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Autore: Evali    08/08/2022    0 recensioni
Un villaggio isolato, un popolo spezzato in due in seguito ad una terribile calamità, due divinità da servire, adorare e rispettare in egual modo: Dio e il Diavolo.
"- Io amo gli uomini.
- E perché mai io sono andato nella foresta e nel deserto? - replica il santo. – Non fu forse perché amavo troppo gli uomini? Adesso io amo Iddio: gli uomini io non li amo. L’uomo è per me una cosa troppo imperfetta.
- È mai possibile! Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella sua foresta che Dio è morto!"
Genere: Fantasy, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Liberazione
 
 
- Charles, ci saranno locande qui nei dintorni?
L’uomo smise di affilare la sua arma con un sasso e si voltò verso il suo compagno d’arme. – Stai sempre a pensare alle puttane, tu?
L’altro rise di gusto. – Oh andiamo! L’ultima volta che ci siamo fermati in una locanda è stato tre giorni fa! L’esercito ha fame, Charles.
- Beh, rimarrà affamato. Dobbiamo rimetterci in viaggio e questa volta senza deviazioni o tappe intermedie. La nostra meta è vicina e non ho intenzione di passare un’altra notte a dormire all’aperto, in mezzo ai lupi.
- Come si chiama il villaggio? Carby? Cabry?
- Carbrey – lo corresse il cavaliere.
- Carbrey, giusto. In questo dannato continente fa freddo e ci sono pochissime locande.
Cos’è, le donne qui sono tutte pie e votate a Gesù Cristo? – si lamentò l’altro, lasciandosi cadere seduto sul tronco accanto al compagno, mentre tutti gli altri affilavano le armi o si adoperavano a raccogliere le loro cose da terra, per rimettersi in marcia. – Perché non ci dirigiamo direttamente verso Bliaint e la facciamo finita? Nostra signoria il conte vuole solo quel ragazzo, ci basterà trovarlo e portarlo via.
Charles smise di affilare l’arma e si voltò verso di lui. – E come pensi di trovare un ragazzo di cui non conosci né l’aspetto né il nome in un villaggio di più di cento abitanti? – lo schernì l’altro. – Talvolta sei talmente stupido che dovrebbero inventarti, Gregory. Ad ogni modo… li vedi i nostri compagni? – gli domandò indicandogli tutti gli uomini delle truppe scelte che avevano viaggiato con loro attraverso il mare.
- Cos’hanno che non va?
- Se avessi prestato attenzione, avresti notato che la maggior parte di loro si sono fatti il segno della croce almeno una ventina di volte al giorno da quando siamo sbarcati in questo continente. Da quando ci stiamo avvicinando a quel  villaggio.
Gli uomini, Gregory… sono terrorizzati da Bliaint.
Le leggende sui suoi abitanti si sprecano sin troppo in dettagli macabri e terrificanti.
Corre voce che là dentro si pratichi ogni sorta di peccato e dissolutezza, e non solo in senso sessuale.
Là dentro… vi sono i figli di Satana il Demonio, Gregory.
Hai idea di cosa ciò voglia dire?
Praticanti delle più aberranti arti della magia nera, streghe e stregoni senza alcuno scrupolo, più razionali dei selvaggi pagani, molto più crudelmente consapevoli e coscienti delle loro armi e del loro potere, ma ugualmente folli.
Uomini e donne votate anima e corpo al Diavolo, Gregory.
Alcuni narrano che ci abbiano anche giaciuto insieme, con Lucifero.
Ti sorprenderebbe?
Si dice vi abitino anche creature non umane, indefinibili, né morte né vive, che succhiano il sangue dei viventi, prosciugandoli; mostri sotterranei che abitino le loro gallerie; demoni di aspetto androgino che stuprano donne e uomini nel sonno…
Dal canto suo, Gregory deglutì rumorosamente. – Mi sta andando a fuoco il cavallo dei pantaloni, Charles.
- Tu sei uno dei pochi a non essere terrorizzato da loro.
- E tu? Tu hai paura di loro, Charles?
Insomma, avanti! Se avessero avuto davvero tutto questo potere, allora quei cosiddetti “figli del Diavolo” avrebbero maledetto Nostra signoria il conte Agloveil molto prima che giungessimo qui!
Il conte è riuscito a riacciuffare la puttana che porta in grembo il figlio di uno di loro. La tiene come moglie e ostaggio. Per quale motivo non lo hanno ancora maledetto dopo aver saputo una cosa simile?? Oramai deve essere loro giunta anche la voce che uno straniero sta cercando un loro conterraneo.
- Non ne sarei così sicuro.
Bliaint è isolato dagli altri villaggi, le informazioni su ciò che accade nel mondo di fuori non entrano, né escono.
Se siamo fortunati… quando arriveremo lì sarà totalmente una sorpresa per loro.
Non sapendo nulla del nostro arrivo, suppongo e spero, che per loro sarà più difficile difendersi, anche avendo il Diavolo con i suoi tremendi sortilegi dalla loro parte.
- Non dispongono di un esercito per combattere gli invasori?
- Per nostra fortuna no.
- E se la vecchia puttana che è scappata dal conte, la zia della sua novella sposa, fosse riuscita a giungere qui e ad informarli del nostro arrivo?
Charles guardò l’amico, sgranando gli occhi. – Non ci avevo pensato. Allora non sei così stupido, Gregory. Beh, se così fosse, ti darei ragione: se non ci hanno ancora maledetto e incenerito tutti a distanza, allora vuol dire che non sono così potenti e pericolosi come temiamo – gli rispose.
Gregory rise. – Se davvero la bellezza di questi abitanti di Bliaint è così incomparabile come dicono, nessuno ci impedirà di portarci via anche qualche bella fanciulla, insieme al ragazzo.
Non si dice anche che queste serve del Diavolo siano più sfacciate, perverse e impudiche della miglior meretrice esistente nel nostro continente?
- Nostra signoria ci ha detto di non sfidare la sorte: dobbiamo portare via solo il ragazzo.
- Oh, Charles, andiamo! Che vuoi che sia qualche ragazzina popolana di un villaggio sperduto! Mica dobbiamo rapire una principessa – si lamentò.
- La tua ingordigia ed eccitazione non conosce limite, Gregory.
Rischieresti di essere maledetto da un intero villaggio di figli del Diavolo pur di portarti via qualche bellezza straniera.
- Tu no??
Avanti, devi ammettere che il pensiero tenta anche te. Ho sentito dire che lì hanno anche donne nere e mezzosangue. Sono trattate al pari di quelle bianche, per giunta!
Davvero un altro mondo!
Ce ne è per tutti i gusti!
- Il ragazzo è più importante.
Con lui, Nostra signoria diventerebbe l’uomo più ricco del mondo, e noi con lui.
Potremmo permetterci tutte le puttane che vogliamo se riusciamo nell’impresa di prendere lui.
- Ma non potremmo mai sapere cosa si prova a possedere una puttana del Demonio!
Charles sospirò, sconsolato.
- D’accordo, d’accordo, ho capito: niente donne di Bliaint – si arrese Gregory sbuffando. – Ma almeno sappiamo quanti anni ha questo fantomatico ragazzo…?
Mi risulta ancora impossibile credere che un moccioso sia riuscito nell’impresa in cui hanno fallito, e continuano a fallire, centinaia di uomini navigati nel campo dell’alchimia. Quanto c’è di vero nelle voci che ci sono giunte su di lui? A mio parere, abbiamo fatto questo viaggio per niente.
- Non sappiamo quanto ci sia di vero, ma sappiamo che esiste e che è un figlio del Diavolo di Bliaint.
Il testimone che l’ha visto dal vivo trasformare il piombo in oro, si trova proprio a Carbrey, dove ci stiamo dirigendo per interrogarlo.
Si dice che il ragazzo in questione lo abbia accecato, mutilato e gli abbia bruciato la lingua, per evitare che dicesse a qualcuno ciò che aveva visto. Raccapricciante, non trovi?
Gregory tremò di sgomento al solo pensiero. – Siamo sicuri non siano assassini addestrati questi dannati servi del Diavolo…? Come può un ragazzino essere capace di fare una cosa simile..?
A ciò, Charles si alzò in piedi, guardandolo dall’alto e offrendogli la mano. – Non faresti lo stesso anche tu, per avere salva la vita?
 
L’esercito si rimise in marcia, e dopo un ulteriore giorno di cammino giunse finalmente a Carbrey.
Gli abitanti del villaggio si ritrassero nelle loro case impauriti alla vista di quegli imponenti uomini in armatura.
Giunti all’abitazione di colui conosciuto come “Il Giudice”, bussarono alla porta.
Fu un uomo dall’abito sacerdotale ad accoglierli, facendoli entrare adagio, come se si aspettasse il loro arrivo.
Fecero il loro ingresso solamente dieci cavalieri, i restanti restarono ad attendere fuori.
Tuttavia, l’uomo aveva sia occhi, che mani, che bocca funzionante, perciò dedussero non si trattasse del Giudice.
- Siamo le truppe scelte dal conte Agloveil.
Immagino sappiate per quale motivo siamo qui, prete o monaco… come dovrei chiamarvi? – domandò Charles in tono schernente. – D’altronde, almeno in questo villaggio le voci oltreoceano arrivano.
- Posso offrirvi qualcosa, signori? Dovrete essere stanchi e affamati per il viaggio – disse con calma il sacerdote.
- Passeremo ai convenevoli e alla parte in cui ci darete un pasto caldo, ci ospiterete per dormire la notte e ci donerete delle donne con cui scaldare i letti solamente dopo. Prima passiamo alle cose importanti: dov’è il Giudice? Ci hanno segnalato che questa è la sua dimora. Ma tutto ciò che vedo dinnanzi a me è un vecchio che è benissimo in grado di parlare, di vedere e di scrivere. Dunque, dov’è?
- Il Giudice è molto malato, signori.
- Credi che ce ne importi qualcosa, vecchio? Non abbiamo affrontato questo immenso viaggio per sentirci dire che l’unico uomo in grado di fornirci informazioni certe è malato e non può riceverci!
