In the still of the night
44.
Non
riesco a capire cosa tutto questo significhi finché non sento le mani di
persone sconosciute guidarmi verso il bagno, dove mi lavano e mi vestono, e poi
di nuovo in camera, dove mi fanno bere e mangiare. Mi danno poco da bere e poco
da mangiare, perché nello stato in cui mi trovo non potrei sopportare di
digerire un intero pasto. Ma quel poco che mi danno mi basta per farmi sentire
meglio: sono un po' più vigile, la mia vista diventa più nitida, riesco a
muovermi meglio anche se ho le membra irrigidite e deboli, magre come sono. Sto
talmente meglio rispetto a prima che riesco a riconoscere la persona, in piedi
accanto alla porta, che inizialmente ho scambiato per una sagoma scura: è
Haymitch. Haymitch, che mi osserva come se stesse osservando una creatura
dell’orrore.
Tutto
ciò che è accaduto nell’ultimo mese e mezzo me lo racconta durante il viaggio
in hovercraft che ci porterà a casa, qualunque sia la casa a cui si sta riferendo
Haymitch. Dopo la morte della Coin e dopo avermi fatta uscire dall’Anfiteatro,
e dopo aver riportato la calma in mezzo al marasma che avevo causato con quella
freccia, hanno trovato il cadavere di Snow ancora legato al palo. Non hanno
indagato molto sulla natura della sua morte, da quanto mi dice Haymitch. Ciò
che più premeva loro, al momento, era capire cosa fare con me. La Ghiandaia
Imitatrice, il simbolo della Rivoluzione, che aveva appena ucciso la presidente
di Nuova Panem.
Si
è cominciato ad organizzare il mio processo e nel frattempo sono state indette
delle elezioni straordinarie. A vincere le elezioni è stata la Paylor, e con la
sua elezione è giunta anche l’istituzione della repubblica. Non ci sarà più un
regime in questa nazione, ma una repubblica, come quelle che esistevano già
secoli fa e che sono state narrate nei libri di storia.
Il
mio processo è iniziato e si è cominciato ad indagare sui motivi che mi hanno
spinta a compiere l’insano gesto mentre io, all’oscuro di tutto, vegetavo nella
stanza che era diventata la mia prigione. Molte persone hanno testimoniato in
mia difesa, compresi Haymitch e Plutarch, ma la testimonianza chiave del
processo è stata quella fornita dal dottor Aurelius, il mio strizzacervelli,
che ha visto in me una ragazza fragile, indebolita dalle sofferenze e dai
traumi subiti ed in un profondo stato di shock per ciò che aveva visto il
giorno del bombardamento. Sono stata riconosciuta incapace di intendere e di
volere, e per questo ho avuto il permesso di essere rilasciata e di tornare a
casa. Dovrò continuare la terapia psichiatrica, unica clausola che devo
rispettare per avere la mia libertà, anche se come libertà non è granché, dato
che da quel che mi dice Haymitch è considerabile più come un esilio che come un
vero lasciapassare.
-
Dov’è casa? – chiedo, la voce arrochita.
-
Al 12, dolcezza. Peeta ti sta aspettando – risponde, le labbra che si stirano
in una sorta di sorriso.
Peeta.
Peeta è al Distretto 12 e mi sta aspettando. Questo è un risvolto della storia
che non mi aspettavo di sentire.
-
Dov’è mia madre? – questo gioco di domande mi fa sembrare una bambina in cerca
di certezze, e forse un po' lo sono, perché di certezze io non ne ho più.
-
Lei è al Distretto 4. Sta aiutando a costruire un ospedale – dice. Si muove e
cerca qualcosa nelle tasche del suo cappotto. Tossicchia come per schiarirsi la
voce. – Mi ha chiesto di darti questa, appena ne avrei avuto la possibilità.
Haymitch
mi porge una busta bianca, una lettera. Riconosco mia madre nella grafia
svolazzante con cui è stato scritto il mio nome. Guardo la busta, ma non la
apro. La aprirò più tardi… forse. Dipende. Non lo so.
-
Non tornerà – ammetto. Non ho bisogno di una risposta.
-
Tu sai perché non può tornare – aggiunge Haymitch.
Lo
so, purtroppo. Papà morto, Prim morta, e almeno novemila persone morte. Il 12
non è un posto in cui vivere, è un cimitero a cielo aperto. È un luogo di morte
ed io l’ho visto bene, quel luogo di morte. So cosa mi aspetta al mio arrivo e,
da una parte, riesco a comprendere la mamma, riesco a comprendere il dolore che
la frena dal tornare a casa. Lei ha perso una figlia, io ho perso una figlia.
Abbiamo provato e stiamo provando lo stesso tipo di dolore. È un dolore che non
ti fa vivere, che non ti fa desiderare di vivere, e non esiste neanche una
parola per indicarlo. Quando perdi un compagno diventi vedova, e quando perdi
un genitore diventi orfana… ma quando perdi un figlio, che cosa diventi? Il
termine esatto non esiste. È una perdita così grave, così impensabile, e
nessuno si è assunto il compito di trovare il termine giusto da inserire nel
vocabolario. Nessuno è stato capace di descriverlo.
-
Perché tu e Peeta siete tornati?
