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Autore: ShanaStoryteller    09/08/2022    0 recensioni
Una raccolta di storie brevi che dipingono una nuova versione dei miti antichi.
O:
Quello che accadde a Icaro dopo la sua caduta, come Ermes e Estia si immischiarono e salvarono l’umanità e di come Ade voleva solo schiacciare un pisolino.
Genere: Dark, Generale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Afrodite/Venere, Ares/Marte, Era/Giunone, Poseidone/Nettuno
Note: Lime, Raccolta, Traduzione | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Apollo aveva molti figli.

Ma ebbe solo nove figlie.

***

La prima quando era giovane, troppo giovane per sapere cosa stesse facendo.

Dafne era bella e falsamente modesta, e si fece inseguire per gioco. Quando la prese, soffocò il riso sulle sue labbra con le proprie. Giacquero insieme, e lei gli lasciò segni di morsi lungo il collo.

Il padre di lei, il dio del fiume Peneo, li scoprì. Apollo non sapeva che fosse un segreto. Peneo era un dio crudele ed egoista, e tagliò la gola a Dafne perché impura. Meglio una figlia morta che una che non obbedisce.

Apollo lo scoprì troppo tardi. Arrivò da lei quando era già morta sulla riva del fiume di suo padre, il ventre più gonfio di come se lo ricordava l’ultima volta che l’aveva vista, che era stato… non poteva essere stato così tanto tempo fa, giusto?

Le aprì lo stomaco con un nodo alla gola che gli impedì di invocare l’aiuto di sua sorella, col cuore stretto in una morsa, incapace di sopportare che qualcuno oltre a lui vedesse la faccia di Dafne, esangue e insanguinata.

La bambina era ancora calda.

La bambina era ancora viva.

Non ebbe cuore di seppellire Dafne, condannandola così a una vita dopo la morte nel sottosuolo. Così, la trasformò in un robusto albero di alloro per rendere eterna la sua bellezza. Premette una mano sul tronco e disse: “Sarai nei miei capelli, sarai nella mia lira, sarai nella mia faretra.” Abbassò lo sguardo sulla bambina, così piccola, accoccolata sul suo braccio. “Sarai con nostra figlia.”

La chiamò Calliope. La loro figlia si sarebbe acconciata foglie di alloro nei suoi capelli ogni giorno della sua vita.

***

Più grande, ma non più saggio, si ubriacò sulla cima dell’Olimpo. Non era la prima volta, ma quella fu diversa.

Quella volta, Estia, la dea del focolare, del calore, della famiglia, posò la sua mano delicata sulla sua nuca e lo guidò nelle sue stanze.

Mesi dopo, lui faceva atterrare il suo carro, il sole tramontava. Gli tremavano le braccia e aveva le gambe coperte di bruciature, lì dove il sole si era stancato e aveva tentato di divorarlo senza successo. Estia gli apparve con qualcosa tra le braccia. “Che succede?” Le domandò aspro, la gola secca e le labbra screpolate. Estia lasciava di rado l’Olimpo.

“Non sono una madre.” Gli rispose lei, e Apollo non comprese finché lei non gli affidò tra le braccia un fagotto caldo e agitato. Se lo strinse al petto istintivamente. “Il suo nome è Tersicore.”

Se ne andò prima che potesse farle anche solo una domanda. Abbassò lo sguardo, e notò che la bimba aveva i suoi occhi dorati e i capelli scuri di Estia. “Ciao, piccola.”

Calliope era ormai adulta. Apollo le affidò Tersicore e promise che sarebbe venuto quando ne avesse avuto bisogno.

“Certo, padre.” Disse Calliope, alzando appena gli occhi al cielo quando la sorellina le afferrò una ciocca di capelli ricci. Apollo notò che aveva una macchia di inchiostro sul volto e la sua casa era ricolma di libri. Avrebbe proprio dovuto chiedere ad Atena di lasciarle usare una delle sue biblioteche.

Le baciò entrambe sulla fronte prima di partire.

