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Autore: crazyfred    29/07/2022    2 recensioni
[FRANCESCO & EMMA] Non è proprio una storia continua ma una raccolta di one shot, dove alcuni capitoli potrebbero essere raccordati, altri meno, che raccontano la vita della nostra banda di matti andando avanti e indietro nel tempo, gironzolando attorno agli eventi della fanfiction "Noi Casomai". Una raccolta di piccoli quadri di vita più che di eventi in sé.
Genere: Comico, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Commissario Nappi, Emma, Francesco
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Un Fulmine a Ciel Sereno - Parte 2
 
 

 
Emma non poteva certo dire di aver passato una notte tranquilla. Quando era tornata a casa le avevano fatto prendere una tisana per dormire e l’aveva mandata giù a forza, quasi con un senso di nausea. La tensione, le preoccupazioni, tutto quello che era riuscita a trattenere in quel momento per restare concentrata e razionale stava venendo fuori tutto insieme, come una diga aperta. Con suo fratello che era rimasto da lei, aveva spostato i bambini già addormentati nel lettone, proprio come le aveva consigliato il chirurgo. Poi, con una scusa biascicata a caso si era chiusa in bagno e, a discapito dell’ora, si era allungata nella vasca. L’idea, fondamentalmente, era di nascondere con l’acqua il rumore delle sue lacrime, ma poi il tepore e il gettito d’acqua l’avevano aiutata a calmarsi poco per volta; il sonno, però, una volta in camera da letto, era arrivato solo per sfinimento, forse intorno alle due o alle tre, con l’odore di Francesco che impregnava le lenzuola e le faceva sentire la sua mancanza più forte che mai. Sarà a casa presto, lo ha detto anche il dottore, ripeteva nella sua testa, ma la paura di perderlo era più forte di ogni rassicurazione.
Quando la sveglia del telefono, impostata automaticamente, risuonò nella stanza, per la prima volta in tutta la sua vita quel suono si era dimostrato più un sollievo che una tortura: sapere che la notte era passata senza telefonate improvvise e che presto avrebbe rivisto suo marito le dava la forza necessaria per aprire gli occhi senza perdere tempo e darsi da fare. Al suo fianco, nel letto, c’era il suo ometto. Povero piccolo, pensò, baciandogli la fronte, ne aveva passate troppe nella sua brevissima vita, ci mancava quella nuova disavventura.
“Mamma” bofonchiò, la voce impastata dal sonno. Solo in quel momento, accarezzandogli i capelli arruffati, notò che aveva letteralmente braccato il cuscino del padre in un abbraccio. Forse era solo un caso, perché Leo dormiva sempre con una mano sotto il cuscino, ma a lei piaceva pensare che non lo fosse, che cercava anche lui un modo per sentirlo vicino. “Che c’è cucciolo?” sussurrò Emma, per non svegliare le bambine, che dormivano incuranti della sveglia. Non era più un cucciolo da un pezzo, ormai era un ometto, ma per lei sarebbe stato quel bimbo silenzioso ed impaurito la cui vita sembrava nata sotto una cattiva stella ma che loro erano riusciti, poco alla volta, a far diventare buona.
“Come sta papà?” “L’hanno operato e l’intervento è andato bene” esordì, alzandosi dal letto “ma non ho potuto vederlo … più tardi vado in ospedale e parlo con i medici. Ma lo sai cosa mi ha detto il dottore che lo ha operato?” “Cosa?” domandò il bambino, seguendola fuori dalle coperte. “Che presto tornerà a casa” “Veramente?” Leonardo corse ad abbracciarla, per quanto potesse con un pancione di sei mesi. Emma aveva l’impressione – ed era stato proprio Francesco a farglielo notare, che ad ogni gravidanza la pancia diventava sempre più grande. Lei si sentiva già incinta da nove mesi … ma in realtà ne mancavano ancora tre. Con la testa di Leonardo comodamente appoggiata sulla sua pancia quasi fosse un cuscino, Emma poggiò le mani sulla testa del bambino e lì posò un bacio, serena: anche se le costava fatica, doveva mantenere la calma per tutti; del resto, non era successo niente che valesse la pena di scenate isteriche. Scaricare la tensione con un pianto, di nascosto, doveva servire solo per essere più forti di prima. Questo, in un certo senso, lo aveva imparato da Francesco: lui era il migliore nel restare concentrati in situazioni al limite. Non sapeva se il sorriso che suo figlio le stava restituendo fosse una gentilezza, quasi a dire ok mamma, facciamo finta per tutti e due che ci credo o se ci credesse davvero.
