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Autore: nydrali    20/07/2022    0 recensioni
Isabel è una ragazza normale ... almeno fino al giorno in cui un magico talismano non la catapulta nell'Antica Roma. Riuscirà a sopravvivere e a tornare a casa?
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Talismano'
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Isabel strattonò le corde, ma era tutto inutile: erano strette ed i nodi sembravano opera di un provetto scout. Non sarebbe riuscita a scioglierli in meno di cinquant’anni. Tempo che proprio non aveva, a giudicare da come l’aveva adocchiata quel Gallo che – se non si era sbagliata – si chiamava Vrittakos: come una succulenta bistecca.
Tentò di liberarsi almeno del bavaglio - che era tanto stretto da inciderle i lati della bocca - ma non le riuscì nemmeno quello.
Sospirò, sconfortata, e per un momento si abbandonò al pianto: che stupida era stata! Davvero aveva pensato di poter liberare quei due poveretti? Lei, che non era mai stata capace nemmeno di affrontare uno scarafaggio? Lei, che non era riuscita neppure a rimanersene nel suo secolo, dannazione!
Picchiò più volte il piede contro il pavimento di terra battuta, con rabbia, ripetendosi che era stata una stupida una stupida, una stupida! Anzi no, non era solo idiota, era pericolosa. Quindici dei Romani erano morti per la sua bravata, Nivio compreso, ed ora lei si ritrovava prigioniera dei Galli, legata come un salame dentro una tenda e con un pazzo di barbaro che non vedeva l’ora di approfittare della sua inoffensività.
Chiuse gli occhi e nella mente le si affollarono le immagini del giorno prima: Nivio ed i Romani che organizzavano la trappola, il Gallo che gridava dando l’allarme, i barbari che caricavano a cavallo i legionari appiedati, la terribile carneficina che ne era seguita. Lei era rimasta paralizzata – a riprova che tutto era, meno che coraggiosa – mentre Chrysio  si era lanciato in soccorso dei soldati, brandendo un corto pugnale. Un Gallo l’aveva stordito con un colpo di piatto e poi, scorgendola tra la foresta, l’aveva inseguita. Isabel non aveva nemmeno fatto in tempo a montare in sella ad Elisium, che era fuggito lontano quando il barbaro, raggiungendola, l’aveva presa per i capelli ed issata di traverso davanti a sé. Era stata sballottata a cavallo come un sacco di patate per Dio solo sapeva quanto tempo, prima di arrivare a quell’accampamento nascosto nel folto della foresta provenzale.
Era stato allora che quel tizio, quel Vrittakos, le si era avvicinato e, senza troppi convenevoli, le aveva strizzato un seno, ridendo fragorosamente. Grazie al Cielo un altro barbaro si era fatto avanti, gli aveva urlato qualcosa in quella loro lingua graffiante, l’aveva legata e gettata in una tenda. A quel punto sembravano tutti essersi dimenticati di lei. Era calata la sera, erano spuntate le stelle in cielo ed era sorto nuovamente il sole del mattino, ma non si era visto nessuno. Non che Isabel si lamentasse della cosa, ma iniziava ad avere una certa sete e poi voleva sapere cosa ne era stato di Chrysio  e dei Romani sopravissuti.
Faticosamente, riuscì a mettersi seduta, sebbene le braccia – legate saldamente dietro la schiena – le dessero terribili fitte di dolore. Ora aveva un nuovo problema: doveva assolutamente andare in bagno. Tentò di mettersi in piedi, appoggiandosi contro il rozzo baule che – da solo – arredava la tenda di pelle, quando ad un tratto un uomo entrò. Era lo stesso barbaro alto e biondo che aveva trattenuto Vrittakos e che le sarebbe stato anche simpatico, se non fosse stato anche l’assassino di Nivio.
Nivio … il ricordo del Romano le serrò la gola. Era stato buono con lei, l’aveva protetta, l’aveva assecondata … ed ora era morto. Per colpa sua. Il pensiero le strozzò la gola, ma Isabel si impose di non piangere: non ancora, non adesso, non con quel barbaro alto e biondo che la fissava.
L’uomo grugnì qualcosa nel vederla mezza in piedi, la afferrò rudemente e le sciolse le mani, i piedi ed il bavaglio. Grata, Isabel sospirò di sollievo, si massaggiò delicatamente i polsi martoriati ed incisi in profondità dalla ruvida corda e si tastò la bocca dolorante, scoprendo dei piccoli tagli ai lati.
Il Gallo la lasciò fare, limitandosi ad appoggiare un boccale d’acqua sul baule e a tenderle un pezzo di pane scuro. Famelica, Isabel divorò il pane e trangugiò l’acqua, iniziando a pensare ad un modo per comunicare coll’uomo. Stava per fare un tentativo quando il barbaro, vedendo che aveva finito di pranzare, le si avvicinò nuovamente con la corda. Isabel fu lesta a tirarsi indietro e, prima che l’uomo si infuriasse, si accovacciò in un angolo della tenda e liberò la vescica.
Era l’esperienza più umiliante della sua vita, ma l’affrontò fissando il Gallo negli occhi e sforzandosi di non lasciar trasparire il minimo disagio: non gli avrebbe concesso anche quella soddisfazione, e che diamine!
Infine, si rivestì e lasciò che lui la legasse di nuovo. Per un attimo aveva sperato che – impietosito dallo stato dei suoi polsi – allentasse un poco la corda, ma si era sbagliata, e di grosso. Dovette mordersi le labbra quando il barbaro strinse i nodi e la corda tornò ad reciderle la pelle. Con uno strattone, l’uomo finì di imbavagliarla ed uscì.
Improvvisamente senza forze, Isabel si accasciò in avanti ed iniziò a piangere.
 
Si risvegliò che mancava poco al tramonto.
La luce che traspariva dalle pelli che formavano la tenda era rossa e fioca, appena sufficiente a delineare le sagome e a gettare lunghe ombre sul pavimento. Isabel rimase a lungo ad osservarne una che aveva decisamente la forma dell’ Empire State Building. Si concentrò più a lungo possibile su quella forma tanto famigliare, sforzandosi con ogni fibra del suo essere di non pensare alle corde che le spezzavano le braccia, al bavaglio che le tagliava la bocca, all’umiliazione di quella mattina e a quanto disperata fosse la sua situazione. E a Nivio, soprattutto. Ai Romani morti perché lei si era messa in mente di giocare a fare Rambo, quando invece avrebbe dovuto starsene buona e zitta e lasciarsi accompagnare per mano come la dannata imbecille che era! Stupida! Pericolosa! Assassina!
Isabel ricominciò a piangere. Cosa aveva fatto? Oh, Dio, che cosa aveva fatto?
Alla fine, chiuse gli occhi e si lasciò scivolare in uno stato di febbricitante dormiveglia nel quale non le era ben chiaro dove fosse né cosa le stesse accadendo. I ricordi svanivano come dietro una cortina di fumo, i sensi la abbandonavano ed il mondo veniva soffocato sotto un velo di semi-incoscienza. Se si lasciava abbastanza andare, quasi poteva ingannarsi e convincersi di essere tornata a casa.
