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Autore: AlessandraCasciello    10/08/2022    0 recensioni
“Posso andare da sola”, gli dissi, sistemandomi meglio la borsetta.
“Piantala. Ti riporto io”
“Non c’è bisogno, davvero” come al solito, non mi diede ascolto, incamminandosi a passo svelto verso la sua Audi.
“Un giorno mi spiegherai anche perché vai così veloce, diamine!” mi lamentai, stringendo forte la cintura vicino al mio petto.
“Oh cara, non so se vorrai davvero saperlo”.
Genere: Mistero, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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A San Benedetto del Tronto l’estate era sempre uguale, ma bellissima.
Ad agosto la città si riempiva di turisti e di famiglie che aspettavano giugno per fare i bagagli e trasferirsi nelle loro seconde case, buttandosi alle spalle l’anno passato. I bambini sgattaiolavano dal proprio ombrellone e dalle grinfie dei loro genitori per costruire castelli di sabbia sulla riva, che avrebbero poi distrutto con qualche calcio carico di violenza. Il corso era gremito di ragazzi che passavano il pomeriggio con qualche vasca, da Via XX Settembre fino alla fontana di Piazza Giorgini, sviando poi verso il lungomare.
Li guardavo di sbieco, studiando i pezzi di stoffa aderenti che avrebbero dovuto coprire gran parte del loro corpo. Osservavo la loro spensieratezza, che avrebbe dovuto essere adeguata soprattutto ai miei diciannove anni di età, con una strana malinconia, mentre sfrecciavo lungo gli scogli del lungomare, diretta verso la statua del Pescatore che si stagliava imponente qualche metro più avanti. Una volta arrivata, mi fermai, rispondendo al cellulare che suonava ormai da dieci minuti.
Si scostò dal viso i capelli castani, asciugandosi il sudore dalla fronte.
“Pronto?”
“Olivia Pozzi, - la voce di Serena tuonò così imponente dall’altra parte del telefono che dovetti allontanarlo dall’orecchio, con una smorfia contrariata – sono furiosa con te”
“Cosa ho fatto?” chiesi, mettendo il cavalletto alla bicicletta ed andandomi a sedere sullo scoglio coperto dall’ombra della statua alle mie spalle.
“Un uccellino mi ha detto che sei arrivata questa mattina, e te non mi hai detto niente!” alzai gli occhi al cielo, lanciando un sassolino verso il mare blu di fronte a me.
“Sono arrivata neanche tre ore fa, Serena. Mia madre stava ancora sistemando i bagagli. Sono fuggita con la bici per farmi un giro in santa pace. Ah, e farò finta di non aver capito che il tuo uccellino sia Brando”. Potei giurare di sentirla sorridere dall’altra parte del telefono.
Serena era una sambenedettese DOC, convinta di emigrare un giorno per studiare qualsiasi cosa che non fosse possibile frequentare nelle Marche. Viveva in letargo: l’inverno si rinchiudeva in casa a studiare per la scuola, uscendo solamente nei soliti pub con i suoi compagni di classe, e l’estate rifioriva con il mio arrivo e quello degli altri. Eravamo un bel gruppo, uno di quelli che si ritrovano l’estate come se si fossero visti qualche giorno prima.
“Beh, non mi interessa: dimmi dove sei e ti raggiungo”
“Sto alla statua del Pescatore”
“Dammi 15 minuti nemmeno”. Mi riattaccò. Riposi il telefono nella mia borsa di tela, godendomi quegli ultimi minuti di calma piatta. Chiusi gli occhi, lasciando che la brezza marina – che tanto avevo agognato a Roma– mi sferzasse il viso ancora pallido. Stesi le gambe, facendo unire le punte delle mie converse bianche. Lasciai che il mio peso si abbandonasse all’indietro, facendo leva sui gomiti. Ora sì che stavo bene: la maturità era finita decentemente, avevo preso la patente e...
Forse lo avevo dimenticato.