“Voglio stare con te … voglio venire anche io in ospedale” decretò Leonardo, deciso. “Non si può, cucciolo. Sei troppo piccolo … e poi tu devi andare a scuola” gli ricordò Emma, mentre uscivano dalla camera da letto. “Non ci posso andare a scuola” “E perché?” “Perché di sicuro non ci riesco a concentrarmi …” “Piccolo, io lo so che è difficile, ma devi fare uno sforzo. Anche per papà … lo sai che non vorrebbe mai saperti così triste.” Leonardo era abbastanza grande ormai per capire quello che succedeva attorno a lui e comprendere lo stato d’animo degli adulti e questo per sua madre era forse persino più intollerabile, perché per quanto si sforzasse di nasconderlo era evidente che il bambino percepisse la sua tensione e la sua preoccupazione. “Perciò oggi vai a scuola e divertiti, altrimenti poi quando papà torna a casa cosa gli racconti?” disse Emma, facendo l’occhiolino.  Per quanto fosse difficile - per lei certo, ma anche e soprattutto per i bambini – era necessario che la vita continuasse a scorrere normalmente, come se quella cosa successa la sera prima fosse solo una frenata leggera alle loro routine anziché uno schianto contro un muro.
 
Quella mattina, cascasse il cielo, Vincenzo sarebbe entrato in reparto assieme ad Emma. Ok, magari non insieme – un po’ di privacy ai due l’avrebbe concessa, ma per nessun motivo si sarebbe lasciato mettere alla porta come la sera precedente. Del resto la polizia a San Candido era lui, non potevano chiamarlo per autoallontanarsi: mentre era davanti allo specchio del bagno quella mattina si era sentito profondamente intelligente per essere giunto quella conclusione.
Per prima cosa aveva chiamato Emma per offrirsi di andarla a prendere e accompagnarla in ospedale, lasciando che Giulio si occupasse dei bambini: al suo arrivo al maso, con sua grande sorpresa, aveva trovato una situazione relativamente normale e tranquilla, che a malapena faceva indovinare quale uragano si era abbattuto sulla famiglia meno di 24 ore prima. Leonardo era più silenzioso del solito, Sole più irrequieta del normale e persino la piccola Sofia e Luna sembravano aver capito che qualcosa non andava e che Francesco non era rincasato, ma nulla che non potesse essere gestito. Il commissario non sapeva dire se da parte di Emma ci fosse una certa dose d’inconsapevolezza del rischio corso o una tremenda sicurezza nella loro buona stella dopo tutto quello che gli era successo, ma era meglio così: non era quello il momento di farsi prendere da panico e sconforto. Quando se l’era trovata davanti la sera prima, quando l’aveva vista avvicinarsi alla porta con quel pancione e Sofia tra le braccia, tutto il discorso e le parole che si era preparato erano spariti dalla sua mente e dalle sue labbra, completamente polverizzati: era così bella, il ritratto di una felicità normale e semplice, senza troppi fronzoli o pretese, che l’idea di distruggere quel fiore lo faceva star male.
Certo, Emma non lo stava molto a sentire, ma quella era normale amministrazione con i Neri: lui parlava e loro facevano di testa loro, sempre, quindi anche a quello era abituato. Lei lo precedeva spedita e sicura dentro i corridoi dell’ospedale, come se sapesse già dove andare, chi cercare, cosa fare. Era una donna forte la piccola Emma – che piccola non era per niente, ma Vincenzo provava per lei un senso di protezione e affetto fraterno – e sempre di più aveva la prova che lei e Francesco si erano scelti perché semplicemente si erano riconosciuti: fatti della stessa pasta, era nei momenti difficili che veniva fuori il meglio di entrambi.
Vincenzo accompagnò Emma in una piccola stanzina dove l’infermiera la fece accomodare per mettere addosso un camice e la aiutò con la cuffia per i capelli. Nonostante la ritrosia del medico di turno, alla fine era riuscito ad ottenere un compromesso: mentre Emma sarebbe stata dal marito, lui avrebbe aspettato fuori e si sarebbero dati il cambio quando lei era dal medico. Del resto, non poteva più aspettare: doveva tranquillizzarsi e sincerarsi che non avesse messo il suo amico troppo in pericolo e, soprattutto, chiedergli scusa il prima possibile. Se lo conosceva abbastanza, il comandante della forestale lo avrebbe mandato a quel paese ma il commissario aveva bisogno pure di quello.
