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Autore: Adeia Di Elferas    14/08/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Grazie...” soffiò Caterina, mentre il giovane che l'aveva accompagnata l'aiutava a smontare di sella.

“Da qui in poi ci pensano le monache.” fece quello, con un cenno del capo per accomiatarsi.

La Sforza annuì e fece i pochi passi che la dividevano dall'ingresso del convento. Si fece riconoscere dalla suora che faceva da piantone e poi si lasciò avvolgere dal clima immobile di quel luogo.

Appena varcata la soglia, infatti, benché fuori iniziasse a far chiaro e la vita si stesse già facendo brulicante, si veniva subito avvolti da una patina silenziosa e antica. Se non fosse stata così impaziente di vedere la figlia, la Leonessa ne sarebbe rimasta ammaliata.

La religiosa che l'aveva presa in custodia camminava lentamente, senza profferir parola, le mani giunte in grembo e lo sguardo basso. Per la prima volta, nel notare l'atteggiamento mesto della sua accompagnatrice, la Tigre si chiese se tutto fosse andato per il verso giusto.

Da un lato, pensò, quella mestizia era tipica di quel genere di monache non più giovani e arcigne, e così il silenzio era parte integrante del monastero... Tuttavia non poteva evitare alla sua mente di fare un altro collegamento, molto meno tranquillo. Ricordava benissimo – fino a quel giorno aveva cercato di non farlo, ma in quel momento era inevitabile – l'immobilità del palazzo del Governatore di Imola, quando, in piena notte, era accorsa da sua sorella Bianca, partoriente e dichiarata in pericolo di vita.

Quella volta, non poteva scordarlo, aveva visto servi e dame di compagnia piangere sommessamente e parlare a voce bassa negli angoli più disparati... Lì in convento, invece, pareva non esserci nessuno a parte lei e la suora che le camminava zoppicante al fianco.

Quella sensazione appiccicosa e sgradevole non la voleva lasciare. Anche se la sua mente tentava di imporre una visione positiva della situazione, non riusciva a impedire alla sua schiena di velarsi di sudore gelido, né alle sue mani di essere attraversate da un sottile tremito.

Arrivate davanti alla porta della celletta di Bianca, la suora disse: “La trovate lì. Ora scusate, devo tornare al portone.”

Caterina ringraziò, ma solo mimando le parole con le labbra, incapace di trovare voce. Posò un istante una mano sulla porta, temendo all'improvviso quello che vi avrebbe trovato dietro. Poi, come in un sogno, sentì la voce di sua figlia Bianca, dolce, provata, ma felice, e tutte le paure svanirono in un istante.

La Sforza sentì tutto il suo corpo rilassarsi in un solo istante, così tanto da farle quasi cedere le ginocchia. Senza altri indugi, aprì la porta e si trovò davanti una scena raccolta e tanto tranquilla da renderle difficile credere che solo fino a poco prima, probabilmente, in quella stessa stanza si erano sentite le grida della giovane, le indicazioni veloci e dirette della levatrice, e l'affaccendarsi frenetico delle suore accorse in aiuto.

La Riario, nel vedere la madre, sorrise. Era pallida, ma era evidente che stesse bene. Il suo volto era disteso, i suoi occhi limpidi... E in braccio teneva un fagottino avvolto in una tela candida.

Come se avesse i piedi incollati al pavimento, la Leonessa non riuscì a muovere più di un passo, ma trovò le parole per chiedere: “Dunque è andato tutto bene?”

“Sì.” annuì la giovane, i capelli biondi intrisi di sudore che un po' stonavano con le iridi blu accese di entusiasmo.

“Vostra figlia – disse senza troppi preamboli la levatrice, seduta accanto al letto – è stata esemplare, vi dico! Ha partorito in tempo brevissimo e senza alcun problema.”

“Potete lasciarci sole?” chiese Bianca, guardando la levatrice – a cui Caterina stava porgendo un silenzioso ringraziamento per il ragguaglio – e le due suore che l'avevano assistita.

