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Autore: shana8998    06/07/2022    0 recensioni
Appena arrivato, in soli dieci minuti, era riuscito a fare retromarcia contro la mia cassetta delle lettere, a disseminare per il mio giardino immacolato gli incarti del fast food di cui straripava la sua auto, e per finire si era svuotato la vescica sul grosso tronco della vecchia quercia che si trovava sul prato di fronte, indirizzandomi un sorriso pigro e una scrollata di spalle, non appena si accorse di me, scandalizzata, sull'uscio di casa.
Quel ragazzo era un barbaro.
Nei quattro mesi successivi, aveva trasformato la mia vita da cartolina in un inferno. Non riuscivo a spiegarmi come potesse, un ragazzo da solo, avere un impatto tale sulla mia felicità, eppure lui ce l'aveva.
Genere: Erotico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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7.


Feci accostare il tassista in prossimità della villa dei miei genitori, ignorando l’occhiataccia del parcheggiatore, pagato da mia madre, che era lì appositamente per occuparsi di «tutte le vetture degli ospiti.»

Cercai di nascondere l’insofferenza, ma proprio non ci riuscivo.

Figuriamoci se i miei non avevano fatto le cose in grande, anche per un semplice barbecue in famiglia.

Perché si dessero tanta pena, non ero mai riuscita a capirlo. Non è che il resto della famiglia non sapesse quanto fossero ricchi. Piuttosto, cercavano sempre di dimostrare quanto fossero meglio e più ricchi degli altri.

Se qualcuno me l'avesse chiesto avrei detto che era una cosa patetica, ma ovviamente a nessuno era mai interessata la mia opinione in merito. Da me ci si aspettava solo che mi presentassi alle riunioni familiari, che mi comportassi in modo impeccabile e che tenessi la lingua a freno. Davvero divertente.

Per le restanti quattro ore successive, che era esattamente il tempo che mia madre mi aveva imposto di restare altrimenti mi avrebbe fatto una scenata memorabile, avrei dovuto sopportare sguardi compassionevoli perché non ero sposata, non avevo figli, per il lavoro, per il mio aspetto. Sì, sarebbe stato grandioso. Grandioso, davvero.

Mi passai una mano sulla gonna per togliere le pieghe mentre mi avvicinavo alla porta d’ingresso. La porta si aprì prima che potessi bussare.

Arnaud, che da dieci anni era lo spocchioso maggiordomo di mia madre, mi guardò disgustato arricciando il naso.

«Sua madre l’aspettava mezz’ora fa, signorina Evans.», disse tirando su col naso, sprezzante. Non avevo potuto fare a meno di notare, nel corso degli anni, che invece le mie sorelle le chiamava per nome, e mentre lo faceva sorrideva, addirittura.

Comunque, non avevo nessuna intenzione di restarmene lì, impalata, a discutere con quell’uomo.

«Lei dov’è?»

Un’altra tirata di naso. «La signora è nel giardino sul retro. E’ molto stanca. Ha lavorato per un giorno ed una notte consecutivi per organizzare questo barbecue. E’ in piedi dall’alba e non ha avuto un attimo di riposo.»

«Si, certo.» Dissi distrattamente, facendomi largo tra il mucchio di gente sconosciuta. 

«Emh, no…Un momento signorina Evans!»

Era buffo come i barbecue di famiglia, a casa mia, diventassero sempre l’occasione per invitare chiunque i miei genitori ritenessero che valeva la pena impressionare o ingraziarsi.

A quanto pare, ero l’unica che si era presentata senza nessuno al seguito. Apparte Arnaud.

«Haly, che bello rivederti!», Jacob. Un cugino di non so quale grado di parentela, mi stava salutando calorosamente sollevando il palmo della mano.

«Ehi!», finsi un sorriso di cortesia e fermai la mia marcia nelle sue prossimità.

«Quanto tempo! Sembra un’eternità.»

«…Già…»

«Voglio cogliere l’occasione per invitarti al vigneto ed essere ospite nel mio cottage. E’ favoloso, lo adorerai!», esclamò abbastanza forte da richiamare l’attenzione delle persone lì attorno.