-
Perché non abbiamo un altro posto dove andare – dice, e sembra sincero.
Io,
Peeta, e Haymitch. Manca solo Effie all’appello per completare il team delle
meraviglie, la Squadra del Distretto 12. Ma il team delle meraviglie non esiste
più. Quei giorni sono terminati.
Il
viaggio dura ore, ore in cui Haymitch prova a farmi mangiare e bere qualcosa.
Non lo faccio, e non mi interessa se lo deludo agendo in questo modo. Mi sdraio
sui sedili e fingo di dormire, e lascio che lui faccia finta che non sappia che
sto facendo finta di dormire. A farci i dispetti siamo ancora parecchio bravi,
noto compiaciuta.
È
sera inoltrata quando l’hovercraft atterra nel piccolo spiazzo del Villaggio
dei Vincitori e ci consente di scendere. Haymitch mi sostiene per la vita e si
mette un borsone in spalla, aiutandomi a camminare tra la neve. La prima cosa
che noto, anche se potrei sbagliarmi, sono le luci accese nelle case che sono
sempre state vuote, qui, a parte quelle in cui abbiamo vissuto noi. La casa di
Haymitch ha luci accese e fumo che esce dal comignolo, e le ha anche la casa di
Peeta. La mia, invece, no. La mia casa è buia. La mia casa è senza vita.
E
non è a casa mia che Haymitch mi conduce lentamente, adeguando i suoi passi ai
miei. Mi conduce a casa di Peeta. Andiamo verso la porta di servizio, quella
che affaccia sulla cucina, e la porta è già aperta per accoglierci. La porta è
già aperta, rischiarata dalla luce gialla che proviene dai lampadari, e c’è
Peeta sulla soglia.
C’è
Peeta con un sorriso enorme sulle labbra.
-
Bentornati – dice. – Bentornata a casa, Katniss.
-
Ti ho riportato la mogliettina, ragazzo! – esclama Haymitch.
Smetto
di ascoltare la serie di battute che si scambiano, perché non ho occhi né
interesse per nient’altro al di fuori del ragazzo che ho davanti. Il ragazzo
che ho imparato a conoscere davvero dopo i nostri primi Hunger Games, il
ragazzo di cui mi sono innamorata quasi senza accorgermene, il ragazzo che ho
sposato e con cui ho quasi messo al mondo una figlia. Il ragazzo che credevo di
non rivedere più.
Peeta
parla ancora, ma non lo ascolto. Torno a percepire qualcosa solo quando sento
il calore emanato dalle sue braccia che mi avvolge, ed il calore aumenta quando
inspiro anche il suo profumo. Il profumo di pane, di cannella, di casa.
-
Sei così infreddolita, tesoro. Ti preparo un bel bagno caldo, vuoi? Facciamo un
bel bagno caldo prima di cena – dice Peeta quando restiamo da soli in casa.
Haymitch è andato a casa sua, e Peeta mi deposita sulla sedia accanto al
caminetto.
-
Ho già fatto il bagno – protesto.
-
Ne fai un altro, che male c’è? Giusto per scaldarti un po'.
Vorrei
dirgli che mi scalderò lo stesso anche senza fare il bagno, semplicemente stando
accanto al caminetto acceso, ma sembra non volermi ascoltare e sparisce dalla
cucina per salire al piano di sopra. Mi lascia da sola, anche se solo per
cinque minuti. Torna di sotto dopo esattamente cinque minuti, come mi rivela
l’orologio sulla parete, e mi prende per mano. Mi sorride, mi accarezza le
guance. Mi invita a salire al piano di sopra.
In
bagno, davanti alla vasca, rimango ferma mentre Peeta mi spoglia degli strati
di abiti che mi hanno fatto indossare a Capitol City. Cappotto, camicia,
pantaloni, scarpe, intimo: Peeta toglie tutto e non fa commenti quando si trova
di fronte il mio corpo nudo, mezzo bruciato e magro, troppo magro. Non fa
commenti nel vedere il modo in cui mi sono ridotta. Non fa commenti nel vedere
l’ombra in cui mi sono trasformata durante la prigionia. Non fa commenti di
alcun genere, e guidandomi mi fa immergere nell’acqua calda.
Rimango
rigida, all’inizio, con le mani posate sul bordo della vasca pronte a scattare
se dovesse succedere qualcosa di improvviso, qualcosa che possa mettermi in
pericolo, ma il calore delle mani di Peeta, insieme al calore dell’acqua, mi
fanno rilassare. Mi tranquillizzo, e smetto di restare all’erta come un animale
ferito. C’è Peeta qui con me, Peeta non lascerà che qualcuno mi faccia del
male. Peeta ha detto che andrà tutto bene. Mi fido di Peeta, del ragazzo d’oro
che si prende cura di me, che mi lava, che non ha nessuna intenzione di
lasciarmi andare via nonostante io abbia fatto di tutto per realizzare questo
desiderio.