Portateci immediatamente da lui, se non volete vedere il vostro villaggio ridotto a ferro e fuoco! – lo minaccio un altro cavaliere, spazientito.
- Come vedete, io sono il più paziente tra i miei uomini, prete.
Dunque, fate come dice – intervenne nuovamente Charles, con un ghigno a deformargli i lineamenti.
Il sacerdote si inchinò lievemente a loro e li condusse nella camera in cui riposava il Giudice.
I soldati buttarono quasi giù la porta nell’entrare, facendo trasalire l’uomo, o meglio il corpo orribilmente sfigurato, che riposava sul talamo in mezzo alla stanza.
Charles dovette distogliere lo sguardo, tremendamente disgustato dalla visione che gli si parava dinnanzi agli occhi: magro ai limiti dell’umano, il Giudice era una maschera di sofferenza, con due profondissime conche deturpate e nere al posto degli occhi, una bocca perennemente aperta e secca, come se non fosse più in grado di chiuderla, e degli orripilanti moncherini al posto delle mani.
Si lamentava a mugolii, più flebili di quelli di un animale di piccole dimensioni, non capendo cosa stesse succedendo intorno a sé.
Per un attimo, Charles ebbe pietà di lui.
- Gesù Cristo… - imprecò Gregory, fissando quella sagoma con estremo e nauseante ribrezzo.
- Non preoccupatevi, Giudice, questi uomini non vi faranno del male - cercò di rassicurarlo il sacerdote accostandoglisi e aiutandolo delicatamente a sedersi sul letto.
- Il Giudice è estremamente fragile dall’“incidente”… Non riesce a mangiare e a respirare bene, in quanto ciò che è rimasto della sua lingua liquefatta, si è gonfiato, fino ad invadergli la bocca – spiegò accarezzandogli i capelli scuri, come si farebbe ad un bambino.
Il Giudice, dal canto suo, si rilassò sotto quel tocco familiare, mugolando a bocca aperta e accoccolandosi al palmo del sacerdote.
- Che esistenza oltraggiosa… - commentò Charles.
- Vi prego – si impose il sacerdote. – Il Giudice non è in grado di parlare, ma le sue orecchie sono ancora funzionanti. Abbiate pietà per una povera anima stroncata e deturpata in tal modo.
- “Povera anima”… - commentò Charles dandosi un’occhiata intorno, soffermando gli occhi su tutti i soprammobili adornati di pietre preziose che vi erano in quella stanza. – Se le voci che ci sono giunte su di lui sono corrette… il vostro disgraziato Giudice, prima di venire sfigurato e mutilato, era un uomo avaro e avido almeno quanto il conte che noi serviamo e che ci ha mandati qui.
Sbaglio, forse?
Ci è giunta voce che quest’uomo che difendete con tanta premura, abbia tenuto prigioniero il ragazzo proveniente da Bliaint, con lo scopo di fargli tramutare chili di piombo in oro.
Sorprendentemente… a detta del Giudice, il ragazzo è riuscito nell’impresa.
Ma poi è scappato via, assicurandosi che il suo aguzzino non potesse parlare e rivelare a nessuno ciò che aveva visto.
Vedete.. il nostro signore vuole la stessa, identica cosa.
Vuole il ragazzo.
E dato che, miracolosamente, il nostro amato Giudice è riuscito a rivelare ciò che il giovane alchimista ha compiuto… siamo certi che egli sia in grado di dirci anche qualcosina in più su di lui. Come, ad esempio, quale sia il suo nome, quanti anni abbia e una sua accurata descrizione fisica.
Non ci serve altro, per trovarlo.
Dunque?? Farete questo per noi, Giudice? – domandò infine Charles avvicinandosi all’infermo e abbassandosi sul suo viso raccapricciante, assicurandosi che udisse bene le sue parole.
- Il Giudice è riuscito a rivelare ciò che il ragazzo ha compiuto quando ancora la sua salute non era peggiorata così tanto…
Aveva ideato un metodo con cui tracciare le lettere di una parola o di una frase con solo l’ausilio e la forza delle braccia.
Ma ora è diventato troppo debole. Ve lo ripeto: il Giudice non può rivelarvi null’altro.
È molto debole, fragile e malato ora.
Non crediamo resisterà un altro mese in vita – disse mestamente il sacerdote.
- Bene. Se è così, siamo costretti ad uccidervi entrambi – disse Gregory sfoderando la sua spada e puntandola sulla gola del sacerdote, il quale raggelò e iniziò a tremare.
- Aspettate! – esclamò il pover’uomo.
Charles sorrise di gusto. – Ora iniziamo a ragionare, prete.
- L’intero villaggio l’ha visto in faccia durante la sua falsa esecuzione!
In molti saprebbero descriverlo!
In particolar modo… ho saputo che il ragazzo ha ricevuto ospitalità da una famiglia.
Loro potranno sicuramente dirvi tutto quello che volete sapere su di lui! – pronunciò velocemente il sacerdote, deglutendo visibilmente e sudando freddo.
 Charles si scambiò una veloce occhiata con i suoi uomini.
- Fateci portare da questa famiglia.
 
Quel pomeriggio Gerda si stava preparando per portare i funghi a sciacquare al ruscello.
Bussarono alla porta inaspettatamente mentre la bambina era impegnata a togliersi il grembiule.
- Gerda, cara, va’ ad aprire! – esclamò sua madre dall’altra stanza.
La piccola obbedì, non potendo minimamente immaginare chi si sarebbe trovata dinnanzi una volta aperto.
- Buongiorno, signorina – la salutò un soldato ponendo un piede tra la porta e lo stipite, sorridendole a trentadue denti. – Non ci fate entrare, bambolina?
A ciò, la piccola abbassò lo sguardo e fece entrare la dozzina di soldati che attendevano dietro l’uscio, non potendo fare altro.
Un brutto presentimento le formò un groppo in gola.
- Gerda, chi- Selen si bloccò, facendo cadere a terra le tegole che aveva tra le mani non appena giunse in soggiorno e posò gli occhi su quelle nuove, estranee e sgradite presenze.
Stranieri. Tronfi, arroganti, impertinenti, abituati ad avere tutto e subito.
Selen riuscì a leggere tutto ciò dai loro occhi.
Posò lo sguardo su sua figlia, e sulla mano grande che uno dei soldati aveva posato sulla sua minuta spalla.
Il sangue le ribollì nelle vene ma si impose di restare calma.
- Ci rincresce disturbarvi senza preavviso, ma si tratta di un’emergenza, Selen. Vi chiamate così, non è vero? – le domandò Charles avvicinandosele. – Il sacerdote nella casa del Giudice ci ha detto di rivolgerci a voi per una questione di fondamentale importanza.
Selen deglutì e posò un altro veloce sguardo su sua figlia, per poi tornare a guardare l’uomo. – Che cosa desiderate da un’umile madre di famiglia come me? – domandò loro.
- Qualche mese fa, avete dato ospitalità ad un giovane straniero.
Selen pietrificò e vide il volto di Gerda alzarsi improvvisamente verso l’alto, per fissare il soldato.
- Sì – confermò.
- Avremmo bisogno di sapere qualcosa su di lui – disse Charles accomodandosi su una sedia, accavallando le gambe e prendendo a mordere una mela che trovò nel cesto di frutta sopra il tavolo.
- Per quale motivo? – ebbe il coraggio di domandare la donna.
- Non avete bisogno di saperlo.
- Cosa volete sapere su di lui?
- Innanzitutto il suo nome.
Gerda supplicò sua madre a distanza con lo sguardo, di non dire una parola a quegli uomini.
Austen sarebbe tornato a breve dalla caccia, perciò sarebbe potuto andare loro in soccorso.
Tuttavia, la mano di quel soldato non accennava ad allontanarsi dalla spalla della bambina.
- Dunque? Non abbiamo tutto il giorno – insistette Charles.
- Mia madre non vi dirà nulla! – si impose la piccola, la quale venne immediatamente braccata dalle braccia di un soldato, il quale la strinse a sé, ma senza sfoderare la spada. – Combattiva, la piccola contadinella! Mi piace! Quanti anni hai, bambolina? – le domandò, volutamente provocante, Gregory. - Se tua mamma non ci fornisce le informazioni che ci servono, potremmo anche pensare di tenerti con noi, passerotto. Che ne dici? Ti andrebbe di-
- Blake! – esclamò Selen guardando supplicante il soldato che teneva stretta sua figlia. – Il suo nome era Blake!! Vi prego, lasciatela andare!
Gerda si dimenò, sconfitta, mentre Charles sorrise trionfante. – Bene. Abbiamo un nome, compagni.
- Vi ho detto quel che volevate sapere, ora lasciate andare mia figlia, in nome di Dio!
Ma il soldato continuava a tenere stretta la piccola.
- Non ci basta, Selen. Non sappiamo quanti altri giovani uomini portino il nome di “Blake” a Bliaint. Vogliamo sapere altro.
- Vi assicuro che è un nome poco comune da queste parti! Lasciatela andare, vi prego…
- Abbiamo bisogno di una descrizione fisica, cara Selen. Avanti, non può essere così difficile per voi. Cosa vi lega a questo sconosciuto?
- Madre, non dire niente! Non dire niente, te ne prego! – urlò disperata Gerda, scalpitando tra le braccia del soldato, che se la rideva di gusto.
- Promettete che la lascerete andare?
- Ovviamente. Avanti, parlate.
- Era alto, aitante.
- Continuate.
Selen abbassò lo sguardo, udendo la voce di sua figlia implorarla di rimanere in silenzio, poco prima di continuare: - Aveva un aspetto distinto, inconsueto. Ma immagino che tutti, nel villaggio da cui proviene, abbiano un aspetto che a noi sembra inconsueto e incantatore.
Era un ragazzo di massimo diciassette o diciotto anni, un giovane a dir poco bellissimo.
Gregory ghignò platealmente in direzione della donna. – Non siamo venuti qui per sapere quante volte avreste desiderato infilarvi nel suo letto a gambe aperte – le disse, facendola imporporare di rabbia e vergogna.
- Sappiamo già che i famosi figli del Diavolo di Bliaint sono tutti straordinariamente belli – intervenne Charles, con più delicatezza. – Ciò che ci serve è una descrizione fisica, quanto più accurata possibile.