Ero certa che quelle parole fossero più per loro che per me, dal momento che lui, in realtà, mi odiava. Mi aveva sempre odiata, sin da quando eravamo matricole e frequentavamo lo stesso liceo. Il motivo? Non gliel’avevo data. Nemmeno dopo le insistenti avance e non lo avrei fatto di certo a 24 anni suonati accettando il suo invito nel suo cottage. Coglione.

Mi stampai sulla faccia un sorriso falso come Giuda - merito degli insegnamenti di mia madre - e con una scusa mi defilai verso il giardino sul retro, dove trovai mia madre che faticava a versare martini, mentre spettegolava con le sue sorelle e qualche zia.  Mia nonna, quella ancora viva e vegeta, russava su una sedia a rotelle, sotto l’ombrellone, a qualche metro di distanza.

Il mio patrigno, i cognati, diversi zii e cugini e altri uomini sconosciuti, sedevano su candide sdraio a bordo piscina parlando di quotazioni in borsa e altri discorsi noiosissimi che avevo sentito e risentito un migliaio di volte nel corso della mia vita.

Sul prato, gli addetti del catering cuocevano la carne su immense griglie a gas, mentre altri portavano il cibo e sistemavano le sedie intorno ai tavoli, che ora occupavano una piccola parte dei cinque acri di giardino dei miei genitori.

Non fui sorpresa di non vedere bambini al barbecue di famiglia. Anche solo suggerire la possibilità di portarcene uno equivaleva a mandare mia madre nel panico. Era sicuramente una donna di società, ma una madre, una nonna? Nemmeno un po’.

Anche nella mia infanzia era stata ben poco presente. Perché farlo quando puoi pagare qualcuno che lo faccia al posto tuo? Le mie sorelle ed io, infatti, eravamo state cresciute da tate fino all’età di dieci anni, quando poi ognuna di noi era stata iscritta ad un collegio privato.

Io c’ero durata poco più di quattro mesi, poi, mia madre si era vista costretta a ritirarmi. Era stato allora che aveva riversato tutte le sue attenzioni su di me diventando invadente, oppressiva, costante.

Ovviamente, né il mio padre biologico, né quello che vedevo svaccato sulle sdraio in quel momento, ne erano al corrente. Per loro i figli erano accessori, ed anche per mia madre era stato così fino a che non avevo compiuto dieci anni e le avevo iniziato a dare problemi. All’immagine, si intende.

La mia sarebbe stata un’infanzia orribile se i miei nonni non avessero comprato casa vicino alla scuola e non mi avessero portata a vivere con loro. Se il resto della mia infanzia era stata stupenda era solo per merito loro.

Adoravo la vita che mi avevano fatto fare, i valori che mi avevano trasmesso e tutto ciò che mi avevano lasciato fare.

Era stata mia nonna a spronarmi: dovevo prendere in mano la mia vita. Lei lo voleva per me e così avevo deciso di non tornare a casa dai miei.

«Oh, Halanie, eccoti qui cara!», mi salutò mia madre in tono allegro. Si stava sforzando di sorridere? Indubbiamente si stava sforzando di sorridere. O forse era solo il botox? La sua faccia sembrava bloccata in una smorfia di dolore.

«Ciao mamma…», le diedi un bacio quasi inesistente sulla guancia, non appena si avvicinò ancheggiando nel suo tubino fucsia verso di me.

«Hai già incontrato le tue sorelle?»

Non vedevo Martha e Fear da mesi. Dire che non avevamo un granché di rapporto era riduttivo. Loro erano molto più simili a mia madre di quanto non si credesse.

Dopo che avevo comunicato la mia iscrizione alla facoltà di ortottica non si erano più fatte vive. Meglio. Almeno non dovevo più sorbirmi frasi riluttanti su quanto mancassi loro, sul tornare a casa e scegliere Princeton anziché una facoltà con un nome lungo e impronunciabile che non mi avrebbe fatta diventare nessuno.

«Direi di no.»

Mia madre spalancò - si fa per dire - la bocca come se la questione la scioccasse.

«Arnaud!», schioccò due dita. Il maggiordomo accorse frettolosamente.

«Si, signora?»

«Trova immediatamente un posto per Haly allo stesso tavolo delle sorelle. Mi raccomando.»

Arnaud annuì un paio di volte e poi mi rivolse le spalle invitandolo a seguirlo.

Non ero la più piccola delle tre. Fear lo era.

