Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: PerseoeAndromeda    29/07/2022    0 recensioni
Jean capiva: quella conchiglia era ciò che restava di un mondo caduto a pezzi, rappresentava il senso di colpa e, al contempo, una flebile speranza.
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Armin Arlart, Jean Kirshtein
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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Fanfic scritta per il gruppo Facebook "Prompts are the way".

 

Fandom: Attack on titan 

Titolo: Ciò che resta del mondo

Personaggi: Armin e Jean. Cenni Jearmin per chi li vuole vedere

Rating: giallo per tematiche delicate

Genere: angst, drammatico, introspettivo 

Note: spoiler per chi non ha letto il finale del manga

 

CIÒ CHE RESTA DEL MONDO

 

 

Non era andata bene.

La rabbia aveva caratterizzato la riunione per tutta la sua durata, i messaggeri di pace giunti da Paradis erano stati accolti a male parole, fischi e insulti avevano impedito di portare avanti un dialogo civile, tanto che i compagni del comandante Arlert avevano ritenuto più prudente mettersi intorno a lui e condurlo lontano da quella gente inferocita: il rischio di un'aggressione sembrava troppo vivido.

Mentre lo accompagnavano ai suoi alloggi, Armin non disse una parola, tenne il volto basso e nessuno dei compagni si sentiva in grado di dargli conforto: loro stessi si sentivano affranti e sfiduciati, condividevano responsabilità e pesi che, giorno dopo giorno, si rivelavano sempre più opprimenti per tutti.

Quando giunsero davanti alla porta, finalmente il giovane comandante sollevò il viso e concesse ai suoi amici un'occhiata fugace:

“Grazie, ragazzi. Andate a riposarvi, ne abbiamo tutti bisogno".

“Armin…”.

Annie fece un passo avanti, all 'evidente ricerca di qualcosa da dire, ma il giovane la prevenne con un cenno della mano e uno scuotere il capo:

“Sto bene. Ho solo bisogno di dormire. Domani ne parliamo".

L’ istante successivo si era già chiuso la porta alle spalle, lasciandoli lì, impotenti, a fissare la silenziosa superficie di legno.

Reiner scosse il capo con un sospiro:

"Non va bene... Non va affatto bene. Di questo passo la stanchezza e i pensieri lo uccideranno...".

“Se non creperemo prima tutti quanti in un attentato”.

La sentenza lapidaria di Connie gelò ogni ulteriore commento sul nascere.

La consapevolezza che nessuno di loro era al sicuro avrebbe reso il loro riposo difficile.

In troppi li odiavano...

E non potevano permettersi di nascondersi da qualche parte, perchè il destino del mondo era nelle loro mani.

Per il momento non avevano altra scelta: quando Armin decideva di stare solo, tirarlo fuori dal suo guscio diventava impossibile.

Eppure, quando tutti si erano rassegnati ad allontanarsi, uno di loro non si decideva a fare altrettanto, né a distogliere lo sguardo da quella porta chiusa.

Jean aveva paura.

L'aveva sempre avuta d'altronde, aveva convissuto con la paura dal giorno in cui aveva guardato negli occhi il terrore puro di esseri umani divorati vivi dai giganti .

La paura era diventata la sua compagna inseparabile da quando un corpo accasciato contro un muro gli aveva rivolto una preghiera silenziosa da quella faccia ridotta a metà e aveva capito che la paura per se stessi non era nulla di fronte a quella di perdere chi si amava.

E ne aveva persi troppi.

Era arrabbiato con Armin.

"Non vorrai lasciarmi anche senza di te? "

Lo Pensava ogni volta che lo guardava, mentre riduceva a brandelli il proprio corpo e la propria anima, senza risparmiare nulla a se stesso…

Senza mostrare un briciolo di pietà verso se stesso.

Posò la mano sulla porta e abbassò la maniglia, senza troppe speranze: Armin spesso si chiudeva a chiave, perchè era un testone che non voleva coinvolgere gli altri in ciò che provava.

Armin, che si prendeva cura di tutti e, se poteva, impediva a chiunque di prendersi cura di lui, quasi pensasse di non meritare niente.

Per fortuna, Jean la sapeva troppo bene e non gli concedeva la possibilità della solitudine, a costo di litigare, a costo di venire respinto, Jean non avrebbe mai smesso di guardargli le spalle e di prendersi cura di lui.

La trovò aperta e si immerse nel buio della stanza.

Armin non aveva acceso la luce e le ante della finestra erano rimaste sigillate.

D'altronde si era trattato di una giornata pesante e anche l'istinto di Jean sarebbe stato quello di buttarsi a peso morto sul letto e chiudere gli occhi, facendo tabula rasa di ogni pensiero.

Ma non poteva permetterselo, aveva una priorità. 

Avanzò a passo deciso verso il letto, evitando con sicurezza lo spigolo del tavolo al centro della camera. Per il resto, l'alloggio era spoglio e non trovò alcun intoppo nell'oscurità. 