- Grandi occhi blu, zigomi alti, lineamenti intagliati, sofisticati, e tanti, tantissimi capelli castani – disse la donna, tutto d’un fiato. – Ora avete la vostra descrizione. Posso riavere mia figlia?
Charles sorrise. – Sapete, ora che abbiamo ottenuto ciò che vogliamo, possiamo rilassarci e prenderci del tempo da trascorrere qui. Non ci corre dietro nessuno. Inoltre, ci meritiamo di certo un po’ di riposo e divertimento dopo le estenuanti settimane di viaggio compiute.
Selen raggelò, specialmente quando Gregory accarezzò una guancia di Gerda, la quale, dal canto suo, iniziò ad urlare adirata. – Che cosa volete da lui?! Che cosa volete fargli?? Che cosa??
- Oh, povera piccola.. qualcuno sembra essersi affezionata a quel ragazzo.
Gerda pianse, prendendo a pugni le gambe del cavaliere. – Lui è sempre stato buono con me! È sempre stato buono… cosa volete da lui??
- Non preoccuparti, bambolina, non gli faremo nulla di male – le rispose lui carezzandole una guancia.
Selen iniziò a piangere. – Vi prego… vi scongiuro, in nome di Dio… Gerda è solo una bambina… ci sono tante giovani donne più mature in questo villaggio… vi prego, lasciatela andare…
- Infatti, abbiamo intenzione di andare a prendere anche tutte le altre – le disse Charles allargandosi in un ghignante sorriso. – Per vostra fortuna… le bambine non ci piacciono. Le preferiamo un po’ più grandi – e non appena pronunciò quelle parole, il cavaliere lasciò andare Gerda.
- Come voi, ad esempio, Selen – aggiunse poi Charles artigliando il bacino della donna e trascinandola a sé, non lasciandole neanche il tempo di esultare per aver liberato sua figlia.
Selen sbiancò, puntando le mani sul petto dell’uomo. – Sono sposata… - bisbigliò terrorizzata.
- Ora non più.
Uomini! Fatevi un giro per questo grazioso villaggio, saccheggiate tutto ciò che potete e prendete con voi tutte le donne che trovate!
Saranno lunghe giornate rigeneranti, quelle che ci aspettano a Carbrey!


 
Era quasi mezzogiorno quando Lilibeth bussò alla porta dell’abitazione situata nella palude, con animo tutt’altro che rilassato: quell’“invito” improvviso l’aveva resa inquieta. Sapeva dove si trovasse la dimora di Imogene, ma non vi si era mai recata di persona.
Dopo qualche secondo, la sciamana bionda aprì la porta, facendola entrare.
- Allora? A cosa devo la richiesta di venire qui, questa mattina? – domandò la giovane strega, guardandosi intorno.
Ai suoi occhi apparve immediatamente la sagoma di una donna, serva del Diavolo anch’essa, inginocchiata a terra, intenta a pregare convulsamente e a farsi il segno della croce al contrario a ripetizione, totalmente piegata sul corpicino di un bambino dai capelli chiari come sabbia bianca, disteso su una pelliccia.
- Che diavolo succede qui?? – domandò confusa, posando poi lo sguardo su Imogene.
- Lei è mia cugina: Alma Heloisa.
- Non credevo avessi parenti ancora in vita. Cosa ci fa qui e cosa sta facendo? Chi è il bambino?
- Ephram non ti ha detto nulla di ciò che sta accadendo al villaggio? So che vivi confinata nel bosco, nella dimora di voi stregoni eremiti, ma pensavo che almeno lui vi aggiornasse su ciò che accade.
- Sì, mi ha detto che una donna è stata accusata di assassinio, perpetrato sul marito. Non ci ha detto altro e io, personalmente, non ho fatto domande. Dunque, è lei?
Imogene annuì. – La sto nascondendo io. Ma tu, tu dovrai giurarmi sulle antiche streghe e sul Diavolo che non ne farai parola con Ephram! Se scoprirò che glielo hai detto, farò in modo che sarà l’ultima cosa che avrai fatto – si raccomandò.
- Non c’è bisogno di alcuna minaccia, Imogene. Vediamo Ephram una volta ogni cinque giorni, se tutto va bene. Passa più tempo al villaggio che alla nostra dimora – la tranquillizzò. – Allora? Vuoi dirmi perché tua cugina piange e chi è il bambino che sembra morto ai suoi piedi?
- Non è morto!!! – si elevò l’urlo sordo di Heloisa, la quale fece scattare lo sguardo adirato e distrutto dalle lacrime sulla nuova arrivata, a distanza. – Non è morto!! Non è morto… non osate dirlo mai più!
- Cugina, lei è qui per aiutarci – la riprese Imogene avvicinandosi a lei, restando in piedi.
- Aiutarci…? E come potrebbe mai aiutarci…?! – rispose devastata la mora, coprendosi il viso con le mani e riprendendo a disperarsi. – È finita… ora è davvero finita…
- Volete spiegarmi cosa sta succedendo, nel nome del Diavolo? – si lamentò Lilibeth avvicinandosi a sua volta, sul punto di spazientirsi.
- Quello che giace a terra svenuto, preda di un tremendo malanno che lo fa soffrire terribilmente, è il figlio di Heloisa – spiegò mestamente Imogene.
- Cos’ha?
- Ha sempre sofferto di una grave malattia che l’ha reso fragile come il gambo di un fiore… - spiegò con voce grave Heloisa, restando a fissare il suo bambino, stringendogli la piccola mano bianca tra le sue. – Non vi è mai stata una cura. Pensavamo di aver sconfitto il malanno, da quando l’altro mio figlio gli ha fatto dono del ciondolo che porta al collo… - continuò, sfiorando il ciondolo di mandragora che Ioan indossava ancora. – Da quel giorno… ha iniziato a stare meglio, a migliorare a vista d’occhio. Pensavamo di esserci riusciti, di aver sconfitto la malattia… e invece… proprio l’altra sera, il mio Ioan ha iniziato a stare male, è stato colpito da una violenta febbre … ora presenta gli stessi sintomi che ha sempre manifestato fin da piccolo, ma dieci volte peggiori… non sappiamo cosa fare…
- Per questo ti ho chiamata – aggiunse Imogene, guadagnandosi lo sguardo allibito di Lilibeth.
- Mi avete preso per una strega guaritrice per caso?! La sciamana sei tu, Imogene. Non dovresti essere tu quella a sapere come guarirlo?
- Ci ho provato. Ho passato molto tempo qui negli ultimi giorni, ho cercato di aiutarlo .. – ammise la bionda. – Ho tentato sortilegi e incantesimi guaritori, ma non funziona nulla… Se fosse stato un malanno normale, avrebbero funzionato. Il suo stato, molto più grave rispetto a prima, è anomalo. Neanche la mia magia riesce a lenirlo.
- Il ciondolo che l’ha fatto migliorare… cosa c’è dentro? – domandò Lilibeth.
- Ho il sospetto che suo fratello abbia usato la mandragora per guarirlo… - pronunciò Imogene, facendo sbiancare Lilibeth, la quale non credette alle sue orecchie.
- Mandragora… parli sul serio?! Quella mandragora??
L’ultima volta che ho visto una mandragora è stato quando Beitris si è dovuta recare molto lontano da qui, per trovarla, per Myriam.
Ma nel caso di Myriam non ha funzionato, è stato tutto inutile, e ha provocato gravi danni irreparabili.
Quella pianta è immensamente pericolosa… come diavolo ha fatto a procurarsene una??? Non è possibile che ve ne siano qui a Bliaint!
- E se fosse riuscito a recuperare la stessa mandragora che avete usato voi? – ipotizzò Imogene. – L’avete seppellita da qualche parte dopo l’utilizzo fallimentare, giusto?
- Sì, ma-
- Allora deve averla disseppellita e utilizzata a sua volta! Ora si spiega tutto. Ecco perché Ioan sta peggio di prima: le mandragore morte sono persino più pericolose di quelle vive, funzionano diversamente, sono in grado di darti tutto, e di toglierti ancor di più. Le mandragore morte prosciugano le energie vitali e se ne nutrono. Possono compiere miracoli fin quando le tieni vicine e permetti loro di nutrirsi di te, come farebbero dei parassiti… ma quando non hanno più nulla da rubarti… - si bloccò Imogene, sposando lo sguardo atterrito sul piccolo Ioan. – … non ti lasciano più niente. 
Heloisa pianse ancor di più.
- Come diavolo ha fatto vostro figlio a servirsi di una mandragora morta e a utilizzarla come una qualsiasi medicina…? – domandò sconcertata Lilibeth.
A ciò, Heloisa scoppiò in una nervosa e disperata risata, prima di rispondere a pieni polmoni. – Oh, voi non avete neanche idea di cosa sia capace quel demonio di mio figlio!
- Usandola per creare quel ciondolo ha corso un immenso rischio lui stesso. Possibile che non abbia preso in considerazione le conseguenze delle sue azioni? – le domandò la sciamana.
- Imogene, è di Blake che stiamo parlando! Con lui tutto è possibile! Ha sempre desiderato con ogni fibra del suo essere trovare una cura per guarire suo fratello! E non appena l’ha trovata, l’ha usata immediatamente senza pensare a nulla!
Lilibeth sgranò gli occhi. – Voi siete la madre di Blake…?
- Chissà perché, non sono sorpresa che lo conosciate… è sempre stato invischiato in faccende insidiose e oscure da cui mi ha sempre lasciato fuori – commentò Heloisa, sfinita.
- Se le condizioni di Ioan erano così gravi già da prima… se Blake non avesse fatto ciò che ha fatto per tentare di salvare suo fratello… ora vostro figlio sarebbe già morto, suppongo.
Quindi smettete di lamentarvi di ciò che ha fatto – disse seccamente Lilibeth.
- Non permettetevi di dirmi come dovrei reagire dinnanzi alla sofferenza di uno dei miei figli, e dell’incoscienza dell’altro.
- Ad ogni modo, non so che genere di aiuto potrei darvi.