Peeta
inizia a chiacchierare del giorno in cui è tornato al 12, una decina di giorni
fa, mentre usa la spugna per insaponarmi. Dice che è stato Haymitch a
convincerlo a tornare a casa prima che finisse il mio processo: non c’era
bisogno di tante persone ferme a Capitol City senza fare nulla, e dato che
l’infermità mentale stava funzionando alla grande come scappatoia, nel giro di
pochi giorni si sarebbe risolto tutto per il meglio. Peeta a casa, Haymitch ad
aspettare il mio rilascio, e Sae la Zozza che dava una mano a Peeta a sistemare
la casa per il mio ritorno.
-
Ho portato un po' di abiti da casa tua e li ho sistemati nell’armadio, in
camera – chiacchiera Peeta. La spugna, adesso, percorre la mia schiena. – Non
sono molti, e se serve posso aiutarti a prenderne degli altri. Potremmo andare
a vivere a casa tua, se vuoi…
-
No – lo blocco, posando di nuovo le mani sul bordo della vasca. – No. Voglio
stare qui. Voglio stare qui con te.
-
Va bene, Katniss.
E
così, Sae la Zozza è tornata al Distretto 12. Immagino che anche lei non
sapesse dove altro andare, adesso che la guerra è finita e tutti, in qualche
modo, stanno respirando questa nuova aria di pace. Oppure, semplicemente, Sae
la Zozza è stata costretta a tornare al 12. È stata obbligata per aiutare Peeta
a prendersi cura di me, e forse è stato Haymitch stesso a chiederle di farlo.
Così, in questo esilio che sono costretta a vivere nel luogo in cui sono nata,
nel luogo che si è trasformato in un cimitero, avrò ben tre baby-sitter ad
osservarmi. Tre guardiani.
-
Non eravate costretti a tornare per me – la mia voce, bassa e arrochita da
interi giorni di quasi silenzio, cede sull’ultima parola quando esprimo a voce
ciò che mi passa per la testa.
-
Katniss, ma cosa stai dicendo? – Peeta lascia la spugna ed io la vedo
galleggiare sul pelo dell’acqua per non osservare i suoi occhi, fissi sul mio
viso lacrimoso. Posa le mani calde sulle mie spalle, e con i pollici sfiora le
clavicole evidenti. – Questa è casa nostra! È ovvio che saremmo tutti tornati a
casa…
-
Non tutti sono tornati – non so se sa che la mamma ha scelto di andare al
Distretto 4 per non vedere il luogo in cui si è trasformato il 12. Ha preferito
ricominciare in un luogo completamente estraneo a lei, pur di non ricordare le
atrocità che si sono consumate qui. Credo che Peeta lo sappia già, ma non
glielo domando. E lui non me lo dice.
-
Torneranno presto, te lo prometto.
Alzarsi
al mattino è difficile. E diventa più difficile giorno dopo giorno. Non è vero
che, col passare dei giorni, si torna ad avere le vecchie abitudini. No, non è
assolutamente vero.
Le
notti sono orrende. Trascorro ore cercando di addormentarmi, e quando
finalmente accade gli incubi mi svegliano, e per riprendere sonno devo
aspettare le prime luci del mattino. Allora, con la confortante luce del giorno
che penetra dalle tende, la possibilità di tornare a sprofondare nel sonno
diventa molto più allettante, molto più rassicurante. Per la prima volta,
riesco a capire il motivo per cui Haymitch preferisce dormire durante il
giorno. Peeta, però, non vuole che io trascorra l’intera giornata a non fare
nulla sotto le coperte. Peeta non vuole che io dorma tutto il giorno.
Peeta
è, in definitiva, il motivo per cui mi alzo dal letto la mattina. Le sue
braccia mi stringono quando mi sveglio in preda agli incubi, e le sue braccia
sono lì ad afferrare le mie quando, soprattutto nelle mattine di pioggia,
vorrei dimenticare di essere viva. Le sue braccia, le sue mani, la sua voce ed
il suo sorriso sono sempre lì, pronti ad accogliermi e a mostrarmi che
dopotutto, quella che stiamo cercando di affrontare insieme è una vita bella, e
degna di essere vissuta.
Ci
sono intere giornate in cui non ci credo veramente. Quelle giornate in cui il
ricordo delle perdite e degli eventi a cui ho assistito è abbastanza forte da
irrigidire tutto il mio corpo. E quando quelle giornate arrivano, neanche Peeta
riesce a compiere la sua magia. Neanche le sue parole, il suo amore, le sue
buone intenzioni riescono a farmi uscire dal bozzolo di coperte in cui si
trasforma il letto. L’unica cosa che può fare, in giornate come queste, è
sdraiarsi e farmi sentire che non sono da sola, ad affrontare il dolore. C’è
anche lui insieme a me, e ci sarà sempre. Me lo promette di continuo, ogni
volta, e so che sarà così. Peeta non mi mentirebbe mai.
Al
contrario, sono io che gli mento. Sono io quella che si comporta male con lui.
Sono io quella troppo impegnata ad autocommiserarmi per capire che non sono
l’unica al mondo ad aver sofferto, a soffrire, e che soffrirà ancora. Sono
egoista, in questo non sono cambiata. Sarò anche andata fuori di testa, ma
l’egoismo è rimasto ben radicato in me.