Nonostante ciò, ero quella che aveva dato più problemi a mia madre e questo si era ripercosso, forse, anche sul rapporto che avrei dovuto avere con loro. Rapporto inesistente, almeno per quello che riguardava me e Martha. Fear aveva diciannove anni, all’epoca, e con lei, essendo quasi coetanee, andavo leggermente più d’accordo.

Arnaud scostò una sedia dall’imbottitura bianca, allacciata da due grandi fiocchi del medesimo tessuto candido sui lati, e mi indicò di sedermi.

«Grazie.», mormorai, scivolandoci sopra a sedere.

«Haly, che bello vederti», disse Fear fingendo un sorriso di cortesia.

«Ah. Ci sei anche tu…» Martha con la sua sagoma snella e impataccata di brillanti da cima a piedi, mi serpeggiò alle spalle e raggiunse la sedia accanto alla mia. 

«Anche a me fa piacere vederti, Martha», commentai sarcastica mentre i suoi occhi castani si fermavano sul mio viso, gelidi. Durò un attimo prima che decidesse di guardare altrove e quando Fear provò a rivolgermi ancora la parola, la fulminò.

Il banchetto - perché, alla fine della fiera, di quello si trattava - incominciò un attimo dopo, facendo si che io non potessi aggiungere qualsiasi cosa avessi voluto aggiungere.

All’inizio sembrava andare tutto bene. Ero a tavola con degli sconosciuti, sorelle comprese, e nessuno si degnava di rivolgermi parola il ché era praticamente un lusso. Finché, Martha non si sporse verso me. Il sorrisetto velenoso che le era spuntato sulle labbra non prometteva nulla di buono. Probabilmente aveva tentato di essere discreta, ma alzare il tono di voce di parecchi decibel sembrava essere prerogativa della nostra famiglia.

«Poverina! La dieta non ha funzionato?», corrucciò la fronte, anche se in realtà sapevo che stava sopprimendo una risatina cacofonica «Sei stata mollata di nuovo?»

 Martha sapeva benissimo com’era andata a finire la mia ultima “relazione seria”, perciò quello era un colpo basso. Bassissimo, quasi meschino.

«Tieni», tirò fuori dalla pochette un bigliettino che sembrava aver conservato appositamente per quel momento e me lo porse «Questo è il numero di mio marito, è medico chirurgo. Un asso nel suo lavoro.»

Continuai a sorridere sbigottita, afferrando il bigliettino che - in tutta onestà- le avrei fatto ingoiare.

Non so perché Martha amasse mettermi a disagio, perché per lei era più semplice rimarcare come dovevo essere e non elogiare com’ero veramente.

Se si trattava di aspetto era sbagliato che portassi una terza, la cosa giusta era essere pelle ed ossa e senza seno.

E così per qualsiasi altra cosa. Certe volte, pensavo che fossi semplicemente io il problema e non il mio modo di essere.

Ad ogni modo, non avevo nessun problema con il mio corpo. Mi piacevo, avevo lo stesso fisico di mia nonna alla mia età. La stessa nonna abbandonata a russare sulla sedia a rotelle e che tutti avevano paura di far arrabbiare tranne me.

Tutti la guardavano dall’alto il basso per i suoi modi poco aristocratici, dimenticando che era anche merito suo se la sua famiglia godeva di certi privilegi.

«Secondo me Haly è perfetta così com’è», disse Fear e per un momento pensai che si fosse schierata dalla mia parte. Ero quasi sorpresa, felice, ma poi proseguì «L’unica cosa che dovrebbe togliersi sono quelle.»

«Quelle cosa?» Chiesi mentre lo sguardo volava sul viso di uno dei miei cugini che guardava mia nonna come un avvoltoio. Ero certa che le stesse contando i respiri.

«Il tuo seno…cara. E’ così proletario. Ti da l’aria di una cameriera o di una colf.», intervenne una zia seduta esattamente davanti a me.

«Penso che staresti benissimo con meno curve», aggiunse Fear sorridendo ancora.

«Quando avrò voglia di diventare infelice come voi, penserò alla chirurgia.», posai il biglietto da visita sul tavolo e afferrai la bottiglia di champagne dal cestello. Ogni gesto venne osservato dalle mie sorelle e dalla zia Betty con disgusto. 