Potrei provare a dare un’occhiata ad alcuni scritti che abbiamo alla dimora, ma se nemmeno la magia di Imogene è riuscita a farlo stare meglio…
Forse, l’unico modo per evitargli una morte certa è usare un’altra mandragora. Viva, questa volta.
O magari Blake potrebbe sapere come fare. L’ha già guarito una volta, potrebbe farlo di nuovo, potrebbe avere in mente qualcosa!
Per quale motivo non vi siete già rivolte a lui?
- No! – esclamò concitatamente Heloisa.
Imogene sospirò pesantemente. – Ho provato anche io a suggerire questa soluzione. È stata la prima che ho suggerito, in realtà, ma non c’è verso: Heloisa non vuole fargli sapere nulla.
- Per quale motivo…?
- Sono certa che Blake mi voglia già morta per averglielo portato via… per averlo rapito senza il suo consenso. Avete una minima idea di come reagirebbe se dovesse scoprire che, mentre era sotto la mia responsabilità, Ioan si è riammalato di nuovo??
Mi ucciderebbe. Blake non deve saperlo.
Lilibeth le rivolse un sorriso di scherno, disgustato. – Sareste disposta a veder morire il vostro figlio minore… pur di non far adirare o deludere il maggiore…?
Che razza di madre siete?
Non dovrebbe essere più importante la salvezza di Ioan, piuttosto che la paura di venire odiata e disprezzata da Blake?
Heloisa smise di piangere e abbassò il volto. Carezzò ancora il braccio nudo di Ioan, emettendo un flebile e sfinito sorriso. – Avete ragione. Non merito di essere chiamata “madre”. Eppure, nessuna donna nasce madre. La mia non lo è nata. Io, invece, ho fatto di tutto per esserlo, nel modo giusto.
Non mi importa non essere compresa, venire giudicata aspramente da voi.
Voglio riuscirci da sola, con le mie forze, senza Blake.
Imogene fissò sua cugina in silenzio, poco prima di parlare:
- È proprio vero ciò che gli antichi dicono: una madre non amerà mai il figlio che la ama di più, quanto amerà quello che la disprezza e la rinnega.
 
Myriam era nella sua stanza, impegnata a scrivere l’epitaffio funebre.
Improvvisamente, la lama affilata di una preziosa daga si posò sulla sua gola, premendo pericolosamente la carne soffice.
La strega non fece una piega, non emise una smorfia, né fece un movimento, imponendosi di rimanere calma.
Riconosceva vagamente il profumo e il tocco della fanciulla alle sue spalle, che le stava puntando quella lama alla gola.
- Azzardatevi a fare uno dei vostri trucchetti magici, e avrete la gola recisa da parte a parte in meno di un secondo – pronunciò la voce fredda e addolorata di Judith. – Non ho paura di farlo, dopo tutto ciò che ho vissuto da questa mattina – sputò gelida. – Ora mi direte tutto ciò che voglio sapere su questa faccenda. TUTTO. Per filo e per segno. Mi avete udita? – domandò premendo dolorosamente la daga sulla giugulare della donna, la quale emise una lieve smorfia di dolore.
- Come sapete che io c’entri qualcosa? – ebbe il coraggio di domandarle la strega.
Era in trappola, lo sapeva.
Judith era intuitiva e intelligente.
Non poteva neanche sperare in un intervento tempestivo di Imogene a salvarla dall’ira della rossa, in quanto la sciamana sembrava essere quasi scomparsa dalla circolazione da qualche giorno.
Dunque era sola. Sola con una ragazza infuriata, addolorata e senza scrupoli.
Doveva dirle tutto ciò che voleva sapere. Non aveva altra scelta.
Sapeva che Judith non ne avrebbe fatto parola con nessuno, se l’avesse persuasa con le giuste motivazioni.
Gli eventi di quella mattinata erano stati troppo frenetici e assurdi da poter passare inosservati agli occhi del villaggio, specialmente ad una persona tanto coinvolta e legata emotivamente alla vittima della tragedia.
- Non prendetemi per una ragazzina sprovveduta e sciocca, strega – rispose Judith. – È stato da quando mi sono risvegliata dall’amnesia e ho scoperto che padre Cliamon soffrisse di una misteriosa “malattia” che lo faceva soffrire terribilmente solo un giorno a settimana, casualmente  sempre lo stesso; mentre voi eravate sempre inspiegabilmente vicino alla porta della sua stanza quando accadeva.
Dunque, Myriam, ora fareste meglio a dirmi tutto ciò che sapete su questa storia, prima che io perda la pazienza.
Ho già versato abbastanza lacrime qualche ora fa, quando, appena alzata dal letto, ho intravisto un uomo entrare dentro la stanza di padre Cliamon e ucciderlo a sangue freddo, senza che io potessi fare nulla per impedirlo.
E quando sono corsa dietro all’uomo e ho tentato di fermarlo, questi si è bloccato, mi ha guardata come se stesse guardando un fantasma, poi ha notato la sua immagine riflessa su uno specchio, ha urlato terribilmente, ha iniziato a piangere ed è scappato via.
- Sarà una storia lunga, Judith – la avvertì. – Siete certa di volerla ascoltare?
- Ho appena perso l’uomo che mi ha cresciuta e che mi ha amata come una figlia per diciassette anni – pronunciò con voce vuota, devastata, continuando a premere la lama sulla sua gola. – Scoprire chi, cosa lo abbia ucciso e perché, è il minimo.
- Da cosa volete che parta?
- Da questa – disse, gettando una lettera stropicciata sopra il tavolino dinnanzi cui era seduta Myriam. Questa la prese in mano, stando attenta a non compiere troppi movimenti che potessero far sospingere quella lama più in profondità nella propria gola, e iniziò a leggerla.
Era la calligrafia di padre Cliamon:
“Carissima bambina,
non vi sono parole per descriverti quanto ti ho amata in questi lunghi, ma sempre sin troppo brevi, anni.
Sei stata un dono, una luce, un sole inestinguibile nella mia vita.
Ti ho voluto bene e ti ho amata infinitamente, al pari di quanto abbia amato i piccoli Maroine e Maringlen di cui, purtroppo, non hai più memoria, e chi mi mancano molto.
Per tale motivo ho voluto scriverti un’ultima volta, per confessarti i peccati che ho commesso, in una vita non degna di essere vissuta.
La mia anima è indegna.
Il mio spirito macchiato.
Per tale motivo, ti avverto della mia imminente morte.
Se stai leggendo questa lettera, è perché sono già stato ucciso.
Domani mattina qualcuno verrà ad assassinarmi nella mia stanza, e, dopo che ciò sarà avvenuto, tu troverai la mia lettera sopra il tavolo della mia stanza. E troverai anche il mio corpo.
Non voglio che tu stia troppo male per me, piccola cara.
Non potresti comunque fare nulla per impedire ciò che avverrà.
Non è colpa tua, né di nessun altro, solo mia.
Io sono il nemico di me stesso.
L’unica cosa che rimpiango… è di non poter vivere abbastanza per veder nascere la splendida creatura che porti in grembo.
Abbi cura di te e del tuo bambino, mia luminosa Judith.
Meriti tutto il bene del mondo.
Vivi la tua vita e non soffrire per me, figlia mia.
Trova la tua pace.
                                                                                                           Con immenso amore, Cliamon”
Myriam terminò di leggere la lettera e affilò lo sguardo.
- Dunque?? – arrivò pretenziosa e puntuale la voce lapidaria di Judith, dietro di lei.
- Ci credereste, se vi dicessi che padre Cliamon non è davvero morto, e che questa è una falsa lettera di addio, scritta esclusivamente per rassegnarsi all’idea di non vedervi più? – le domandò improvvisamente, sconcertandola.
- Fareste meglio a spiegarvi. Ora.
- Ciò che è accaduto a Cliamon è connesso a me, avete ragione.
Ma non sono io la causa del suo male diretto.
Egli ha ragione: è lui stesso ad essere giunto a questo punto.
Quello di padre Cliamon è stato un suicidio, simulato in un assassinio.
- Dove volete arrivare…?
- Io lo odio.
Lo odio da quando ho scoperto che è stato lui il monaco che ha dato l’ordine di uccidere mia madre, molti anni fa.
Da quel giorno, non ho fatto altro che desiderare di farlo soffrire, terribilmente ed eternamente, di una sofferenza peggiore della morte stessa.
All’inizio ho provato a togliergli la cosa più importante che aveva, minacciando la vita dei due gemellini, Maroine e Maringlen.
Poi, la mia coscienza ha avuto la meglio per una volta, e ho deciso di risparmiare la vita di quei ragazzini, perché, nonostante non voglia ammetterlo, li ho cresciuti.
Allora ho deciso di optare per qualcos’altro.
Un giorno ho scoperto il punto debole di padre Cliamon e tutto ciò che ho fatto da allora, è stato sfruttarlo a mio vantaggio, per condurlo alla rovina: la vanità.
Gli ho proposto un patto: io gli avrei fatto passare un giorno ogni sette dentro il corpo di un servo del Diavolo a sua scelta, tramite un incantesimo di scambio-corpi, e lui, in cambio, avrebbe fatto del male o ucciso due persone che odio visceralmente.
Il motivo per cui siamo riusciti a portare avanti tutto ciò per tutto questo tempo, risiede nel fatto che il ragazzo a cui è stato rubato il corpo, il giorno dopo non ha mai ricordato nulla di quello che è avvenuto il giorno precedente. Cancellazione dei ricordi. Dovreste ben sapere cosa si prova. A non ricordarsi qualcosa di fondamentale importanza, nell’avvertire una tale mancanza dentro di voi, un vuoto incolmabile… come se qualcun altro abbia vissuto una vita destinata a voi, vostra di diritto, relegandovi dentro una cella buia nell’attesa.
Per tale motivo dovevo rinchiudere padre Cliamon dentro la sua stanza, ogni volta che accadeva: perché quello che rinchiudevo non era padre Cliamon, bensì il servo del Diavolo di cui egli abitava il bel corpo abusivamente.
Intanto, il vostro padre acquisito viveva la sua bella vita nel corpo del ragazzo-strige, godendo delle sue sembianze, facendo letteralmente tutto ciò che desiderava dentro di lui.