***

Apollo si innamorò di un principe di Sparta, elegante e forte e con una bocca grande e bella. Si innamorò di una mente che rivaleggiava con la propria, con un sorriso che lo lasciava senza fiato. Giacinto catalizzò il suo affetto e le sue attenzioni, e per un paio di brevi anni Apollo ne fu incantato, per un paio di brevi anni provò un amore profondo nel petto superato solo da quello che provava per sua sorella.

Poi, Giacinto venne ucciso.

Apollo si presentò alla porta delle sue figlie, e Calliope e Tersicore lo squadrarono per poi tirarlo dentro in casa. Non riusciva a parlare, ma era coperto di sangue non suo, era pallido e tremava ed era in lutto.

Lo lavarono e si presero cura di lui e lo misero a letto, anche se non riusciva a dormire.

Meno di una settimana più tardi, una mortale chiese di lui. Aveva gli occhi arrossati, ma si ergeva fiera e teneva le labbra strette in una linea sottile. Teneva stretta al petto un’infante della sua stessa carnagione scura. “Sono la principessa di Sparta e moglie di Giacinto.”

Apollo non sapeva che Giacinto avesse una moglie. Non gliel’aveva chiesto. Di certo l’avrebbe notato… ma ripensandoci, forse no. L’amore rende le persone stupide. “Sono addolorato per la tua perdita.”

“Come io lo sono per la sua.” Rispose lei, e ciò lo stupì. “Sparta deve avere un principe. Mi devo risposare.” Gli porse la bimba, che non poteva avere che un paio di anni al massimo. “Lei è Urania, figlia mia e di mio marito. Mi hanno ordinato di ucciderla.”

Apollo trasalì. Sapeva che erano cose che accadevano, ma… era la figlia di Giacinto. “Me ne prenderò cura io.”

Lei sorrise. “Ci speravo.” Baciò la bambina sulle guance, la affidò ad Apollo e se ne andò rapida com’era arrivata.

Urania li guardò con i grandi occhi liquidi che aveva ereditato da sua madre. Apollo rimase con le sue figlie per un anno, giocando con Urania e guardando Tersicore ballare e ascoltando le meravigliose poesie di Calliope. Urania amava le stelle. Le osservava ogni notte, e Apollo gliele illustrava con pazienza una a una.

Una volta cresciuta, Apollo supplicò Estia di donargli dell’ambrosia e la diede a Urania.

Urania era sua figlia, come se il suo sangue scorresse nelle sue vene. Non poteva sopportare di vederla invecchiare e morire.

***

Marpessa scelse Ida e non lui, ma era troppo tardi. Portava già il suo seme in grembo, e avrebbe potuto sfruttare la situazione per tenerla con sé. Avrebbe potuto costringerla a rimanere al suo fianco, lei lo amava, così diceva, non sarebbe stata una crudeltà.

Eppure, lei non aveva tutti i torti. Apollo era immortale, non sarebbe invecchiato con lei, non sarebbe mutato con lei, non sarebbe morto con lei. Ida sì.

Aveva la paura in volto, e pensò che se lo meritava per avergli proclamato il suo amore e aver poi scelto un altro. Ma non voleva tenerla prigioniera per tutta una vita.

“Partorisci il bambino e consegnamelo,” le ordinò, “e ti lascerò vivere la tua vita.”

Ida era furibondo di gelosia perché Marpessa avrebbe partorito un figlio di Apollo prima dei suoi, quindi perlomeno aveva quella soddisfazione.

Artemide fece da levatrice per assicurarsi che tutto andasse per il meglio. Era raggiante quando sollevò sua nipote. “Come si chiamerà?”

“Puoi scegliere tu.” Le disse, carezzando la morbida guancia della bimba col dito.

Sua sorella contemplò la piccola urlante per un lungo momento e poi disse: “Penso che dovresti chiamarla Talia.”

“E Talia sia.” Disse lui.

Era una birichina, e gli ricordava di sé nei suoi giorni peggiori. Crescendo, faceva scherzi a ninfe e dèi. Le sue sorelle maggiori dovevano adoperarsi per tenerla lontana da guai sempre più grossi.