«Come sta andando?» Mia madre apparve accanto a Fear e sorrise a tutte e tre. In realtà il sorriso si spense di un tono quando incrociò il mio sguardo, ma lo ignorai.

«A proposito, cara», disse come se si fosse appena ricordata di non avermi umiliata abbastanza «Come va con il tuo piccolo Hobby?»

Il mio piccolo hobby, cioè il mio tirocinio in facoltà. Sorriso forzato. «Alla grande, grazie per avermelo chiesto. Tra due mesi arriveranno le vacanze estive. Sto pensando di fare un viaggio, magari nel New Hampshire.»

«Onestamente, cara, non so proprio perché lo fai. Se sei così determinata a lavorare, potresti abbandonare quel ramo e prendere giurisprudenza o medicina come tuo padre. Lo fai perché speri di trovare un uomo?», il tono speranzoso fu la ciliegina sulla torta.

Sorriso forzatissimo. «Non lo faccio per trovarmi un uomo, lo faccio perché mi piace.»

Per tutta risposta aggrottò la fronte. In realtà, mi accorsi che tutti a quel tavolo l’avevano aggrottata. Non riuscivano a capire perché volessi lavorare, il ché era assurdo. Personalmente per me quel gruppetto era composto da mele marce e persone vuote. Mi domandai cosa ci stessi ancora a fare seduta lì con loro.

Giusto, mia madre e la sua minaccia di farmi una scenata…

«Hailine.» L’uomo tronfio d’alcool che si stava caracollando verso il tavolo aveva, stretta nella mano che non manteneva il calice, una confezione perfettamente infiocchettata. 

«Halanie», mormorai. Ma non per farmi sentire, non sarebbe servito a nulla. Marcus non avrebbe mai imparato il mio nome, anche se stava con la mamma da più di otto anni.

«Buon compleanno tesoro.» Disse e mi porse maldestramente il pacchetto.

«Grazie.» Sorriso finto. Il mio compleanno era stato in inverno, circa sei mesi prima di quel momento. Si, nessuno della famiglia ci aveva pensato, ovviamente. Escluso la nonna che era stata l’unica ad avermi chiamata.

E Sally, la vecchia tata che si era ricordata del giorno del mio compleanno spedendomi una scatola di cioccolatini.

«Non riesco a credere che la mia piccola abbia già ventidue anni.»

«Lo so.» Non ci riuscivo a credere nemmeno io dato che di anni ne avevo ventiquattro, ma ehi, se mi voleva fare più giovane, che ragione c’era di mettersi a discutere?

«Ne ha ventiquattro, imbecille.» Tutte le teste si voltarono verso la nonna. Stava raggiungendo il tavolo a bordo della sua sedia a rotelle, anche se ero certa che non si sarebbe fermata mai abbastanza a lungo per salvarmi da quella gente. «Ne ha fatti ventiquattro a Gennaio. Ah! Mi lascio dietro solo imbecilli.» borbottò, sorpassando il tavolo.

Sorrisi e questa volta era vero.

«Va bene così Marc-Papà.»

Vidi il sorriso sulle labbra di Marcus vacillare, e per la prima volta da quando lo conoscevo mi sembrò a disagio.

«Ti chiamerò in settimana.», disse deciso.

«Sul serio, va tutto bene.»

«Marcus, non ha più dieci anni, non c’è motivo che faccia tante storie per una stupida data di nascita.», commentò mia madre sventolandosi la mano davanti.

A quel punto, avrei voluto dire qualsiasi cosa ma sentii solo gli occhi pizzicarmi.

Dalla rabbia, sia chiaro.

«Già, non ce n’è motivo.», mi sollevai dalla sedia rumorosamente. Mia madre mi scrutò allampanata.

«Se volete scusarmi, ho bisogno del bagno.»

Con una scusa mi allontanai dal tavolo e dalle loro facce sbigottite e, per alcuni versi, divertite.

Non c’era nulla di divertente in un patrigno che non ricorda la data di nascita di una delle sue figliastre, ma ancor meno divertente è una madre che ignora totalmente il tuo compleanno.

Per mia madre doveva essere normale, lei, gli auguri, li aveva sempre fatti solo a Martha. Probabilmente mai nemmeno a Fear, il problema era che a tutte e due stava bene così.