Me
ne accorgo quando è ormai marzo inoltrato, a parecchie settimane di distanza
dal mio ritorno al 12. In queste settimane Peeta si è occupato di me, mi ha
mostrato la routine che svolge ogni giorno per non restare mai con le mani in
mano e cerca di coinvolgermi come può: fa il pane, prepara dolci e biscotti,
cucina a pranzo e a cena. Alcune volte esce per condividere il cibo che ha
preparato con le persone che hanno reso vivo il Villaggio dei Vincitori e che
sono diventati i nostri vicini di casa. Un paio di volte l’ho aiutato a
consegnare i cesti con il pane, ma per tutte le altre ho preferito restare in
casa. C’è sempre Sae la Zozza quando Peeta esce, e lei non è come Peeta: mi
urla contro quando vede che, a parte stare seduta in cucina, non ho intenzione
di fare altro.
-
Dovresti andare a caccia – mi suggerisce il pomeriggio di metà marzo in cui
capisco di star sbagliando tutto con Peeta. – Avere un po' di carne fresca non
può che farci bene. E a te farà bene prendere un po' d’aria.
-
Non ho le mie armi – dico. Allungo una mano per afferrare un biscotto.
L’unica
cosa positiva è che sto riprendendo il peso perso durante il processo. Peeta
cucina sempre i dolci perché ha notato che mi piacciono un sacco, ed anche se
mangio solo questi ne è felice. Almeno non morirò di fame… e i dolci che
prepara lui sono pieni di calorie. No, non morirò di fame. Diventerò grassa
grazie a lui.
-
Che fine hanno fatto quelle che usavi qui?
-
Non lo so…
Lo
so, invece. Sono nel bosco. Sono sparse per i boschi, nei
luoghi dove le nascondeva sempre mio padre e dove, poi, abbiamo cominciato a
nasconderle io e Gale. E dovrebbero essere ancora lì, se non erro. Chi altri
potrebbe essere andato a zonzo per i boschi in cerca di armi che non sa neanche
dove si celino?
-
Secondo me lo sai: è che non vuoi andare a prenderle – sentenzia Sae, scuotendo
la testa. – Sto andando, ragazza. Vuoi che ti mandi qualcuno che ti faccia
compagnia mentre aspetti il tuo innamorato?
Oggi,
Peeta è uscito prima del solito e non mi ha detto dov’è che sarebbe andato: ha
detto solo che sarebbe tornato in tempo per la cena, e che Sae sarebbe rimasta
insieme a me durante il giorno mentre faceva le pulizie. Ma adesso lei le
pulizie le ha terminate, e Peeta non è ancora tornato.
Scuoto
la testa. – Posso restare da sola.
-
Sì, come no – perché dice così? Non ho bisogno di assistenza continua! - Chiama
se hai bisogno.
Non
lo faccio, ovviamente. Sae è andata via da almeno un paio d’ore e di Peeta non
ce n’è neanche l’ombra. Sono un po' nervosa, e non capisco il motivo del suo
ritardo: se si fosse trattato di qualcosa di grave me lo avrebbe detto, e non
mi avrebbe mai lasciata così tanto sulle spine. Ma allo stesso tempo capisco
che se non mi ha detto nulla, vuol dire che non c’è proprio nulla di cui
doversi preoccupare. Ed in caso contrario, qualcuno sarebbe venuto a bussare alla
porta di casa per avvertirmi.
Non
totalmente convinta, prendo posto sull’ampio davanzale della finestra che si
trova in salotto, quello pieno di cuscini imbottiti. È l’angolo della casa che
adoro di più, perché posso vedere ciò che accade al di fuori anche senza
scostare le tende, e senza che nessuno riesca a capire che dietro ci sono io a
spiare l’esterno. Da qui posso osservare l’arrivo di Peeta, quando arriverà.
Ma
mentre aspetto mi addormento, e non mi accorgo del suo ritorno. Me ne accorgo
solo quando la porta sul retro sbatte sui propri cardini, ed è il momento in
cui sobbalzo e mi desto dal mio riposino pomeridiano. Il pomeriggio sta
diventando sera, ed il cielo ha assunto l’indefinita sfumatura dell’arancione
che degrada verso il blu. È la fine del tramonto.
-
Peeta? – lo chiamo con voce roca. Schiarisco la voce prima di riprovarci. –
Peeta?
Silenzio.
Non mi risponde. Scendo dal davanzale ed esco dal salotto per andare a
cercarlo. – Peeta? – dico di nuovo, arrivando all’ingresso, e getto una rapida
occhiata alle scale che portano al piano superiore. Che sia salito? Ho già messo
il piede sul primo gradino quando sento un singhiozzo provenire dalla cucina.
Peeta è ancora in cucina.
Scatto
velocemente per raggiungerlo, e la scena che mi ritrovo davanti agli occhi mi
fa bloccare sulla soglia. È qualcosa per cui non ero preparata, e per cui lui
stesso non mi aveva preparata, dato che non mi aveva accennato nulla. Peeta è
seduto davanti al grande tavolo di cucina ed ha i vestiti sporchi di terra, di
carbone e di cenere. Persino i suoi capelli biondi ne sono sporchi. È seduto
davanti al tavolo, e piange con le mani posate sul ripiano.