Furono le grida a svegliarla. Spalancò di colpo gli occhi e balzò seduta, quando le giunse all’orecchio il clangore del ferro contro ferro: una battaglia!
D’un tratto eccitata, si tese in ascolto. Chi era? Quasi ebbe un colpo quando tra le grida della battaglia distinse chiaramente un “ legionari, a me! “ decisamente in latino. Che Crasso avesse inviato rinforzi? No, non era possibile: nessuno sapeva dove si trovavano!
Eppure … eppure erano Romani, su quello non poteva ingannarsi. Forse la salvavano, era tutto ciò cui riusciva a pensare, forse la salvavano. Per un momento si sentì meschina: dov’era finito il suo dolore per Nivio? Dov’era finito il suo senso di colpa? Che diritto aveva lei di essere salvata, proprio lei, la causa di tutto? Però poi tornò ad eccitarsi, a tendere l’orecchio e a trattenere il respiro: semplicemente, nonostante tutto, nonostante ciò che aveva fatto e ciò che non sapeva di meritare, non riusciva ad impedirsi di sperare. Aveva sedici anni e voleva vivere. Punto e basta. Era troppo giovane per aver già perso l’istinto di sopravvivenza, e quello era molto più forte di qualunque senso di colpa. Forse mi salvano, si ripeteva, forse mi salvano.
La battaglia si trascinò a lungo: il giorno trascorse fra urla e fragore, ed Isabel fremeva e scalpitava chiedendosi cosa stesse succedendo, chi stesse vincendo. Tutto ciò che riusciva a cogliere erano le grida dei barbari e dei Romani e le sagome dei Galli che correvano come impazzite fuori dalla tenda. Sembravano oscene ombre cinesi, guizzavano di qua e di là senza senso, urlavano ed imprecavano, morivano ed uccidevano ed Isabel non riusciva a credere che un combattimento potesse durare tanto a lungo. Sembrava non finire mai. Lei era abituata alle battaglie dei film, quando l’orrore aveva fine nel giro di dieci minuti, mezzora, un’ora al massimo, e già dopo venti minuti lei chiudeva gli occhi o tirava avanti, nauseata da tanto sangue e tanta violenza.
Invece adesso le grida la straziavano ancora. Uomini feriti o morenti che strillavano con voce da mozzarle il fiato e che poi urlavano, ed urlavano ancora, oltre ogni limite di sopportazione. Non per dieci minuti, mezzora, un’ora, ma per ore, per un giorno intero.
Ben presto Isabel, semplicemente, non riuscì più a sopportarlo. Nemmeno la speranza riuscì più a sostenerla e lei, vittima delle emozioni e della stanchezza – più mentale che fisica – scivolò in un sonno spezzato e tormentato, dal quale si risvegliava ogni pochi minuti per tendere nuovamente l’orecchio e cogliere una qualche novità.
Non mancava molto all’alba quando le grida cambiarono, ed anche i movimenti dei Galli si fecero più frenetici. Ben presto persino per Isabel fu chiaro che i Romani avevano spezzato le resistenze dei barbari. Di colpo, lei tornò a sperare: adesso mi salvano, si diceva ogni volta che una voce latina risuonava più vicina. Gli spostamenti delle ombre al di là della sua tenda erano sempre più confusi, le grida più disperate. Isabel seguiva ogni cambiamento con apprensione, sobbalzando ogni volta che un uomo o un cavaliere passava nelle vicinanze della tenda.
Ad un certo punto un Gallo lanciò un terribile grido di guerra ed un ufficiale Romano ordinò ad i suoi uomini di formare la testudo. Isabel udì il fragore degli scudi che cozzavano contro gli scudi e quindi i tonfi metallici delle frecce che rimbalzavano contro la testuggine compatta dei Romani.
Le grida della battaglia si fecero ancora più vicine ed intense: i Galli, a quanto poteva capire la ragazza, non avevano nessuna intenzione di arrendersi.
Il lembo della tenda che fungeva d’ingresso fu scostato di colpo. Isabel sobbalzò, nel veder entrare il Gallo che l’aveva palpata, Vrittakos. L’uomo, sorridendole ferocemente, le si avvicinò a grandi passi, stringendo in una mano una spada lorda di sangue e nell’altra – Isabel la vide ed ebbe un conato di vomito che minacciò di soffocarla, stretta com’era dal bavaglio – la testa di un soldato Romano.
Con un gesto distratto, Vrittakos gettò da una parte la testa mozzata, che rotolò via con un rumore sordo, ed afferrò Isabel per la tunica, costringendola rudemente ad alzarsi. La scagliò contro il grosso palo di sostegno che reggeva la tenda e con uno strattone le tolse a cintura che le chiudeva in vita la tunica.
Silenziosamente, Isabel si mise a piangere. Avrebbe voluto dirsi che era solo un incubo, ma sapeva che non era così. Era vero e stava succedendo proprio a lei. E, cosa ancora più terribile, lei non poteva in alcun modo impedirselo. Fu lo schiacciante senso di impotenza, più ancora della durezza delle mani di Vrittakos, a farla scoppiare in singhiozzi disperati, soffocati dallo stretto bavaglio.
Il barbaro, ridendo, le leccò avidamente le lacrime, come un leone che lecca il sangue della vittima, e lei – inorridendo – ingoiò con un moto d’orgoglio quelle che ancora le pungevano gli occhi. No, non avrebbe dato a quel pazzo sadico la soddisfazione di vederla frignare ed implorare pietà, si disse alzando il mento. Quello almeno no.
Il fruscio fu così lieve che Isabel non lo udì nemmeno, ma Vrittakos si voltò di scatto: un Romano era entrato nella tenda. Il Gallo spinse rudemente a terra Isabel, che per poco non batté la testa contro il baule, e si gettò sul legionario senza esitare un solo istante, landicando un feroce grido di battaglia.
Il Gallo menò un ampio fendente, ma il Romano lo parò facilmente e si preparò al duello, piegandosi in avanti come un pugile pronto a scattare.
Isabel si rimise faticosamente a sedere e lanciò loro un’occhiata Vrittakos era possente, certo, ma il Romano sembrava molto più allenato. Era alto, specie per la media del tempo, probabilmente sul metro e ottantacinque; aveva spalle larghe, vita stretta ed un fisico forte e scattante. Portava un’armatura dorata sopra la tunica color sangue, ed un elmo dal folto cimiero rosso. Sembrava quello che era: un soldato.
E per di più un soldato dannatamente bravo, giudicò Isabel nel vederlo danzare attorno al Gallo senza sforzo apparente, e se persino lei se ne rendeva conto, la cosa doveva essere ancora più chiara per Vrittakos, che in effetti sembrava sempre più nervoso. Il Romano parava con grazia tutti i suoi colpi, vibrando di tanto in tanto affondi o sciabolate di inaudita potenza: poteva anche essere meno massiccio del Gallo, ma a quanto pareva era addirittura più forte.
