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Autore: ShadeOfCool    17/08/2022    0 recensioni
Una serie di corrispondenze per sfogare il mio bisogno implacato e implacabile di scrivere lettere agli uomini che ho amato.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Caro,
 
mi manchi.
E quando mi manchi, mi manca tutta la mia famiglia, e il rapporto che non ho mai avuto con mio padre, e quello che avevo costruito con mia madre prima di partire, il mio gatto e la mia casa. E questo non ha senso, e mi dà fastidio.
La prima volta che mi sei venuto vicino il tuo odore mi ha fatto paura. Ho paura dell’odore della pelle degli altri, non sono ancora riuscita ad abituarmi a quello di mia madre, e il mio – il fatto di non conoscerlo – mi spaventa ancora di più. Ma quando mi sei venuto vicino sapevi di vestiti lavati a mano, di viaggi in treno e frutta di stagione. Sapevi delle cose normali, della vita e della sua noia, che mi è sempre mancata.
Prima che mi venissi vicino ho avuto paura di pranzare fuori casa per almeno tre mesi. Ho rifiutato tutti i tuoi inviti e quelli degli altri, perché non sapevo cosa sarebbe successo. Non sapevo se avrei avuto desiderio di piangere, o di andare via. Ma tu mi sei venuto vicino, e il tuo respiro mi ha ripulita dalla paura. 
Prima che mi venissi vicino, uscire di casa significava portarmela dietro, tutti i suoi mobili, i suoi mattoni, la televisione, il frigorifero, il lavandino. Lei mi teneva prigioniera, mi voleva solo per sé. Ho provato a spiegarle che andare a fare una passeggiata non era un tradimento, che sarei comunque tornata da lei, perché è questo che si fa con le case: ci si torna. Ma a lungo non mi ha ascoltata. Non so cosa tu le abbia detto, ma ti ringrazio, mi hai aperto la porta.
Prima che mi venissi vicino, io mi sentivo come se nessuno mi fosse mai venuto vicino, come se ci fossero chilometri e chilometri tra me e tutte le persone che non mi hanno mai toccata, delle quali non ho mai sentito l’odore.
È un gran problema che mi porto dietro. Quando stavo con il Professore, gli prendevo la mano e lui la teneva rigida. Ci siamo ben più che toccati, ma era come se lui fosse sempre dall’altra parte del mondo. Allora non prendevo farmaci, ma non mi ricordo di una sola volta in cui ho sentito il suo tocco, un bacio, un respiro. Se guardo indietro alle notti in cui dormivamo insieme, mi sembra di vedermi lì da sola, che fingo di avere accanto qualcuno, come faccio da sempre, ogni notte, per non morire di paura.
Io ho paura di tutto. Ho paura di vivere, in primo luogo; di un vivere che io sento come il contrario di morire. E so che è sbagliato, magari, ma per ora è così. Dopodiché ho paura delle tende scure, del rumore delle motociclette, di morire investita, di vomitare, di non controllare il desiderio di mozzarmi un dito mentre taglio i cavoli, degli inverni troppi lunghi, che mia madre muoia. Certe sere ho così paura che chiamerei a dormire con me chiunque, una qualunque persona trovata per strada. Che mi rubassero tutto quello che posseggo, piuttosto che lasciarmi dormire da sola anche solo un’altra notte. 
Ho avuto paura anche l’ultimo giorno, sul treno. Ho avuto paura di non riuscire a controllarmi, di dirti che altro non volevo che baciarti il viso e stringermi a te, di fare qualcosa che avrebbe strappato per sempre il filo sottilissimo che ci lega. Per combatterlo, per combattermi, ho passato le due ore di viaggio a pensare a cosa sarebbe successo – nella versione che più mi avrebbe fatto stare bene, naturalmente.
E lì, in quella dimensione dove tua moglie non esiste, dove non desideri una vita che non sia con me dentro, in quella dimensione tu mi avresti spiegato delle donne di Cheb, che hanno combattuto contro i turchi per proteggere la città, e io avrei studiato le misure del tuo viso, nel disegno offerto dalla controluce. Avrei retto il tuo sguardo giusto un poco più a lungo, e ti avrei baciato piano. Con il treno che corre, con gli zingari del quarto vagone che ascoltano la musica, con la bambina che conta gli alberi con la madre, io ti avrei baciato. Poi tu avresti sorriso di nuovo, ancora una volta, ancora per l’ultima volta, e con la mia mano nella tua mano – come quel giorno che ci hanno insegnato la quadriglia – saremmo stati vicini.
Ti avrei detto che da quando ho deciso di rimuovere il dolore, ho per sbaglio rimosso anche tutte le altre cose, che non sento niente da nessuna direzione, ma che a te sì, ti sento. E alla fine avremmo deciso di non interrompere il nostro viaggio, di scendere alla fermata sbagliata e far finta di esserci persi.
Vorrei non si fermasse mai, questo treno che ci porta con sé. In treno con te, io non sono figlia di nessuno, non sono sorella di nessuno, sono solo tua, sempre tua. Sono tue le mie costole, tuoi i miei occhi, tuoi i miei femori, tuoi i miei polmoni. Sono tua dal momento in cui posi i tuoi occhi su di me a quando ti dimentichi che sono al mondo. Essere tua è l’unica cosa di cui non ho paura.
 
Tua fino alla prossima passione,
Zs
   
 
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