Ricevette un messaggio concitato di Calliope sulla sparizione di Talia, e alla fine la trovò sul bordo di un campo di battaglia bruciato, senza più soldati da tempo ma ancora pieno di cadaveri e puzzo. Era furibondo con lei per essersi spinta in un posto così pericoloso, ma quando la raggiunse vide una scena che non si aspettava.

Talia stava raccontando la storia di uno scherzo a una ninfa dei boschi che lui sapeva bene essere almeno per metà bugie e per un quarto esagerazioni. Rannicchiato a terra, che si teneva lo stomaco per le risate così forti da mozzargli il fiato, c’era Ares.

Apollo non aveva visto il tormentato dio della guerra così spensierato da quando era bambino.

Finalmente, Talia si accorse di lui e si interruppe, facendosi pallida. “Oh, uh. Ciao, papà.”

Ares se la stava proprio ridacchiando. “Ciao, Talia.” Apollo incrociò le braccia e la guardò storto. “Non dovresti allontanarti dalle tue sorelle.” Lei fece una smorfia e annuì, incassando la testa per guardarlo da sotto le ciglia, facendo del suo meglio per apparire contrita e innocente.

Avrebbe anche funzionato se solo non fosse stato lui a insegnarle quello sguardo.

Si sedette a terra vicino ad Ares, che non dimostrò di essersi accorto di lui se non spostandosi quanto bastava per usare la sua coscia come cuscino. “Beh,” disse Apollo, “continua.”

Talia si illuminò e riprese la storia con fervore, e quando finì ne iniziò un’altra, che era perlopiù vera e, chissà come, ancora più ridicola.

***

Perché era un idiota con un desiderio di morte, finì col trascorrere un mese con Ecate negli Inferi. Barcollò fuori una notte dopo che lei si era addormentata perché sentiva che se non se ne fosse andato ora non avrebbe avuto una seconda possibilità.

Uno dei momenti più terribili della sua vita fu il cercare l’uscita e trovare Ade al suo posto. Il dio della morte guardò lui, che se ne andava in giro nudo per il suo regno, e poi la direzione da cui era venuto e disse: “Quello eri tu? Sei pazzo, forse?”

“Ci… ci siamo divertiti.” Disse lui, flebile.

“Ma certo.” Ade scosse il capo, e fendette l’aria di fronte a loro, creando un portale per Apollo.

Apollo lo salutò impacciato e se ne andò.

Circa un anno più tardi, suonava la lira quando una bambina dalla pelle scura con occhi e capelli grigi gli apparve di fronte. Fu così terrificante che ruppe una corda per sbaglio.

“Signorina Stige.” Disse, la voce più acuta del normale. “In che modo posso aiutarla?”

La bambina sbuffò col naso e frugò nel nulla assoluto per poi tirarne fuori una neonata. Gliela porse. “Ecate dice che questo ora è affar tuo.”

Contro ogni logica, la piccola aveva la bocca irta di denti fin troppo aguzzi. I suoi occhi cambiavano colore in continuazione come indecisi, e c’era un che di troppo consapevole nel suo volto per la sua età. Artemide diceva che anche lui era nato sapendo già troppe cose.

Una figlia di Apollo ed Ecate non poteva che essere uno sbaglio, qualcosa che non avrebbe mai trovato il suo posto tra coloro della sua stessa specie.

Sospirò e prese la bambina. “D’accordo.”

“A me piace il nome Clio.” Disse la dea bambina prima di andarsene.

Talia le disse che era troppo piccola e di riportarla indietro. Urania ne fu affascinata e si fece carico della gran parte delle cure, che fu la cosa migliore perché Calliope era immersa fino al collo in un nuovo epica e sarebbe stata alquanto contrariata se avesse dovuto dirottare le sue attenzioni su una neonata.

Anche crescendo, Clio rimase sconcertante e strana. Efesto apparve quando lei prese a introdursi di nascosto nelle biblioteche di Atena, nonostante tiri del genere significassero peggio della morte. “Non capisco perché me l’abbia affidata.” Disse Apollo, guardando la ragazza divorare un tomo rubato sulla storia dell’impero persiano. “Tu sei stato cresciuto da Ecate, non capisco perché non abbia voluto allevare la sua stessa figlia.”