“Allora io vado” disse Emma, affidando la sua borsa al commissario. Prese un grosso respiro mentre Vincenzo le fece un occhiolino di incoraggiamento e un grosso sorriso. Varcò la porta e l’infermiera la condusse lungo un breve corridoio che sembrava identico a quello di tutti i reparti ospedalieri che lei aveva visitato: la stessa luce fredda e impersonale, lo stesso odore asettico e fastidioso. “È sveglio?” domandò. Non aveva idea di come lo avrebbe trovato, sperava il più lucido possibile ovviamente, ma in qualsiasi modo sarebbe stato comunque il suo uomo e gli sarebbe stato accanto: lui aveva fatto lo stesso quando lei nemmeno era in grado di sentirlo e rispondergli. “Fin troppo …” “Come scusi?” “Questa mattina prima del cambio turno i nostri colleghi della notte hanno terminato la sedazione e abbiamo temuto che avesse un tipico episodio di delirio post operatorio, era molto agitato e voleva togliersi i tubi e fili dei monitor ma poi abbiamo capito che…” “…che ha solo un caratteraccio?!” concluse Emma, sarcastica, ridendo sotto i baffi. Senza bisogno di una diagnosi medica, già quelle poche parole erano state sufficienti per rassicurare Emma che suo marito era perfettamente in sé, anche se un po’ acciaccato.
Le due donne entrarono in uno stanzone dalle pareti azzurre con una serie di letti in fila, separati solo da paraventi. Emma avrebbe voluto cercare suo marito con lo sguardo, ma al contempo era imbarazzata all’idea di intrufolarsi nelle vite e nei dolori degli altri e così tenne lo sguardo basso, finché l’infermiera si fermò davanti all’ultimo letto sulla destra, indicandolo ad Emma con un ampio gesto del braccio, sorridendole serenamente. Solo a quel punto Emma alzò lo sguardo, trovando Francesco allungato sul letto, una medicazione sulla spalla, pericolosamente vicina al collo e un braccio fermato vicino al torace con una fasciatura, probabilmente per una lussatura. Tolti i lividi e le escoriazioni, oltre gli elettrodi e i fili per l’ECG e i tubi dei drenaggi, Francesco era lì tutto d’un pezzo e con gli occhi aperti, vivi e luminosi come sempre, come li amava. Non avrebbe pianto, no. Mentre i loro sguardi si incontravano lui doveva vedere solo la gioia che le traboccava dal petto, nient’altro.
“Emma!” la voce era fievole, un sussurro, ma lei l’avrebbe sentita anche se i bip dei macchinari avessero superato i decibel di un concerto rock. Le sorrideva, ma gli occhi lucidi non nascondevano l’universo di emozioni contrastanti che lo stavano attraversando in quel momento: il sollievo per avercela fatta, per aver avuto ancora la possibilità di rivedere la donna che amava, la vergogna per averle nascosto qualcosa e la paura, la grande paura che lo aveva attraversato nel momento in cui le forze gli erano mancate dopo lo sparo. Per Emma e i bambini, che non dovevano restare soli e poi un po’ anche per sé stesso: quando non hai niente di bello, le privazioni non costano fatica, non più di tutto il resto; quando sei felice, invece … e lui era felice, tanto felice, come non lo era da tempo, come forse non era mai stato. E l’idea di finire lì la sua vita lo aveva terrorizzato e lo aveva fatto incazzare. E forse era stata quella rabbia a salvarlo, la voglia matta di tornare a casa, dalle sue bambine dolci e monelle, dal suo ragazzino silenzioso e capriccioso, da quel piccoletto che non aveva ancora un viso né un nome e dalla donna che amava e lo amava, il dono più grande che la vita gli potesse fare: non lo avrebbe sprecato arrendendosi tanto facilmente ad una pallottola di pochi millimetri.
E quella donna se ne stava in piedi davanti al letto, Francesco poteva giurare di vedere stampato sul suo volto quello stesso sorriso che gli aveva rivolto quel giorno che le aveva confessato che sì, anche lui l’amava. Forse era solo l’anestesia ancora da smaltire che gli giocava brutti scherzi, o forse no: perché la sua Emma era bella come il giorno che si erano conosciuti e lo sarebbe rimasta per sempre, ma di una bellezza che non ha niente a che vedere con l’aspetto fisico. Aprì e tese, sforzandosi con quelle poche forze che sentiva di avere, la mano libera sul lettino, provando a farle capire che non doveva avere paura, che dietro quella figura malridotta c’era sempre l’uomo che aveva sposato, che poteva avvicinarsi.
Emma non aveva paura, non si era permessa di averne neanche per un secondo, figurarsi in quel momento in cui i suoi occhi vedevano che tutto stava andando per il meglio. Si avvicinò e sedendo sulla sedia di fianco a letto, sfiorò la mano fredda di Francesco, finché le loro dita si incrociarono. Non dissero una parola, lasciarono che i loro occhi esprimessero tutto quello che c’era da dire in quel momento. Glielo aveva detto una volta, d’estate, quando aspettavano Sole: non ho mai avuto bisogno degli occhi per vederti. Ed era ancora così.