Egoismo, apatia, vanità allo stato puro, animale.
Questo è ciò che è sempre stato quel monaco: un lupo travestito da agnello.
In merito a ciò che è accaduto questa mattina, invece… da dove cominciare?
Nessuno era a conoscenza di tutto quello che vi sto dicendo, ma, inevitabilmente, il ragazzo-strige, Folker, si è accorto di soffrire di buchi di memoria e ha iniziato a porsi delle domande, parlandone a qualcuno.
Qualcuno che, a quanto pare, avrebbe fatto davvero di tutto per aiutarlo.
Ambrose, un servo del Creatore molto affezionato a Folker, e innamorato di lui, ha scoperto tutto ed è venuto a rivolgersi a me direttamente.
Il suo ardore mi ha colpito.
Ho deciso di aiutarlo, così abbiamo ideato un piano insieme.
Io ero cosciente di quale sarebbe stata la prossima mossa di Cliamon non appena si fosse riappropriato del corpo di Folker: uccidere il suo corpo reale, con Folker dentro, in modo da sbarazzarsi per sempre delle sue fattezze mostruose, e del ragazzo contemporaneamente, così da passare il resto della sua vita nei panni del giovane servo del Diavolo. Sono stata io stessa a dirgli che fosse possibile fare una cosa simile.
Il suo egoismo e la sua smania si sono spinte sino a tal punto… da rubare il corpo e la vita di qualcun altro, da uccidere a sangue freddo un ragazzo innocente, da rinnegare per sempre il proprio corpo.
Il corpo del Creatore. Un atto persino blasfemo, sotto questo punto di vista.
Ho deciso di evitare che accadesse, che Cliamon l’avesse vinta.
Avrei potuto semplicemente smettere di farlo risvegliare nel corpo di Folker, e farla finita; ma in tal modo sarebbe semplicemente tornato alla vita di prima, ad essere amato e rispettato da tutti, e non era ciò che volevo.
Volevo fargliela pagare amaramente, farlo soffrire e disperare per il resto dei suoi giorni. Così ho aiutato Ambrose ad ingannarlo.
Questa mattina, il giorno settimanale dello scambio, ho fatto risvegliare padre Cliamon in un corpo diverso da quello di Folker, senza avvertirlo. Un corpo che, furbescamente, mi sono assicurata fosse all’aperto, in un prato incolto.
Ma per padre Cliamon non è stato strano, in quanto è capitato altre volte che Folker passasse la notte all’esterno, o in luoghi che non erano casa sua.
Senza farsi domande, né disturbarsi a trovare uno specchio per specchiarsi, si è subito diretto verso la sua meta, proprio come aveva progettato: d’altronde aveva persino scritto questa lettera per voi ieri sera, l’unico legame rimastogli col suo vecchio corpo, poiché sapeva cosa avrebbe compiuto l’indomani mattina.
Lo progettava da settimane. E io lo sapevo.
Dunque, col suo corpo nuovo, che credeva essere quello di Folker, si è recato qui, all’alba, e ha assassinato il suo corpo d’appartenenza.
Ciò che non aveva messo in conto, era che voi foste già sveglia e osservaste tutta la scena, ovviamente.
Sperava di risparmiarvi tale dolore.
Ad ogni modo, avete detto di aver visto un servo del Creatore uccidere padre Cliamon questa mattina, giusto?
- Esatto.
- Bene. Questo è il fulcro dell’inganno ideato da me e Ambrose: ho scambiato il suo corpo con quello di un servo del Creatore, malato e ubriacone.
Lui, non potendo minimamente sospettare dell’inganno, ha creduto di essere nel corpo di Folker, senza notare dettagli come l’assenza di forze o di riflessi, o altre piccole cose che avrebbero potuto suggerirgli di trovarsi in un corpo malaticcio e che ha passato la giovinezza.
Senza pensare, è giunto qui e ha compiuto il misfatto, senza guardare in faccia nessuno.
E solo dopo aver ucciso il se stesso corporeo… gli siete apparsa voi, come una furia, a cercare di fermarlo, e in quel momento si è guardato allo specchio…
E ha scoperto che la sua immagine riflessa non fosse quella bellissima di Folker, bensì una persino più deprecabile, disprezzabile e orrenda del suo corpo di nascita.
Ora Cliamon è destinato a vivere tutta la vita dentro un altro servo del Creatore, gravemente malato e prossimo alla vecchiaia, emarginato dalla società e povero fino al midollo; rimpiangendo per tutta la vita il suo misfatto, i suoi peccati e le gioie provate nel corpo del ragazzo-strige.
Vivrà il resto dei suoi giorni nel risentimento, nel rimorso, nel raccapriccio.
E non avrà neanche più voi.
Proprio ciò che desideravo fin dal principio.
Ed ora, anche il ragazzo-strige è libero, libero di riavere il suo corpo, sempre, e di servirsene come vuole.
L’unica pecca in tutto ciò… è che i monaci non si arrenderanno e saranno decisi a trovare il colpevole dell’assassinio di Cliamon, il quale verrà ricordato sempre come un santo, un uomo onorevole.
Deve essere ricordato così. Nessun altro deve scoprire tutto quello che vi ho narrato.
Se si scoprisse… pensate allo sgomento del popolo, alle rivolte che ne verrebbero fuori, alla sfiducia ulteriore che alimenterebbe nei popolani, nei confronti del clero?
Dovranno continuare tutti a credere che si tratti di un omicidio misterioso e inspiegabile.
In tal modo, i monaci si arrenderanno nella ricerca del colpevole, e se ne faranno una ragione.
Il colpevole non deve essere trovato.
Se padre Cliamon, nei panni del suo stesso assassino, venisse trovato e giustiziato, tutto ciò non sarebbe servito a niente: lui deve continuare a vivere e a soffrire.
Non vi preoccupate riguardo quello che potrebbe fare ora. Riconosco che gli uomini invasi dalla sofferenza e senza più un briciolo di coscienza come lui, potrebbero arrivare a compiere delle indicibili stragi. Ma lo terrò d’occhio io ed eviterò che faccia qualsiasi cosa. Il suo stato di salute di certo non lo aiuta, ad ogni modo.
Terminato il racconto, Myriam attese che Judith facesse o dicesse qualsiasi cosa.
Ma non arrivò alcuna reazione.
La ragazza rimase ferma, immobile, con la lama ancora premuta sulla sua gola.
Dopo dieci minuti interi di silenzio e immobilità, Myriam riprese la parola.
- Judith?
- Avete ucciso un uomo innocente – disse improvvisamente la rossa, con voce fredda e giudicante. – Non importa che sia stato un ubriacone e buono a nulla, avete comunque ucciso un uomo senza scrupoli, pur di ottenere la vostra perversa, torbida e becera vendetta.
- Cosa volete fare, in merito? Uccidermi? Non vi conviene. Oramai manca poco: tra qualche giorno, verrò riconosciuta ufficiosamente come monaca. La prima monaca del Diavolo dopo la ribellione – tentò, non del tutto certa che ciò potesse convincere Judith a mettere via quella lama, che le stava facendo scendere piccoli rivoletti di sangue dalla gola, i quali le bagnarono la tunica.
Judith sospirò pesantemente dietro di lei.
Le aveva detto tutto.
Tutto ciò che voleva sapere.
E, giustamente, la ragazza doveva essere a dir poco sconvolta. Sempre che credesse alle sue parole.
Ripose l’arma nel fodero e permise a Myriam di voltarsi verso di lei.
Il bel volto della rossa era una maschera di sale.
- Ditemi dove abita l’uomo di cui il corpo è posseduto da Cliamon – disse semplicemente.
 
Il ragazzo era seduto sul davanzale della finestra, immerso nei pensieri.
Era stanco, spossato, dolorante per tutte le sessioni di purificazione a cui i monaci lo stavano sottoponendo quotidianamente.
Da cinque erano diventate dieci al giorno.
Centinaia di frustate a schiena nuda, dieci tentativi di affogamento.
Il suo corpo era svilito, nell’anima e nella carne.
Fece ricadere la testa sullo stipite dietro di sé, osservando con occhi vuoti il freddo paesaggio scuro davanti ai suoi occhi.
In quel momento, Bridgette si stava sposando. Lontano da lui. Con qualcuno che non era lui.
Il pensiero gli fece più male di quanto si aspettasse e il cuore iniziò a dolergli.
Era rimasto solo. Solo al mondo.
Per qualche motivo, la presenza di Ambrose al suo fianco non riusciva a confortarlo.
Il suo amico era una roccia salda per lui, ma nemmeno lui avrebbe potuto evitare che il villaggio lo rigettasse e lo trattasse come un rifiuto umano, come un mostro.
Ed ora, non solo era visto come un’abominevole creatura succhia-sangue, ma anche come una puttana, per colpa di quel monaco che gli stava rubando a poco a poco pezzi di sé.
Suo padre non gli rivolgeva più la parola. Sua madre lo guardava sempre con sguardo afflitto e angosciato.
Mai desiderò tanto come in quel momento, di trovarsi sotto la Taverna, a combattere nella Congrega.
L’unico modo in cui sarebbe riuscito a sfogarsi, a ritrovare il suo equilibrio, la sua calma interiore: picchiare.
Colpire, picchiare, difendersi.
Chiuse gli occhi, e ripensò all’unica persona che, un tempo, era in grado di farlo sorridere genuinamente:
Volteggiava con il suo vestitino perennemente sporco di qualcosa, che fosse di erba, di terra, di concime o di cibo.
Volteggiava e saltava, come un ibrido tra un grillo e una farfalla.
Aveva lunghi capelli ondulati, che finivano sempre da tutte le parti.
- Cantami qualcosa… - gli sussurrava Bonnie. – Prendi la lira e cantami qualcosa, Dietrich.
E allora lui obbediva e iniziava a suonare. E a cantare. Solo per lei.
E la bambina ballava e volteggiava, ballava e volteggiava, ballava e volteggiava.
E rideva, guardandolo.
- Cantami qualcosa anche per addormentarmi, in modo che io faccia bei sogni…
Il suo dolce flusso di ricordi venne interrotto dal bussare alla porta.
