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Autore: moira78    14/08/2022    1 recensioni
C'è un filo rosso che unisce Candy e Albert. Da sempre. In ogni luogo. In ogni momento. Questa storia nasce come contributo al Festival del Hilo Rojo del Destino.
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Candice White Andrew (Candy), William Albert Andrew
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Grazie di cuore a Tiger Eyes e Sonietta74 per la betalettura!



Pagina trecentosei


1899, Lakewood (Albert 11 anni, Candy 6, Anthony 8).

Il tramonto era ormai imminente, ma non aveva alcuna voglia di tornare a casa. E per fare cosa? Per sentire le urla della zia Elroy che gli ricordavano che aveva saltato la lezione di francese o il borbottio sommesso degli anziani nella sala del Consiglio che facevano progetti su di lui senza mai consultarlo? No, grazie, non ci teneva proprio.

Si sentiva un burattino nelle mani degli adulti: pareva che nessuno si rendesse conto che, nel giro di pochi anni, aveva perso un padre e una sorella. Per tacere della madre che neanche aveva potuto conoscere, visto che era morta appena lo aveva dato alla luce. Tutto ciò che aveva di lei era un quadro dove rimirarla cercando di sentirla familiare, ritrovandosi nei suoi occhi, nei suoi capelli, forse nell'espressione leggermente sognante del viso.

Ma no, a loro interessava solo tenerlo lontano da tutti: perché William Albert non esisteva. William Albert avrebbe dovuto crescere e imparare presto a gestire gli affari di famiglia e solo allora sarebbe stato mostrato al mondo.

Albert però non voleva soffermarsi su questioni così tristi, desiderava godersi quel pomeriggio solitario, o quasi. Ridacchiò quando Poupee si mise a giocare correndogli dietro il collo e tirandogli i capelli. La prese tra le mani e la sollevò in aria strappandole uno squittio che poteva essere di diniego o felicità. Mentre girava, qualcosa lo fece fermare bruscamente, interrompendo il movimento e quasi facendogli perdere la presa sulla piccola puzzola.

Un viso.

Il viso piccolo e paffuto di una ragazzina in mezzo a due alberi dal fusto sottile, che sembrava spaventata e indecisa se avvicinarsi o meno: poté vedere l'espressione triste e tracce di lacrime recenti sul suo volto. Con movimenti lenti, quasi temesse che si trattasse di un animaletto timoroso o di una semplice allucinazione, Albert mise giù Poupee, che fece un piccolo verso in apparenza interrogativo.

Le fece un piccolo sorriso e notò, guardandola meglio, che sulla pelle candida spiccava una selva di lentiggini, rese persino più evidenti dai codini biondi e ricci che aveva ai due lati del capo. Sbatté le palpebre, certo di essersi appena imbattuto in una piccola ninfa dei boschi, prima di ricordarsi che le ninfe non esistevano.

"Ciao", tentò riprendendo Poupee quasi a volersi mostrare più amichevole. Era certo che se avesse fatto qualcosa di sbagliato, la bambina sarebbe fuggita via a gambe levate.

Invece, lei fece alcuni passi esitanti nella sua direzione, stringendo i lembi del vestitino logoro che indossava. Non piangeva più e l'aria imbronciata divenne cauta e curiosa. Poteva avere cinque anni o forse poco più e Albert fu quasi certo che si fosse persa.

"Sei... una specie di folletto?", chiese squadrandolo dalla testa ai piedi. E lasciandolo basito. Lui aveva pensato a una ninfa, ma quella buffa ragazzina piena di lentiggini gli stava dando del folletto! Certo, aveva strappato i pantaloni e si era sbucciato le ginocchia quando era caduto dall'albero ed era certo che la camicia di fattura italiana non fosse in condizioni migliori, tuttavia era sicuro che i folletti dovessero avere un aspetto un po' diverso dal suo.

E tuttavia, voleva giocare un po' con lei, visto che raramente aveva contatti con qualcuno della sua età: "In verità... sono uno gnomo", disse spalancando un po' gli occhi e alzando Poupee verso di lei. "E ho il potere di incantare gli animali!".

Fu il turno della bambina di spalancare le palpebre, rivelandogli due iridi più verdi dell'erba e delle fronde degli alberi. Era proprio certo che non esistessero le ninfe, poi?

"Davvero?!", sillabò lei avanzando ancora e fermandosi a pochi passi.

Albert annuì. "Guarda". Prese la sua piccola puzzola e se la mise sulla spalla, quindi allargò le braccia e la indusse a passare da un lato all'altro correndo dietro il collo. Ripeté l'operazione più volte finché la bambina non rise e si mise ad applaudire, costringendolo a inchinarsi come dopo uno spettacolo. "Et voilà!", terminò.

"Parli anche in modo strano!".

"E tu sei più carina quando ridi che quando piangi", le disse d'impulso.

La ragazzina smise di ridere di colpo e si portò le mani alle labbra. Albert si domandò se avesse detto qualcosa di sbagliato e l'avesse offesa. D'altronde, a undici anni quanti bambini poteva dire di aver frequentato veramente? E quella era una bambina, di certo più sensibile di un maschietto come Archie o...

"Tu sei come Anthony!". Fu come se lo avesse colpito e Albert cominciò a cercare, nei recessi della sua memoria, un'occasione nella quale avesse già incontrato la bambina di fronte a sé. Conosceva... suo nipote? Quello che aveva solo due anni meno di lui ed era rimasto orfano da poco? Lo stesso ragazzino che piangeva la morte di sua madre e di quella sorella che lo era stata altrettanto per lui? Il ragazzino che sentiva spesso singhiozzare di nascosto e che non poteva più avvicinare perché lo avrebbe riconosciuto e non avrebbe dovuto?