“Scusa” sibilò, stringendo come poteva la mano di Emma per farle sentire quanto erano vere quelle parole. “Shhh” “Non avrei … non avrei mai dovuto… la forestale…” “Ascoltami bene perché lo dico adesso e non lo dirò più: non ho sposato un impiegato che mette i timbri ai permessi di caccia e pesca. Io ho sposato Francesco Neri e non voglio che tu sia neanche un’unghia diverso da come sei. O non saresti più tu. Capito?”
L’uomo annuì, chiudendo gli occhi e serrando le labbra per evitare di piangere, ma un rivolo di lacrime bagnò comunque l’angolo dei suoi occhi e giù poi, di corsa verso gli zigomi.
Emma si alzò e, abbassandosi su di lui, gli stampò un lungo bacio sulla bocca. Le labbra erano secche, i capelli che gli stava accarezzando erano impolverati e impiastricciati, la pelle odorava di terra, sangue e disinfettanti, ma era lì, stava tutto sommato bene e il resto passava in cavalleria.
“Come stai?” le chiese, con un filo di voce, mentre lei, con il suo sguardo dolce e protettivo, gli accarezzava la fronte. “Io come sto? Tu lo chiedi a me?!” esclamò Emma, ma non ne era poi così sorpresa: Francesco era quel tipo di persona, di quelle che mettono sempre al primo posto gli altri. Sentì in quel momento l’indice della mano di suo marito sfiorarle la pancia lievemente, con il saturimetro ancora attaccato. Lei afferrò quella mano e tornò a sedere, lentamente, di fianco a lui. “Sto bene … stiamo bene. Soprattutto adesso” sorrise, soddisfatta di poterlo ammettere.
“Voglio tornare a casa” “Lo so … ma non bisogna correre con queste cose … i bambini non hanno bisogno di un papà a mezzo servizio” “Mi perdoni?” “Ancora?! Non c’è niente che ti debba perdonare … ma promettimi solo che non mi nascondi più nulla. Non ho sposato un semplice forestale, ma nemmeno James Bond”
Francesco scoppiò a ridere a quella battuta ma subito si rivelò una pessima idea: il suo corpo, nonostante la grossa dose di antidolorifici, era tutto un dolore e il massimo che riuscì a tirare fuori fu un gemito di dolore.
“Dai, raccontami di casa …” lo diceva come se mancasse da giorni, come se si fosse perso chissà cosa mentre aveva solo perso le proteste di Leo, Sole che aveva messo il pigiamino da sola e Sofia, come al suo solito, aveva sbrodolato tutto il latte sul pigiamino a colazione. Ma Emma capì che a lui serviva anche quello che poteva sembrare nulla per rimanere aggrappato a quello che c’era fuori dall’ospedale e stare bene. Del resto c’era passata anche lei e quanto le avevano fatto bene quelle chiacchiere sui fattarelli di paese che non interessavano a nessuno. Chiusi dentro una stanza d’ospedale, fredda e asettica, anche poter figurarsi nella mente la scena di un’auto bloccata da una mandria di mucche in una stradina d’alta montagna era uno spiraglio di normalità e una grossa dose di speranza.
Quando il primario della terapia intensiva mandò a chiamare Emma, la donna si congedò dal marito con un baciò e una lieve carezza. “Torno appena possibile” lo rassicurò “e tu non far disperare gli infermieri … ci hanno messo 5 minuti a conoscerti”
L’uomo sorrise sornione, strizzando l’occhio verso la moglie che non ne voleva sapere di uscire dal piccolo cubicolo nonostante le pressioni dell’infermiera che era andata a chiamarla.
 
                                   
Vincenzo era nervoso come prima di un esame. Per la precisione come prima di Procedura Civile: gli stessi livelli di caffeina nel sangue – era rimasto sveglio tutta la notte in commissariato a suon di caffè napoletano per evitare di dormire in caso di emergenza – e ripetizione a macchinetta di quello che avrebbe dovuto ripetere. Sì perché si era studiato nei minimi dettagli quello che avrebbe dovuto dire al collega e amico, come approcciarlo, come chiedergli scusa. E come prima di ogni esame, era arrivato persino il momento in cui non ricordava più nulla, black out totale. Poteva darsela a gamba, nessuno lo avrebbe biasimato, ma si sarebbe biasimato da solo. Al momento di darsi il cambio con Emma, l’amica era stata spinta in fretta verso lo studio del primario che non c’era stato il tempo nemmeno di domandarle come era andata. Non sembrava particolarmente sconvolta, ma quei due insieme ne avevano passate di tutti i colori che a quel punto, pensò Vincenzo, probabilmente era subentrata una sorta di assuefazione mista a rassegnazione.