Alla fine, furibondo ed esasperato, il barbaro caricò a testa bassa il Romano, il quale si limitò a scartare di lato e a trapassarlo da parte a parte col suo corto gladio. Vrittakos, senza un grido, crollò a terra e non si mosse più.
Il Romano rilassò le spalle, riprendendo fiato, ed infine si tolse l’elmo piumato. Aveva i capelli corti, neri, bagnati come se fosse appena uscito dalla doccia, ed un viso particolare, veramente piacevole, con un sorriso mascalzone e sensuale e occhi a goccia, dolci, maliziosi. Era bellissimo, fu costretta a notare, ma la stava fissando in un modo che non prometteva niente di buono.
L’uomo rinfoderò la spada e la raggiunse in un paio di rapidi passi. La sollevò, con delicatezza ma fermamente, e la appoggiò contro il palo di sostegno.
« Salve, Venere », la sussurrò, accarezzandole i capelli. Scivolò contro di lei, giocherellando col bordo della sua tunica. Isabel, senza fiato, non riusciva a far altro che fissarlo spaventata mentre lui insinuava una mano sotto la sua tunica. « Certo che i barbari hanno proprio buon gusto, in fatto di schiave », ridacchiò lui, abbassandosi a baciarle il collo. Isabel si ritrasse di scatto, ma lui le poggiò le mani sulla schiena – sulla pelle della sua schiena! – e la spinse con forza contro il suo corpo, impedendole qualsiasi movimento.
Tenendola sollevata con una sola mano – e apparentemente senza alcuno sforzo – il Romano lasciò scivolare la destra sul suo corpo. Isabel rabbrividì, cercò di scalciare, ma non poteva ritrarsi.
L’uomo aveva mani grandi, ruvide e callose, ma il suo tocco era leggero e delicato. « Tranquilla, dolcezza. Non voglio farti male », le sussurrò all’orecchio, col tono più malizioso che lei avesse mai udito.
Abbandonò la sua pelle per scostarle i capelli da davanti al viso. « Sei spaventata, mia Venere? Non devi … », le garantì, col tono di chi sta cercando di tranquillizzare un cavallo bizzoso.
Con uno strappo, le lacerò la tunica. Isabel gridò nel bavaglio, tentando con tutte le sue forze di sgusciare via, ma il Romano era forte e la tratteneva in una morsa ferrea. Senza che lei potesse impedirlo, lui la adagiò a terra, sdraiandosi sopra di lei. Isabel rabbrividì, non tanto per il contatto con l’armatura gelida, quanto per l’orrore. Una lacrima le rigò il volto, ma la ragazza si affrettò a dominarsi: non avrebbe pianto. Qualunque cosa fosse successa, dannazione, lei non avrebbe pianto!
Il Romano, nel frattempo, aveva preso ad accarezzarle e baciarle il seno. Isabel serrò la mascella, cercando di pensare ad altro, ma era difficile anche solo non gridare con quell’uomo che giocherellava coi suoi capezzoli. Grazie a Dio, dovette ammettere, non le stava facendo male. Anzi, sembrava deciso a darle piacere, ma questo non migliorava la situazione. Brutale o delicato, quel bastardo la stava comunque violentando! Il pensiero le spezzò il fiato e lei cercò ancora di scalciare, ma il peso del Romano la schiacciava, ostacolandole i movimenti.
« Dammi un bacio, mia Venere », disse ad un tratto lui, sciogliendo con mano esperta il nodo del bavaglio. Si chinò su di lei, ma Isabel voltò dall’altra parte il viso, gridando con quanta forza aveva in corpo: « Non sono una schiava! Sono una prigioniera! ».
Il Romano si immobilizzò di colpo. Le prese il volto tra le mani e lo obbligò a guardarlo negli occhi. « Che cosa? Tu parli il latino! ».
Isabel, dando finalmente sfogo alle lacrime, annuì.
Era fatta, di disse, era salva. « Sono Marta Alessandra, figlia di Nicandro da Sinope ».
L’uomo sgranò gli occhi. « Oh, Déi! ».
 
Quando tutto fu finito, uno dei legionari Romani le tese una specie di mantella che si usava indossare sopra la tunica.  L’uomo era sul metro e settanta, perciò la mantella le faceva praticamente da vestito, il che era per l’appunto l’ideale.
Il Romano che per poco non l’aveva violentata sembrava essere il comandante di quella pattuglia, anche se si comportava più come un legionario qualunque. Un soldato lo chiamò generale e soltanto allora Isabel notò quanto fosse riccamente sbalzata la sua armatura e quanto morbida la stoffa della sua tonica rossa.
Scosse il capo: no, basta. Non voleva più pensare a lui quanto meno per i prossimi duecento anni! Si concentrò invece su sé stessa, sui suoi tagli e lividi, chiedendo al legionario gentile che le aveva prestato la mantella di cercarle un po’ d’acqua pulita. L’uomo, che si era presentato come Caio Rufrio, si affrettò a trovarle una bacinella d’acqua di fonte ed anche un po’ di vino con cui disinfettare le ferite.
« Ecco qua », esclamò, poggiando la brocca col vino e sedendosi a terra accanto a lei, che – a gambe incrociate – si lavava i polsi nell’acqua fresca; « E ora lasciate che vi aiuti », si offrì, sollevando la brocca.
Isabel esitò un momento: l’idea che un altro uomo potesse toccarla le dava la nausea. Poi però colse l’espressione dolce del Romano e si diede della stupida: quell’uomo non aveva alcuna intenzione di farle del male, anzi. Alla fine gli rivolse un caldo sorriso e si lasciò aiutare. Rufrio le pulì le ferite ai polsi e glieli fasciò con delle bende ricavate da una tunica trovata nell’accampamento e decisamente meno lercia delle altre. Poi intinse un altro brandello di stoffa nel vino e glielo tese perché potesse medicarsi i tagli ai lati della bocca.
« Certo che siete finita ben lontana da casa, domina: Sinope è molto lontana », commentò Rufrio, mentre lei finiva di disinfettarsi la bocca.
« Sì, casa mia è lontana. Non hai idea di quanto », annuì lei, cupa, « E la tua, Rufrio? ».
« Ah, anche la mia », sospirò il soldato, levandosi l’elmo e massaggiandosi il volto, « È in Italia, a sud di Roma. Avete mai visto Roma? ».
Isabel scosse il capo. « No, mai ».
« Uomini, basta con le chiacchiere! Voglio essere in marcia prima di mezzogiorno! », gridò ad un tratto il Romano che l’aveva quasi stuprata. Rufrio sospirò, si rimise l’elmo e si alzò in piedi, allungandole una mano per aiutarla ad alzarsi.
