorse che aveva smesso da un pezzo e non se ne era neanche accorto. Restò a fissare la porta per un momento, aspettandosi di vedere comparire la suora o una di loro, ma non successe.
Allora continuò a salire, raggiunse il pianerottolo del dormitorio e aprì piano la porta. Il corridoio era vuoto. I rami contorti di un albero grattavano il vetro delle finestre e si proiettavano come ombre sinistre sulle pareti. Un vento impetuoso si era innalzato là fuori e ululava tra gli spifferi delle porte e delle finestre.
Nicola rabbrividì e si incamminò lentamente lungo la parete del corridoio, senza distogliere lo sguardo dalle fronde dei rami che ondeggiavano al vento. Quando si fermò davanti all'ultima porta del corridoio, lanciò una rapida occhiata ai due corridoi laterali e varcò la soglia.
La suora non c'era.
Tirò un sospiro di sollievo e si precipitò a letto nascondendosi sotto le coperte, il cuore che gli batteva impazzito. Aveva rischiato grosso, ma ne era uscito indenne. Forse la suora non avrebbe mai scoperto il suo tentativo di fuga.
Chiuse gli occhi e immaginò la solita famiglia che tanto desiderava. Abbozzò un lieve sorriso, quando qualcuno tirò via le coperte e lo afferrò per un piede.
Nicola urlò per lo spavento e si dimenò per liberarsi dalla presa. La suora lo trascinò giù da letto con estrema facilità.
Il bambino scoppiò a piangere. «Non lo farò più, ti prego! Non lo farò più! Farò il bravo! Te lo giuro!»
La suora gli mollò uno schiaffo, gli tirò un orecchio e lo trascinò fuori dal dormitorio, poi lungo il corridoio che portava alla soffitta. Spalancò la porta, lo spinse dentro e la richiuse a doppia mandata.
Nicola gridò, pianse e picchiò i pugni contro la porta.
La luce si spense e lui si voltò verso le scale. Il vento fischiava tra gli spifferi della soffitta. Sapeva cosa sarebbe successo. Accadeva sempre.




 