Quando arrivò al letto dell’amico, trovò dei sanitari intenti a completare una medicazione. “Ecco qua, Comandante” disse la donna che era di spalle, rivolta a Francesco, con una voce che a Vincenzo parve familiare “ma mi raccomando, niente movimenti bruschi che è un attimo a far saltare i punti. Adesso che ha visto sua moglie può farcela a stare più tranquillo, vero?” “E se non ce la fa da solo ci pensa il suo testimone di nozze” “Commissario!” esclamò la donna, voltandosi. E così Vincenzo la riconobbe: era Lucia, una giovane infermiera che arrivata da poco a San Candido dal sud Italia e abitava proprio nel suo stesso palazzo. Il giorno che si era trasferito aveva sentito odore di parmigiana per le scale e, divorato dalla curiosità e dalla gola, era andato a bussare alla sua porta per conoscerla e magari scroccarle una porzione di melanzane. Aveva sempre trovato divertente quella coincidenza.
L’infermiera rivolse un grosso sorriso al vicino di casa, prima di lasciarlo con una raccomandazione “Mi raccomando, commissà, veloce veloce perché noi dobbiamo cominciare il giro visite tra un po’ e lei non è manco un parente” “Io e il comandante siamo quasi parenti, mi ha promesso che il prossimo figlio lo battezzo io! E poi sono sempre il commissario…” “Manco il papa ci potrebbe entrare qua dentro, commissà …  non me lo strapazzi troppo! Il comandante è ancora molto debole”
Un uomo alto con i capelli biondissimi e con una divisa bianca e i bordini rossi, molto probabilmente il caposala, li guardò torvo senza dire una parola ma evidentemente contrariato da quel baccano inusuale per quel reparto. Lucia abbassò la testa e, a bassa voce, salutò il commissario portando via il carrellino delle medicazioni.
L’uomo, scuotendo la testa divertito, si girò verso il compare che in tutto quel tempo era rimasto in silenzio ad osservare la scena anche lui evidentemente rallegrato da quel siparietto. Stava immobile sul letto, in una posizione contratta, forse per il dolore, e vagamente innaturale, con il tubicino per l’ossigeno alle narici, diversi fili e tubi che partivano dal corpo e lo collegavano ad una caterva di macchinari. Sul corpo i segni della caduta nella scarpata dopo che aveva ricevuto il colpo.
Vincenzo era abituato per il suo mestiere ad immagini crude e situazioni violente e aveva visto ben di peggio, ma quando di mezzo c’erano persone a cui teneva era tutta un’altra storia. Il senso di colpa gli rimontò su dopo tutti i tentativi fatti autoconvincersi che era solo lavoro, che non c’era niente di cui biasimarsi. E invece si incolpava eccome. Da qualche parte in quel reparto c’era una donna col pancione che aveva rischiato di diventare madre senza un marito accanto, per colpa sua, e c’erano 3 bambini – quasi 4 – che avevano rischiato di non avere più un padre.
Lentamente, senza dire una parola, si sedette sulla sedia di fianco al letto e si lasciò andare ad un grosso sospiro. “Come stai?” domandò, la voce tremolante, guardando verso i monitor dei macchinari come se ci capisse qualcosa. “Com’è che dite … a Napoli? Ah sì…una chiavica” Che domande, Vincè, pure tu…
La voce di Francesco era flebile, tra una parola e l’altra emetteva sbuffi di dolore e si vedeva che stava imponendo a sé stesso di stare meglio il prima possibile o quanto meno di fingerlo di fronte agli altri. Tipico di Francesco.  “E nun te sforzà!” si raccomandò il commissario “scommetto che a tua moglie non hai fatto capire niente, come al tuo solito” “Come se posso nasconderle qualcosa…”
Eppure della loro operazione era stato costretto a tacere, controvoglia, proprio da lui. Gli aveva ripetuto una decina di volte che ad Emma doveva accennare qualcosa, che non poteva andare contro gente armata senza dirle nulla. Nella sua testa, faceva parte dei suoi voti nuziali: nella buona e nella cattiva sorte. Ma Vincenzo era stato irremovibile: facile parlare per lui, aveva pensato Francesco, sua moglie era in forestale ed era al corrente di tutto. Ma lasciare Emma quella mattina e liquidare la sua giornata con vado a fare dei controlli quando sapeva benissimo che avrebbe impugnato un’arma e avrebbe indossato un giubbotto antiproiettile era stata dura: per essere credibile, doveva crederci prima di tutto lui, ed era un pessimo attore.