-
Peeta – lo chiamo di nuovo, avvicinandomi. Ho paura a toccarlo, ho paura di
chiedergli il motivo per cui è ricoperto di sporcizia, ed ho ancora più paura
di chiedergli il motivo per cui sta piangendo e singhiozzando. Sfioro lo stesso
la sua mano, perché nonostante la paura non posso farne a meno.
Lui
la stringe e sembra tranquillizzarsi un poco, almeno quanto basta per
balbettare poche parole colme di dolore.
-
Erano ancora lì. Tutti e quattro. Erano ancora dentro… accanto al punto in cui
si trovava il bancone…
Non
ci vuole un genio per capire a chi si riferisce, per capire chi sono le quattro
persone che si trovavano ancora accanto al bancone del loro negozio. Non ci
vuole un genio per capirlo, e adesso tutto ciò che ho davanti agli occhi assume
un significato. Una marea di significati.
Peeta
ha trascorso tutta la giornata ad osservare e a dare una mano nel recuperare i
resti carbonizzati della propria famiglia. Ha visto ciò che è rimasto di loro,
ha visto il modo in cui la loro vecchia panetteria si è trasformata nella loro
tomba. Ha assistito a qualcosa per cui nessun figlio, e nessun fratello,
dovrebbe assistere. Ha aiutato a trasportare i resti della sua famiglia al
Prato, l’ampio terreno che si sta trasformando in un’enorme fossa comune per
coloro che non sono più in mezzo a noi. Ha preso parte ed ha assistito a tutto
ciò senza dirmi nulla, senza farmi preoccupare… e lo ha fatto perché vede, e
sa, che sto soffrendo.
Ma
anche lui sta soffrendo. Anche lui soffre come me, con la
mia stessa intensità. E vorrei esserci arrivata prima, vorrei non essere stata
così cieca ed ottusa da non capirlo.
Avvolgo
Peeta tra le braccia incurante dello sporco, incurante della cenere che
potrebbe ricoprire anche me. Lo avvolgo tra le braccia incurante di tutto,
tranne del dolore che torna ad essere più intenso e lo porta a piangere più
forte. Avvolgo Peeta tra le mie braccia e lo stringo forte, desiderando di
poter prendere parte del suo dolore per trasferirlo dentro di me. Gli bacio i
capelli, chiudendo gli occhi. Piango insieme a lui, e prometto a me stessa di
non essere più così egoista.
Prometto
a me stessa di sforzarmi, di fare di più.
Prometto
a me stessa di amare Peeta come merita di essere amato.
Il
giorno dopo mi offro di accompagnarlo a consegnare i cestini pieni di pane e
dolcetti. È il primo gesto che compio dopo ciò che è accaduto ieri, e so, sento
di aver fatto bene perché lui mi ringrazia con un sorriso enorme. È felice, ed
io sono felice se lui è felice. Non cancellerò mai più quel sorriso dalle sue
labbra.
Dopo
questo primo gesto ne compio altri, tanti altri. Superato l’ostacolo rappresentato
dalla piazza e dal Giacimento in cui continuano le operazioni di recupero dei
cadaveri, mi inoltro sotto il punto della recinzione che conosco così bene,
dopo averlo superato tante volte in anni e anni di caccia, e vado di nuovo nei
boschi. Arco e frecce sono ancora lì, nel punto esatto in cui li lasciai più di
un anno fa, e provo a riprendere a cacciare. E scopro che mi è mancato
cacciare, ma ancora di più mi è mancato camminare in mezzo alla foresta, in
mezzo alla natura. E sono felice quando riesco a prendere uno scoiattolo, anche
se è solo uno scoiattolo e so che potrei fare di meglio. E sono ancora più
felice quando capisco che questo scoiattolo potrò portarlo a casa senza doverlo
nascondere dagli occhi indiscreti dei Pacificatori, perché loro non ci sono
più. Cacciare non è più vietato, fuggire dalla recinzione non è più vietato. Niente
è più vietato.
E
capisco che la pace è davvero arrivata. La pace è arrivata per tutti, ed è
arrivata anche per me.
Apro
finalmente la busta che la mamma ha consegnato per me tramite Haymitch, quella
che non sono mai riuscita ad aprire prima d’ora. Leggo le brevi righe con cui
ha riempito il foglio, vado al telefono e compongo il numero che mi ha
lasciato. Risponde quasi subito, e piangiamo insieme. Sentire la sua voce è
quasi un balsamo per il mio cuore ferito. Sentire la sua voce mi fa capire che
lei, anche se è lontana, non mi ha abbandonata del tutto. Vorrei che fosse qui,
vicino a me, vorrei raggiungerla anche se non posso lasciare il Distretto 12,
ma lei mi promette che lo farà: viaggiare e tenere i contatti tra i diversi
distretti non è più vietato, e la mamma mi promette che non appena potrà, non
appena si sentirà abbastanza forte per farlo, verrà a trovarmi. Tornerà al 12.
Tantissime
altre persone tornano al 12 con l’avanzare della primavera. Riconosco nei tanti
visi che incrocio per la strada Thom, uno dei ragazzi che lavorava con Gale in
miniera, Delly, suo fratello, e tanti altri ancora. Sono tornati perché in
fondo questa è casa loro, è il loro luogo natio, ed è difficile abbandonare il
luogo in cui si è nati e cresciuti. Sono tornati per ricominciare e per aiutare
a ricostruire. Il Distretto 12 non sarà più un posto in cui si muore di fame,
ma un posto diverso. Un posto migliore.