Tutte e tre le donne non ribatterono, rispondendo prontamente a quella richiesta andandosene.

“Non vuoi conoscere tuo nipote?” chiese la Riario, guardando sorridente, ma un po' confusa, la madre, che restava ancora a una certa distanza da lei.

Camminando lentamente, senza capire cosa la trattenesse dall'andar più veloce, la milanese si avvicinò e sussurrò: “Allora è un maschio..?”

“Pier Maria – fece Bianca, con un sussurro pieno d'amore e orgoglio – guarda, c'è tua nonna che vuole conoscerti...”

La Tigre abbassò lo sguardo verso il volto del piccolo, l'unica parte di lui che si potesse vedere, nella fasciatura in cui era stato avvolto. Aveva gli occhietti chiusi e la bocca contratta, ma anche se il naso era ancora quasi invisibile e la testa era coperta da appena qualche capellino bianco, la Sforza poteva comunque già vedere una netta somiglianza con sua figlia.

“Sembra te appena nata...” disse, con un mezzo sorriso, ricordando quanto, nel lontano 1481, fosse stata felice di avere finalmente dato alla luce una femmina, ma ricordò anche come quella felicità era stata subito offuscata dall'innata repulsione legata alla consapevolezza di come quella bambina fosse stata concepita.

“Spero che prenda anche tanto da te.” ammise la giovane, scoprendo un po' di più il volto paffuto del piccolo, come a invitare la madre ad accarezzarlo.

Caterina, invece, restava immobile a guardarlo, con un'espressione indecifrabile, le labbra appena schiuse e lo sguardo distante.

Dato che la Leonessa non accennava a fare quello che la Riario si aspettava da lei, toccò proprio alla ragazza incoraggiarla in tal senso: “Senti com'è morbido – le disse – senti la sua guancia, sembra un petalo di rosa...”

Capendo che Bianca si aspettava quel gesto d'affetto da parte sua, la Sforza allungò una mano e sfiorò appena la pelle candida e vellutata del neonato. Sua figlia aveva ragione... Era qualcosa di tanto soffice e impalpabile da sembrare irreale.

“La levatrice mi ha detto che è un bambino perfetto...” sussurrò la Riario, mostrando per la prima volta da che la madre era arrivata tutta la sua stanchezza: “Mi sembra impossibile di essere riuscita a fare una cosa tanto... Bella.”

“Posso tenerlo in braccio qualche istante?” chiese repentinamente la Tigre, sorprendendo la figlia, che aveva creduto che per lei fosse stato già abbastanza difficile – anche se non sapeva dire esattamente perché – gestire quel piccolo contatto appena avuto.

“Certo...” accettò subito la Riario.

Caterina, in realtà, si era offerta per tenere un attimo il piccolo soprattutto per alleviare la figlia che le pareva stanca e pallida. Tuttavia, nel momento stesso in cui lo raccolse tra le sue braccia e sentì il peso del suo corpicino e avvertì il leggero movimento del suo torace a ogni respiro, una commozione profonda la prese e la costrinse a voltarsi per qualche secondo, per non mostrare gli occhi che si erano fatti lucidi.

Bianca, che la conosceva bene, aveva capito il motivo di quel voltarsi di spalle e non disse nulla, anzi, si perse per qualche momento a osservare le spalle della madre, che si curvavano un po', come a proteggere il neonato che teneva al petto.

Appena fu tornata padrona di sé, la Tigre si girò di nuovo verso la figlia e, tenendo lo sguardo puntato sul nipote, sussurrò: “Lo trovo davvero bellissimo...” poi, spostando appena il telo che lo avvolgeva, per liberargli un po' di più il viso, aggiunse: “Non dovresti farlo fasciare troppo strettamente... Anzi, a mio avviso non dovresti farlo fasciare e basta...”

“Non so...” ribatté piano la Riario, che, dal canto suo, si era fatta spiegare dalla levatrice cosa fosse meglio e quali fossero i dettami più all'avanguardia in merito a quel genere di faccende.