A tutto questo Vincenzo non aveva pensato e si sentiva doppiamente, triplicemente in colpa. Quando aveva visto Francesco togliersi il giubbotto per darlo al poliziotto infiltrato tra i narcotrafficanti, Vincenzo avrebbe dovuto capire che aveva fatto una cazzata di dimensioni epiche a coinvolgerlo e quella sua leggerezza l’avrebbero pagata entrambi. Perché Francesco era così: in mezzo alla merda faceva il soldato, dimenticava tutto il resto e ci si buttava a capofitto.
Quando lo avevano tirato fuori dalla scarpata e messo nell’eliambulanza le uniche parole che Francesco era stato in grado di pronunciare furono Emma e i bambini. Ovviamente: mai che pensasse alla sua pellaccia.
“Ho fatto una cazzata” “Ah tu?” “Non ci sono solo più io” ammise, dolente. “Siamo due deficienti che quando si tratta di lavoro non capiscono più niente. Io ti devo chiedere scusa, per averti fatto correre un rischio troppo grande. Emma è pure incinta!” “Ma io ti ho dato retta … siamo pari”
L’uomo alzò alla buona il braccio, tendendo la mano all’amico che la strinse impacciato e ancora mortificato. Gli sarebbe passata quell’angustia, ma ci sarebbe voluto un po’ e Francesco già se lo vedeva scodinzolargli attorno servizievole come un cane che si sente in colpa per una marachella.
 
Una settimana c’era voluta per rimettere in sesto il comandante della forestale. Più precisamente per farlo uscire dall’ospedale: avrebbe avuto bisogno di un’altra settimana in una clinica per la riabilitazione, ma era ad un’ora da casa, con orari di visita stabiliti e lui senza moglie e figli per altri sette giorni non sapeva proprio starci. Teneva la spalla ferma in un tutore e la terapia necessaria l’avrebbe fatta in sedute settimanali da un fisioterapista della zona. I suoi lavori di falegnameria avrebbero funzionato anche meglio aveva decretato, a dispetto delle proteste di Emma.
I bambini non avevano potuto visitare il padre in ospedale e il massimo che si erano concessi erano le videochiamate che, soprattutto per le più piccole, erano ancora uno strumento strano e finivano per distrarsi facilmente. I resoconti di Emma erano stati belli fino al secondo giorno, poi il desiderio di riabbracciare tutti aveva avuto il sopravvento. Non per il contatto fisico, non solo almeno, ma anche per il loro profumo di pulito, per quelle vocine che lo chiamavano papà e quegli occhioni blu, verdi e nocciola che lo guardavano come fosse un l’eroe delle favole della buonanotte o il grande gigante gentile dei libri per ragazzi. E invece era solo uno stupido che si era messo a giocare al soldato ma lui era molto di più: lui era il marito di una donna straordinaria e il papà di 3 bambini dolci ma anche un po’ pesti; aveva davanti una miriade di nottate insonni con il piccolino che doveva arrivare, e migliaia di cambi di pannolini, di rigurgiti, di prime volte così diverse da quelle degli altri che sarebbero state nuove anche per lui. E non voleva perdersene neanche una.
Aveva fatto promettere ad Emma che tolto il tutore non avrebbero più parlato di quella storia, che d’ora in avanti avrebbe svolto solo il suo lavoro di noiosi timbri, ispezioni negli allevamenti e nei boschi e poliziotti in servizio ne avrebbe incontrati solo per sbaglio mentre era in auto. Emma aveva riso, alzato gli occhi al cielo e risposto, laconica: “…l’importante è crederci”.
Quel pomeriggio, per riaccompagnarlo a casa, si era offerto Vincenzo, nonostante le proteste di Emma che insisteva sul fatto che fosse solo incinta e non malata e che era perfettamente in grado di guidare. Ma né suo marito, né il suo testimone di nozze avevano voluto sentire ragioni: in quella settimana di ricovero si era strapazzata più del dovuto e ora meritava di riposare anche lei.
Arrivati davanti al maso, Vincenzo prese il borsone con le poche cose di cui Francesco aveva avuto bisogno in ospedale mentre il forestale e sua moglie si incamminavano assieme verso casa. Appena sceso dall’auto l’uomo aveva spalancato il braccio libero e cinto con il suo abbraccio le spalle della moglie.
“È bello essere a casa, vero?” gli domandò Emma, con una punta di commozione nella sua voce, appena scesi dall’auto, entrambi fermi davanti al maso. Non era una bella giornata, il sole non splendeva alto e la pioggia della notte aveva lasciato strascichi di freddo umido che saliva dalla terra ancora bagnata. Ma per Francesco non c’era differenza: era una giornata splendida, luminosa, e il profumo di aria pulita e salubre gli riempiva finalmente i polmoni. Prese dei grandi respiri e fece il pieno di tutto il bello che lo circondava.
