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Autore: sacrogral    23/07/2022    16 recensioni
Non è cortese andarsene senza salutare, quindi saluto.
Prima raccomandazione: chiudete gli occhi, e fate finta che sia il 31 luglio. Via, si tratta solo di pochi giorni, e ci tengo. Non sarò davanti alla tastiera, quel giorno, ed è importante ai fini della storia.
Poi: niente avvisi. Voluto. Il regalo non si giudica dalla carta del pacchetto. Se perderete 10 minuti del vostro tempo, saprete perdonare.
Poi: dame cortesissime, ragazze d'intelletto: scrivere una storia dopo mesi non significa scriverla bene, o rispondere ai gusti di chi la legge. Lo so io, lo sapete voi. Se la penna è arrugginita, ditelo.
L'argomento della storia è il matrimonio di Oscar. Giorno importante. Non si sposa con André Grandier, specifico. E neppure con me, tanto per chiarire. Vi va un po' di freddo?
Riferimenti ad altre mie storie, ma tollerabili.
Fedeltà più a madame Ikeda che alla Storia, temo.
Infine: buona estate, bimbe.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non avrei mai creduto che fosse così grande. È davvero idiota che non ci sia mai entrato prima d’ora.  La cathédrale métropolitaine Notre-Dame, la chiesa madre. E io l’ho sempre vista solo dall’esterno, io che respiro Parigi tutti i giorni. Dovevo aspettare proprio di morire per sentirmi addosso il suo splendore. Mi sembra che tutto sia lucore e luce diretta. È qui che Giovanna d’Arco, la pulzella d’Orleans, ritrovò il suo onore, onore di donna e di santa. È qui che furono celebrate le nozze di sangue, il 18 agosto 1572, sei giorni prima della Notte di San Bartolomeo, la notte della strage; e otto giorni prima della mia nascita, quasi due secoli dopo. Non che questo sia importante. Oggi si celebrano altre nozze.

Entrando, mi è sembrato che i grothesque mostruosi ridessero di me. L’amore è contrastare l’effimero, ridere in faccia alla morte. Qui tutti sorridono e nessuno ride. Io osservo.

Si attendono le Loro Maestà. Naturalmente la loro presenza è un grande onore. I cardinali invece hanno già preso posto. Chi officerà?

Mi attacco ai dettagli. Quando si è così disperati da non sentire più neppure il dolore sono i dettagli che fanno restare interi.

Mio amore,  io non so chi sei. Conosco le tue tempie, i tuoi polsi, le rughe sulla tua fronte, il tuo profumo, conosco i tuoi pensieri, i tuoi desideri che neanche tu conosci, e i tuoi rari sorrisi, e le tue trasversalità, quello che non dici di fronte agli specchi, quello che neghi a te stessa; conosco quello che ti fa ridere e quello che ti fa piangere, il suono della tua voce quando è sottile e quando è pieno, e conosco la tua ironia quando disprezzi e la grazia quando la risata è solo nascondersi, negare la profondità. E conosco gli sguardi, sempre gli sguardi: diretti, obliqui, incerti, sognanti, umidi, alati, dispersi. Conosco i tuoi pensieri: onesti, limpidi, distratti, offesi, tristi, onirici, colmi, sempre colmi, e profumati. Conoco il tuo cielo che è del colore dei tuoi occhi, conosco le tue mani che sfiorano ogni cosa, che impugnano tutto, che tutto conoscono. Ma non so chi sei. Non so chi sono io stesso. La Verità è un sogno e un prisma. Io ho sognato la mia vita, l’ho attraversata a passi felpati, lento come son lento nel comprendere, e troppe volte bestemmiando in silenzio  Dio e la mia condizione. Tu non usi mai “chiunque” come soggetto di una frase. E quando parli inizi con un avverbio, come se ti ricollegassi a un discorso già sospeso, o con un nome proprio, a richiamare tutta l’attenzione.
I tuoi desideri son desideri di luce. Come sono arrivato a questo?
 
“Come siamo arrivati a questo?”
“Tu qui?”
“In chiesa almeno fanno entrare tutti. Anche i soldati. Il matrimonio del comandante lo voglio vedere coi miei occhi”.
“Da lontano”.
“Come te”.