“Io non l'ho fatto con nessuno di voi – riprese la Leonessa, con maggior sicurezza – e siete cresciuti tutti quanti sani e forti...”

“Hai ragione – annuì la figlia – siamo cresciuti quasi tutti sani e forti...” e volutamente omise il nome di Livio, convinta che, tanto, il suo fantasma stesse aleggiando nell'anima della madre così come nel suo.

Un po' rabbuiata, la Sforza si accigliò e, andandosi a sedere laddove fino a poco prima era stata la levatrice, fece attenzione a non disturbare Pier Maria, tenendolo stretto a sé con delicatezza, e concluse: “Con le fasce tanto strette la pelle non respira... E le ossa vengono dritte da sole, sono tutte storie, quelle che dicono sul fatto che se non si fascia un bambino gli verranno le gambe storte...”

“Hai ragione.” ripeté allora la Riario, ma nel suo intimo pensò che avrebbe fatto come le pareva, se ne avesse avuto la possibilità.

“Comunque...” riprese Caterina, passando con leggerezza la punta dell'indice sul naso del nipote e sorridendogli: “Sono felice che sia andato tutto bene. Lo immaginavo, ma non si è mai tranquilli fino alla fine...”

“Sono tua figlia – le fece presente Bianca – e tu hai partorito otto volte senza grossi problemi... Lo sapevo anche io che non poteva andare storto nulla, ma è vero: fino alla fine non ci si riesce a calmare. Anche perché...”

“Anche perché..?” fece la milanese, che non aveva mai sopportato le reticenze.

“Anche perché in questi ultimi giorni ho pensato molto a mia zia.” ammise la giovane, che non aveva mai fatto mistero alla madre di essere spesso intenta a ragionare sul passato e su come Bianca Landriani fosse morta, giovanissima, a ridosso del parto: “Mi chiedevo... Mi chiedevo se fossi morta, cosa ne sarebbe stato del bambino, se sarebbe sopravvissuto o meno... E, in tal caso, se alla fine lo avreste messo nella tomba assieme a me, com'è successo con mia zia e la sua bambina.”

“La figlia di mia sorella non è stata tumulata con lei.” disse allora Caterina, scuotendo piano il capo e guardando Bianca con aria interrogativa: “Lo sai bene...”

In effetti la Riario aveva sentito dire di come, nell'immediato, la piccola, nata morta, fosse stata sepolta altrove, in terreno non consacrato. Tuttavia sapeva che qualche tempo dopo si era cambiata la destinazione del corpicino...

“In realtà – disse, sentendosi in colpa per non averne mai parlato con la madre, ma scusandosi con la consapevolezza che era molto difficile affrontare certi argomenti con la Tigre – ho saputo qualche tempo dopo, da una serva che da Imola era passata a Forlì, che in un secondo momento Tommaso l'aveva fatta spostare e l'ha fatta tumulare assieme a mia zia, al Convento dell'Osservanza, a San Michele. In modo che potessero stare insieme per sempre.”

La Sforza sentiva un nodo alla gola. Si chiedeva come mai nessuno gliene avesse mai fatto menzione e, allo stesso tempo, si sentiva profondamente grata a suo cognato, per aver arrischiato una simile mossa. Probabilmente, pensò, non l'aveva informata per paura che si opponesse...

“Tommaso ha fatto bene.” concluse, con la voce che appena si incrinava.

Forse per il forte fremito che le aveva attraversato le mani, o forse per l'estrema sensibilità da neonato che aveva e che percepiva la tristezza della nonna, Pier Maria scoppiò a piangere.

“Sembra il miagolio di un gatto...” rise Bianca, allungando le mani affinché la madre le rendesse il figlio.

“Sì, i bambini appena nati piangono così...” commentò la Sforza, trasbordando con cura il piccolo De Rossi.

“Lo so...” convenne la ragazza, ricordandosi i pianti, tra tutti, di un Giovannino appena nato e che ancora si chiamava Ludovico: “Credo che abbia fame...” diagnosticò subito, vedendo il piccolo volto di Pier Maria contrarsi disperato a ogni respiro.