Era ancora incredibile, per lui, avere un posto da poter chiamare casa, lui che a lungo era stato un vagabondo e un solitario, per cui un bivacco o una villa in collina non facevano differenza: erano solo la soddisfazione di un bisogno primario, un tetto sopra la testa.
Ma ora quelle mura erano intrise di ricordi, di voci, di suoni, di quelle visioni che da speranze erano diventate realtà. Dalla finestra del soggiorno, nonostante i fiori ancora rigogliosi nelle fioriere esterne, Francesco scorse il muso di Luna e il viso di Leonardo stampati sul vetro di una delle finestre del pian terreno, di vedetta. Appena il sguardò dell’uomo incrociò quello del figlio, il bambino schizzò via dalla finestra e con lui la lupacchiotta di casa.
“Hanno preparato qualcosa per il mio ritorno, vero?” “Fingiti sorpreso, ci hanno lavorato tutto il pomeriggio di ieri” sembrò quasi sbuffare Emma. Suo marito non ce la faceva proprio ad evitare di dedurre cose. “Parola di forestale” decretò Francesco, sugellando la promessa con un bacio. Emma sospirò, ma non poté smettere di sorridere. Lei che di ospedali se ne intendeva, aveva sempre dichiarato che il ritorno a casa era la parte più bella, e mai come in quel momento rinnovava la sua opinione a riguardo. Lasciò che fosse suo marito ad aprire la porta, toccava a lui godersi a pieno quel momento. Il corridoio, però, al contrario di quanto si aspettavano entrambi, era vuoto; il comitato di benvenuto che era pronto a scommettere era stato organizzato per l’occasione, era da qualche altra parte. “Sono a casa!” esclamò, con la solita cantilena dei giorni lavorativi, come se fosse andato via per lavoro per qualche giorno e fosse pronto a riprendere il suo posto in famiglia come se nulla fosse successo.
“Papaaaaà!” le voci delle piccoline di casa riempirono il corridoio spuntando dalla cucina e correndo a tutta forza incontro a Francesco che istintivamente si inginocchiò per abbracciarle “Le mie principesse! Dio come mi siete mancate!”  A quell’abbraccio si unirono sia Leonardo che Luna, che aveva appeso al collo un piccolo cartellone con su scritto Bentornato Papà e le impronte delle mani dei bambini fatte con la tempera; dietro di loro Francesco poté a malapena scorgere Giulio, i nonni di Leonardo e la zia di Emma che erano accorsi a San Candido per aiutare Emma e i bambini: la foga era stata eccessiva e tra gridolini, risate e latrati erano finiti tutti a terra, in pieno corridoio. 
Avesse avuto il potere di fermare le lacrime, di certo non lo avrebbe usato. Piangere di gioia, lo aveva ormai imparato, era la cosa più bella del mondo. Era la stessa sensazione di quando le aveva prese in braccio la prima volta, lo stesso profumo di pulito e di dolci, solo che il loro sguardo era pieno d’amore e di gioia e non di perplessità del tipo ah sei tu il tizio che chiameremo papà?! Anche in Leonardo c’era la stessa meraviglia del giorno in cui gli avevano detto che sarebbe andato a vivere insieme a loro, la medesima incredulità positiva.
Sapeva di essere amato, ne aveva la certezza e lo considerava un privilegio perché aveva sempre avuto – e sua moglie glielo ripeteva costantemente – la brutta abitudine di non considerarsi né una persona particolarmente interessante né di valore; ma il modo esplosivo che quelle piccole creature glielo stavano dimostrando non aveva pari. E non importava che lo stessero schiacciando, che un gomito di Sofia fosse finito proprio sulla ferita, che per rialzarsi ci avrebbe impiegato un’ora e avrebbe dovuto prendere un antidolorifico. Loro erano il migliore sedativo ad ogni sofferenza. Come aveva solo potuto pensare di barattare una vita con loro per dieci minuti da rambo non riusciva ancora a capacitarsene.
“Papà ci sei mancato!” proclamò Sole prendendogli il viso tra le mani. Francesco la osservò per un’istante e poi osservò anche gli altri bambini. Era passata solo una settimana eppure gli sembrava che fossero cresciuti a dismisura e cambiati totalmente. “Anche voi, principessina!” la baciò sulla guancia, provando a mettersi almeno seduto e la piccola come d’abitudine si strofinò la guancia dove la barba del padre aveva pizzicato un po’.