E poi attacca, dopo aver fischiato e alzato gli occhi nell’immensità – “ Sai, te lo vorrei dire che avresti potuto fare di più, ma di più non era possibile, quindi non te lo dico. È la scalogna della povera gente, vecchio. È che quando nasci con un certo destino, quel che fai fai, non lo cambi.” e poi aggiunge “Quando ero piccolo e ancora non avevo arte né parte, e mio padre era ancora vivo – mio padre era un brav’uomo, distante ma un brav’uomo, era solo disperato per quel titolo nobiliare senza il becco d’un quattrino, per quel de inutile e non sapeva che fare della sua vita, ma era un uomo integro, memore di una educazione solida – comunque, mio padre, di me, non era mai soddisfatto. E un giorno, mi ricordo, nel mio quartiere si faceva la festa per Saint Denis, e per la festa del patrono si facevano le gare, e si vincevano cibi offerti un po’ da tutti, e io le vinsi tutte quelle gare, di corsa, di lotta, le arrampicate, mi ritrovai pieno di premi e di cibi e mia madre e mia sorella erano così contente e il fabbro picchiò mio padre sulla spalla e gli disse: “Ma lo sai che è proprio bravo, tuo figlio!” e lui, non abituato alle maniere franche, si scostò gelido e gli ribatté: “Sì, ma non sarà mai qualcuno”. Credo che la previsione si sia avverata in quel momento, e io son sempre stato quasi- qualcuno. Sulla mia tomba scriveranno: Qui giace un vecchio promettente”.

Lo guardo, stupito. I suoi occhi son fessure ed è l’unico fra i soldati che posso guardare senza abbassare gli occhi.
“Scusa, ma cosa c’entra?”
Si mette le mani in tasca.
“Non lo so. Qualcosa c’entra. Tu sembravi uno di cui dire Quello è qualcuno”.
 
La contessa di Polignac si fa notare, entrando. Non cammina, scivola sul pavimento. Non guarda nessuno.
È bellissima e letale. Se stringo gli occhi, posso vedere sfocata l’anima di sua figlia trapassata. Lo so che c’è.
 
Io ricordo quella volta che cantò per Sua Maestà, un concerto a cui erano presenti i de Jarjayes, e c’ero anch’io, con Oscar. E il generale era stanco e si addormentò, e si svegliò solo fra la confusione degli applausi e dei complimenti.
“Avete cantato magistralmente quell’aria di Pergolesi” si complimentò François-Augustin Reynier, cavaliere e conte de Jarjayes, con la parrucca un po’ storta e la voce un po’ impastata.
“Veramente era un’aria del giovane Mozart” aveva ribattuto la contessa, piccata e indignata.
“Meglio ancora, meglio ancora”;  non aveva fatto una piega, il generale.
 
“Gallina vecchia che fa buon brodo” commenta Alain, indicandola da lontano ma senza tanti riguardi.
“Non credo”, rispondo a stento. Vuol distrarmi. Sento il suo timore da amico, quello di chi ha paura che tempo un’ora mi riempia le tasche di sassi e mi butti nella Senna. Come siamo arrivati a questo?
 
Non si sarebbe scordato quel momento per tutto il resto della sua vita. Ci avrebbe ripensato in maniera costante e forse persino eccessiva, si sarebbe detto in seguito, quando tutto avrebbe preso una piega imprevista, e lui sarebbe diventato quello che non credeva di poter diventare. Tuttavia il momento, orribile e perfetto, gli avrebbe occupato la mente in un ricordo pervasivo, dalle dita ai polsi e poi su, a scorrere nei muscoli delle braccia fino ad affondare nel collo e trovar posto, finalmente, in una contrattura che faceva male e bene.
Chiedere perdono era stato estremamente facile. Aveva sentito in tutto il suo essere ancora giovane e verde come limone il bisogno di chiedere perdono e di essere perdonato. L’aveva vista piangere. E l’aveva vista spogliata. Nuda no, ma spogliata sì.
Per questo e per cento altri motivi si voltò, sentendosi chiamare. Era fin troppo distante per vedere il solco leggero che le lacrime dovevano aver lasciato sul bel viso di lei, ma non abbastanza per non distinguerla pur sfocata, coperta dal lenzuolo bianco, e tutto in lei era bianco, bianco e dorato – si sentì male, prima ancora che lei parlasse, conscio di star piangendo, certo della vergogna, ma di quella sua propria.
E lei, ancora tutta fuoco e ghiaccio, inconsapevole di dare brividi caldi e freddi, come son sempre inconsapevoli le donne davvero belle, e consapevoli quelle belle solo per finta, glielo disse con voce ferma:
“Non voglio vederti mai più. Fai quel che ti pare, ma io non voglio vederti mai più”.
Soltanto chi fosse stato presente agli eventi subito pregressi – quindi lui, solo lui – avrebbe potuto indovinare il tremito della voce. Rapida nella ripresa, al contrario che nella resa.
“Se rivedo la tua faccia ti faccio impiccare, André. Ti denuncio e ti faccio impiccare. Quindi non farti più vedere. E sì” disse lei, e lui alzò la testa a cercare di incrociarne gli occhi, il suo sguardo velato, lo sguardo di entrambi velato “io ti odio”.
Lui si voltò e lei non aggiunse altro. Lui soltanto sentì nella testa parole con la voce di lei: “Ti odio perché sei un ipocrita. Ti odio perché sei un vile. Per nessun altro motivo, André. Solo perché sei un vigliacco”.
E lui si era fatto rivedere e lei non l’aveva fatto impiccare.
Valeva qualcosa?
 