“Allattalo, non preoccuparti per me.” disse subito Caterina, per poi esitare un attimo e aggiungere, cauta: “Se preferisci esco...”

“No, no...” fece subito la Riario: “Solo che... La levatrice mi ha spiegato, ma...”

“Se vuoi, allora, ti aiuto...” si offrì all'istante la Leonessa: “Io non ho allattato molto, ma soprattutto con Giovannino, insomma...”

Detto fatto, la Sforza diede consigli alla figlia, mentre il neonato si attaccava al seno senza problemi, con una voracità che lasciava intendere il suo grande appetito.

“Aveva proprio fame...” commentò la Tigre, guardando soddisfatta come Pier Maria mangiava con foga: “Si vede che è un bambino sano...”

“Voglio che Troilo lo sappia subito, che è diventato padre.” sussurrò Bianca, mentre accarezzava appena la testina del piccolo: “Voglio che sappia che è nato un maschio, in salute e pieno di forza...”

Stanco per la poppata, che era stata breve, ma intensa, il bambino fece un breve suono gutturale e poi strizzò gli occhi verso la madre. Caterina le indicò come fare a farlo digerire e la preparò anche ai primi cambi di biancheria, sottolineando come sarebbero stati frequentissimi, nei primi tempi.

“Lo so, lo so, mi ricordo anche quando erano piccoli i miei fratelli...” annuì lei, seguendo pedissequamente le indicazioni materne: “Ma voglio tornare a quello che dicevo prima: Troilo deve essere informato.”

La milanese, conscia delle promesse fatte, sospirò e assicurò: “Non appena rientrerò alla villa, manderò una persona di fiducia a San Secondo.”

La giovane la ringraziò e poi sistemò il figlio accanto a sé sul letto, in modo che fosse ben in vista anche per Caterina. Nella fretta di correr dietro ai bisogni del neonato, la Riario non si era ancora riallacciata il camicione da notte, e per qualche istante l'attenzione della Sforza venne catturata dal suo seno florido e dal capezzolo pallido, di un rosa appena accennato, del tutto simile al resto della sua pelle. Girolamo Riario era stato un uomo dalla pelle chiara, indubbiamente, ma non così tanto bianca... Almeno in quello, pensò Caterina, era certa che sua figlia avesse preso da lei e non da lui.

Anche Pier Maria – per quanto valesse quell'impressione, essendo nato da poche ore – era niveo...

“Essendo un maschio – sussurrò la Leonesssa, quasi tra sé, mentre vedeva la luce del giorno illuminare la piccola finestra della cella – adesso tu e Troilo dovete pensare bene a cosa fare...”

“Lo so.” ammise la Riario: “E questo è un altro dei motivi per cui vorrei che fosse informato il prima possibile. Avevamo fatto dei progetti, valutando le varie possibilità, ma...”

“Ma sono passati mesi e vuoi essere sicura che sia ancora tutto come stabilito.” concluse per lei Caterina.

“Sì.” fece Bianca.

Era più sconvolta di quanto desse a vedere per quello che le era successo nelle ultime ore. Anche se lo sentiva muovere dentro di sé, il figlio fino al momento del parto era stato una sorta di entità astratta. Ora che lo aveva accanto a sé, che lo sentiva respirare, che lo aveva nutrito con il suo latte, ora sì, finalmente, era vero. E saperlo vero era qualcosa che le faceva girare la testa e la riempiva allo stesso tempo di gioia e paura. Era entusiasta per il risultato del suo travaglio, per il maschietto che aveva poppato con forza e che aveva i colori tranquilli e teneri di un neonato in salute. Era, però, anche terrorizzata dalle responsabilità che quel fagottino portava con sé, per il futuro incerto e per le incognite legate ai pericoli immediati... E, se ne vergognava, ma così era, anche per la lunga separazione con Troilo.