“Sei un genitore migliore di lei.” Rispose lui, pensieroso. Apollo gli rivolse uno sguardo per nulla impressionato, ma lui aggiunse: “Dico sul serio. Le tue figlie stanno crescendo bene… tutte loro.”

“Ovvio.” Rispose lui sollevando il naso, ma sorrise quando Efesto gli tirò una gomitata nel fianco.

Ormai adulta, Clio era con molta probabilità la studiosa più brillante mai esistita. Lei e Atena si scontravano in dibattiti academici che duravano settimane e che spaventavano chiunque volesse avvicinarle.

Rimase strana, e fin troppo intelligente, e Apollo l’amava profondamente.

***

Apollo sedeva sulla spiaggia quando una grossa onda lo sommerse trascinandolo nel mare. Tentò di raggiungere la superficie, ma le onde non lo mollavano e venne trascinato sul fondale. Era un dio, quindi non poteva soffocare, ma era terrorizzato quando le acque lo trascinarono fino al palazzo di Poseidone, depositandolo di fronte a lui e a sua moglie. “Apollo,” disse lei, “ho visto cosa diventeranno le tue figlie.”

Non aveva idea di cosa stesse parlando. “Prego?”

Anfitrite lo prese per la mascella e lo tirò a sé. Lui non oppose resistenza. Lei lo guardò negli occhi e poi sorrise. “Il dio della profezia che non sa quello che ha fatto. È così… ironico.”

“Davvero?” Si domandò lui. Sperava con fervore che non lo uccidesse.

“Abbastanza.” Sorrise lei, e con uno schiocco di polso rimase nuda di fronte a lui. “Voglio che una delle tue figlie sia mia. Giaci con me.”

“Uh.” Disse con eloquenza, perché Anfitrite non aveva mai dato a suo marito alcun figlio, non sapeva neanche che ne fosse capace. Se avesse giaciuto con lei, Poseidone avrebbe potuto ucciderlo, a dispetto di quante persone il dio del mare avesse dormito che non erano sua moglie. Ma se l’avesse rifiutata, lei avrebbe potuto ucciderlo, e di certo farlo con Anfitrite non sarebbe stato difficile. Era tanto bella quanto terrificante. “Va bene.” Venne deposto sulla spiaggia il giorno seguente, sentendosi stranamente usato.

Se Poseidone aveva qualcosa in contrario su Apollo che si era fatto sua moglie, non lo disse.

Anfitrite non gli lasciò la bambina subito dopo il parto. Passarono gli anni, e un giorno un dio del mare dalla pelle scura e gli occhi ambrati si presentò alla sua porta. Al suo fianco, c’era una ragazzina con gli stessi colori di Apollo e la corporatura di Anfitrite, i capelli che rilucevano d’oro e smeraldo al sole. “Glauco,” lo salutò Apollo con diffidenza, “e lei chi sarebbe?”

“La chiamo Erato.” Disse Glauco. “Mi prendo cura di lei da quando è nata. È giunto il tempo per lei di unirsi alle sue sorelle.”

Erato non era spaventosa come sua madre. Anzi, c’era una dolcezza in lei che doveva aver preso da Glauco. All’inizio era timida e passava molte delle sue giornate a guardare il mare. Ma le sue figlie erano persistenti e ben presto si unì alle loro risate. C’era un che di sognante in lei, e amava l’amore, scriveva ballate romantiche e poemi stupendi, così belli che Afrodite stessa lodò le sue opere.

Erato era la più simile a lui nella vita amorosa, lasciandosi alle spalle una scia infinita di cuori spezzati di uomini e donne.

Calliope si lamentò dei costanti singhiozzi che circondavano la loro casa e Clio diede prova di possedere parte del talento di sua madre con la magia, evocando un incantesimo di disillusione sulla loro casa per impedire ai passati amanti di seguire Erato fin da loro. Ovviamente, si dimenticò di avvertire sia Apollo che le sue sorelle, e la situazione rimase alquanto confusa finché Clio non si ricordò di dire loro dove si trovava la casa.

La dimora delle sue figlie era un luogo di musica, poesia e letteratura incessanti. Iniziava a sospettare di aver compreso ciò di cui parlava Anfitrite.