“Giovane, adesso mica ti riempi le tasche di sassi e ti butti nella Senna, vero?”
Sussultiamo entrambi.
“Che ci fate voi qui, monsieur?”
Alain, discreto, fa le corna con la destra e tocca legno.
“In chiesa almeno fanno entrare tutti. Anche il boia. Il matrimonio della bambina lo voglio vedere coi miei occhi”.
L’ironia vuole che il boia di Parigi sia l’unico, insieme a mia nonna, che chiami Oscar “bambina”.
“Le voci corrono,” mormoro “le voci sono giunte pure a voi”.
“La Fama ha cento occhi, ma non credevo finisse così”. Non mi tocca – monsieur de Paris non tocca mai nessuno – ma è come se lo facesse, e aggiunge: “Coraggio e forza, ragazzo. Solo alla morte non c’è rimedio”.
Lo dice lui.
 
Le Loro Maestà han preso posto e non me ne sono neppure accorto. Riesco a vederli solo da lontano. Il tempo in cui Marie Antoniette mi chiamava per nome mi sembra un sogno remoto.
Lo chiameremo pulce, sarà il colore dell’anno! strombazzava quella vecchia gallina e una principessa entusiasta batteva le mani immemore di ogni etichetta e Oscar che sembrava un ragazzino sgranava gli occhi come non si dovrebbe davanti ai Reali, mentre il mio sorriso trattenuto era rivolto al presente.
I dettagli, i dettagli.
Sono quelli che possono salvare.
 
“Quale rispetto possono meritare le religioni? Ve n'è una che non porti il marchio dell'impostura e della stupidità? Che cosa vedo in tutte? Misteri che fan fremere la ragione, dogmi che oltraggiano la natura, cerimonie grottesche che ispirano derisione e disgusto.” (1)
“Allora è proprio vero che in chiesa fanno entrare tutti” mi volto, anche se non ce ne sarebbe bisogno. Aspetto un fulmine a incenerirlo, che non arriva. Sarebbe bello invece, se arrivasse. Ma Notre-Dame in fiamme è una visione impossibile, neppure fra due secoli potrebbe accadere. E Dio possiede il Suo esprit, il Suo senso dell’umorismo.
“Caro amico” inizia, il divin marchese “Non dite che non ve l’avevo detto: vi vuole bene, ma non vi ama.  Ma siamo ancora in tempo. In fondo, la via più breve fra due cuori è il pene (2), e quello non mi par contemplato in questa triste e bizzarra cerimonia. Una vostra parola e ci lanciamo nella navata centrale, urlando come pazzi. Il fattore sorpresa è tutto nostro. Facciamo fuori lo sposo e ci portiamo via la sposa, nel comune sconcerto e fra gli svenimenti delle dame. E poi ci diamo alla fuga. Interrompere questo cerimoniale sarà quantomeno un atto estetico. E poi, ho sempre desiderato compiere una buona azione di questo genere in chiesa. E se voleste infine ricompensarmi della mia buona volontà con una notte di menage a trois, non sarei certo io a…”.
“Tacete, signore” grugnisce il boia “Prima o poi, finirete sul patibolo”.
“Tacete, monsieur le marquis” azzarda Alain “Così non lo aiutate”.
“Taci, blasfemo!” si intromette fra Etienne (nemmeno glielo chiedo, cosa ci faccia in chiesa) “Il diavolo sta già afferrando la tua animaccia nera, boia d’un Giuda” e poi “Perdono Signore, e voi, monsieur Sanson, abbiate pazienza, è solo un modo di dire”.
“E tu, giovanotto” mi apostrofa brusco “Vediamo di mettersi un sorriso in faccia e rispettare il volere del Signore. Se siam qui, è perché ci dovevamo essere!”

