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Autore: udeis    17/07/2022    1 recensioni
La storia del destino di un regno e di chi ne è stato artefice e compartecipe.
1. Re -Io, che preferii l'azione a un'immobile sconfitta, misi in moto gli ingranaggi del fato di mia spontanea volontà.
2. Figlia dell'inverno - Nessuno sembrava amare l’inverno, così iniziai a detestarlo anche io perchè mi aveva fatto diversa da tutti gli altri.
3. Strega - I suoi occhi neri come la notte come fuoco consumano il mio animo.
4. Fame - Avevo fame e mi sarei nutrita ad ogni costo.
5. Quello che ho perso - in poche e semplici parole avevano negato il mio sacrificio, non gliel'avrei permesso.
6. Appartengo alla terra - appartengo alla terra e alla terra tornai tra pianti e maledizioni.
7. Il principe che venne da lontano - C’era una volta un principe in cerca di una terra da poter chiamare sua
8. Dea - io ricordo solo le donne che mi videro
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Fame


Era il naso il primo a svegliarsi, all’odore dolce e acidulo della frutta fresca, poi seguiva lo stomaco che ruggiva la sua approvazione e trascinava con sè tutto il resto del corpo, per ultimi si aprivano gli occhi, quel tanto che bastava ad afferrare un frutto e portarlo alla bocca senza rovesciare la la ciotola. Preferivo le mele croccanti e asprigne, così piccole che sparivano in un morso o due. Mi concedevo una pesca dolce vellutata seducente, quando volevo viziarmi. Agognavo le arance, dopo una notte di febbre, l’anguria dopo una notte di calura estiva e degustavo susine e albicocche, quando volevo sentirmi raffinata, ma mi rivolgevo alle pere, ogni volta che volevo il brivido della sorpresa: nulla era mai uguale con le pere.

La serva iniziava ad occuparsi dei miei capelli e dei vestiti, mentre io ingoiavo a cucchiaiate lo zabaione caldo e cremoso che la cuoca mi faceva recapitare ogni mattina e tanto faceva bene al mio incarnato. Nello scendere nella sala da pranzo, passavo davanti alla cucina: l’odore del pane fresco mi travolgeva e mi conquistava, come se fosse sempre la prima volta, aprendo una voragine senza fondo nel mio stomaco. “Controllo qualità!” annunciavo senza la minima vergogna e con il sorriso più grande che avessi, mi appropriavo di una pagnotta fresca e per buona misura anche di uno dei panini all’olio che mia madre tanto amava. Sbocconcellavo il mio bottino nei corridoi: beandomi del suo calore e della sua morbidezza che tanto ricordavano le coltri che aveva appena lasciato. Nascondevo il pane con attenzione sotto le vesti prima di entrare nella sala da pranzo: mio padre non amava che mangiassi troppo, ma il mio stomaco gorgogliava e ruggiva per la fame e già avevo l’acquolina in bocca al pensiero di quello che mi aspettava per colazione.

Mi servivo il formaggio fresco e cremoso, la ricotta più sopraffina e il formaggio dal gusto deciso che veniva accompagnato sempre dalle marmellate - mia madre ci teneva molto a questa usanza. Ne spalmavo anche sul pane nero e scuro appena scottato al forno che si sgretolava così piacevolmente sotto i miei morsi, così come, invece, mi aveva insegnato mio padre.

Finivo il pane preso dalle cucine, mentre mi avviavo dai miei tutori e recuperavo da dietro il busto di un antenato, il sacchetto di mandorle e frutta secca che portavo sempre con me durante i miei studi. Appena il precettore si distraeva, tuffavo la mano nella mia scorta segreta e mi divertivo a triturare la frutta secca in piccoli pezzi croccanti e appuntiti prima di inghiottirla. Era davvero divertente: ci voleva destrezza,  e tempismo per non farsi scoprire e una buona dose di faccia tosta per negare l’evidenza davanti alla furia del precettore che aveva scorto le briciole sui miei vestiti.

 

Nascere nobile è stata una fortuna e una sfortuna insieme: il cibo arrivava sempre in tavola preciso e puntuale, non mancava mai, ma nei lunghi intervalli tra un pasto e l’altro non potevo rubacchiare niente senza dare nell’occhio. Nè potevo sperare che una vicina impietosita mi nutrisse come un gatto randagio. Potevo, se riuscivo a sfuggire allo sguardo attento di precettori e tate, recarmi in cucina e chiedere qualche cosa da sgranocchiare o raggiungere i giardini sperando di trovare qualche fragola. Quando ero ancora bambine, le cuoche e le dame di compagnia mi trovavano carina: così tonda e delicata, le guance rosee e paffute, non riuscivano mai a negarmi niente, ma crescendo, le cose cambiarono. “Le signorine, le principesse, non devono mangiare o diventeranno grasse e in quel caso nessuno le vorrà” dicevano. “Una donna non deve essere troppo magra e secca, altrimenti, non è adatta per la discendenza, sembra tisica, ma neanche deve  sdrabordare dai vestiti, altrimenti ogni sguardo si perderà tra i rotoli di ciccia e verrà distolto” mi insegnavano. Mi negarono il cibo, poco importava che non ingrassassi mai di un etto, ma la mia fame non scomparve, nè diminuì. Le mie capatine in cucina divennero per forza di cose clandestine: mi servivo gli avanzi che sarebbero dovuti andare ai servi, mi servivo di quelli che dovevano andare ai maiali, mi servivo raffinate prelibatezze, perchè in fondo ero la principessa e nessuno poteva disobbedirmi. Rubavo le mele dal giardino, le uova dai nidi e le bevevo crude; poi fiori, foglie, perfino erbacce e ancora scoiattoli, insetti, uccelli che catturavo io stessa servendomi dei lacci di seta strappati al mio vestito.