***

Non tutte le battute di caccia erano facili.

Apollo sentì il momento in cui sua sorella venne ferita, la freccia che le trapassò l’addome tanto dolorosa per lui quanto per lei. Era sul suo carro e non poteva andarsene, se se ne fosse andato il sole l’avrebbe bruciato, e poi avrebbe bruciato la terra. “Calliope!” Gridò, e la sua figlia maggiore apparve al suo fianco.

“Padre?” Gli domandò, stringendosi a lui e lontano dal sole. “Che succede?”

“Artemide è ferita, devo aiutarla.” Disse con urgenza, e le mise le redini in mano. “Ce la puoi fare.”

Lei impallidì, ma si fece avanti, le nocche bianche per lo sforzo con cui si teneva al carro. “Vai.”

La baciò sulla fronte e andò da sua sorella. Le sue cacciatrici avevano schierato una guardia d’onore attorno a lei, difendendola e morendo mentre giganti dal volto crudele si facevano sempre più vicini. “ARES!” Urlò lui, e non sapeva perché stessero combattendo, per cosa stessero combattendo, ma non importava. “ABBIAMO BISOGNO DI TE!”

Il dio della guerra apparve, ed era chiaro che veniva da un’altra battaglia, coperto com’era di fango e ben altro di peggio. Si lanciò in battaglia, ma fu solo quando ricevettero rinforzi che riuscirono a volgere la sorte a loro favore.

Per prima, vide Erato sul campo di battaglia, l’acqua che le danzava intorno mentre si apriva la strada tra i nemici, il potere di sua madre visibile nei suoi luminosi occhi gialli. Clio era dietro di lei, con le mani rilucenti della magia ereditata da sua madre Ecate.

Talia lanciava lunghi coltelli ricurvi, e coloro che la affrontavano non si accorgevano di essere morti se non quando lei se li era già lasciati alle spalle. Urania scagliava frecce contro i giganti, e anche se non era sangue del suo sangue né una dea di nascita, nessuno l’avrebbe mai detto alla vista di ogni freccia che centrava il bersaglio, abbattendo un altro nemico.

Tersicore usava le sue affinate doti nella danza in maniera diversa sul campo di battaglia, piroettando e schivando i nemici con la spada che balenava e squarciava coloro che la sfidavano. Fiamme di fuoco celeste lambivano la spada, e la figlia di Apollo e Estia rideva mentre danzava per il campo di battaglia.

Avrebbe voluto sgridarle, dire loro di andarsene da lì, di mettersi in salvo. Ma fu grazie a loro che vinsero la battaglia, dunque non disse niente.

Ares si guardò intorno, fece una smorfia e riuscì a incrociare lo sguardo di Apollo prima di scomparire dalla battaglia. Qualcuno doveva aver invocato il suo nome. Apollo era solo grato che fosse riuscito a rimanere così a lungo.

I giganti erano tutti morti quando Apollo riuscì a raggiungere il capezzale di sua sorella. Era pallida e ricoperta di sangue, le sue cacciatrici erano sedute attorno a lei e cercavano di fermare il sangue. “Cosa pensavi di fare?” Le chiese, prendendole la mano e scostandole i capelli dalla fronte. Tersicore si fece avanti e poggiò la sua spada di fuoco sulla ferita, chiudendola e cauterizzandola al tempo stesso. Apollo e Artemide urlarono.

“Hanno- preso- una- bambina.” Boccheggiò lei, cercando il suo tocco, il suo sostegno, e lui non era mai riuscito a negarle niente. La sollevò, soffocando un grido al lampo di dolore che li squassò entrambi, tenendola stretta al petto. “La- figlia di una ninfa. La figlia di Zeus. Hanno ucciso- la madre. Questa- ingiustizia non- non può essere- tollerata.” Poggiò il capo contrò la sua spalla, lacrime che le scendevano sulle guance, e Apollo per un momento desiderò che la battaglia non fosse finita perché voleva massacrare qualcuno.

“La prendo io.” Disse Erato, e dopo poco ritornò con una bambina tra le braccia. Aveva la pelle di bronzo di Zeus, e capelli biondo chiaro. “Cosa facciamo ora? A Zeus non importa dei suoi figli.”