Istintivamente si fidava di lui e delle sue promesse, anche se era lontano lo sentiva al suo fianco e avrebbe messo una mano sul fuoco per lui. Tuttavia il suo lato pragmatico, ereditato dalla madre, le imponeva di chiedersi cosa sarebbe successo se all'improvviso si fosse sottratto al suo ruolo di padre e compagno e la sola prospettiva l'atterriva.

“Vuoi che faccia riferire altro, al tuo Troilo?” chiese Caterina, vedendo la figlia molto pensierosa.

“Che lo amo.” sussurrò lei: “E che lo voglio.”

La Sforza si lasciò sfuggire una mezza risata sotto tono, più per il modo in cui Bianca aveva aggiunto l'ultimo inciso che non per il suo significato reale. Trovava, anzi, normale e giusto che sua figlia desiderasse l'uomo per cui stava rischiando così tanto. Questo semplice fatto rendeva tutto più facile da accettare, almeno per lei.

La Riario, invece, travisò un po' quella reazione e, imbarazzata, arrossì appena e soggiunse, a mo' di toppa: “Io lo voglio... Qui. Nel senso che lo desidero al mio fianco...” si schiarì la voce: “Ci sono tante... Tante cose da decidere e da fare... Tanto di cui parlare...”

“Certo...” annuì la Tigre, benevola, poco avvezza a vedere Bianca in imbarazzo a quel modo, anzi, ben memore di quando le aveva confessato la sua relazione con il De Rossi con una franchezza che nulla aveva di quella pudicizia: “Ma se dai retta a me, anche se ovviamente sarete voi due a decidere, quando parlerete vi consiglio di stare attenti, se volete far passare Pier Maria come primogenito maschio nato dopo le nozze... Per introdurlo alla vostra corte mentendo sull'età, servirà comunque che sia credibile...”

Bianca sembrava confusa. Anche se si trattava di un argomento che avevano già sfiorato, la Leonessa riteneva importante ribadire il concetto. Dovevano restare almeno un anno senza altri figli, se volevano un domani far arrivare Pier Maria a San Secondo e far credere a tutti che fosse stato concepito appena dopo le loro nozze...

“Non preoccuparti – disse invece, trovando un accanimento inutile discutere di certe cose con sua figlia in quel momento – se vorrai, io ti aiuterò, in qualsiasi modo. Adesso riposa e non pensare...”

“Ho capito di cosa stai parlando.” fece invece la Riario: “E so anche io che sarebbe una cosa importante tenerlo lontano da San Secondo finché non avrà un'età più facile da confondere...”

“Se vorrete, io sono pronta a fare la nonna.” si propose Caterina: “Ma solo se sarete entrambi d'accordo. Mi rendo conto che posso non ispirare la fiducia di tutti...”

“Non dire così...” sospirò Bianca e poi, finalmente, si sentì cedere alla stanchezza e così chiese, con un filo di voce: “Vorrei dormire... Pensi tu a Pier Maria..?”

“Certo...” sorrise Caterina e, mentre la figlia si assopiva, prese il piccolo tra le braccia e, lentamente, lo cullò e lo sistemò nel lettuccio che era stato portato nella cella appositamente per lui.

Con un occhio alla figlia e uno al nipote, la Sforza si permise infine di rilassarsi a sua volta, compiacendosi tanto del felice esito di quel parto, quanto di poter essere lì, in quel preciso istante, a godersi quella scena di pace e serenità.

 

Machiavelli stava imparando in fretta a seguire i ritmi di Cesare Borja, un uomo, a suo modo di vedere, nato per vivere di notte. Al mattino era difficile vederlo in attività prima del mezzogiorno e il pomeriggio passava spesso tra passatempi e svaghi, mentre dopo cena iniziava la vera giornata del Valentino.

Il fiorentino ne era affascinato e sempre di più si sentiva lusingato dal modo in cui il figlio del papa se lo teneva vicino. Era difficile dire se lo considerasse davvero un amico o se traesse piacere nel sentirsi da lui riverito e osannato, ma a Niccolò bastava poter vivere il più possibile a contatto con quella strana creatura.