Riconoscente, Isabel la afferrò. Solo che la mano del soldato era dura e callosa come quella del suo generale, e per poco non rabbrividì a quel contatto. Cercando di non mostrargli il suo turbamento, Isabel finse di guardarsi attorno. Un pensiero la colpì: Chrysio!
« Devo trovare degli amici! », strillò a mo’ di spiegazione in direzione  di Rufrio, allontanandosi quasi di corsa. « Chrysio! Chrysio! Oreste! Melite! Ragazzi! C’è nessuno? ».
« Siamo qui ».
Isabel si voltò di scatto e vide Chrysio , Melite, Oreste e cinque Romani legati ad un albero non meno saldamente di quanto non lo fosse lei. A parte qualche livido, sembravano sostanzialmente illesi.
Lei afferrò per il braccio un soldato di passaggio, gli prese il gladio direttamente dal fodero e corse a tagliare le corde che costringevano i suoi compagni prima che il poveretto potesse anche solo chiederle cosa stesse facendo.
Abbracciò quasi con disperazione Chrysio che, confuso, rispose con imbarazzo, mentre tutt’intorno i soldati Romani sghignazzavano senza ritegno. Isabel non badò loro e, anzi, abbracciò anche Oreste e Melite e persino i cinque soldati Romani che, liberandosi con una certa perplessità dalla sua stretta, corsero a fare rapporto al generale.
« Ercole Vincitore, domina, non credevo che saremmo sopravissuti, questa volta! », esclamò Chrysio, ridendo istericamente di sollievo.
« Nemmeno io », ammise Isabel, sforzandosi però di non ripensarci più. Era fatta, era passata. Per Nivio avrebbe pianto più tardi, ora dovevano solo pensare ad andarsene di lì e non tornare mai più indietro. « Ma adesso basta: ritroviamo i nostri cavalli e andiamo all’accampamento Romano ».
Si voltò in direzione della foresta. « Elisium! Elisium! ».
Udì il rumore di zoccoli dietro di sé e si voltò con un largo sorriso, credendo di vedere lo stallone bianco. Ma purtroppo si trattava solamente del generale in sella ad un maestoso cavallo nero, riccamente bardato di oro e pelle di leopardo.
« Chi chiamate, domina? », le domandò, esitando un momento prima di quell’ultima parola, come se per un istante avesse pensato di chiamarla ancora Venere.
« Non credo siano affari vostri », rispose lei, brusca, voltandogli le spalle. « Elisium! ».
Il generale non insistette e stava per voltare il cavallo, ma si bloccò di colpo. « Déi miei… è una visione! ».
Isabel sorrise e seppe che Elisium era arrivato.
 
L’accampamento Romano era enorme. Dieci volte più grande di quello di Crasso, o almeno così parve ad Isabel quando vi giunsero. Delle sentinelle gridarono il loro arrivo, i cancelli si aprirono ed una mezza dozzina di legionari vennero loro incontro, correndo ad occuparsi dei feriti.
Isabel, che cavalcava Elisium tra Chrysio  ed Oreste, attirò non pochi sguardi, ma grazie al Cielo nessuno fece domande. Era troppo stanca per dare risposte.
Avevano viaggiato per due giorni prima di arrivare in vista dei quartieri Romani, una cavalcata non lunga o dura ma terribilmente snervante. Ogni minuto si sentiva addosso gli occhi del generale, anche quando lui stava in realtà guardando da tutt’altra parte, e la cosa stava finendo per logorarla.
Non ne poteva davvero più: quella sera si era seduta davanti al fuoco e aveva ricapitolato le sue ultime disavventure, cercando di dar loro un senso. Solo che un senso non c’era: prima era finita nell’Antica Roma, poi era stata attaccata dai barbari, era scappata e Nicandro era morto, era arrivata a Marsiglia, aveva comprato Chrysio  – comprato! – e si era messa in cammino attraverso mezza Gallia. Era stata attaccata di nuovo, catturata questa volta, quasi violentata da un barbaro pazzo con in mano la testa di un soldato morto, poi era arrivato questo dannato Romano che prima l’aveva salvata, poi aveva cercato di violentarla a sua volta ed ora doveva pure convincerci!
Alla fine di quella storia, già lo sapeva, avrebbe passato anni in analisi  …
« Finalmente! Un pasto caldo! », esclamò, sognante, Chrysio.
Isabel rise e smontò da cavallo per entrare nell’accampamento. Un soldato riccamente vestito e dall’aria felice venne loro incontro. « Era ora! Stavamo iniziando a preoccuparci! », esclamò.
Il generale smontò dal suo imponente stallone nero ed andò ad abbracciare il nuovo venuto. « È andato tutto bene. Lui dov’è? ».
« Nella sua tenda. Chi è lei? », domandò l’uomo, rivolgendole un’occhiata in tralice, e con tono decisamente non bendisposto.
« La figlia di Nicandro da Sinope », rispose pronto il generale, come se quello spiegasse tutto.
L’altro sgranò gli occhi. « Lui deve essere avvisato », stabilì, e lo disse come se si trattasse della notizia di una improvvisa e virulenta pestilenza.
« Glielo dirò io. Nel frattempo, trova per favore un posto per lei », esclamò il generale allontanandosi. Isabel non trattenne un sospiro di sollievo, nel vederlo andar via. Si sentiva come se finalmente le avessero tolto un peso dalle spalle. Uno dei tanti.
Anche l’altro Romano sospirò - anche se decisamente non di sollievo - e si poggiò le mani sui fianchi, come se fosse estremamente stanco. « Mi sembra giusto … domina, vi prego, seguitemi », le disse, ma più che una preghiera suonava come un ordine. Senza aspettarla, si incamminò.
Isabel fece cenno ad Elisium di andare e lo stallone si allontanò al galoppo nel folto del bosco. « Chrysio , occupati degli altri », gli disse, prima di seguire l’uomo lungo la via principalis, che attraversava l’accampamento da parte a parte.
« Emh.. io sono Marta Alessandra », si presentò, un po’ imbarazzata dal brusco comportamento dell’uomo. Isabel non era mai stata troppo empatica, ma non le riusciva difficile capire quando qualcuno la disprezzava, e quell’uomo, in particolare, sembrava trattenersi a stento dallo sbatterla fuori a calci.
Per un lungo momento il Romano tacque ed Isabel iniziò a pensare che non avrebbe mai detto niente, se non che ad un tratto lui esclamò, secco: « Lucio Cornelio Cetego ».
Be’, era già un inizio …
« Amico Cornelio, ti prego, credimi, io non voglio essere di alcun fastidio … », cominciò lei, ma lui la interruppe con un ah! molto amaro.
« Una donna in un accampamento militare! La vostra semplice presenza è un fastidio », sibilò, fermandosi di fronte ad un gruppo di cinque legionari, « Uomini, liberate una tenda per questa nostra ospite », ordinò in un sibilo, prima di voltare i tacchi ed allontanarsi senza rivolgerle un’occhiata. Isabel fu comunque certa di averlo sentito borbottare qualcosa a proposito di una scandalo e di una puttana.