Anche
Peeta vuole ricostruire.
-
Davvero?
-
Davvero. Vorrei ricostruire la panetteria nello stesso punto, ed esattamente
com’era prima.
Vuole
farlo per ricordare la sua famiglia, e per non dimenticare. È importante per
lui non dimenticare, e non so come faccia a non avere paura di tutti i ricordi
orribili di cui sono piene le nostre menti. Io vorrei dimenticare, se fossi
capace di dimenticare, ma Peeta ha ragione: è importante ricordare, è
importante perché ricordando possiamo imparare a non ripetere i nostri errori,
ed in particolare gli errori che altri hanno commesso e che ci hanno fatto
soffrire così tanto.
È
importante ricordare anche se non vogliamo farlo: me lo fa capire persino
Ranuncolo, quando torna a casa durante una mattina di inizio aprile. Fa il suo
trionfale ritorno miagolando, lamentandosi per la zampa ferita che tiene
sollevata e, soprattutto, irritato nel trovarsi davanti me, l’orribile ragazza
che non sopporta, invece di Prim, la sua adorata padroncina. Vede me, la
persona che quando lo vide per la prima tentò di affogarlo, e non la paperella
che invece pianse e si disperò per curarlo e tenerlo come animale domestico.
Siamo sempre state agli antipodi, io e Prim, persino in fatto di animali
domestici.
Lo
prendo in braccio e non reagisco quando mi soffia contro, non reagisco
rispondendogli male come ho sempre fatto in tutti questi anni di convivenza
forzata. Guardo l’orrendo gatto di mia sorella e vorrei urlare perché me la
ricorda tanto, ma evito di farlo. Mi costringo a non urlare, ma non costringo
me stessa a non piangere. Piango ancora una volta per lei, per la ragazzina di
appena quattordici anni che è cresciuta troppo in fretta e che se ne è andata
troppo presto. Piango per lei, e piango perché adesso dovrò prendermi cura del
suo stupido gatto. Devo farlo per lei, perché so che ci tiene a questo vecchio
gatto spelacchiato, ed anche perché so che altrimenti non me lo avrebbe mai
perdonato.
-
Dovrai accontentarti di me – dico allo stupido gatto, tirando su col naso.
Lo
lavo, curo le sue ferite, lo nutro. E dopo un paio di giorni, Ranuncolo sembra
accettare questa sorta di compromesso: entrambi accettiamo di sopportare la
persona, e l’animale, che ci ricorda la persona che abbiamo amato così tanto e
che vorremmo fosse ancora qui con noi.
L’acqua
della vasca in cui sono immersa inizia a diventare fredda, e questo mi fa
capire che è passato parecchio tempo da quando ho iniziato a fare il bagno. Non
è solo la temperatura dell’acqua a suggerirmelo: lo fanno anche le mie dita. I
polpastrelli si sono raggrinziti e adesso somigliano tremendamente a delle
prugne secche. Immergo di nuovo le mani e faccio smuovere la schiuma rosa che
ancora galleggia sul pelo dell’acqua.
Insieme
alla routine, insieme ai vecchi gesti automatici e insieme alle nuove attività
in cui mi coinvolge Peeta, sono tornati anche i miei bagni serali. Ne faccio
sempre uno prima di cena, proprio come ai vecchi tempi. Vecchi tempi…
non mi piace come espressione. La parola “vecchio” rimanda inevitabilmente al
passato e a tutto ciò che è accaduto in seguito. Cerco di non pensare troppo al
passato, anche se capisco l’importanza di non doverlo dimenticare. Me lo dicono
di continuo, tutti quanti: Peeta, Haymitch – quando non è troppo ubriaco,
naturalmente -, Aurelius durante le sedute di terapia.
Aurelius
mi dice sempre che non bisogna mai avere paura dei nostri ricordi, non importa
quanto dolorosi o brutti essi siano. Nel sentirglielo dire ho pensato che il
consulto psichiatrico servisse più a lui che a me, perché doveva essere
decisamente pazzo per pensare qualcosa del genere. Io cerco di seguire i suoi
consigli e di ricordare nonostante i brividi di terrore, che alcune volte sono
decisamente troppo forti da controllare… e non riesco a controllarli sempre.
Quindi finisco sempre con lo smettere di pensare, di estraniarmi per quanto
posso. È anche per questo che ho ripreso a fare il bagno la sera: mi rilassa.
Al contrario degli altri, che pensano quando si rilassano, io svuoto la mente.
È
un altro modo per andare avanti.
Piego
le ginocchia e porto le gambe contro il petto, seguendo con le mani la linea
dei polpacci. Sotto i polpastrelli riesco a sentire le grinze che la pelle ha
creato rimarginandosi dalle ustioni. Sono tante, queste grinze. Sono anche
molto visibili: alcune di meno, altre di più. La mia pelle ha assunto un
aspetto bizzarro, simile a quello di una coperta patchwork. Non sono mai stata
una ragazza interessata alle apparenze, all’aspetto fisico o ai trattamenti
estetici: qui al 12 nessuno si è mai potuto permettere un trattamento estetico,
e prima degli Hunger Games non avevo neanche mai fatto una ceretta alle gambe.