“Penso che sia giunto il tempo per te di diventare una sorella maggiore.” Disse Talia, e Erato la guardò confusa. “Vero, Padre?”

Guardò sua sorella, che annuì. “Non potrei pensare a posto migliore. Non può stare con me… un gruppo di cacciatrici non è posto per una bambina.”

“Molto bene.” Sospirò lui. “Ha un nome?”

La bambina cercò di nascondersi dietro i capelli di Erato, poi disse: “Sono Euterpe.”

“Benvenuta, Euterpe.” Disse lui.

Fu in quel momento che il sole tramontò e Calliope apparve scarmigliata al loro fianco. Era coperta di ustioni estese e sanguinanti, ma stava meglio di quanto aveva temuto. Sicuramente aveva guidato il carro meglio di come aveva fatto lui la prima volta. “Che succede? Va tutto bene?”

“Abbiamo una nuova sorella.” Disse Talia con gioia, e Clio si precipitò a curare le ustioni della sorella.

Fortunatamente, Euterpe non ereditò neanche un briciolo della follia di Zeus. Il suo canto aveva la purezza delle campane e ben presto superò in talento Calliope con la lira.

Sapeva che, tecnicamente, Euterpe era la sua sorellastra. Eppure, non gli ci volle molto per considerarla una figlia, amandola con la stessa semplice ferocia con cui amava le sue sorelle.

***

Per qualche tempo, le cose procedettero bene e in pace. Le sue figlie erano ormai cresciute, realizzate e bellissime.

Poi, Demetra lo mise all’angolo mentre passeggiava per una città tranquilla, premendolo contro il muro di un vicolo. “Se Anfitrite pensa di potermi battere,” sibilò la dea, “non è altro che un’illusa.”

Perlomeno, quella volta capì cosa stava succedendo quando Demetra iniziò a disfarsi delle sue vesti. “Non crescerai tu il bambino.” Le disse. Non gli dispiaceva giacere con Demetra, anche se a quel punto forse si trattava meno di giacere e più di stare in piedi contro il duro muro di un vicolo. Ma l’unico amore che conosceva Demetra era quello che distruggeva tutto ciò che toccava. Non le avrebbe permesso di crescere suo figlio.

“Va bene.” Sbottò lei. “Ora muoviti.”

Rimase terrorizzato per tutto l’amplesso, e l’esperienza gli ricordò il mese passato con Ecate. Un’ora dopo, venne lasciato nudo e solo nel vicolo.

Nove mesi più tardi, una ninfa dei boschi consegnò una neonata alla sua porta. Aveva il volto schiacciato di una bambina appena messa alla luce. “Vedo che non ha perso tempo.” Commentò, sistemandosi la bimba tra le braccia. “Ha un nome?”

“Polimnia, mio signore.” Disse la ninfa dei boschi, poi si inchinò e fuggì.

Portò la piccola nella casa dove vivevano le sue figlie.

Crebbe ed era l’immagine perfetta di Demetra, o di Persefone quando ancora si chiamava Kore. La sua voce era più bassa di quella di Euterpe, ma altrettanto bella, e quando cantavano insieme il suono era quanto di più bello avesse mai udito. Era tranquilla e pensierosa, con gli occhi nocciola che studiavano i dintorni con fare calcolato.

Polimnia chiedeva di sua madre, cosa che nessuna delle altre aveva mai fatto prima, e Apollo non sapeva cosa risponderle. La verità era troppo cruda, ma non riusciva a mentirle. Dunque, chiese un’udienza a Persefone e le disse: “Tua sorella chiede della madre che avete. Non so cosa dirle.”

Persefone non seppe come consigliarlo, ma passò parte del suo tempo fuori dagli Inferi con Polimnia. Fu sufficiente, e le sue domande cessarono, e Apollo cercò di non sentirsi in colpa per non averle mai dato una risposta.

***

Cassandra era come nessun’altra donna che aveva incontrato, come nessun’altra persona che aveva incontrato, e le fiamme dell’amore e della passione bruciarono dentro di lui come non succedeva da quando Giacinto era morto.