Sospirando, inarcò lo sopraciglia. « Oh, che simpatico ragazzo! ». I soldati ridacchiarono e le garantirono che le avrebbero trovato la più comoda sistemazione possibile.
 
Quella sera un uomo venne a dirle che avrebbe incontrato Giulio Cesare ed Isabel fu certa di essere lì lì per avere il primo infarto della sua vita.
E così, ecco chi era il famoso lui di cui il generale e Cornelio avevano parlato. Giulio Cesare. Soltanto a pronunciare quel nome si sentiva fremere sottopelle. Sembrava assurdo: incontrare … no, era ridicolo anche solo pensarlo … incontrare Giulio Cesare. Il solo pensiero la faceva sentire ubriaca o molto più prosaicamente pazza. E poi, come ci si preparava ad incontrare uno dei più grandi uomini della storia antica? Isabel era quasi del tutto certa che nessun settimanale femminile avesse mai affrontato l’argomento. “ Dieci modi per farsi belle se dovete uscire a cena con Alessandro Magno “. “ Trucchi e consigli per il primo appuntamento con re Leonida “. “L’etichetta dell’antica Babilonia: noi l’abbiamo provata “. “ I segreti per fare una figurone agli happy hour di Cleopatra “.
Ad ogni modo, non è che avesse un gran ché da prepararsi: non possedeva altri abiti che quelli che indossava, non aveva trucco né profumo e nemmeno uno specchio. Perciò alla fine si limitò a togliersi di dosso la polvere della cavalcata, pettinarsi i capelli con le dita, cambiarsi le fasciature ai polsi e rimpiangere di non avere una boccetta da un chilo di valium.
Incontrare Giulio Cesare … seeeee, e poi? Nient’altro?
Infine, un legionario giunse a chiamarla. Isabel si lasciò scortare da lui alla grande tenda che aveva intravisto arrivando e, una volta giunta davanti all’ingresso, si fermò a prendere fiato.
Perfetto, era arrivata. Ancora un passo ed avrebbe conosciuto – ancora stentava a crederlo – Caio “ho-fatto-la-storia” Giulio Cesare. Cercò rapidamente di richiamare alla mente tutto quello che sapeva di lui e di colpo sentì la testa pulsarle e girarle.
« Forse, in effetti, è meglio non pensare », giudicò, prendendo fiato. Alzò il lembo della tenda ed entrò.
L’interno era sontuoso e spartano allo stesso tempo, proprio come quello della tenda di Crasso, con varie tende tirate a separare gli spazi. L’impressione era quella di trovarsi in una casa vera, anche se decisamente mancava un tocco femminile.
Un gruppo di uomini era chino sul tavolo centrale e stava studiando una grande carta, borbottando di tanto in tanto qualcosa. L’uomo più alto del gruppo le era tristemente famigliare: era il generale. Reprimendo una smorfia, Isabel fece un passo avanti. I Romani si voltarono tutti verso di lei.
Isabel li contò d’un lampo: erano cinque, più il generale, e soltanto uno di loro le dava ancora le spalle. Senza sapere come, Isabel era certa che quello fosse Cesare.
« Emh… buona sera », mormorò, avvampando d’imbarazzo.
Infine, anche l’ultimo Romano si voltò verso di lei ed Isabel trattenne il fiato: aveva passato tutta la serata a prepararsi a quel momento, ed infine era arrivata a credere di essere pronta a tutto.
Si sbagliava.
Che Cesare fosse bello, lo aveva sempre saputo, ed in effetti non si era ingannata: aveva un bellezza straordinaria, un po’ indolente, alla Jude Law, che da sola sarebbe bastata a far perdere la testa alla maggior parte delle donne. Rimase solamente un po’ sorpresa dalla sua capigliatura: gli antichi avevano sempre deriso Cesare per la sua calvizie, ma l’uomo che aveva davanti non aveva ancora seri problemi di caduta di capelli. Bruce Willis, per intenderci, alla sua età era messo molto peggio. Certo, non aveva una folta criniera, ma questo gli dava un aspetto ancora più magnetico. Per di più aveva una chioma d’un colore straordinario, un biondo inclassificabile che, pur essendo meravigliosamente dorato, dava l’impressione d’essere estremamente cupo. Un po’ come gli occhi troppo chiari che visti da lontano sembrano neri. Era un effetto sconvolgente.
Ma lei si era preparata a tutto questo. Esattamente come si era preparata al suo sguardo, azzurro metallo, inquisitore e penetrante. Aveva sempre saputo che Cesare doveva avere degli occhi straordinari. In quel momento la stava fissando e sembrava che per lui non esistesse nient’altro al mondo, che riuscisse a spogliarla della sua anima e leggere i segreti più reconditi del suo essere. Era una sensazione che metteva i brividi, ma non era fastidiosa, al contrario. Era affascinante. Forse perché, in fondo, quello di Cesare era lo sguardo d’un predatore, un felino pronto per la caccia, e come tutti i felini era quanto di più misterioso e seducente esistesse al mondo.
Poi, ovviamente, c’era il carisma. Quell’aurea di nobiltà che sembrava irradiare da lui come la luce dal sole, accecante, palpabile, travolgente. Era in una stanza e non la riempiva, la soverchiava. Possedeva una sorta di alone indefinito che lo faceva sembrare un gigante circondato da nani, e il fatto che fosse effettivamente piuttosto alto - per la media dei Romani, ovviamente - non c’entrava affatto. Si chinava il capo, davanti ad un uomo simile, si piegava il ginocchio e ci si abbassava a terra. I sovrani del duemila al suo confronto sembravano scaricatori di porto vagamente ingobbiti.
Ma anche questo non era una sorpresa, così come non lo era il suo sorriso ammagliante, la sua eleganza semplice ma ricercata, il suo fisico sottile ma militare, la sua tranquilla posa di superiorità. Un uomo sicuro di sé, e con tutte le ragioni d’esserlo.
Ma c’era qualcosa a cui non era preparata. Qualcosa che non aveva mai immaginato di dover affrontare: Cesare era sexy. Sensuale come nessun’altro al mondo. Al suo confronto Sean Connery sembrava un burino dei bassifondi di Honk Kong e George Clooney una specie di Homer Simpson col moccolo al naso. Rimase senza fiato nel vederlo venire verso di lei, le gambe iniziarono a tremarle e il sangue a scorrerle molto più velocemente nelle vene, mentre vampate di calore la attraversarono come scariche elettriche. Perché diavolo nessuno l’aveva mai scritto che Cesare era dannatamente sexy? Dallo sguardo ammagliante al sorriso seduttore, dalla piega indolente del collo alla posa da dandy, dal passo militare ai movimenti carezzevoli delle mani, tutto in lui tradiva una sensualità viscerale, innata, radicata. Lo fissava ipnotizzata, come si fissa una pantera che si muove sinuosa verso la preda, incapace di distogliere lo sguardo o di pensare, incatenata con la mente alla passione che la sua semplice presenza sapeva suscitare. Se solo l’avesse sfiorata, probabilmente si sarebbe messa a gridare di piacere.