Scossi la testa, tirando un altro sasso nell’acqua, sorridendo al tonfo sordo.
“Te l’ho già detto, Max: ti ho ridato tutti i soldi. Non ti devo un centesimo”
Un marcato accento locale interruppe i miei pensieri, facendomi voltare alla mia sinistra. Un ragazzo, probabilmente della mia età, stava al telefono. Agitato, andava avanti e indietro tirando i calci a qualsiasi cosa gli capitasse sottopiede. Spesso alzava gli occhi al cielo verso il grande binocolo del Pescatore, con un’espressione confusa, a tratti disperata. Mi fermai ad osservarlo meglio: anche la sua pelle era molto pallida, in contrasto con gli occhi nocciola, dello stesso colore dei suoi capelli. La sua mascella era spigolosa, ben delineata, che contraeva per il nervoso ogni due secondi. Mi domandai cosa stesse sentendo dall’altra parte del telefono per innervosirsi così tanto. Abbassai lo sguardo verso i suoi indumenti: indossava una t-shirt bianca sbrindellata, che cadeva in modo casuale su un bermuda verde bosco, che mostravano le sue gambe magre ma toniche. Ai piedi, le mie stesse scarpe: un paio di converse bianche, decisamente più sudicie delle mie.
Mi concentrai di nuovo sulla telefonata, cercando di tradurre tutto nei minimi dettagli:
“Ho fatto di tutto per ridarti quei soldi. Di tutto. Ora me ne stai chiedendo degli altri? Ho estinto già tutti i miei debiti. Cosa vuoi che faccia ancora...”
Mi protesi un altro po’, cercando di catturare tutta la conversazione.
“Non se ne parla, Max: niente più missioni”. Corrugai la fronte, mordendomi il labbro.
“Io...aspetta”. Il ragazzo interruppe un attimo la telefonata. Io continuai a tendere l’orecchio, guardando il mare dritto di fronte a me. Aspettavo, aspettavo, aspettavo...
“Hai finito di origliare?” una voce alle mie spalle mi fece sobbalzare. Mi alzai di scatto, rischiando di scivolare sugli scogli. Il ragazzo prese al volo il mio braccio, tenendomi in piedi.
Non mi ero resa conto che non stavo solo tendendo l’orecchio, ma stavo anche inclinando tutto il mio corpo verso il ragazzo per sentire meglio, mordendomi il labbro e chiudendo gli occhi.
“I-io...non stavo origliando”
“Ci hai provato, però”, mi ammonì il ragazzo. Mi scrollai dalla sua presa, pulendomi i miei calzoncini di jeans.
“Non me ne può importare un accidenti della tua telefonata”
“Non sembrava” mi disse il ragazzo a braccia conserte, scrutandomi.
“Beh, non era così. Ora devo andare, se non ti dispiace”, feci il giro largo, allontanandomi da lui di qualche metro. Il ragazzo abbasso lo sguardo, annuendo come se avesse capito tutto: chi fossi, da dove provenissi, perché stessi lì. Mi irritò parecchio, cosa che mi portò a sbattere i piedi mentre cercavo di camminare sugli scogli come se fossi più agile del normale.
“Ah, e comunque”, gli gridai, voltandomi un’ultima volta verso di lui, “La prossima volta che parli al telefono, parla a bassa voce, cretino!”
Potei giurare di averlo sentito ridacchiare, mentre inforcavo la mia bici, schizzando verso il centro. Con le guance rosse per la rabbia – o per l’imbarazzo? – mi diressi verso il porto. Sfilai il telefono dalla tasca.
“Pronto Serena? Sì, sono io. Senti, mi sono spostata dalla statua del Pescatore. Ora sono al porto. Ci vediamo qui, sì sì, ciao”. Attaccai, sospirando. Il mio primo giorno di vacanza già si dimostrava più movimentato del solito.
Ci sono odori che in alcuni posti non puoi sentire, come l’odore delle barche a Roma. Ne approfittai, inspirando a pieni polmoni quell’aroma di acqua e pesce stagnante.