Non mi è mai importato di essere o meno presentabile per qualcuno, ma improvvisamente
queste cicatrici così chiare mi fanno sentire inadeguata ed insicura. Non è
qualcosa che vorrei mostrare a qualcuno di mia spontanea volontà.
Riporto
le gambe in acqua quando bussano alla porta del bagno; tempo due secondi e la
testa di Peeta fa capolino dallo spiraglio che avevo lasciato. Chi altri poteva
essere se non lui? Mi stavo dimenticando della sua presenza in casa.
-
Non volevo disturbarti – dice, facendomi l’occhiolino. – Volevo solo dirti che
la cena è quasi pronta.
-
Ho quasi fatto. Non ci metto molto… - ribatto in fretta. Mi metto a sedere e
cerco di sciacquare dai capelli la schiuma in eccesso.
Sono
concentrata sui capelli e lo sciabordio dell’acqua mi riempie le orecchie,
quindi non noto subito ciò che sta accadendo all’interno del bagno. Non noto
subito i vestiti di Peeta che, uno ad uno, raggiungono il pavimento insieme
alle scarpe. È il tonfo prodotto da una di queste che mi fa voltare la testa e
mi fa capire che c’è stato un cambio di programma.
-
Ma la cena non è quasi pronta? – faccio, sconcertata; anche divertita, in
realtà. Questa proprio non me l’aspettavo.
-
La riscalderemo, non andrà a male. Fammi un po' di posto – esclama con un
sorriso.
Si
lamenta, invece, quando nota che l’acqua è fredda. Perdiamo del tempo, ridendo
insieme, nel riportare l’acqua ad una temperatura accettabile; ci verso
dell’altro sapone e nel giro di poco siamo circondati da altra schiuma rosa e
profumata. Una delle poche cose buone di cui non mi pento, quando mi rendo
conto di vivere in una casa concepita e costruita interamente dagli architetti
di Capitol City, è la grandezza spropositata delle vasche che ci hanno
installato. Sono abbastanza grandi da contenere tre persone, ed io e Peeta
insieme ci stiamo più che comodamente. Lui ha la schiena premuta contro il
bordo, così io posso prendere tranquillamente posto tra le sue gambe ed
accoccolarmi contro di lui, contro il suo petto.
-
Hai dei capelli lunghissimi – mormora mentre li pettina lentamente con le dita.
– Non me ne sono mai accorto prima.
-
È perché li tengo sempre legati – sembra stupido ribadirlo, anche se è la pura
e semplice verità.
-
È anche vero che bagnati sembrano più lunghi. Non hai neanche un ricciolo,
quando sono bagnati – Peeta continua a districare le ciocche, perso nei suoi
ragionamenti. – Sei più bella quando hai i capelli sciolti – se ne esce infine.
Sbuffo.
– E questa da dove viene fuori?
-
Non te lo avevo mai detto prima? Non ti sto dicendo una bugia: lo penso
davvero.
-
Va bene – mi giro per poterlo guardare in viso. – A me invece piaci di più
quando hai la barba: perché non te la fai mai crescere?
-
Non la sopporto – confessa, ridendo. – Vogliamo continuare con questo gioco?
-
Quale gioco?
-
Il gioco delle verità. Dai, è divertente! – mi incita non appena nota la
faccia poco convinta che ho fatto. Mi abbraccia. – Inizio io! Vediamo…
-
Sembri un bambino! – lo prendo in giro.
-
Tu invece una vecchia di cent’anni – ribatte. Blocca le mie braccia nelle sue
per evitare che possa ribellarmi contro di lui. – Vediamo…
-
Peeta…
-
Vuoi bene a Ranuncolo. Vero o falso?
-
Falso! Non vorrò mai bene a quella bestiaccia.
-
Gli vuoi bene, ammettilo. Lo riempi di così tanto cibo che presto rotolerà per
casa invece di camminare.
-
Ho detto che è falso! – stavolta riesco a dargli uno scappellotto sulla spalla.
Mi ci accoccolo subito contro, decisa a continuare questa sfida. – Tocca a me
adesso. Ti è piaciuto un sacco fare la doccia a Haymitch, quella notte sul
treno. Vero o falso?
-
Falso.
-
Però non vedi l’ora di ripetere l’esperienza.
-
Lo farò fare a te la prossima volta – mi dà un buffetto sulla guancia. - È
passato un anno dalla nostra tostatura. Vero o falso?
La
tostatura. Davvero è già trascorso un anno da quella notte? È
già trascorso un anno dall’annuncio dell’Edizione della Memoria. Un anno, dal
giorno in cui le nostre vite sono cambiate per sempre. Siamo in pieno aprile,
dopotutto. Peeta ha ragione: il nostro primo anno come marito e moglie è
scaduto. Ne è iniziato un altro. Continuo a pensare che forse il nostro
matrimonio non è del tutto valido, ma non sembra importare a nessuno… nemmeno a
noi interessa.
-
È vero. – mi zittisco, posando il mento sulla sua spalla.
Peeta
sfiora la mia tempia con un bacio. – Prossima domanda.