Tante volte mi ero chiesta chi sarebbe diventata Fear. Insomma aveva diciannove anni e stava per raggiungere quella soglia d’età dove se non ti sposi sei come Halanie.  Come sarebbe venuta su?

Quando eravamo molto piccole avevo avuto un rapporto diverso con lei. Eravamo complici, affini, le volevo bene.

E so che lei ne voleva a me. Poi me ne ero andata, prima in collegio, poi dai nonni e alla fine in un’altra casa per sempre. Dovevo aver rotto qualcosa senza rendermene conto.

«Se vuoi andartene lo capisco.», la porta a scomparsa del bagno sparì all’interno del muro e il viso di Fear apparve dietro di essa. I capelli castani e scuri raccolti dietro la nuca, l’abito lungo, verde smeraldo, gli occhi scuri e profondi.

«Volevo andarmene da quando il tassista mi ha scaricata davanti al cancello.» proferii bevendo un sorso d’acqua dalla cannella.

«Che problema hai, Haly?», Fear raggiunse la fila di lavandini di marmo nero e appoggiò il suo fondoschiena contro il bordo.

«Io? Sul serio?» Strappai un pezzo di carta dall’espositore apposito e mi asciugai la bocca.

«Si, insomma, si percepisce il disagio che hai quando sei con la tua famiglia.»

Fear sollevò le mani. Le sue dita corsero al colletto della mia camicetta di seta.

«Forse perché amate mettermi a disagio?» Gettai il pezzo di carta e la fissai aspettando che mi togliesse le mani di dosso.

«Martha e la mamma, non io.»

Mi fissò dritta in faccia. Il suo sguardo era così intenso che, per un momento, quasi credetti che stava dicendo la verità.

Schioccai la lingua sul palato mimando una smorfia, e scacciai l’idea che fosse sincera con un’occhiata al cielo.

«Fear,» presi un bel respiro «io non sono e non sarò mai come te, Martha o la mamma. Chiaro?»

A quel punto, quello che avevo decifrato come uno sguardo speranzoso si indurì.

«Vedi? E’ per questo che ti odiano.»

La delusione si appropriò del suo viso velocemente. 

«Mi odiano perché ho scelto di essere me stessa?»

Non distinsi le emozioni nel suo sguardo.

«Potevi fingere di essere ciò che volevano che fossi. Così non ti avrebbero mai costretta ad andare via.»

«Lo avrebbero fatto ugualmente. Il collegio, la casa dei nonni-»

«Sei scappata da loro!»

Spalancai le palpebre «E’ questo che ti hanno detto?»

Non potevo credere alle mie orecchie, così era quella la motivazione che le avevano dato? Sul serio!? Da quando la nuova verità sul perché mi fossi trasferita dai nonni consisteva in una mia fuga da casa? Io non ero scappata, erano stati i miei nonni a decidere che io fra tutte e tre dovevo salvarmi.

«I nonni mi hanno preso con loro perché tua madre non era in grado di crescermi!»

Fear serrò la mascella. I pugni chiusi, lo sguardo abbattuto.

«Dici solo bugie, come da piccola.». Rabbia. Di questo risuonava la sua voce.

Si allontanò da me e raggiunse nuovamente la porta del bagno.

«Non ho mai detto bugie.»

Fear lanciò lo sguardo oltre la sua fronte e sorrise tristemente «Sai che c’è, non importa.» Fece un momento di pausa e sembrò riprendere possesso di se stessa «Fra poco arriveranno i Coen, mamma sarà impegnata a pavoneggiarsi con loro, perciò potrai uscire dal retro.»

Mi venne quasi da sorridere «Che fai? Mi stai cacciando?»

Fear si voltò rivolgendomi uno sguardo imperscrutabile. Poi, assurdo, sorrise.

«E’ evidente che né tu, né il resto delle persone presenti, siete contenti della tua permanenza qui, ti allevio solo l’agonia.», capitolò e poi sparì lungo il corridoio.

Solo quando non la vidi più, né sentii i suoi tacchi sul marmo, mi sembrò di tornare a respirare.

 

Dovevo seguire il consiglio di Fear e andarmene. E lo avrei anche fatto subito se solamente il tassista mi avesse risposto alle chiamate.