Il suono di un campanello mi avvertì che Serena era arrivata con la sua nuova bicicletta rossa fiammante. Era così emozionata che la buttò per terra senza nessuna cura, saltandomi addosso urlando di emozione.
“Non ci posso credere che sei arrivata! Ho aspettato così tanto! Ti devo raccontare tante di quelle cose che ti girerà la testa, questa sera. Ah sì, poi ti accompagno a casa a sistemare le tue cose così ne approfitto per salutare i tuoi. Dio, quanto mi siete mancati! Poi stasera usciamo anche con gli altri, eh. Sono arrivati tutti: Brando, Ciccio, Marti. Non vedo l’ora, che bello!” risi alla sua raffica di parole che riusciva a sparare in meno di un minuto.
Anche lei, nell’ultimo anno, era cresciuta: i suoi capelli mossi e biondi le erano cresciuti fin sotto il seno, e sembrava quasi che si fosse alzata di qualche centimetro. I suoi occhi azzurri erano sempre grandi e bellissimi, a differenza dei miei marroni, e la sua pelle era già abbronzata. Il suo accento sambenedettese rendeva tutto quello che diceva una melodia cantinelante, e mi arresi già da subito ad essere contagiata entro la fine di Agosto.
“Perché ti sei spostata dalla statua?” mi domandò Serena sedendomi vicino a me sul muretto del porto, facendo ciondolare le gambe verso l’acqua. Le enormi barche si stagliavano sopra di noi, regalandoci un quadratino d’ombra.
“Perché ho incontrato un cafone”, le spiegai incrociando le gambe e pulendomi le mani dalla polvere. Serena mi esortò a spiegarle meglio con un’espressione accigliata.
“Stava parlando al telefono...avrà avuto l’età nostra. Il suo tono di voce era così alto che non ho potuto fare a meno di ascoltare o, a detta sua, di origliare. Fatto sta che mi ha placcato alle spalle chiedendomi perché stessi origliando in modo prepotente”
“Di cosa stava parlando?” Ragionai sul dirle la verità: Serena era una pettegola, da brava ragazza di provincia. Calcolando che l’accento del ragazzo era sambenedettese, e immaginando che fosse di lì, evitai di spifferare i suoi cavoli per la città.
“Mah, niente...litigava con una ragazza...”. Serena ridacchiò, tirando fuori una sigaretta dal pacchetto di Marlboro che aveva nella sua borsetta nera.
“Un po’ nervosetto, il ragazzo”, commentò, accendendosela. La fissai accigliata.
“Da quant’è che fumi?”
“La maturità è stato un periodo difficile” spiegò, ciccando di fronte a lei, spostandosi la gonna a balze rossa che aveva, per non rovinarla. Scossi la testa in segno di disappunto.
“Non ci vediamo per un anno e guarda che succede”
“Attenta, Olivia: questa estate verrai anche te nel lato oscuro”
“Ne dubito”
“Il prossimo anno avremo venti anni, sai? Questo è l’ultimo anno da adolescenti”
“Infatti, Sere. Cerchiamo di terminarli in tranquillità”, dissi alzandomi da terra, guardandomi intorno. Qualche barca iniziava a muoversi, andando verso acque più profonde per la pesca stagionale. Salutai calorosamente un amico di mio padre che passava di lì, promettendogli di farlo richiamare.
“Ti volevo chiedere, invece – iniziò Serena alzandosi anche lei, avvicinandosi in modo affettuoso – lui è tornato alla fine?”.
Un silenzio assordante piombò tra di noi, e per me in tutto il mondo. Riuscivo a sentire solamente il verso dei gabbiani che si posavano sull’acqua, in attesa di catturare la loro prossima preda. Sentii il viso farsi sempre più cocente, e un nodo in gola non mi permetteva di parlare adeguatamente. Incrociai le braccia, guardando altrove.
“No, Sere. Lui non è tornato. E forse è meglio così”.
  
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