Era testarda e irritante, e quando Apollo cercava di lamentarsene con Artemide, lei alzava gli occhi al cielo e le sue figlie ridevano di lui. Forse non era poi così bravo a nascondere che se ne era innamorato. Neanche con lei, perché un giorno gli domandò piccata se si sarebbe mai deciso a farsi avanti o se avrebbe dovuto accettare la proposta del figlio del macellaio.

Non uscirono dalla casa di lei per cinque giorni.

Era curiosa, affamata di conoscenza, più vogliosa di sapere che di lui. Voleva sapere l’impossibile, voleva essere l’impossibile, e Apollo rise e le prese la mano e disse: “Ti faccio una proposta. Ti darò il dono della profezia se mi offrirai in dono la tua mano.”

Non aveva mai sposato nessuno. Non l’aveva mai voluto.

Cassandra urlò e rise, e gli mise le braccia al collo e lo baciò fino a non avere più fiato. Apollo lo prese come un sì.

E fu da quel momento che tutto andò maledettamente e terribilmente male.

Era troppo, l’orrore che vedeva era troppo, e Apollo tentò di dirle di concentrarsi sul bene, sulla felicità del futuro. Ma non ci riusciva, si perdeva nelle miriadi di guerre, consumandosi di fronte ai suoi occhi anche mentre il suo ventre si gonfiava.

Tentò di toglierle il dono, tentò di salvarla, ma non ci riuscì. Non poteva annullarlo, e la sua testarda e vivace amata si spegneva sempre più davanti ai suoi occhi. Riuscì solo ad alterarlo, a fare in modo che nessuno credesse le cose orribili che lei urlava per evitare che le persone rabbrividissero quando gli urlava contro il modo in cui sarebbero morte.

Artemide aiutò a far nascere loro figlia, ma durante il parto si fece scura e tesa in volto, e Apollo capì che Cassandra non ce l’avrebbe fatta.

“Perdonami.” Pianse, baciando il suo volto emaciato, sentendo le dure ossa dei suoi zigomi con le labbra. “Perdonami, non sapevo che sarebbe successo. Non volevo che succedesse.”

Lei lo guardò con occhi vitrei, a malapena reagì quando Artemide le mise loro figlia tra le braccia. Sotto di lei si allargava una pozza di sangue, ma non poteva essere salvata, sarebbe morta, lì, ora.

Apollo si domandò se l’avesse previsto.

Lei sbatté le palpebre e incrociò il suo sguardo con una lucidità e una consapevolezza che non le vedeva da molto tempo. “È la tua ultima figlia.” Disse Cassandra. “Melpomene è l’ultima figlia che avrai.”

Apollo la baciò, era la sua ultima occasione per farlo.

Lei morì prima ancora che le sue labbra lasciassero le sue.

Apollo tentò di fuggire, di scappare dagli artigli che gli straziavano il cuore, ma Artemide glielo impedì. Lo trattenne e gli mise Melpomene tra le braccia. “Non puoi andartene.” Disse con durezza. “Ha bisogno di te. Tua figlia ha bisogno di te. Non puoi scappare.”

Si accartocciò, posando la testa sulla spalla di sua sorella mentre singhiozzava, e la mano callosa di lei gli carezzò la nuca. Melpomene stava tra loro, morbida e calda e viva.

Il tempo passò.

Melpomene era l’altra metà di Talia, la sua migliore amica, e facevano tutto insieme. I suoi capelli scuri erano una matassa di ricci indomabili come quelli di sua madre, la sua risata era come quella di sua madre.

Lei, come le sue sorelle, erano il suo orgoglio e la sua gioia.

***

Apollo aveva nove figlie.

Calliope, patrona dell’epica.

Tersicore, patrona della danza.

Urania, patrona dell’astronomia.

Talia, patrona della commedia.

Clio, patrona della storia.

Erato, patrona della poesia amorosa.

Euterpe, patrona della musica.

Polimnia, patrona del canto sacro.

Melpomene, patrona della tragedia.

Venivano chiamate le Muse.



Note dell'autrice: Spero che vi sia piaciuta!

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