-
Mi ami. Vero o falso?
Adesso
è lui quello che sbuffa. – Pensi che sia necessario chiedermelo? È ovvio che ti
amo, tesoro. Vero.
Sorrido.
Gli mordo la spalla. – Prossima domanda.
-
Tu mi ami, invece? Vero o falso?
-
Lo sai che ti amo. – la domanda successiva la dico in fretta, non credo di
averla neanche pensata. Forse dipende dal fatto che ci stavo riflettendo su
prima che Peeta venisse a chiamarmi per la cena. Forse dipende dalla mia
insicurezza. – Le mie cicatrici sono orribili. Vero o falso?
-
Falso. – lui risponde prima ancora che abbia finito di porgergli la
domanda. – Non le guardo neanche quelle cicatrici, Katniss. Per me non
significano nulla. Per me, tu vali più di qualsiasi segno sulla pelle. – nel
dirlo, segue con le dita quella che percorre il mio avambraccio, steso sul suo
petto.
Non
mi sento rassicurata dalle sue parole. Mi sento più sconfortata, e questo
perché non ho pensato prima di chiederglielo. Non sono l’unica, in questa
stanza, ad avere dei segni permanenti impressi sulla pelle: anche Peeta ne è
pieno. Il suo viso ed il suo corpo sono costellati dei segni che gli hanno
lasciato le ferite da lui subite durante la prigionia a Capitol City; la sua
gamba sinistra, quella che ha perduto nei nostri primi giochi, senza la protesi
termina in un moncone al di sotto del ginocchio. Peeta è pieno di segni, ma non
chiede a nessuno se siano orribili o meno. Non me lo ha mai chiesto. A lui non
sembra importare. E non importa neanche a me.
Ha
cominciato a canticchiare qualcosa a bocca chiusa, qualcosa che non riesco a
riconoscere ma che accompagna i miei pensieri poco lineari. Poi, di colpo,
arrivano le parole.
-
You are so beautiful…
Alzo
il viso, incrociando il suo sguardo azzurro che adesso è carico di emozione.
Sorride, avvicinandosi fino a far sfiorare le nostre labbra.
- You are so beautiful for me…
Non
ho mai sentito cantare Peeta prima d’ora. Non ha mai cantato davanti a me, non
ci ha mai nemmeno provato, ed ora mi domando il perché. La sua voce è
leggermente roca ma è al contempo aggraziata, e si mantiene sulle note basse
per tutto il tempo che impiega a terminare questa sua canzoncina. Anche questa
è la prima volta che la sento. Chissà dove l’ha sentita, o chi gliel’ha
insegnata…
-
È la prima volta che ti sento cantare – soffio, ammaliata dalla sua voce. Ha
una voce bellissima.
-
Non sono bravo come te – dice come per giustificarsi.
Facendo
leva sulle braccia mi siedo a cavalcioni su di lui, posando i gomiti sulle sue
spalle ed intrecciando le dita sulla sua nuca. Lo bacio, allontanandomi di
tanto in tanto dalle sue labbra solo per ripetere i versi della canzone. È così
semplice da restare subito impressa nella mente, quindi non è difficile
ricordarla. E le parole, mi rendo conto, possono valere allo stesso modo per
entrambi.
- You are so beautiful for me… - canto, sorridendo.
Il
suo sorriso fa eco al mio.
-
Così bella…
-
Ti sei innamorato di me quando mi hai sentito cantare a scuola. Vero o falso?
-
Vero. È sempre vero – il bacio che segue questa sua risposta è più
lungo, più approfondito. Mi invita ad approfondirlo ancora di più e lo faccio,
assecondando la smania che sta pian piano prendendo il sopravvento dentro di
me.
Poso
le mani sul bordo della vasca, dietro la testa di Peeta, e mi inarco contro di
lui che scivola appena dentro l’acqua, mentre percorre e stringe tra le dita i
miei fianchi, per poi scendere sempre più in basso…
-
Che ne sarà della cena? – mugola ad un tratto contro la mia mandibola.
-
Vuoi davvero pensare alla cena adesso?
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Eccoci qui, miei cari. Anche se
con un ritardo di cui farei bene a vergognarmi da qui fino ai prossimi vent’anni.
Quello che avete appena finito di
leggere è una versione ampliata e aggiornata del ritorno a casa di Katniss e
compagnia bella. Ho sempre trovato un po’ sbrigativa la versione originale
contenuta nei libri, e anche molto dolorosa per quel che riguarda il
personaggio di Katniss: dopotutto, lì lei era da sola ad affrontare il tutto. Penso
che se non fosse stata lasciata da sola le cose per lei sarebbero potute andare
molto meglio.
Spero che questa mia versione vi
sia piaciuta :) ne avremo qualche altro assaggio nei prossimi due capitoli.
Colgo l’occasione per annunciarvi
già da adesso che i prossimi sono i capitoli finali: ebbene sì, siamo davvero
alla conclusione. Ci sarà anche un epilogo – bello sostanzioso tra l’altro! -, e
poi basta. Fine.
Posso dire che non sono davvero
pronta a scrivere la parola “fine”? ç___ç
Con queste lacrimucce vi saluto! Ci
sentiamo presto ♥
D.