Scese dal davanzale della sua camera e andò ad aprire, trovandosi davanti l’imponente figura dell’amico dinnanzi alla porta, con un sorriso enorme ad illuminargli il viso.
- Ambrose – lo accolse, non riuscendo a risultare minimamente più gioviale, facendolo entrare in stanza.
Ambrose sembrò non farci caso ed entrò.
- Ho una gloriosa notizia da darti – esordì.
- Che notizia?
- Nessuno ruberà più il tuo corpo, Folker!
Ce ne siamo liberati.
- Che cosa vuoi dire…?
- Ho trovato la strega con cui il monaco aveva fatto un patto.
L’ho convinta ad aiutarci e… avrai sentito la notizia, che questa mattina un monaco è stato assassinato nella sua stanza da un uomo misterioso.
- Sì, ho sentito.
- La strega l’ha fatto risvegliare nel corpo di un servo del Creatore, lui ha creduto di trovarsi nel tuo e per disfarsi per sempre del proprio corpo… è andato alla cattedrale e si è ucciso.
Cioè, l’ha ucciso, volevo dire.
Ora sarà costretto per sempre a vivere dentro il corpo di un altro servo del Creatore e non avrai mai più a che fare con lui.
Lo sguardo di Folker divenne affilato, deluso, ad un tratto. – Quindi… non è morto? – domandò.
Ambrose ammutolì, non aspettandosi una simile domanda. – No, non è morto, ma il corpo in cui si trova ora è malato e debole.
- Però è ancora vivo.
È questo che mi stai dicendo.
Di rinunciare al mio obiettivo di ucciderlo perché “ora non mi darà più fastidio”.
- Folker, sei libero, accidenti! Ora il tuo corpo è tuo e tuo soltanto! Ciò non conta nulla per te?
A ciò, il biondo si avvicinò a lui, guardandolo dritto negli occhi. – Nulla e nessuno cancellerà quello che lui mi ha fatto  in tutto questo tempo.
Neanche ciò che hai fatto per me lo cancellerà.
Mai dimenticherò.
Io lo voglio morto.
Morto, Ambrose.
Solo allora sarò libero.
- Folker, ragiona: ti conviene macchiarti di un crimine simile e rischiare il rogo nella tua già precaria posizione?
- Nella precaria posizione di strige, vuoi dire? La posizione in cui tu, solo tu, mi hai messo? – gli rinfacciò velenoso, non volendo davvero rispondergli in quel modo, ma non riuscendo a farne a meno.
Se davvero il mondo lo considerava un mostro, allora si sarebbe comportato da tale. D’altronde, gli veniva naturale.
Ambrose sembrò ferito, ferito dal proprio senso di colpa, a tale commento. – Folker, ti ho già detto mille volte che mi dispiace e che non lo avrei mai voluto. Se solo avessi saputo…
Ho tentato di rimediare in tutti i modi per averti messo in tale posizione, ma non ci sono riuscito.
Vuoi punirmi ancora per questo…?
Folker gli rivolse uno sguardo indefinibile. – I monaci non sapranno mai ciò che è davvero accaduto, vero? Non sapranno mai ciò che quell’uomo mi ha fatto.
- Con Myriam abbiamo ritenuto più sicuro e conveniente che non lo sapesse nessun-
- Se i monaci sapessero, sapessero cosa ho passato, forse… forse sarebbero più misericordiosi con me. Forse non mi sottoporrebbero a quelle dannate torture ogni giorno!!
- Folker, non possiamo farlo sapere… sarebbe un rischio – provò a farlo ragionare il moro, avvicinandosi a lui, tentando di poggiargli una mano sulla spalla.
Il biondo la scacciò via. – Non toccarmi! Non provare a toccarmi – disse, ponendo le braccia conserte e prendendo a fissare un punto indefinito, con le mascelle contratte.
- Folker… mi dispiace, davvero.
Voglio ucciderlo almeno quanto te, vorrei svergognarlo dinnanzi a tutti quanto te, ma…
- Come hai scoperto chi fosse la strega in combutta con lui? – gli domandò il biondo, cogliendolo in contropiede.
- Cosa?
- Ci hai parlato? Hai parlato col monaco mentre abitava il mio corpo, non è vero?
- Sì. L’ho scovato e l’ho convinto a dirmi tutto mentre era nel tuo corpo.
Folker si strinse la maglia talmente forte da squarciare il tessuto con le unghie.
- Ha provato a sedurti? – gli domandò con un fil di voce.
Ambrose deglutì. – Sì.
- E tu che cosa hai fatto?
- Ho capito che non eri tu e l’ho rifiutato.
- Se fossi stato io avresti rifiutato comunque?
- No – ammise sincero. – Anche se ti ho promesso che non ti avrei più toccato… se sapessi che tu vuoi la stessa cosa che voglio io, non mi tirerei indietro per niente al mondo – gli rispose serio, guardandolo dritto negli occhi, senza paura.
Folker lo scrutò, col suo sguardo svuotato e disilluso. – Lo hai rifiutato subito?
Ambrose esitò. Voleva essere sincero, ma al contempo nessuno lo avrebbe punito se non lo fosse stato.
Nemmeno il Creatore.
- Sì – mentì.
Folker lo guardò ancora, come indeciso se credergli o no.
Poi si accorse che non gli interessava.
Non gli importava se Ambrose lo avesse toccato senza il suo consenso, facendo di lui il pezzo di carne che era diventato negli ultimi mesi.
Un insieme di carne, sangue, nervi, cicatrici, dolore.
Questo era ciò che era.
Canta qualcosa per me, Dietrich…
- Dove abita l’uomo di cui il corpo è posseduto da Cliamon? – gli domandò serafico.
- Perché vuoi saperlo?
- Dimmelo, Ambrose.
Il moro ci provò a trattenersi, ma era impossibile.
Gli avrebbe detto di tutto, qualsiasi cosa avesse chiesto, il biondo non si sarebbe neanche dovuto impegnare a chiederglielo con la giusta intonazione.
Se era Folker a chiederglielo, gli avrebbe rivelato qualsiasi cosa, persino segreti innominabili.
- Vicino al bestiame della famiglia di Terry.. c’è una casa malridotta, interamente di legno. È là che vive.
- Torna a casa, Ambrose – gli disse infine, soddisfatto di aver ottenuto l’informazione che voleva. - Torna a casa.
- Che cosa vuoi fare…? Folker..
Il ragazzo non fece mistero di cosa stesse andando a fare, afferrando la corda che suo padre usava per andare a caccia e un pugnale con sé.
- Torna a casa. Ci vediamo domani.
Glielo disse con tutta la tenerezza possibile.
Detto ciò, uscì di casa sua e si diresse verso l’abitazione indicatagli, nel buio della sera.
Raggiunse la dimora dell’uomo in appena mezz’ora di cammino.
Aprì la porta di legno senza difficoltà, non vi fu neanche bisogno di forzarla.
Folker si aggirò nel buio della casa con passo felino, non emettendo alcun rumore.
Avanzò fin quando non si ritrovò dinnanzi la sagoma del servo del Creatore che stava abitando padre Cliamon, seduto su una sedia e immerso nel buio, nemmeno una candela accesa in tutta la casa.
Nonostante il buio, la luce della luna proveniente dalla finestrella illuminava parzialmente il volto dell’uomo. Definirlo aberrante sarebbe stato un complimento. La sua faccia tonda, unta, era cosparsa di piaghe, di verruche e di peli grigi, il suo corpo uno scheletro pelle ossa di pelle cadente.
- Sapevo saresti venuto – gli disse l’uomo, la voce roca e rassegnata al suo destino.
Folker non rispose ma restò a guardarlo, rimanendo in piedi.
- Se lo sapete, potete rendermi le cose più facili e avvicinarvi a me, per farvi mettere questa al collo - gli disse gelidamente il ragazzo, allungando il braccio e mostrandogli il cappio che aveva tra le mani, formato da lui durante il cammino.
Cliamon abbassò la testa e tirò fuori un piccolo pugnale dalla tasca. – L’istinto di sopravvivenza, malgrado la degenerante esistenza che mi aspetta… quello non me lo toglierà mai nessuno, Folker.
Difforme, respingente, respinto, intollerabile, un riflesso che romperebbe in mille pezzi qualsiasi specchio…
Non capisci? Non riesci a capire che la punizione peggiore e più crudele per me, è passare il resto dei miei anni in questa putrida e infernale sacca di sangue, dove la strega mi ha confinato? Se mi ucciderei porrai fine alle mie sofferenze e mi libererai del supplizio di vivere in quest’uomo, nel perenne rimorso e rimpianto…
Con una freddezza agghiacciante, Folker gli calciò la mano, facendogli cadere a terra il pugnale che impugnava debolmente.
Il calcio fu talmente forte che il polso dell’uomo si spezzò nel momento in cui entrò in contatto con la suola dello stivale del ragazzo.
Questi si avvicinò all’uomo, mentre egli urlava di dolore, e gli circondò la testa con il cappio stretto, con una naturalezza spaventosa, quasi come fosse un atto che compiva ogni giorno.
Dopo di che, lo trascinò verso il centro della stanzetta, un punto sopra il quale si ergeva una vecchia trave di legno, vecchia ma abbastanza resistente.
Lanciò l’estremità della corda verso l’alto, in modo da farla passare dall’altra parte della trave, poi afferrò l’estremità e si voltò verso Cliamon un’ultima volta, donandogli la visione del suo volto algido e incolore.
- Hai delle ultime parole, monaco? – gli domandò.
Questi lo guardò dritto in quelle due pozze di topazio che aveva tanto bramato e idolatrato, e che erano state sue.
- Non mi pento di niente – disse.
A ciò, senza esternare alcuna reazione, Folker cominciò a tirare, tirare, tirare, tirare.
Tirò con tutta la forza che aveva, fin quando i piedi dell’uomo non si staccarono da terra, rimanendo sospesi, agitandosi convulsamente come rami mossi da una bufera.
Al monaco, appeso per il collo, mancava il respiro. Cercava in tutti i modi di allentare la pressione che la corda ispida e strettissima esercitava sul suo collo, senza successo, portandolo lentamente al soffocamento.