16


Restò in silenzio, gli occhi arrossati, il viso rigato dalle lacrime. Dai gradini non proveniva nessun rumore, ma questo non lo tranquillizzava. Sapeva che il fantasma che viveva qui, sarebbe apparso. Lo faceva sempre, era solo una questione di tempo. Forse era già lì, forse lo stava già osservando.
Nicola si rannicchiò tra l'angolo della porta e il muro, le ginocchia strette al petto, la testa incassate nelle spalle, gli occhi chiusi. Respirava piano, quasi in modo impercettibile per paura di fare troppo rumore e disturbare il fantasma.
Ma quello era già in cima alle scale, il corpo che vibrava come lo schermo grigio di una tv. Quando posò il primo piede sul gradino, il legno scricchiolò in modo inquietante.
Il bambino sussultò, scattò in piedi e batté i pugni contro la porta. «Aiuto! Fatemi uscire! Aiuto!»
Il fantasma gli arrivò alle spalle con un forte rumore simile a un'interferenza radio. Era così potente, che Nicola si coprì le orecchie con le mani e si voltò a guardarlo.
Il fantasma gli posò una mano sulla fronte. «Guarda nell'ignoto e troverai la salvezza. Corri in un abisso e perderai te stesso» bisbigliò con voce limpida, pacata, amorevole.
Il bambino si ritrovò catapultato fuori dalla soffitta. Si guardò intorno, confuso. La porta dove la suora lo aveva spinto dentro, era chiusa. Da sotto la fessura giungeva una forte luce rossastra. Mentre la fissava affievolirsi, pensò alle parole del fantasma. Cosa significavano? E poi perché si è ritrovato dall'altra parte della porta? Lo voleva aiutare?
Quando la luce scomparve, Nicola proseguì lungo il corridoio e svoltò a destra. Le ombre dei rami sulle pareti e il vento che ululava negli spifferi lo inquietarono un poco, ma era deciso più che mai a fuggire. Avrebbe affrontato quell'essere al pianterreno e sarebbe fuggito dall'orfanotrofio. Mentre varcava la porta del corridoio che portava al dormitorio, la suora sbucò da un corridoio adiacente.
Il bambino si paralizzò per la paura. Come aveva fatto a sapere che era fuggito?
Quando lei svoltò a sinistra e sparì dietro una porta, comprese di aver pensato male. Tirò un sospiro di sollievo e continuò a camminare, finché si fermò davanti alla porta in cui era entrata la suora. Non sapeva cosa stesse facendo dentro, come non sapeva chi o cosa ci fosse all'interno.
A volte aveva la strana sensazione che l'orfanotrofio fosse vuoto, che gli unici a viverci erano i bambini e l'onnipresente suora.
D'un tratto si udirono alcuni passi dietro la porta.
Nicola scattò verso la tromba delle scale e scese rapidamente i gradini. Quando arrivò al pianterreno, lanciò uno sguardo al primo pianerottolo. La suora non lo aveva inseguito o forse non si era accorto di lui.
Si avvicinò alla porta ancora socchiusa e sbirciò dalla fessura. L'essere era ancora immobile in fondo al corridoio, solo che ora era seduto sui talloni, la testa china e tremante.
Il bambino lo guardò per un lungo momento. Il coraggio che lo aveva portato fin qui si era dissolto nel nulla. Non riusciva a muoversi. Lo fissava terrorizzato e sperava che l'essere andasse via, ma sapeva che non si sarebbe mosso da lì. L'istinto gli suggeriva di affrontarlo, che era l'unico modo per poter fuggire.
Ma come poteva un bambino affrontare una cosa così mostruosa?
Mentre rifletteva, udì qualcuno scendere le scale. Era la suora, doveva essere lei. Poteva riconoscere i suoi passi pesanti anche da lontano. Lo avevano traumatizzato fin da quando era qui e non poteva sbagliarsi. Lo stava cercando?
Fissò le scale in preda al panico. Era intrappola. L'unico modo per allontanarsi da lei era correre incontro all'essere. Ma anche quello avrebbe cercato di prenderlo.
La suora si fermò sul pianerottolo e lo fissò con fare austero.
Il bambino spalancò la porta e corse nel lungo corridoio. L'essere se ne stava fermo e non sembrava essersi accorto di niente.
Mentre Nicola correva, aveva la strana sensazione di rimanere sempre nella stessa posizione. Lanciò un'occhiata alle spalle e la porta si allontanava ad ogni falcata. Allora perché sembrava non arrivare mai dall'altra parte? Perché l'essere non si muoveva?
Continuò a correre, il cuore che batteva impazzito, il sudore che rivolava dalla fronte, bocca e labbra asciutte. L'essere rimaneva immobile, la testa che fremeva senza sosta.
La suora si fermò sotto la soglia e fissò Nicola. Quello correva come un matto verso la fine del corridoio, ma le pareti e il pavimento si allungavano ad ogni passo. Com'era possibile?
Il bambino rallentò l'andatura, le gambe gli dolevano, i polmoni gli bruciavano. La suora si diresse nella sua direzione con passo pesante, lo sguardo spiritato. Nicola gettò un'occhiata alle sue spalle e aumentò la corsa per paura di essere preso.
Mentre proseguiva, una macchia scura apparve a lato del muro. Era un cerchio che si espandeva e si richiudeva in continuazione. Un buco nero che risucchiava tutta la luce attorno. Non aveva mai visto niente di così nero.
L'essere scattò la testa verso il cerchio nero, poi piantò gli occhi violacei su Nicola. Quella specie di buco nero lo aveva destato dal torpore in cui era stato assopito poco prima.
La suora aumentò il passo.
Il bambino si fermò e spostò più volte lo sguardo dall'essere alla suora. Non poteva fuggire da loro, lo avrebbero preso. Cosa gli era passato per la testa? Non sarebbe riuscito a fuggire dall'orfanotrofio. Non sarebbe mai andato via, nessuno lo avrebbe mai adottato.
La suora e l'essere lo avevano quasi raggiunto, quando pensò alle parole del fantasma della soffitta. «Guarda nell'ignoto e troverai la salvezza. Corri in un abisso e perderai te stesso.»
Forse aveva capito. L'abisso era il corridoio che si allungava ad ogni passo, mentre l'ignoto era quella macchia scura nella parete. Era più che sicuro che fosse così, doveva essere così.
Gettò uno sguardo alla suora e all'essere e saltò nel cerchio.