Quest’uomo, magro come un chiodo ma ruvido, nervoso, si è introdotto approfittando del piccolo vuoto creatosi attorno al boia, e il marchese de Sade tace, forse per rispetto, forse perché non ha più niente da dire. Mi chiedo se ci sia tutta Parigi, oggi, al matrimonio di Oscar Francois de Jarjayes. Il matrimonio di Oscar con il conte Victor Clement Florian de Girodelle.

È incredibile che l’architetto di Notre-Dame sia rimasto anonimo; 127 metri di lunghezza, 40 metri di larghezza e 33 metri di altezza, il più grande monumento religioso dell’Occidente o giù di lì, e non sappiamo chi ringraziare per questo.
 
Non sarebbe potuta andare diversamente, è certo. Irriverente e irrituale solo pensarlo, come avrei voluto che andasse. E tuttavia a lungo ho temuto di vedere un altro, in piedi davanti all’altare, ad aspettare la mia donna. Perché se amore deve essere, amore è una volta sola, e il conte Hans Axel von Fersen è stato l’amore della sua giovinezza. Rinunciare a lui, Oscar, è stato dire addio alla tua incoscienza vergine ed entrare nella maturità. Io lo so. E allora forse sarebbe stato meglio conservare quello che avresti potuto essere, invece di soffrire per ricavarne solo la sofferenza. Quasi rido, mettendo in fila questi pensieri: parlo davvero di lei?

Lo vedo, il conte di Fersen, molto più avanti, come sempre, rispetto a me. Elegantissimo. Scommetto di sapere cosa sta pensando. “Quando le ho detto che avevo rotto il fidanzamento voluto da mio padre, e che non mi sarei mai sposato, tutto avrei pensato fuorché di assistere un giorno al matrimonio di lei” e mi sembra che mi lanci uno sguardo vagamente ambiguo, sfumato di rimpianto, complice: “Chi lo avrebbe detto, vecchio mio, che fra noi tre l’unica a sposarsi sarebbe stata lei?” Forse me lo immagino soltanto, ma gli rispondo: “Già, chi lo avrebbe detto?”

Ma adesso nulla ha più importanza. Sta entrando la sposa e io devo solo pensare a non cadere, e a forzare pensiero e vista, a trattenere il ricordo di te oggi, anche oggi.
 
“Dai retta a me, ragazzo, a me che ti conosco da sempre, e dammi una soddisfazione, una volta tanto. Sono il tuo demone, mica il demone di un altro, io lo so cosa vuoi, cosa vuoi veramente, e so cosa sei in grado di sostenere e quello che ti schiaccia. Quell’uomo lì, quel poseur, quel pallone gonfiato, per dirla meglio, non ha mica tutti i torti. Ma chi te lo fa fare? Ci son le Guardie Reali, il marchese la fa facile, ma quelli ti sono addosso prima che tu abbia pronunciato il nome di lei. Se continui a pensare solo alla felicità di lei mentre tu stai qui, tutto dimesso, con il senso di colpa che ti mangia pezzo dopo pezzo, cosa credi di ottenere? D’accordo, io e te siamo stati magari inopportuni, avremo anche sbagliato i tempi, e lei si sarà spaventata, chi dice di no, si sarà sentita ferita, a suo modo tradita, siam tutti d’accordo… ma alla fin fine, cosa hai fatto? Ricordati che quella c’ha trent’anni e spiccioli e non era mai stata baciata, mai baciata come si deve… che volevi fare, chiederle il permesso? “Scusa, Oscar, visto che mi butti fuori dalla tua vita e io invece ti amo, non è che potrei baciarti e dopo decidi se diventare un uomo o no?” Ma lo senti da te che suona male! Di ceffoni, così, te ne prendevi due! Ascolta, quel che è fatto è fatto, non è che sposa un altro perché tu le sei saltato addosso, sposa un altro perché quello è nobile e ricco e piace a suo padre. Forse è un compromesso fra convenienza e opportunità. Forse quello è persino innamorato di lei, anzi, di sicuro è innamorato di lei, cos’è, pensi di avere l’esclusiva? Vattene, André Grandier, non ci stai a fare niente, qui. Vattene e salvati”
 
“Siamo qui riuniti oggi per celebrare il vostro amore…”
 