 

A volte lottavo contro la forza primordiale della fame: ce la mettevo tutta per non mangiare, per adeguarmi alle aspettative che tutti avevano su di me, ma Il mio stomaco si quietava per un’ora appena prima che ricominciassi a sentire i suoi gorgoglii. Se non mettevo subito qualcosa sotto i denti iniziavo a sentirmi leggera come un palloncino, se resistevo fino a cena diventavo sempre più debole e nervosa, se la cena per qualche motivo ritardava mi sentivo svenire. Su ordine di mio padre, tate, ancelle e serve mi sottoposero a beveroni immondi, mi fecero mangiare amaro, per cacciare l’appetito, mi strinsero i vestiti per monitorare il mio peso, ordinarono alle cuoche di non prepararmi più nessuno spuntino.

Dicevano di farlo per il mio bene, ma io tormentata dai morsi della fame, mi feci solo più astuta e scorretta. Sfruttai la mia nascente bellezza per convincere paggi e servitori a fare ciò che volevo. Usai i pettegolezzi per ricattare le cameriere più giovani e legarle al mio volere. Arrivai a pagare in contanti valletti e dame di compagnia per procurarmi cibo fresco dal mercato: che fosse frutta, dolci o quella disgustosa zuppa che faceva la vecchia pazza della città bassa. Avevo fame e il mio stomaco sembrava non volersi riempire mai. Avevo fame e mi sarei nutrita a tutti i costi.

 

Mia madre non appoggiò mio padre in questa sua crociata, nè criticò mai i miei metodi, che di certo non si addicevano a una donna di buona famiglia: ogni sera, però, sotto il cuscino, trovavo ad attendermi uno dei suoi panini all’olio.

 

Tutto il castello si preparava ad accogliere alcuni delegati stranieri, per alcune noiose faccende riguardanti i confini che a me non interessavano. Avremmo tenuto un ballo e un ricevimento e ci sarebbe stato un banchetto. Non è solo la mia fame a parlare, quando dico che adoro i banchetti ufficiali: si cucina sempre in abbondanza per dimostrare il proprio lustro e mettere l’ospite a proprio agio e davanti agli ospiti mio padre non poteva criticarmi apertamente o ordinare alle cameriere di portarmi via il piatto. Purtroppo per me, in quei giorni, i preparativi erano stati così frenetici che non avrei potuto chiedere ai servi di portarmi nemmeno un’oliva senza farmi scoprire. Il mio stomaco ruggiva per la fame, costretto a saltare 5 dei suoi dieci spuntini segreti e due delle seconde colazioni. Così al banchetto misi in atto la mia recita collaudata: vestiti ampi e vistosi, per distogliere l’attenzione dai miei gesti, buone maniere e il galateo a nascondere l’entità delle mie porzioni, un sorriso affascinante per negare il fatto che mi stessi servendo per la quarta volta, alcune frasi brillanti per distogliere l’attenzione dei commensali dalla velocità con cui facevo danzare le mie posate.

Il principe, lui non si fece ingannare dai miei modi e mi guardò fissa per farmelo sapere, ricambiai, sorridendo più apertamente. Sarebbe stato abbastanza audace per far notare che la principessa, sua ospite, si ingozzava come un maiale? Abbastanza astuto per far pesare i miei modi - e quindi il mio futuro matrimoniale- sulle trattative? O avrebbe semplicemente fatto naufragare la mediazione, con una frase scortese solo per il gusto di ferirmi?

 

Con mio grande stupore, mi cedette, invece, il suo sorbetto.

 

Divenne re, a suo tempo, e io regina, e mi concedette tutti gli spuntini di cui avevo bisogno: li andava a prendere lui stesso e ci teneva a cucinare personalmente la sua cacciagione per potermela offrire su grandi vassoi d’argento. Adorava vedermi mangiare, adorava me e non faceva che ripetermelo. Io ancora nascondevo qualcosa qua e là, per abitudine, ma lui rideva quando trovava dei biscotti secchi sotto il cuscino o le mele nascoste sotto il cuscino del trono, rideva e mi offriva quello spuntino con occhi colmi d’amore.