"Chi è Anthony?", chiese fingendo di non sapere che a quell'ora, molto probabilmente, aveva già terminato la sua cena e la sua tata lo stava accompagnando a fare il bagno nell'ala della villa di Lakewood che a lui era preclusa.

"Anthony è... diciamo che è... oh, non lo so! Non so bene neanche cosa sono io!".  Sbatté le mani sulla gonna in un gesto frustrato e Albert inarcò un sopracciglio in modo interrogativo. "La famiglia Lagan mi ha presa come compagna di giochi per Eliza. Siccome Annie sta dai Brighton, ho pensato che avremmo potuto incontrarci visto che siamo in due famiglie importanti. Ma lei è stata adottata... io invece sono solo una specie... beh, di cameriera. Qui vicino abita quel loro cugino, Anthony, e anche gli altri, Archibald e Alistair...".

Mentre la ragazzina bionda si spiegava, Albert deglutì a secco, diviso tra il desiderio di gridarle a gran voce che faceva parte della stessa famiglia e quello di intimarle di fuggire dai Lagan. In realtà, a fuggire doveva essere lui, perché se quella ragazzina era in casa dei suoi parenti, non doveva sapere nulla della propria esistenza. E allora perché stava lì a bearsi della sua compagnia così deliziosa e spensierata, bevendola come fosse l'acqua fresca del fiume?
"... oh, a proposito, io mi chiamo Candice White, ma tutti mi chiamano Candy. Ho sei anni e... vengo dalla Casa di Pony".

Albert, che si stava arrovellando per capire come presentarsi, rimase con la mano a mezz'aria prima ancora di stringergliela: "La Casa di Pony?".

Candy guardò in basso e il suo viso parve arrossarsi, mentre sembrava di nuovo triste. Un leggero venticello le scompigliò i capelli, facendogli provare un moto di tenerezza e qualcosa che riconobbe solo successivamente come istinto di protezione. Soprattutto dopo aver ascoltato quello che ebbe da aggiungere. "Era la mia casa, l'orfanotrofio nel quale sono cresciuta. E mi manca tanto". Di colpo, come se si fosse riscossa, alzò gli occhi solo un po' umidi su di lui, trattenendo stoicamente le lacrime: "Ma non piangerò! Sarò forte e... carina", ridacchiò ripetendo le sue parole di poco prima.

Albert le si avvicinò, chiudendo la distanza e ponendole una mano sul capo in una carezza da fratello maggiore. Quello che avrebbe voluto continuare a essere per Anthony e che non sarebbe più stato. "Sei una bambina molto coraggiosa, sono sicuro che te la caverai! E io non sono uno gnomo, né un folletto. Mi chiamo Albert, ho undici anni e lei è la mia moffetta Poupee", disse indicandola mentre gli si arrampicava sulla spalla.

Candy gli strinse la mano, prima di farlo con la zampetta di Poupee, ridendo divertita: "In effetti sembri più un principe caduto da un albero. Oppure vieni dallo spazio?", domandò curiosa.

Un principe? Quel paragone lo fece rabbrividire per qualche motivo e si ritrovò a preferire gnomi e persino troll dei boschi.

"No, vedi... io abito...". Dove abitava? Cosa le avrebbe detto? Che stava nella capanna del bosco? Magari vivendo con il vecchio nonno povero come nel libro di Pinocchio? Di certo, nessuno avrebbe impersonato meglio di lui un burattino in mani altrui...

Una voce lontana lo fece sussultare: qualcuno lo stava chiamando. E non con il nome che aveva appena rivelato alla piccola Candy.

"Che succede?", domandò lei vedendolo voltarsi.

"Devo andare".

"Ma...".

"Sai come tornare dai Lagan?".

"Sì, certo, però...".

Accidenti, non le aveva neanche chiesto che razza di dispetto le avessero fatto per farla piangere e scappare! Però non c'era più tempo: "Allora vai, io devo correre a casa o rischio una punizione!". La punizione che lo aspettava era non poter uscire per il resto della primavera e persino per l'intera estate. E pensava di essersela appena guadagnata.

"Vuoi dire che anche tu sei scappato di casa?".

"Sì...", ammise imbarazzato, con un sorrisetto sbilenco, cominciando a girarsi. "Mi raccomando, stai attenta e abbi cura di te. Non perderti, mi raccomando!". Quella sera avrebbe parlato con Georges e gli avrebbe chiesto lumi su quella nuova componente della famiglia: la conosceva da pochi minuti e già gli dispiaceva per lei.

"Quando potremo rivederci?". Albert, che stava per correre via, si bloccò. Quando? Forse mai, avrebbe dovuto risponderle, ma non voleva discutere o rattristarla.

"Un giorno, magari quando saremo più grandi. Chissà". Il visino di lei era cristallizzato in un'espressione di stupore e incomprensione e Albert le fece l'occhiolino. "Addio, ragazzina".

E, finalmente, corse via. Corse perché non voleva che lei udisse che lo chiamavano William. Corse perché una parte di sé aveva riconosciuto in quella bambina di nome Candy la libertà che anelava e voleva che lo ricordasse solo come Albert. Albert il folletto, lo gnomo, persino il principe sporco caduto da un albero. Ma non il ragazzino erede di una responsabilità che lo imprigionava.

In cuor suo, sperò di rivederla davvero, un giorno. Magari, allora, sarebbe davvero stato libero come il vento.

Il destino, a volte, poteva essere imprevedibile.
                                                                         
   
 
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