Si fermò sul bordo del giaciglio posto sotto la finestra e rimase lì fermo per qualche istante. 

Attraverso i listelli delle persiane si facevano strada sottili fasci di luce generata dell'illuminazione della strada all'esterno e, seppur deboli, permisero agli occhi di Jean di scorgere la sagoma di Armin, sdraiata su un fianco, che gli dava le spalle.

Aveva una mano stretta al petto, lì dove l'aveva tenuta per gran parte di quella giornata.

Quando sentiva di non farcela più, Armin sollevava la mano lì, all'altezza del cuore e cercava qualcosa.

Jean sapeva di cosa si trattasse: era il simbolo di una promessa, il ricordo di un impegno preso, ma anche immagine di un sogno realizzato e subito dopo infranto.

Era parte di quel sogno a cui, nonostante tutto, Armin non aveva mai smesso di aggrapparsi, l'unico appiglio che gli impediva, forse, di perdere la ragione.

"Jean… lo so che sei lì".

Dal mucchietto raccolto sul letto, si levò la voce sottile del giovane comandante.

Come potesse quella voce, in un corpo che cresceva, mantenere ancora i propri connotati infantili e quell'inflessione limpida, per Jean sarebbe stato sempre un mistero.

Sospirò e abbassò il capo.

"Non me la sentivo di lasciarti solo… e temevo…".

"Che mi sentissi male, o che facessi qualche sciocchezza, vero?".

Un fruscio tra le lenzuola e Armin si girò verso di lui, senza smettere di stringere contro il petto il suo prezioso tesoro.

si puntellò su un gomito e si sollevò un poco, con una debolezza che a Jean non sfuggì.

I raggi di luce tenue si riflettevano nei suoi occhi lucidi e enormi, rendendo il loro lucore ancor più malsano.

Jean si chiese da quanto tempo, ormai, li vedesse non febbricitanti. E si domandò anche quanto un corpo umano già tanto fragile, potesse resistere ad uno stato di febbre pressoché perenne.

"Non devi preoccuparti, sai Jean? Non mi toglierei la vita, non posso permettermi un altro, simile atto di egoismo. Sarebbe troppo comodo e facile per me".

Jean si morse il labbro inferiore, per trattenere la sfuriata che un discorso simile avrebbe provocato se si fosse lasciato trascinare dall'istinto.

Invece scosse mestamente il capo e rimase in silenzio: non voleva arrabbiarsi, Armin non aveva bisogno di quello, ma la rabbia era l'unica reazione cui poteva pensare.

"Jean…".

Quella voce… 

Adesso era una supplica, una richiesta di attenzione. 

"Dimmi…".

"Sono contento che tu sia qui. Forse è per questo che ho lasciato la porta aperta: speravo che tu entrassi".

Un sospiro scosse il petto di Jean, la rabbia svanì, mentre il cuore sembrò infrangersi contro il petto.

Si sedette sul bordo del letto e arruffò con affetto i capelli di Armin: un gesto di intima familiarità che continuava negli anni e sarebbe continuato fino alla loro morte, non importava quanto Armin crescesse… non avrebbe mai smesso di stimolare in lui certe reazioni.

"Non ti serve sperare, scemo. Basta che tu me lo chieda. E sì che dovresti saperlo. Ma chiedere esplicitamente aiuto… piuttosto crepare, vero?".

Armin si trascinò vicino a lui, fino a posargli la testa sulle gambe, si sistemò in posizione supina e cercò i suoi occhi, tirando fuori una delle sue espressioni buffe che spinse Jean a ridacchiare. 

Armin frugò nel proprio petto sotto il risvolto della giacca elegante, che non si era tolto prima di cadere, esausto, sul letto. Tirò fuori l'oggetto che teneva lì nascosto.

La conchiglia si accese sotto un raggio di luce e Jean si trovò a fissare quello che era il tesoro del giovane comandante. 

Seguì il movimento delle mani che portarono la conchiglia alle labbra, mentre gli occhi di Armin si chiudevano in un'espressione assorta.

Poi la riportò al petto, con entrambe le mani e la strinse come avrebbe fatto con una creatura viva.

Jean capiva: quella conchiglia era ciò che restava di un mondo caduto a pezzi, rappresentava il senso di colpa e, al contempo, una flebile speranza.

Jean serrò gli occhi per un istante, preda di una commozione che lo stava travolgendo, poi portò la propria mano a coprire quelle di Armin.

"Non mollare" mormorò. "Io sarò con te, ma non mollare".

Il sogno di Armin, un tempo, era quello di scoprire il mondo.

Suo malgrado era stato costretto a modificarlo: il suo nuovo sogno era che quel mondo tornasse bellissimo, come quello che aveva visto nel suo libro di infanzia. 

Un'utopia…

Ma che importava?

La cosa importante era che una parte del cuore di Armin continuasse ancora a sognare: se avesse smesso, ogni cosa sarebbe andata in rovina.

 

 

 

 

   
 
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