Non fu un’impiccagione veloce e indolore, una di quelle in cui la caduta è talmente improvvisa e rovinosa da spezzare l’osso del collo.
No. L’osso del collo era ancora attaccato alla spina dorsale dell’uomo.
Fu un’impiccagione lenta, dolorosa, per soffocamento.
Folker resistette ancora, tirando la corda più che potesse e attendendo, attendendo che le gambe dell’uomo smettessero di muoversi e lui di combattere.
Cliamon tossì, restando appeso, ebbe conati di vomito, sbavò a grandi quantità e ringhiò, guaì, annaspò, come un animale.
Solo dopo diversi minuti i suoi polmoni cedettero, il suo volto si gonfiò e divenne borgogna e i suoi occhi piccoli e velati diventarono vitrei.
A ciò, ancora con la corda in tensione tra le mani, Folker si guardò intorno, trovò un tavolino ancorato a terra, e si accinse a legare l’estremità della corda ad una gamba del mobile, in modo che il vecchio restasse orribilmente appeso.
Dopo ciò, si spostò davanti a lui, per osservare il suo volto senza vita frontalmente.
Era la prima persona che uccideva.
Alzò gli occhi su quel corpo e provò un’incomparabile soddisfazione, l’infimo e dolce premio che offre la vendetta, talmente avido da durare solo una manciata di istanti: subito dopo, si sentì vuoto, deanimato.
Non bastava. Aveva posto fine alle sue sofferenze, gli aveva dato una morte veloce, e quel verme non aveva affatto pagato per ciò che gli aveva fatto.
Improvvisamente, si sentì ancor più distrutto e insoddisfatto di prima.
Solo dopo diversi minuti in cui fissò il corpo dell’uomo, si accorse di un’altra presenza dietro di sé.
Si voltò di scatto, e trovò la sagoma di Judith, dinnanzi alla porta spalancata della casa.
Non si era neanche disturbato a chiuderla quando era penetrato in quell’abitazione fatiscente, tanta era la fretta di ucciderlo. Tanta era la noncuranza verso il destino che gli sarebbe spettato se qualcuno lo avesse scoperto.
Improvvisamente, per un attimo, fu felice che Judith lo avesse visto, e desiderò che la fanciulla lo denunciasse ai monaci, e che lo giustiziassero.
Avrebbe finito di soffrire anche lui, in tal modo.
Restarono a guardarsi fissi, nel buio della notte, con solo la luna ad illuminarli.
Il volto di Judith era vuoto quanto il suo.
In pochi attimi, chissà come, fu tutto chiaro, ad entrambi.
Era come se fossero in grado di leggersi la mente a vicenda:
So tutto.
So quello che ti ha fatto.
Ti ho visto.
Non lo dirò a nessuno.
Hai già sofferto abbastanza.

Erano gli occhi neri e profondi di Judith a suggerirgli tutto ciò, senza emettere parola.
Eri venuta per dirgli addio?
Sei venuta troppo tardi.
La strega ti ha graziato, rivelandoti tutto?
Vorrei che lo dicessi a tutti.
Vorrei che tutti sappiano che tipo di persona fosse.
Vorrei che chiunque vedesse questo corpo appeso qui.
Furono gli occhi di Folker a rivelarle tutto quello che necessitava di sapere.
Nel guardare il viso della ragazza, a Folker tornò in mente il ricordo di quel bel volto riverso sulla base dell’altare, con la selvaggia chioma di capelli artificialmente bianchi completamente macchiati di sangue, la vestaglia candida a circondarle il corpo sensuale e il ventre gravido, in una posa innaturale.
Quella fanciulla gli aveva salvato la vita molte volte.
Lui aveva salvato la sua una sola volta.
Judith entrò nella casa e si avvicinò lentamente al corpo appeso, come in un solenne rito.
Alzò il volto verso l’alto, per guardarlo.
- Ha sofferto? – gli domandò semplicemente.
- Sì – rispose atono.
- Bene – disse lei. – Nessun altro ti ha visto. Fai ancora in tempo a scappare. Penseranno si tratti di un suicidio: quest’uomo era molto malato. Con Myriam me la vedrò io – gli promise. – Ora va’.
A ciò, il ragazzo obbedì, e come nauseato da quella casa oramai, dal mondo che lo circondava in generale, senza dire né fare altro, uscì di lì, e si diresse nuovamente verso la propria dimora.
Judith, rimasta sola col cadavere impiccato dell’uomo che l’aveva cresciuta e le aveva donato tutto l’amore di cui aveva avuto bisogno, allungò una mano guantata verso l’alto, carezzandogli una guancia ruvida, fredda e bagnata di lacrime e altri fluidi corporei.
- Possa tu marcire all’inferno per l’eternità, padre.
 
Tornato a casa sua, Folker aprì la porta della sua camera, trovandovi al suo interno la figura di Ambrose, il quale non si era mosso di lì.
Lo aveva aspettato per tutto il tempo, con una tremenda ansia a pervaderlo da capo a piedi, la preoccupazione a sfigurargli il volto burbero e buono.
Folker gli gettò un solo sguardo addosso, poi richiuse la porta dietro di sé, e si lasciò ricadere sulla superfice della porta, facendo aderire la schiena ad essa, sfinito.
Non era sorpreso di averlo ritrovato lì.
Sapeva, in cuor suo, che non se ne fosse andato.
Non lo avrebbe mai lasciato solo in un momento come quello.
Nella sua mente si materializzò il ricordo della prima volta che lo aveva visto, e sfidato, alla Congrega.
Il suo viso determinato, i suoi occhi scuri e accaniti, ma il suo sguardo fondamentalmente buono.
Mentre lui, lui gli aveva dimostrato sempre e solo disprezzo.
Disprezzo perché era adirato col mondo e perché Ambrose era un servo del Creatore.
Nessuno dei suoi amici aveva mai preso in considerazione l’idea di scambiare anche solo una parola con un servo del Creatore, e lui tanto meno.
L’odio reciproco che scorreva tra i ragazzi dei due culti era solido e tangibile.
Era in difetto. Era sempre stato in difetto nei suoi confronti, perché era sempre Folker il primo ad attaccare briga, il primo a picchiarlo, il primo ad aizzarlo, il primo ad essere ingiusto verso di lui.
E anche se Ambrose, involontariamente, lo aveva ripagato facendolo odiare dall’intero villaggio e portandolo alla pazzia a causa della questione della strige, ciò non reggeva il confronto con tutta la rabbia e l’odio che Folker aveva versato su di lui ai tempi della Congrega.
Se ne rese conto, lo realizzò mentre lo guardava a qualche metro di distanza, ancora con la schiena poggiata alla porta.
Ambrose, dal canto suo, non osava avvicinarglisi. Restava seduto sul letto, e lo guardava da lì.
La preoccupazione per ciò che l’amico aveva appena fatto, ma soprattutto la paura che qualcuno lo avesse visto, lo stava divorando dall’interno.
Lo fissava afflitto, allarmato, desiderando solo chiedergli come si sentisse, cosa aveva provato.
Cosa avesse provato nell’uccidere un uomo.
Se lo avesse fatto lui, il Creatore non l’avrebbe perdonato.
Invece, il Diavolo probabilmente avrebbe perdonato Folker, e ciò lo tranquillizzava.
Il Creatore non lo avrebbe perdonato neanche per il fatto che gli piacessero i ragazzi. Ma con ciò avrebbe fatto i conti quando sarebbe arrivato il momento di sposarsi con una donna.
Solo due candele illuminavano parzialmente la stanzetta, gettando ombre e chiaroscuri sui volti di entrambi, facendo apparire ancor più bello l’uno, e ancor più grottesco l’altro.
Folker si avvicinò al suo amico con passo lento.
Ambrose non si perse neanche un suo movimento.
- Com’è stato…? Com’è stato ucciderlo?
Folker lo guardò con un’espressione indefinibile. – Perché non sei tornato a casa come ti avevo detto?
- Perché volevo sapere come stessi.
Le parole di Bridgette gli tornarono in mente:
Devi comprendere cosa altro c’è nel tuo cuore e quali sentimenti ti legano a quel ragazzo
Cos’era Ambrose per lui?
Continuò a guardarlo, e nella sua testa apparve la stessa risposta di sempre:
Uno stupido servo del Creatore che, per qualche assurdo motivo, mi è devoto.
No, non un servo del Creatore. Oramai non era più in grado di vederlo solo così.
Era un ragazzo. Solo uno stupido ragazzo.
Uno stupido ragazzo che non meritava.
Uno stolto che meritava molto di meglio.
Uno stupido ragazzo che si sarebbe gettato tra le fiamme per lui.
Folker si sentiva vuoto, vuoto di tutto, e sapeva che la situazione non sarebbe mutata.
Ma se era libero… lo doveva solo ad Ambrose.
Quella sera prese una decisione.
Afferrò la mano grande e inerme dell’amico e se la poggiò sul fianco, sotto i vestiti, a contatto con la pelle nuda e liscia del bacino.
Ambrose pietrificò e si irrigidì. – Che significa…? – gli domandò in un fil di voce.
Folker mantenne quel suo sguardo algido, svuotato e distante, continuando a guardarlo. – Non è una ricompensa – gli disse. – Solo per una notte – aggiunse.
Fu a quel punto che gli occhi scuri dell’amico si spalancarono all’inverosimile, le pupille inghiottirono completamente le iridi.
Puoi avermi. Solo per una notte.
Non gli disse altro. Non fece alcun primo passo. Non ce ne fu bisogno.
Ambrose, come un assetato rimasto per cento giorni nel deserto, come un marito che non aveva visto per decenni la sua sposa, poggiò l’altra mano sul bacino del biondo e lo trascinò a sé.
Gli prese le cosce toniche con forza e al contempo delicatezza e gliele allargò, alzandolo su, per farlo sedere a cavalcioni sopra di sé.
Folker si lasciò fare tutto, guardandolo perso e distante.
Ambrose lo scrutò dal basso e si godette la vista di quel volto che ora aveva così vicino, consensualmente.
Bevve ogni dettaglio di quegli occhi grandi e liquidi, di quelle labbra piene, di quei capelli lunghi, morbidi e chiari.