Dopo svariati tentativi vani, abbandonai l’idea di contattare la sua compagnia per fare un reclamo e mi misi ad ispezionare la rubrica alla ricerca di un numero, uno qualsiasi, a cui scroccare un passaggio.

Per quanto io fossi una fan del “cavatela da sola”, quel pomeriggio scelsi di smetterla di fare l'indipendente e l’emancipata, e composi il numero di Aron.

Lo so. Lo so, già vi sento…”eh però te le vai a cercare”, “Proprio Aron?!”. Avete, tutti, indubbiamente ragione. Ma in quel momento non vedevo chi altro poter chiamare dato che i numeri di cellulare a mia disposizione si limitavano a 3, di cui uno, quello di Gretha, che non era da considerare. Quindi si, avevo scritto ad Aron, che per raggiungere casa di mia madre, impiegò circa quindici minuti, tempo record, se consideravo il traffico che c’era stato quando ero arrivata io.

«Dove pensi di andare.» Ad un passo dalla porta sul retro, sussultai.

«Nonna.» L’espressione perennemente arcigna di mia nonna si addolcì di poco. Pochissimo. 

«Esci dalla porta principale, non sei una ladra, questa è anche casa tua e hai tutto il diritto di mandare a quel paese questa gente.»

Sorrisi.

Il cuore mi si era appena aperto creando una voragine di malinconia immensa.

Feci un passo indietro e la raggiunsi chinandomi verso di lei. L’abbracciai.

Per un momento rimase interdetta, chissà da quanto non veniva abbracciata da qualcuno.

 Ricambiò il gesto delicatamente.

«Non sai quanto mi manchi.»

Ridacchiò «Non sei cambiata affatto, piagnucolona eri da piccola e piagnucolona sei da adulta.»

Quando tirai su la schiena, agli angoli dei suoi occhi notai due lacrime incastrate alle ciglia.

Mia nonna era una persona burbera, una vecchia signora di campagna che aveva trovato fortuna nel New Hampshire, ma era anche l’unica che, a modo suo, sapeva dimostrare affetto vero.

Se avessi potuto sarei rimasta lì, solo per lei, per sempre.

«Avanti, adesso va.»

Annuii asciugandomi gli occhi in fretta.

Attraversai l’ampia cucina e un paio di saloni vittoriani prima di trovare l’androne d’ingresso.

Afferrai il chiavistello della porta di legno, alta almeno tre metri e spessa venti centimetri, e l’aprii. «Signorina Evans dove sta andando?»

Mi voltai in direzione di Arnaud.

«Non lo vedi? C’è qualcuno che mi sta aspettando.»

Aron fece rapido un cenno con la mano ad entrambi.

Il maggiordomo aggrottò la fronte. Oltraggiato, schifato e sarei potuta andare avanti per ore a descrivere i suoi stati d’animo in quel momento.

Ma ora, la sua preoccupazione era catalizzata solamente sulla reazione di mia madre e di quando avrebbe saputo che una delle sue figlie stava per lasciare il suo epico banchetto accompagnata da un ragazzo ricoperto di tatuaggi e dall’aria poco raccomandabile. Mia madre sapeva essere molto, molto pesante, e non solo perché aveva un carattere autoritario e dedito al perbenismo, ma anche perché era una fan accanita del martini.

E Dio solo sapeva cosa era in grado di fare in balia dei fumi dell’alcool.

Per la verità, oltre a Dio, soprattutto Arnaud lo sapeva.

L’alito di preoccupazione a riguardo non si risparmiò di trapelare dallo sguardo dell’uomo che, per ben due volte, aveva pronunciato il mio nome, mentre mi inseguiva lungo l’ampia scalinata che portava al cancello d’ingresso.

«Sua madre diventerà furiosa!», disse più a se stesso che a me.

«Credo che quello sia un tuo problema.»

Risposi continuando a camminare svelta.

«Eh no! Quello diventerà anche un suo problema! Sa perfettamente cosa succede quando le si disobbedisce!»

«Non ho più dieci anni, lo ha detto anche lei. Saprò affrontare una lavata di capo.»

Il cancello, finalmente.

Scostai l’anta e mi rivolsi ad Aron «Ti prego, portami via da qui.»

Feci il giro dell’auto e aprii lo sportello.

   
 
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