Quella notte, però, Cesare non si era ancora palesato e lo aveva messo ad attenderlo in uno delle salette dove spesso si intrattenevano parlando di politica e fantasticando sui confini più estremi che un'alleanza tra i Borja e Firenze potesse sfiorare.

Machiavelli, ben disposto verso il Duca di Valentinois, in un primo tempo non si era spazientito, ma, con l'andare delle ore, si era chiesto cosa mai potesse essere capitato al Borja per distoglierlo dai loro consueti dialoghi. Non credeva possibile che lì a Imola fosse successo qualcosa di urgente, dato che non aveva avuto avvisaglie né di disordini, né di altre cose gravi... E non voleva nemmeno credere che il Valentino avesse lasciato per qualche motivo la città senza avvisarlo, ma, anzi, prendendolo in giro a quel modo...

Malgrado la fiducia cieca in Cesare, però, Macchia aveva passato troppi anni della sua vita – specie in gioventù – a sentirsi raggirato e dileggiato da uomini che avrebbero dovuto serbare per lui se non simpatia, almeno un briciolo di rispetto... Perciò, armatosi di coraggio, si alzò dalla poltroncina su cui ormai stava da ore e andò alla porta, deciso a far chiarezza sul motivo di quell'attesa estenuante.

Proprio quando stava per raggiungere l'uscio, il Duca in persona lo attraversò e, senza quasi guardarlo, andò a buttarsi su una delle poltroncine, esclamando: “Oh! Ser Niccolò! Che giornata da incubo! Che serata di oscuri presagi! Che notte di orrende notizie!”

Con il cuore che batteva veloce nel petto, Machiavelli ritornò subito al suo posto e, già dimentico dell'irritazione provata fino a poco prima, si sporse in avanti a chiese al costernato Borja cosa fosse accaduto: “Qualcosa di brutto alla famiglia?” suggerì: “Vostro padre? Vostra sorella?”

Il Valentino agitò una mano per aria, e poi esclamò: “Ma quale famiglia! Quei maledetti..! Il Montefeltro, con tutti i suoi tirapiedi, è rientrato a Urbino... Non gli era bastato saccheggiare Fossombrone! Dicono che Urbino abbia accolto quel maledetto come un eroe... E ancora non so nulla di quanto sia accaduto a Calmazzo!”

“A Calmazzo..?” chiese Niccolò, non campendo cosa c'entrasse quel paesello sperduto a sud di Urbino.

“Ma sì! Ma sì!” sbottò il Borja: “Ma dove vivete?! Non si parla d'altro oggi se non dello scontro in campo aperto a Calmazzo! Io avevo schierato i migliori! Ma cosa può essere successo, cosa, mi dico io, se Guidobaldo è rientrato indisturbato a Urbino?!”

Rimpiangendo di non aver con sé il necessario per prendere appunti, Macchia cercò di accendere la mente a sufficienza per ricordare a memoria ciò che il Duca avrebbe detto di lì in poi, in modo da poter trascrivere tutto in un secondo momento.

Proprio per dare un ordine più facilmente memorizzabile alla spiegazione di Cesare, Niccolò provò a orientare il discorso, chiedendo: “Chi erano i Capitani, per ciascuna parte?”

Sfatto e atterrito per il silenzio dal fronte, il Valentino rispose docilmente, come se quello fosse solo un esercizio come un altro per calmare i nervi: “Per i ribelli so che c'erano in campo quel gran farabutto di Giampaolo Baglioni, Giovanni Rossetti, Oliverotto, che Dio lo fulmini, il Vitelli, e perfino Francesco e Paolo Orsini...”

“Mentre per parte nostra?” chiese Machiavelli, usando volutamente il termine 'nostra'.

Inconsciamente rincuorato proprio da quel dettaglio, il Duca rispose: “Ugo di Moncada, quel signore di Bartolomeo Capranica... Ramiro Lorca... Giovanni Sassatello...” ogni nome sembrava pesargli, come se incolpasse ciascuno di loro per non avergli fatto sapere all'istante chi avesse vinto a Calmazzo: “Il mio parente, Petrus Loduvicus de Borja e... Michelotto...” a quell'ultimo nome, la smorfia del Valentino fece capire a Niccolò quanta fosse anche la paura di saper morti uomini che considerava amici fedeli.