“Stai bene ora papà?” domandò Leo, che lo guardava guardingo; lui più degli altri capiva la situazione e forse temeva di fargli male. “Sì, Leo, sto bene adesso” lo rassicurò, assicurando la presa di Sofia che era l’unica, giustamente, a non capire a pieno cosa stava succedendo e pensava forse che quella specie di festa fosse per lei e non per il padre. “Non ancora al 100% ma adesso che sono a casa tornerò in forma più in fretta, vedrai” lo tranquillizzò, mascherando una smorfia di dolore con un grande sorriso.
“Forza bambini, lasciate respirare papà che deve riposare” li richiamò Antonio, battendo le mani e muovendo le braccia quasi fosse un vigile; di sicuro in corridoio in quel momento si era creato un bell’ingorgo.  “Noi andiamo..” gli fece eco Rosa, accarezzando la guancia del genero, che era stato aiutato da Giulio a rimettersi in piedi.  “Ma come? Di già” “Ma sì Francesco, ci vedremo nei prossimi giorni” “Eh sì, ordini del medico” disse Vincenzo, alle sue spalle, ma indicando Emma con un cenno del capo e un occhiolino “devi riposare e stare tranquillo per qualche giorno”
Come se fosse davvero possibile, pensò Francesco: in quella casa non c’era un attimo per stare davvero tranquilli, forse neanche a sera dopo aver messo tutti a nanna. Ma in fondo andava benissimo così, non desiderava che la sua vita fosse un millimetro differente da com’era.
 
A sera era stato difficile mettere i bambini a dormire, o per meglio dire era stato difficile convincere Leonardo e Sole a lasciare andare il papà per andare nei loro letti dopo aver visto tutti insieme un cartone. Lo avevano seguito al piano di sopra e si erano tuffati nel lettone. Persino Leonardo, che dopo la nascita di Sofia aveva orgogliosamente proclamato di essere grande e di non avere più bisogno di dormire in mezzo ai genitori, quella sera faceva fatica a staccarsi dal padre. Non che a Francesco desse fastidio, i bambini gli erano mancati troppo, al punto che quando la piccolina era crollata tra le sue braccia a cena gli era dispiaciuto ammettere che, per via delle ferite, degli ematomi e la generale fatica che ancora aveva addosso, era pesante e faticoso tenerla. Stringendo i denti l’aveva messa nel lettino lui stesso, baciandole la fronte profumosa sotto la folta chioma bruna: era la sua piccola peste, che quando dormiva si trasformava nel più dolce degli angeli e quel profumo di latte e fiori di montagna era più efficace di tutti gli antidolorifici con cui lo avevano imbottito nei giorni precedenti.
“Lasciali stare Emma, hanno ragione, sono mancati anche a me” protestò l’uomo quando sua moglie diede l’ultimatum ai bambini di lasciare riposare il papà. “Non scherziamo, hai ancora i punti e la spalla è lussata” ricordò al marito “basta una mossa sbagliata e siamo di nuovo punto e a capo”
Francesco la guardò negli occhi, mentre aveva ancora Sole letteralmente abbarbicata sul suo braccio sano, con nessunissima intenzione di staccarsi. Emma non era petulante, né opprimente, ma aveva un grosso problema con gli ospedali, che nemmeno due lieti eventi avevano saputo placare. Quell’incidente aveva, era proprio il caso di dirlo, riaperto una ferita vecchia e dolorosa. Capiva il perché delle sue rimostranze.
“Vieni qui” le disse, slegandosi dalla stretta della figlia e tendendole la mano. Emma si avvicinò, ancorandosi letteralmente alle dita del marito con le sue. “Compromesso?” le domandò, lo sguardo inquisitorio. La donna lo guardò diffidente ma divertita, arricciando le labbra in attesa della proposta del marito. “I bambini possono restare … ma vicino a me ci dormi tu, che dici? Mh?” Emma si sciolse. Non per quello che le aveva detto, ma come lo aveva fatto, con quella faccina da lupetto solo e abbandonato che sapeva utilizzare fin troppo bene a suo favore. “Con il piccoletto qui dentro saremo in cinque però” lo provocò. “Vorrà dire che ci stringiamo … ti dispiace?” “Stringermi a te? Neanche per idea” per quanto le consentiva quella pancia che iniziava a diventare ingombrante, si avvicinò più che poteva prendendo tra le mani il suo volto e stampando un bacio sulle sue labbra. Finalmente, dopo una doccia e una serata in casa, il suo profumo di montagna e di caldo legno di baita era tornato, facendole dimenticare di quell’odore terribile di disinfettanti che le entrava nel naso bruciando fino agli occhi e alla testa. “Mi sei mancato Neri” “Di più tu, Giorgi” rispose lui, rispondendo a quel bacio “di più tu”
 
 
   
 
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