« Voi dovete essere Marta Alessandra, figlia di Nicandro di Sinope »; le sorrise, incantandola definitivamente. Dio! Aveva un sorriso che avrebbe spinto una donna a strappare per lui la luna dal cielo!
« Figlia adottiva », riuscì a mormorare dopo qualche istante. Dovette far ricorso a tutta la sua forza di volontà per riuscire a smettere di fissarlo come una tredicenne guarda Leonardo di Caprio. Anzi, probabilmente peggio.
« Figlia, suona meglio », ridacchiò lui, offrendole il braccio. Con un fremito, Isabel vi appoggiò la mano e lasciò che lui la guidasse verso una delle tende che fungevano da paravento. Cesare la scostò e rivelò un angolo molto confortevole, con un grande tavolo imbandito di ogni ben di Dio precolombiano: niente patate, pomodori, granturco…
« Immagino che siate affamata, amica mia ».
Isabel annuì.
« In tal caso, vi prego, onorateci della vostra presenza: siamo tutti rozzi soldati, e spero non giudichiate sconveniente … ».
« Al contrario, generale », lo interruppe lei, sfoderando il più caldo dei suoi sorrisi, « Ne sarò onorata ».
Cesare le sorrise e si voltò verso i cinque uomini rimasti attorno al tavolo con le mappe.
« Prego amici miei, ceniamo », esclamò, sedendo a capotavola e facendo accomodare Isabel alla sua destra.
Uno alla volta, gli uomini si sedettero al tavolo. Subito uno schiavo si affrettò a portare del vino, del pane ed alcune ciotole con delle olive marinate in svariati modi.
« Credevo che voi Romani desinaste soltanto su triclini », osservò Isabel, confusa.
« Un tavolo è più comodo da trasportare », le fece notare Cesare con un sorriso, « Ma vi prego, amica mia, parlatemi di voi. So che avete avuto una terribile disavventura ».
Istintivamente, Isabel si voltò verso il generale. Lui la stava fissando sorridendo in quella sua maniera mascalzona e sensuale e, cogliendo il suo sguardo, alzò appena un po’ il calice, come per accennare un brindisi in suo onore. Disgustata, Isabel si affrettò a tornare a guardare Cesare.
Inspirando profondamente, iniziò il suo racconto, partendo dalla favola del suo viaggio per poi scendere nei dettagli quando passò a narrare di Nicandro, Umbrio, i barbari, Simone e quant’altro. Omise solamente la sua relazione con Umbrio e la mancata violenza di Vrittakos e soprattutto del generale. Stava finendo la sua storia, quando la tenda fu di nuovo scostata e Cornelio entrò, andando a sedersi accanto al generale che l’aveva quasi stuprata.
I due discussero sottovoce, poi scoppiarono a ridere e fecero tintinnare i loro calici. Isabel si sforzò di ignorarli e terminò lodando il coraggio dei soldati che l’avevano salvata, in special modo quello di Rufrio.
« Sì, lo conosco », esclamò Cesare, sorprendendola: come poteva? Aveva talmente tanti uomini ai suoi ordini che era impossibile che li conoscesse tutti! « È un brav’uomo. Viene da Capua. Conoscete Capua? ».
Isabel scosse il capo e lasciò che Cesare le narrasse quanto fosse magnifica quella città. Aveva un modo di parlare che la incantava, una voce ora delicata ora quasi feroce, che usava come un pennello per dipingere con pochi tratti estremamente efficaci anche i dettagli più pittoreschi.
La cena volò come in un sogno. Isabel si rendeva vagamente conto degli uomini attorno a sé, del vino che scorreva a fiumi e del cibo esotico che stava mangiando – ad ogni modo si rifiutò categoricamente di assaggiare il ghiro. L’unica cosa cui riusciva a pensare era lui, Cesare. Bellissimo, sensuale ed appassionato. Faceva vibrare le parole, le rendeva vive, e la portava a chiedersi come fosse possibile che un uomo riuscisse anche solo a concepire la possibilità di opporglisi.
« Alla Decima! », gridò ad un certo punto uno degli invitati e tutti, Cesare compreso, si unirono al brindisi. Isabel sorrise: sembrava quasi di essere tornata a casa, alle cene in famiglia, quelle coi parenti strani che sembrano sbucare dal nulla per le feste ed immancabilmente si ubriacano fino a perdere i sensi.
« Allora anche alla mia Dodicesima! », propose il generale, alzando il calice. Ancora una volta, tutti brindarono.
« A tutti gli uomini di Cesare e facciamo prima! », propose ridendo un altro uomo, proprio mentre uno schiavo sgusciava dentro e sussurrava qualche parola all’orecchio di Cesare. Questi fece una smorfia come a dire di scusarlo e si alzò, allontanandosi con passo elastico e marziale.
« Agli uomini di Cesare! », gridarono nel frattempo, in coro, gli uomini, vuotando i calici.
« Agli uomini e alle puttane di Cesare! », biascicò, sguaiato, Cornelio. Un paio dei convitati ridacchiò.
« Sei volgare, amico mio. Non esserlo », mormorò il giovane generale, finendo il suo vino.
« Volgare, io? Amico mio, questo è un commento che – venendo da te – non ha proprio nessun peso! ».
Tutti risero, compreso il generale che fece una smorfia, bevve dell’altro vino e commentò: « Verissimo ».
Isabel avrebbe avuto qualcosa da aggiungere, sull’argomento, ma lo tenne per sé. Meglio seppellirli, certi segreti.
« E così… verso nord, giusto? », domandò ad un tratto l’uomo dirimpetto ad Isabel, che se non si sbagliava doveva chiamarsi Fabio.
« Non tutti. Solo la tredicesima », rispose un altro.
« Più che sufficiente mi sembra: cinquemila ottimi soldati », commentò un terzo.
« Cinquemila ottimi soldati e una donna », farfugliò ubriaco Cornelio, puntando i suoi piccoli occhi grigi su di lei. « Non dimentichiamoci della donna, eh, domina? ».
« Vi ringrazio di tanta premura », si limitò a sorridere lei. Cos’altro si poteva dire ad un uomo che, evidentemente, l’aveva odiata fin dal primo momento?
« Oh, non c’è di che, domina », ribatté lui, acido, « Ehi, ragazzi, lo sapete? In realtà … », proseguì, abbassandosi sul tavolo con aria esageratamente cospiratrice, « … in realtà non si tratta affatto di una domina. È soltanto una straniera! ».
« Ma lo sappiamo, Cornelio. Ce l’ha appena detto », gli fece notare Fabio.
« Non siete stato attento, amico mio », sorrise Isabel, soddisfatta di quella piccola vittoria.
« Tu stai zitta, puttana! », le gridò contro Cornelio, balzando in piedi. Prima che lei potesse ritirarsi, lui la afferrò per il polso e la costrinse ad alzarsi. « Una puttana! Una puttana nel mio accampamento! Una puttana straniera! ».