Da te ho imparato molte cose. Che se prendi un secchio col suo coperchio e lo porti fuori, di notte, puoi intrappolare un raggio di luna. Che esiste la generosità silenziosa. Che puoi aver voglia di vendetta per anni e poi ti capita l’occasione giusta, quella che aspettavi, e non te ne importa più niente. Che tutti coloro che  sono segretamente convinti di essere migliori degli altri in realtà sono esattamente uguali agli altri. Che i biscotti sono più buoni se mangiati in buona compagnia. Che se cammini dietro a una persona, il profumo dei capelli si sente in maniera più intensa a un mezzo metro di distanza quando il vento spira bene. Che l’onestà è una gran cosa. Che un soldato deve prima agire e poi pensare, ma se un soldato non pensa finisce ammazzato prima degli altri. Che esistono le persone, prima, e poi tutto il resto. Che l’amicizia può essere eterna. Che l’amore può essere eterno. Che all’alba il cielo possiede colori che non diresti mai quando lo vedi al tramonto. Che desiderare qualcosa senza possederlo davvero può essere appagante. Che gli altri, che tutti considerano stupidi, possono vedere qualcosa che tu non vedi. Che non è necessario far pesare la propria superiorità quando è evidente. Che tutti quelli che si preparano ad affrontare un evento pensano a un evento drammatico, non a uno bello. Che il tempo non cambia niente. Che concentrarsi intensamente su qualcosa può far venire i capelli bianchi. Che chi crede di sapere tutto non sa niente. Che “io” è il più lurido dei pronomi. Che il dolore, quando è davvero forte e ti sembra di non poter resistere oltre, tuttavia non ammazza. Che la preoccupazione per come gli altri ti considerano sparisce quando ti rendi conto che le persone pensano ad altro. Che le persone cattive esistono. Che le persone buone esistono. Che le persone buone non umiliano gli altri. Che i coltellini devono avere il manico rosso. Che il passato è il futuro cui diamo un altro nome.
 
Oscar, perché non mi guardi? Perché non mi hai guardato? Solo uno sguardo, Oscar. Sono qui per questo, Solo uno sguardo. Guardami, non farò niente, te lo giuro, conserverò soltanto anche questo, non soffrirai per me, non mi uccido, Oscar, non peserò su di te, non mi rivedrai mai più, ma voltati solo un istante e guardami, solo una volta.
 
“Se qualcuno fosse a conoscenza di qualche impedimento all’unione di queste due persone, parli ora o taccia per sempre”.
 
Mi sento tirare per la giacca, ma non sono molto in me. È come se fossi ubriaco senza aver bevuto, e sento dolore dappertutto.
“È ora, André!”
Sorrido.
“Foret, ci sei anche tu?”
“È il momento”.
 
“Ehm, ehm… ho detto: parli ora o taccia per sempre”.
 
“Lo senti?” mi sprona il piccolo, con quegli occhi grandi e vacui “È tempo, fai quel che devi”.
“Non devo far nulla, cucciolo, non è il mio matrimonio”
Sembra spaventato.
“Non lo dirà una terza volta. André. Muoviti!”
 
Il marchese de Sade mi tira una spinta tale che faccio fatica a rimanere in equilibrio. Mi sembra che tutti guardino me e si aspettino qualcosa da me. Non ho idea cosa. E mi sembra di sentire, a trafiggermi dall’alto, gli occhi del generale Jarjayes. E pure quelli di mia nonna.
 
Guardo Alain.
“Muoviti, amico, non fare l’allocco proprio adesso”.
 
E allora mi sento pronunciare “Io” a voce bassissima, ma mi sembra che tutti mi guardino, mi pare che abbia sentito pure quel Dio lontano, più lontano delle Loro Maestà, e mi vedo camminare con lentezza nel silenzio di tomba che si è creato – l’ho creato io? – e Oscar, son certo, finalmente si volta  e sono io che non la guardo,  non guardo nessuno, guardo in terra e non so cosa sto facendo e nessuno mi fa il favore di fermarmi.
 
E quando arrivo di fronte all’altare maggiore – mio Dio, l’oro, la luce, l’Assunzione della Vergine, il Sacro palpabile, un pover’uomo in mezzo a tutto questo – e osservo il celebrante, silenzioso adesso, c’è un’unica cosa che posso dire e la dico:
 
“Gral, cosa ci fai vestito da prete?”
 