 

Quando restai incinta del mio primo figlio, le ancelle e le serve tornarono ad essere indulgenti. Avevo le voglie, dicevano. Le ancelle correvano a procurarmi qualsiasi cosa chiedessi perché nessuna macchia deturpasse la pelle dell’erede. La cuoca mi allungava un pezzo di pandolce servendomi un infuso amaro di foglie, per drenare la stanchezza. Mio marito mi offriva un brodo di pernici per superare le nausee. I cuochi si ingegnarono a creare per me piatti leggeri, gustosi e nutrienti che io mangiavo con piacere intingendoci il pane e leccandomi le dita senza vergogna. Le mie riserve segrete non ebbero bisogno di essere intaccate e non mi arrampicai sui rami nemmeno una volta per rubare qualche uovo. Lasciai in pace insetti e scoiattoli e per la prima volta il giardino fu rosso di fragole mature.

Quando il piccolo principe nacque, volli allattarlo, così come prevedevano le tradizioni materne e così fui nutrita con cibo molle e dolce, cremoso, per far venire più latte. Guardavo ipnotizzata il mio bambino che mangiava felice dal mio seno e lo nutrivo con lo stesso amore che avevo sempre dedicato al cibo. Il bambino mangiava e mi dispiacevo che non conoscesse nient’altro che il latte del mio seno: “Aspetta solo di assaggiare del cibo vero” gli dicevo e mi premuravo di mangiare io stessa il più possibile nella speranza che il latte diventasse più gustoso e corposo.

 

Fu un periodo così bello che volli restare incinta di nuovo, velocemente, per poter essere di nuovo così felice e rilassata.

 

Iniziai a sentire i crampi al ventre nel bel mezzo della cena ma sul momento pensai solo di aver mangiato fin troppo cappone. Poi le fitte si fecero insistenti e sempre più dolorose: urlai stringendo a me con tutta la forza un tozzo di pane ancora ricoperto di un dolce sugo di arrosto. Ma non era sugo quello che mi scorreva tra le gambe, non era la salsa sopraffina con cui si condisce il bollito, nè la crema che si spalma sui crostini dorati, nè la glassa di lamponi che condisce le torte nel giorno più caldo dell’estate. Scorreva sangue tra le mie gambe e il ventre faceva male, la bile si mischiava nella mia bocca con il gusto del cappone e l’odore ferrigno del mio sangue annichiliva quello della verdura stufata.

 

Svenni.

Le ancelle mi portarono via.

 

Quando mi ripresi non ero più incinta.

Non lo sarei stata mai più.

 

Persi l’appetito, non lo nascondo. Quello che per me, un tempo, era stato un piacere incontenibile e dirompente ora non era che un dovere ostico e malvoluto che mi costringevo ad assolvere ogni giorno sotto lo sguardo preoccupato di mio marito.

Avevo ancora fame, era la mia maledizione, ma non volevo mangiare. La fame divorava le mie viscere ineluttabile e crudele, ma per me ogni boccone sapeva di cartone, e l’odore più squisito mi faceva rivoltare lo stomaco. Provarono a tentarmi, all’inizio: pranzi deliziosi, i miei piatti preferiti, un biscotto lasciato sopra il cuscino, ma ormai il cibo non suscitava su di me nessuna attrattiva. Nemmeno i cuochi più bravi convocati da ogni parte del regno e da quelli limitrofi riuscirono a scalfire la mia indifferenza. Mi tenni in vita per quel maschio, così importante per il reame, ma non amai più nient’altro come avevo amato il cibo.

Mio marito se ne accorse: come lui non riusciva ad arrendersi all’idea che avessi smesso di mangiare io non sopportavo il suo sguardo colmo di pietà. Molto presto partì per una qualche contesa di confine: stette via mesi e mesi, ma anche quando tornò non rimase a lungo. Andava e veniva e non riusciva a guardarmi; anche io preferivo così.

Donai le mie scorte segrete ai mendicanti che si affollavano davanti alle porte del castello, piluccai i miei pasti destinando il resto ai servi o ai cani. Mi dedicai agli altri per dimenticare la fame. Cibai i poveri: visitai la città bassa e i suoi vicoli sporchi e stretti, le sue case sbilenche e le sue dispense vuote. Condividevo le scorte del castello, prendevo nota delle loro condizioni di vita, mi facevo nauseare dal puzzo di piscio e sudore, mi facevo invadere dalla colpa di aver goduto di tre pasti al giorno, spuntini esclusi, mentre i bambini che mi correvano allegramente incontro, avevano mangiato si e no una volta sola nell’intera giornata.

Organizzai una volta l’anno, un grande banchetto per i più poveri e affamati del mio regno: la loro fame era inesauribile e feroce, proprio come la mia. Nutrivo loro per non nutrire me, godendo della meschina vendetta che mi prendevo sul mio corpo, sulle mie ancelle, su mio padre, sul mio regno.

Perdere il bambino mi aveva trasformato in una regina decorosa generosa e magnanima, dicevano. Glielo lasciai credere.

  
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