Isabel gridò, cercando di divincolarsi, ma era chiaro che Cornelio – anche ubriaco fradicio com’era – era comunque molto più forte di lei. D’un tratto, però, una lama si posò contro la gola dell’uomo che, al contatto col freddo metallo, si immobilizzò. Isabel si guardò attorno, confusa, e sgranò gli occhi, allibita, quando si accorse che era il generale ad essersi alzato e a puntare un grosso coltello da carne contro la gola del suo amico.
« Basta così, Cornelio, lasciala andare ».
Lentamente, controvoglia, Cornelio le mollò il polso. Un fruscio annunciò il ritorno di Cesare.
« Che diamine succede qui? », esclamò, imperioso.
Il generale allontanò il coltello dalla gola di Cornelio e lo poggiò sul tavolo. « Niente. Troppo vino », spiegò, prendendo l’amico per un gomito e trascinandolo fuori.
Isabel, tremante, si accasciò sulla sua sedia. Doveva apparire davvero sconvolta, perché Cesare – preoccupato – si affrettò a congedare i suoi commensali, eccezion fatta per un certo Rufo con cui voleva studiare un documento.
Sentendosi debole come poche altre volte nella sua vita – poche volte che per lo più si trovavano concentrate nelle ultime tre settimane – Isabel si avviò a passi malfermi verso la sua tenda.
Una volta fuori si sentì immediatamente meglio. La notte era fresca, l’aria pulita e frizzante, e le stelle in cielo brillavano con un’intensità che non credeva possibile. Sembrava quasi che, allungando una mano, si potesse coglierne una come una mela da un albero.
Sospirando, Isabel riprese a camminare. Era a metà percorso quando una figura comparve dalle file regolari di tende, facendola sobbalzare.
Nemmeno a dirlo, si trattava del suo generale.
« Oh, salve », mormorò lei, aggirandolo in fretta: non aveva proprio nessuna voglia di rimanere di nuovo sola con lui.
L’uomo ruotò su sé stesso per seguirla con lo sguardo ed allargò le braccia. « Non ti voglio mangiare! », ridacchiò.
« No, ora non più », ribatté lei, lasciandoselo velocemente alle spalle. Cercando di non mettersi a correre, raggiunse la sua tenda e vi si nascose dentro, scoprendo con sollievo che Chrysio  le aveva già preparato un comodo letto. Vi si gettò sopra, chiudendo finalmente gli occhi.
Nonostante il turbamento, non faticò molto ad addormentarsi.
 
Il mattino seguente, per prima cosa, uscì dall’accampamento e andò a cercare Elisium. Il cavallo accorse non appena lei lo chiamò con un fischio e si lasciò docilmente cavalcare. Isabel, voltando le spalle all’acquartieramento, lo spronò al galoppo. In un attimo, si lasciarono alle spalle i Romani e si immersero nel fitto bosco secolare, spaventando lepri, caprioli e scoiattoli.
Proseguirono muovendosi a caso per la foresta per buona parte della mattinata, finché non incapparono in un piccolo lago. Isabel ne rimase ammagliata: si trattava di uno specchio d’acqua non più grande di una piscina olimpionica, con una cascatella leggera ed un ruscelletto che nasceva dalla sua sponda meridionale.
Senza esitare un solo momento, Isabel balzò a terra, si tolse la tunica ed i sandali e si tuffò in acqua.
Acqua che per altro era a dir poco gelida, ma Isabel la accolse con un sorriso, iniziando a sguazzare felice come una bambina. Si immerse più volte, spingendosi sul fondo per ammirare sbalordita la perfezione dei piccoli sassi bianchi che ricoprivano il letto del lago, e terrorizzando un branco di piccoli pesci che guizzò via in un lampo argenteo.
Quando riemerse, vide che Elisium si era sdraiato pigramente sull’erba folta attorno al lago e aveva chiuso gli occhi, come se stesse per cedere al sonno. Ridendo, Isabel si immerse nuovamente, nuotando ad ampie bracciate, percorrendo il lago in lungo e in largo.
Era quasi mezzogiorno quando decise di tornare indietro. Nuotò sottacqua verso la riva e riemerse solamente dove si toccava: il lago poteva anche essere piccolo, ma le sue acque in certi punti erano davvero fonde.
Isabel, tornando in superficie, strizzò gli occhi e si scrollò i capelli, per poi cercare con lo sguardo Elisium. Il grande stallone bianco, però, ora era in piedi e stava fissando fremente e nervoso un punto imprecisato della foresta alle sue spalle.
Allarmata, Isabel si abbassò sul pelo dell’acqua e scrutò tremante la boscaglia fitta e scura. Attese per quelle che parvero ore, quando finalmente un rumore di passi le giunse all’orecchio. Stava ancora riflettendo su cosa fare quando intravide una sagoma tra il sottobosco: chiunque fosse, stava decisamente venendo da quella parte.
Isabel capì che ormai non avrebbe più fatto in tempo a rimontare a cavallo, perciò fece cenno ad Elisium di fuggire e si rituffò sottacqua, nuotando velocemente verso la piccola cascata. Riemerse solamente dall’altra parte, di modo che l’acqua che cadeva la schermasse agli occhi di chiunque passasse di lì.
Infine, la sagoma inconfondibile di un uomo si profilò sul bordo del lago. Per un attimo Isabel temette che si stesse per tuffare, ma grazie a Dio l’uomo si limitò a sedersi su una roccia e lanciare qualcosa nell’acqua. Allibita, Isabel comprese che stava pescando.
Sospirò: perfetto! Adesso avrebbe dovuto rimanere lì per delle ore! Cosa che proprio non poteva permettersi, a meno di non voler condannare Chrysio  all’infarto. Cautamente, si sporse da dietro la cascata. Lanciò una fugace occhiata all’uomo, prima di tornare sottacqua.
Laggiù, imprecò ferocemente nella sua mente. Com’era quella frase che diceva sempre sua sorella? La fortuna è cieca la sfiga ci vede benissimo? Be’, ecco una massima che sembrava scritta appositamente per lei! Perché, ovviamente, chi altri mai poteva essere a sedere, tranquillo come un pascià, pescando a meno di quindici metri da lei? Chi? Chi!
Il generale … Che il diavolo se lo portasse!
Isabel tornò dietro la cascata e prese a riflettere: doveva trovare un modo di andarsene di lì il più presto possibile, prima che lui si accorgesse della sua presenza.
Un fruscio la strappò ai suoi pensieri. Si sporse di nuovo da dietro l’acqua ed il cuore le mancò un colpo quando vide che il generale si stava slacciando il cinturone col gladio e si chinava per togliersi i calzari.
Ah, perfetto! Ci mancava solo che quel bastardo entrasse in acqua! Magnifico! Adesso l’avrebbe vista e poi … e poi … Be’, il problema stava tutto lì: che cosa sarebbe accaduto poi?