E alla buon’ora. Ancora un po’ e me li faceva sposare davvero, e non sono neanche sicuro che il vestito scuro sia quello adatto, ho improvvisato, ma qui ci vuole almeno la porpora cardinalizia, ci vuole una stola verde con ricami in oro, e tutti quegli ammennicoli che hanno nomi precisi e che non ricordo mai. Adesso, caro il mio orbo, nessuno sorride e tutti ridono, tranne te, che mi guardi stralunato e non cerchi neppure gli occhi di madamigella, tanto sei attonito. E sì, lo so, quando si è spietati coi personaggi, spietati si deve essere fino in fondo, ma son luoghi comuni, alla fine hai patito abbastanza e ancora tanto da patire avrai, bischero che non sei altro. Tira pure il fiato, André Grandier. Da’ retta al tuo demone.

“Gral, dove sono?” domanda il mio protagonista.

“In verità?” gli sorrido dal pulpito, ma inizio ad avvicinarmi “Sei steso su un pavimento lercio, sei coperto di lividi, qualche ematoma, un sopracciglio da ricucire – hai retto la botta al fegato, non so se tutte le costole sono intere, adesso ci penso. Stai piangendo e delirando, amico mio di gioventù. “Oscar, ti prego, non ti sposare” stai dicendo. E questo è il futuro che ho creato stavolta per te. Sei dentro una delle mie storie, non dentro LA storia. Cinque minuti e ti restituisco a chi ti vuole”.

“Mi sembra il minimo, Gral” si intromette Girodelle, e devo dire che è in gran forma “che per una volta, una sola volta, invece di sbattermi in qualche fogna a far la figura dell’eterno secondo, un minimo tu mi abbia valorizzato. Ora son nei miei cenci”.
“Un piacere, Victor!” mi inchino, mentre sparisce.
“André!” grida il conte di Fersen “Bello scherzo eh? IO mi sono prestato subito! L’hai visto il dramma nei miei occhi?  Gral, noi ci vediamo!” e scompare ridendo.
“Mio giovane amico, la mia proposta resta in piedi, nel caso doveste ripensarci… sarei lieto di ospitarvi ancora nel mio castello o alla Bastille, a discrezione di questo pezzo d’asino che passa le ore a tentare di riabilitarmi. E dire che io per primo, senza la minima esitazione, bellamente lo mando a fare…” e svanisce anche il divin marchese.
“Arrivederci, André” sussurra Marie Antoinette “sappiate che non ho dimenticato, e che quando rivedo il color pulce vi penso” e mi compiaccio di vederla andare, dolcissima come lo è nelle mani di madame Ikeda, al braccio del suo legittimo consorte, per cui ho una certa stima, o forse simpatia.

Notre -Dame si svuota dei miei fantasmi.

Metto le mani a coppa sulla bocca: “Buon viaggio, amici! Grazie di tutto!” e la Magnifica mi rimanda il suono della mia voce, che adesso può udire solo André Grandier. Mia nonna direbbe che è il mio ego che rimbalza negli angoli.

Non sono riuscito a trattenere Foret, mi dico, perplesso. In realtà, non volevo neanche attirarlo. Il metaletterario espone a dei rischi.

“Gral, io t’ammazzo!” mi grida contro il giovane innamorato, il cavaliere devoto, a me che già pensavo ad altro.

“Fermo lì, che non si picchia un uomo con la tonaca!” e poi, cattedratico “Dovresti ringraziarmi, invece. Non solo ti ho attribuito pensieri profondi e, detto con licenza, ben scritti, persino commoventi, ma, e dico ma, adesso ti rimetto nelle mani di madame Ikeda o di chi per lei senza averti neppure fatto vedere Oscar vestita da sposa per il povero Victor. Ti ho fatto entrare in Notre-Dame e a loro neanche ho fatto pronunciare il “sì”. Questo vuol dire avere il cuore tenero!”

“Il cuore tenero? Senti, per dirla col marchese, va’ a pigliartelo nel… “ e sparisce. Meno poeta di com’era apparso.

C’et la vie, mon ami. Mi siedo, e mi accendo un cicchino col mio zippo originale, regalo di un amico caro. Mi tolgo il colletto che mi ammazza il respiro e fumo, in questa cattedrale di cui sono io l’architetto.

Io ne ho viste di cose che voi umani… ma adesso è tempo di andare, e l’ultimo chiuda la porta.

Solo un’altra cosa, non la meno importante: “Buon compleanno”.

 
  1. Frase di D.A.F. marchese de Sade
  2. Idem
 
 
 
  
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