Non poteva crederci.
Non poteva ancora crederci.
Si convinse che fosse un sogno, solo un bel sogno. La mattina seguente si sarebbe svegliato e si sarebbe accorto che fosse stato solamente uno dei tanti sogni in cui imperava lo stesso soggetto, solo più spinto del solito.
Gli percorse tutta la linea della lunga schiena, vezzeggiandola con dovizia, dal basso verso l’alto, fin quando non arrivò alla nuca cosparsa di capelli, dentro cui infilò le dita, dita troppo grandi e volgari per potersi permettere di toccare tale tesoro prezioso e raffinato.
Fece pressione sulla sua nuca per avvicinarlo a sé e finalmente lo baciò, riassaporandolo con un sospiro estatico.
Il biondo si lasciò baciare, saggiare e toccare, permettendo a quelle mani callose, ferme e gentili, di insinuarsi sotto i vestiti, di idolatrare la sua pelle d’avorio, chiara e calda, marchiata di tanto in tanto dalle ferite delle frustate, ancora in via di rimarginazione.
Oramai era talmente abituato al dolore di quelle lacerazioni, da non avvertire neanche più fastidio quando venivano toccate.
Ambrose le accarezzò, ad una ad una, mentre lo spogliava lentamente, godendosi ogni piccola porzione di pelle che veniva scoperta e che si palesava alla luce della luna e delle candele.
Le accarezzò e le baciò, come se la sua bocca amorevole potesse in qualche modo lenire il dolore.
Tutta quella dolcezza stava nauseando Folker.
Non era avvezzo alla dolcezza, non era avvezzo alla calma, all’amore, alla tranquillità di un dolce tocco.
Anche quando faceva l’amore con Bridgette, i loro tocchi non erano così mielosi e febbricitanti.
Ma dopo i primi minuti di intensa ed esasperante venerazione, Ambrose decise di agire più concretamente, e di dare sfogo alla sua abissale e incommensurabile voglia di averlo e possederlo, con tutto l’amore, la voracità e la passione di cui era capace.
Se quella era davvero la prima e ultima volta, l’avrebbe sfruttata in pieno, fino all’ultimo secondo, fino all’alba.
Fece l’amore con lui in ogni modo possibile, divorando la sua bocca in particolare, ma anche tutto il resto del corpo, e nonostante Folker sembrava essere in un altro mondo, talvolta, in alcuni sprazzi di lucidità, il piacere adombrava il suo viso inevitabilmente, in una maniera che faceva scaldare il cuore e tutte le membra di Ambrose.
Accadeva in particolare quando toccava e stimolava i suoi punti più sensibili, quando si occupava di lui e lo idolatrava con talmente tanta audacia e passionalità, da portarlo all’esasperazione, al limite, ad un punto di non ritorno.
Erano quelli i momenti in cui la sua melodiosa voce usciva fuori dalla sua gola, rotta e maltrattenuta, rendendolo ancora più sensuale di quanto già non fosse, e Ambrose si domandò come fosse possibile.
Il suo corpo e quello del biondo erano incredibilmente reattivi tra loro, in una sintonia unica e incomparabile.
Stavano compiendo un peccato imperdonabile, giudicato punibile con il rogo da chiunque al villaggio.
Ciò rendeva la loro unione carnale proibita ancor più esasperante, intensa e bisognosa.
Ambrose pensò che Folker fosse la creatura più bella e intoccabile esistente sulla faccia della terra.
Lo aveva sempre pensato, e in quel momento, dopo la decima volta in cui aveva fatto l’amore con lui in una sola nottata, stringendolo, baciandolo e sentendolo tutto attorno a sé, in una morsa intossicante e stregonesca, ne ebbe la conferma un milione di volte.
Gli venne da piangere mentre lo guardava, suo come non mai, e ancor più bello di quanto lo fosse mai stato, nell’anima e nel corpo.
La mattina seguente, Folker aprì gli occhi all’alba.
Il corpo nudo, ancora lievemente umido dal sudore e dai baci dell’altro, sdraiato sul letto sfatto e rivolto verso l’alto, con le coperte intrecciate alle gambe e il viso verso il soffitto.
Quella stanza era impregnata del loro odore, dell’odore della loro unione, del loro peccato, dei loro umori, della loro adolescenza e giovinezza perduta.
Gli occhi ancora persi, esattamente come la sera prima, vagarono sul soffitto, immaginando che aspetto avesse il cielo sopra di esso.
Sentì un frusciare di coperte accanto a lui, una mano avvolta al suo addome, che lo stringeva a sé in maniera dolcemente soffocante, nel sonno.
Ambrose si era addormentato così, artigliandolo a sé, circa un’ora prima.
Ma era come se riuscisse a sentirlo anche nel sonno, in una strana connessione spirituale: se Folker era sveglio, allora anche Ambrose sfuggiva alle braccia di Morfeo, per tornare da lui.
Il moro aprì lievemente le palpebre insonnolite e osservò il profilo del biondo.
- Stai bene? – gli domandò in un bisbiglio, continuando a bearsi della sua immagine illuminata dal sole, dei capelli sparsi sul cuscino, delle ciglia chiare, lunghe e umide, del suo profumo.
- Mi è venuta voglia di vedere il cielo – sussurrò Folker, in un fil di voce. Poi, dopo qualche secondo che parve infinito, voltò il viso verso Ambrose, il quale, come immaginava, lo stava fissando, incantato.
- Sei bellissimo – gli disse il moro.
Folker non rispose. Continuò a guardarlo negli occhi, senza sorridere, né mostrare qualsiasi altra emozione.
- Sei bellissimo – ripetè il moro puntando un gomito sul cuscino, e alzando la testa, per guardarlo dall’alto. – Bellissimo … - disse ancora, iniziando a coccolare la sua pelle, a baciargli dolcemente la mandibola, poi il collo candido, poi scendendo giù verso le clavicole sporgenti, verso il petto sinuoso e lievemente delineato nella muscolatura, poi tornando verso l’alto.
Si staccò e notò gli occhi verdi del biondo ancora fissi sul soffitto, liquidi e lucidi; i quali si spostarono su di lui non appena entrò nel suo campo visivo.
Gli accarezzò le ciocche di capelli chiari sparse sul cuscino, poi si abbassò su di lui fino a far sfiorare i loro nasi e raggiunse il punto che avrebbe voluto raggiungere sempre, fin da quando aveva aperto gli occhi.
Le labbra di Folker si schiusero prontamente non appena quelle di Ambrose le sfiorarono, aprendosi per lui, ricambiando il bacio soffice e bagnato, pregno di lingue, di sospiri e di ardore.
- È mattina… - sibilò Folker, tra le labbra di Ambrose, poggiandogli una mano sulla guancia, come avrebbe fatto una madre premurosa; mentre il moro era sempre più perso in lui, nei suoi occhi, le mani seppellite nel suo corpo, che già correvano verso curve, solchi e buchi che promettevano meraviglie, non potendone fare meno.
Sentiva che non avrebbe mai più potuto farne a meno.
Ambrose lo baciò ancora, affondando in profondità nella sua bocca con la lingua possessiva. - Ancora un po’… rimani solo ancora un po’ – gli sussurrò disperato, come in una preghiera.
E Folker glielo concesse. Si lasciò prendere ancora, contro quel letto, contro di lui, in ogni modo possibile, fino a quando il sole non fu alto in cielo.
 
“Cara Judith,
vi prego di perdonarmi.
Ho saputo cosa è accaduto questa mattina a padre Cliamon e ne sono molto dispiaciuto.
Malgrado questo, la nostra corrispondenza epistolare non può continuare.
So che è una scelta improvvisa, in quanto ci siamo scritti molte lettere nel corso di questi giorni.
Mi rendo conto che le mie parole possano sembrarvi strane, ma non è mia intenzione ferirvi.
La mia mente, Judith, non sta bene. Non è stabile, non è sana.
Vivo costantemente nella paura di vedere cose che non vorrei vedere, di udire cose che non dovrei e vorrei udire.
Non riesco più a capire cosa è reale, e cosa non lo è.
L’artificio strutturato dalla mia mente, dai miei traumi, forse, mi sta perseguitando, e non so più come uscirne.
Non… riesco più a vedere niente.
Non nel senso letterale nel termine, ma in quello metafisico.
Non provo, non vedo, non sento, non mi sento più in grado di comunicare.
Solo rinchiudermi nella mia fucina o nella galleria riesce a placarmi.
Mi sento spezzato. In un modo che non riesco ancora a comprendere.
Ciò mi spaventa, in quanto non sono più in me, non sono più io.
Non voglio che vi angustiate per me, non è questa la mia intenzione dicendovi ciò.
Vorrei solo essere sincero con voi, e farvi capire che non è colpa vostra, se non voglio più scrivervi e rispondere alle vostre lettere.
Anzi, tutt’altro: siete stata un faro, per me, in questi giorni.
Sono certo che accoglierete la mia decisione con tranquillità e accettazione.
Presto, quando avrò terminato di leggere il libro, ve lo farò riavere.
Per quanto concerne padre Craig, avete ragione, so che tipo di uomo è e che non farebbe mai nulla per ferire qualcuno.
Padre Craig è una di quelle rare anime che sarebbero disposte a farsi torturare, a varcare le porte dell’Inferno a testa alta, se ciò servisse a salvare una persona a cui tiene.
Per quanto il mio orgoglio mi sia nemico in ciò, devo ammettere che sono io ad aver sbagliato.
Gli ho riversato addosso dell’odio ingiustificato.
Egli non ha fatto nulla per ferirmi.
La colpa del nostro litigio è mia.
Ma credo sia meglio anche per lui, starmi lontano.
Non sarebbe in grado di aiutarmi, come non lo è Quaglia, nessuno ne sarebbe in grado.
Finirei per trascinarlo nel mio vortice con me, se fosse ancora qui.
Starà bene con voi, Judith.
Forse un giorno ci incontreremo ancora, cara Judith.
Lo spero.
E quando accadrà, voglio essere pronto, voglio essere in me.
Per ora, questo è un addio.
                                                                                                         Vostro, Blake”
 
 
 
 
 
   
 
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