Isabel fece due calcoli, sforzandosi di essere il più razionale possibile: era improbabile che lui cercasse di violentarla di nuovo, non ora che sapeva il suo nome e che Cesare l’aveva accolta tanto bene. Del resto, poteva sempre essere sgradevole in migliaia di altri modi e lei non era davvero impaziente di sperimentarli.
D’altro canto, si disse, aveva forse qualche alternativa?
Sospirò, prese fiato e si immerse. Nuotò fin quasi alla riva opposta, riemergendo non appena i suoi piedi toccarono il fondo. Incrociò le braccia sul seno scoperto ed emerse soltanto fino alla gola.
Il generale, immobile sulla roccia, la stava fissando apparentemente sbalordito. Ed Isabel lo ricambiò, perché nel frattempo lui si era denudato fino alla cintola, rivelando un fisico incredibilmente atletico e forte. Non che le importasse, del suo fisico, ma semplicemente non poteva non essere notate: era un corpo troppo diverso a quello degli uomini del suo tempo perché lei non gli gettasse almeno un’occhiata incuriosita. In effetti, non aveva niente a che fare con gli uomini che Isabel aveva visto fin’ora alla televisione o nei film: gente che bivacca in palestra dalla mattina alla sera e che esibisce muscoli d’acciaio creati praticamente in laboratorio. Quel Romano non aveva mai visto una palestra in vita sua. Eppure eccolo là, perfetto in ogni dettaglio, dalle spalle solide alle braccia dure e forti, fino ai pettorali ampi e definiti e allo stomaco piatto. Ancora una volta, sembrava quello che era: un soldato. Probabilmente, se avesse dato un pugno ad uno di quei wrestler grandi e grossi come montagne, l’avrebbe reso scemo. Oddio … forse era meglio dire più scemo…
« Ma tu guarda … ciao », la salutò, allargando quel suo sorriso da perfetto mascalzone che gli socchiudeva gli occhi. Isabel ne fu sorpresa: una volta aveva letto un libro su come i nostri comportamenti e gesti istintivi rivelino molto più delle parole sulle nostre intenzioni, e quindi sapeva che chi sorride solo con la bocca è menzognero, mentre chi sorride anche con gli occhi è sincero. Per quanto incredibile fosse, l’uomo sembrava sinceramente felice di rivederla.
Ma certo! Si disse poi: anche uno squalo è felice di rivedere il cucciolo di foca che si è scelto per pranzo!
Ad ogni modo, squalo o non squalo, non poteva lasciarlo lì così in eterno, in piedi su quel masso con le mani piantate sui fianchi ed il sorriso soddisfatto ad illuminargli il volto. Probabilmente era una pazza masochista, ma le era stato insegnato a rispondere ad un saluto.
« Ciao a te, rompicoglioni », sbuffò quindi, abbassandosi sul pelo dell’acqua.
« Siamo un po’ acidine, oggi, eh? », commentò lui, per nulla turbato dalla sua palese ostilità.
« Ti aspettavi un altro genere di benvenuto? », sibilò Isabel, cercando di nascondere il suo sconcerto di fronte a tanta sfacciataggine.
Il generale ridacchiò e scese agilmente dal masso, avanzando nell’acqua finché non ne fu immerso fino alle ginocchia. Istintivamente, Isabel si ritrasse, tornando al centro del lago e fissandolo con paura.
L’uomo allargò le braccia. « Non voglio farti del male ».
« Sì, questa frase me l’hai già detta », puntualizzò lei, rabbrividendo al solo ricordo.
« Ti credevo una schiava », si difese lui, ma smise di camminare.
« E se lo fossi stata? Questo non ti avrebbe dato il diritto di … di … di toccarmi! », gridò lei, furibonda.
« Al contrario. In effetti, sarebbe stato mio diritto anche se tu fossi stata semplicemente una donna gallica o una prigioniera straniera », sorrise, « È stato il nome di tuo padre a… », esitò un attimo sull’ultima parola ed Isabel ne approfittò.
« A salvarmi? ».
L’uomo rise. « Non intendevo quello, ma se credi… ».
Isabel si guardò attorno: quella conversazione non le piaceva nemmeno un po’. Doveva recuperare la sua tunica ed andarsene, il più presto possibile.
« Voltati », gli ordinò.
« Che cosa? », esclamò lui, ridendo.
« Hai sentito benissimo: voltati. Devo uscire ».
« Amica mia, forse non ricordi ma io ho già … ».
« Non osare », sibilò Isabel, furente, caricando la voce di tutto l’odio che le bruciava in petto e riducendo gli occhi a due fessure maligne, « Non osare nemmeno chiamarmi “amica “ ».
Finalmente, il generale parve colpito. Arretrò d’un passo, chinò il capo e, sospirando, si voltò, tenendo le braccia aperte come per mostrare di essere disarmato.
Isabel uscì rapidamente dal lago, correndo ad infilarsi la lunga tunica e a stringerla saldamente con la cintura. Non perse di vista per un solo attimo il Romano, che però rimase immobile a fissare la foresta davanti a sé.
Suo malgrado, Isabel notò che aveva una bella schiena, ampia e forte, con delle spalle muscolose ed una orribile cicatrice che gli percorreva la scapola sinistra. Un'altra linea chiara gli deturpava il dorso all’altezza del rene destro, mentre il segno di un’ustione spiccava pallido appena sopra i suoi glutei. Tutta la schiena, poi, era percorsa da piccoli segni dritti e sottili leggermente in rilievo, che Isabel non riuscì a definire.
Scuotendo il capo come per schiarirsi le idee, Isabel lasciò perdere il Romano e si affrettò a finire di allacciarsi i calzari. Quindi fischiò per chiamare Elisium, allontanandosi intanto dall’uomo che – prendendo quel richiamo come un segnale – si era voltato di nuovo verso di lei.
Isabel si affrettò a mettere il lago tra loro due, gettando di tanto in tanto occhiate impaurite all’uomo e ansiose verso il bosco. Quando finalmente lo stallone bianco comparve, gli montò in groppa d’un balzo e lo voltò verso il folto della foresta. Diede un’ultima occhiata all’uomo, che la fissava in una maniera strana, che la colpì.
Spronò Elisium allontanandosi con la mente confusa, cercando di mettere più spazio possibile tra sé ed il generale. Un turbinio di pensieri, però, la tormentava. Soprattutto quell’ultimo sguardo dell’uomo continuava a tornarle alla mente. Le sfuggiva la parola più adatta per definirlo.
Isabel ci stava ancora pensando quando giunse all’accampamento, dove trovò Chrysio  in allarme che già stava per organizzare una spedizione per cercarla. Isabel lo tranquillizzò, liberò Elisium e chiese di poter pranzare nella sua tenda. Quando un soldato inviato da Cesare gliene chiese il motivo, Isabel mentì, dicendo di essere indisposta. La verità era che non avrebbe sopportato la vista del giovane generale per altri dieci minuti senza mettersi a gridare.
   
 
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