 

17


Fluttuò nell'oscurità impenetrabile per un lungo momento, poi precipitò giù a una tale velocità che non riusciva più a respirare. Annaspava in cerca di ossigeno, quando si ritrovò disteso sull'erba. I polmoni si gonfiarono d'aria e tossì diverse volte con gli occhi gonfi e arrossati.
Si alzò lentamente in piedi e si guardò intorno. Era dietro a un panchina di legno nel giardino dell'orfanotrofio. La luna piena svettava nel cielo tempestato di stelle. Non capiva come era arrivato lì, ma sapeva che era stato opera del cerchio nero. Il fantasma lo aveva aiutato. Perché?
Mentre fissava la finestra del dormitorio, il suo sguardo venne catturato da un movimento a un'altra finestra.
Era la suora.
Nicola corse lungo il vialetto del giardino, superò le altalene e gli scivoli e si arrampicò sul basso muro. Quando arrivò in cima, lanciò un'occhiata alla finestra dove aveva visto la suora. Era sparita.
Rabbrividì e saltò dall'altra parte del muretto. Corse lungo l'arteria principale del paese ammantato da una fitta foschia, le serrande abbassate, le imposte chiuse, i veicoli sepolti dalla polvere.
Si fermò al centro della strada e si guardò intorno, turbato. Voleva bussare alle porte, chiedere aiuto. Ma quando lo aveva fatto nella prima fuga, nessuno lo aveva aiutato. Forse era del tutto inutile farlo di nuovo.
Uno stridio metallico echeggiò tra gli edifici. Nicola sussultò e si voltò. La suora aveva appena chiuso il cancello e si stava dirigendo verso di lui con il solito passo pesante.
Il bambino si precipitò nella direzione opposta. Invece di inoltrarsi nel fitto bosco come aveva fatto la volta prima, seguì la strada. La luce della luna filtrava tra la volta degli alti pini spogli, ma non illuminava la strada che diventava sempre più scura. C'era qualcosa che divorava la luce, come quella macchia scura che l'aveva catapultato fuori dall'orfanotrofio. Forse anche questa volta doveva seguire l'ignoto per fuggire, ma non ne era tanto sicuro.
Corse per un lungo momento, finché rallentò per la stanchezza. Non sapeva dove andare, tutto era avvolto da un'oscurità impenetrabile. Ma non poteva e non doveva fermarsi. Riprese a correre imperterrito verso il nulla. Dopo un po' anche i rumori scomparvero e si fermò, terrorizzato. Non sentiva nemmeno il suo respiro. Lanciò un urlo, ma niente usciva dalla bocca.
Il mondo era muto.
Il panico si insinuò nella mente e, senza accorgersene, le sue gambe presero a correre. Ormai era entrato in uno stato catatonico. Si vedeva correre, ma non aveva il controllo del corpo.
Era stanco. Forse da quel posto non sarebbe mai uscito. Sarebbe rimasto a vagare in quella fitta oscurità per sempre.
Cadde a terra.
Le gambe avevano ceduto per la stanchezza. Provò a risollevarsi, ma quelle erano diventate pesanti. Non se li sentiva più.
Scoppiò a piangere e si rannicchiò sul pavimento in posizione fetale. Le lacrime scendevano copiose lungo il viso, le spalle sussultavano a ogni nuovo singhiozzo.
Aveva perso la speranza. Sarebbe stato meglio restare all'orfanotrofio, vivere una vita vuota, monotona e sterile. Vivere nella paura. Passare le giornate davanti alla finestra, guardare i due vecchietti nel parco, osservare i rivoli d'acqua lungo la finestra, fissare di notte la sagoma della suora seduta nel buio prima di addormentarsi e chiedersi continuamente perché nessuno lo adottasse?
Poi si addormentò.
Quando riaprì gli occhi, camminava lungo una strada illuminata da una fila di lampioni. Si fermò, turbato. Come era arrivato qui? Ricordava di essersi rannicchiato a piangere per terra, prima di sprofondare nei suoi ricordi. Poi il vuoto.
Si guardò intorno, spaesato. Una fitta fila di alberi e cespugli correva ai lati della strada. Conduceva a una città illuminata da innumerevoli luci, da cui giungeva una cacofonia di colpi di clacson, schiamazzi e motori che sfrecciavano a tutto gas. Suoni che Nicola aveva sentito solo di rado all'orfanotrofio, come le macchine delle famiglie adottive che proseguivano nel vialetto di ghiaia, il rombo o il borbottio di un motore. Niente di paragonabile alla cacofonia di quella città cosi illuminata e spaziosa.
Per la prima volta nella sua vita si lasciò scappare un sorriso gioioso. Non sapeva come era arrivato fin lì, ma sapeva che l'incubo era finito. Finalmente avrebbe trovato una nuova famiglia che si sarebbe presa cura di lui.
Si incamminò lungo la strada con la ritrovata speranza dipinta sul volto e lo sguardo di un sognatore. E mentre proseguiva la lenta discesa verso la città della luce, la suora sbucò dall'intricato groviglio di cespugli e si fermò al centro della strada. Nei suoi occhi spiritati si specchiava la città dalle mille luci e Nicola che si allontanava.
Gli andò dietro.
   
 
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