“E quanti erano gli uomini schierati?” indagò il fiorentino, sempre più proteso in avanti, il naso adunco che vibrava a ogni parola.

“A quel che ne sappiamo per parte loro non più di quattro o cinquemila fanti...” soppesò il Valentino.

“E noi?” chiese allora Machiavelli.

“Cento armigeri, cinquecento fanti, e duecento cavalleggeri, uomo più uomo meno...” deglutì Cesare.

Niccolò tacque. La differenza era schiacciante... Con quel dato alla mano era molto più facile capire quanto il Valentino fosse in ansia in quel momento.

“E come mai avete suscitato la battaglia con una simile differenza? Ancora qualche tempo e avreste potuto prendere tutti gli uomini che volevate nel fiorentino e...” disse il portavoce della Repubblica senza riuscire a frenarsi.

“I miei uomini sono più capaci e meglio armati!” gridò Cesare, alzandosi di scatto e sputacchiando a ogni nuovo urlo: “Non abbiamo bisogno della superiorità numerica! Abbiamo Dio dalla nostra parte! Noi siamo nel giusto! Loro sono solo dei fannulloni incapaci! Noi avevamo la cavalleria! E loro cosa?! Eh?! Cos'hanno?! Quattro mercenari messi insieme all'ultimo minuto con la promessa facile di qualche soldo! Noi siamo dei gran signori, loro solo dei pezzenti! La vera nobiltà d'animo vincerà, non la superbia di questi condottieri ribelli!”

Un po' spaventato per lo scatto del Borja, Niccolò si era alzato a sua volta, mettendosi sulla difensiva e, placate le grida, aveva mestamente fatto notare: “Questo non è uno scontro di moralità, mio signore, ma di spade e scudi, di lance e spingarde... Chi ne ha di più e li usa meglio, vince...”

“Mi state dicendo che non sono capace di fare la guerra?! È davvero questo che mi state dicendo, Niccolò?” fece allora Cesare, abbassando la voce e avvicinandosi al fiorentino: “Io credevo di avere in voi un amico... Invece devo dedurre che siete come tutti gli altri...”

“No, no, in me avete un amico.” lo corresse Macchia, che non ne ebbe il coraggio, ma che avrebbe voluto sottolineare come si ritenesse un grande esperto di tattica e strategia e, come tale, avrebbe potuto dargli ottimi consigli.

“Se siete davvero mio amico – concluse il Valentino, come svuotato da ogni collera e da ogni altra emozione – bevete con me questa notte e traghettatemi fino all'alba... Farò venire qualche bella donna, se vorrete...”

Il pensiero del fiorentino andò per una frazione di secondo appena a sua moglie, Marietta, ma la sua coscienza fu la prima a ridergli dietro: non si era mai fatto problemi a tradirla a Firenze, pur avendola lì, disponibile e sempre pronta a soddisfarlo, perché dunque avrebbe dovuto farsi problemi a tradirla a Imola, lontano da lei, da giorni insoddisfatto e con la necessità di stemperare un po' la tensione?

“Va bene.” accettò quindi, sperando che gli anni passati a frequentare osterie, bevendo e godendo delle grazie di qualsiasi donna gli capitasse per le mani, lo aiutassero a tenere il passo con il figlio del papa.

“Non ve ne pentirete.” gli assicurò il Borja: “Ma spero che siate allenato, amico mio, perché non è facile, tenere i miei ritmi, in questo genere di battaglia...”

Solo a mattina fatta, stordito per il vino e ancora stanco per le lunghe schermaglie amorose in cui si era trovato invischiato, Niccolò poté dire che effettivamente il Duca di Valentinois aveva una resistenza e una costanza non comuni, in quel genere di battaglie. Peccato solo che fosse così bravo solo in quello combattute a tavola o a letto, e non in quelle che si consumavano in campo aperto...

 

   
 
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