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Autore: Deruchette    19/08/2022    3 recensioni
[La storia segue lo svolgersi degli eventi dall'epilogo di "Hunger Games" all'epilogo di "Mockingjay"]
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Katniss e Peeta, gli Innamorati Sventurati del Distretto 12, i vincitori della 74esima edizione degli Hunger Games.
La loro storia è sotto gli occhi di tutti ma solo in pochi sanno che, in realtà, si tratta solo di finzione. La mossa strategica che li ha portati via dall'arena è costretta a continuare anche adesso che il sipario inizia a calare sull'ultima edizione dei giochi.
E se ad un certo punto la finzione si trasformasse in realtà?
Cosa succederebbe se gli Innamorati Sventurati fossero realmente innamorati?
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Dal capitolo 6:
"È evidente, chiaro come il sole, che è tutto cambiato. Che il ragazzo che all’inizio di quest'avventura consideravo un semplice amico, un alleato, adesso è diventato qualcos’altro. Per settimane mi sono chiesta se non fosse sbagliato nei suoi confronti recitare la parte della brava fidanzatina conoscendo la reale portata dei suoi sentimenti, sapendo che io non provavo la stessa cosa. Non sarebbe tutto più semplice se ti amassi?, la domanda che ronzava costantemente nella mia testa.
Ora lo so. Non solo è più semplice, più normale. È diventato anche necessario. Necessario come l’aria che respiro."
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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In The Still Of The Night - 44

In the still of the night

 

44.

 

Non riesco a capire cosa tutto questo significhi finché non sento le mani di persone sconosciute guidarmi verso il bagno, dove mi lavano e mi vestono, e poi di nuovo in camera, dove mi fanno bere e mangiare. Mi danno poco da bere e poco da mangiare, perché nello stato in cui mi trovo non potrei sopportare di digerire un intero pasto. Ma quel poco che mi danno mi basta per farmi sentire meglio: sono un po' più vigile, la mia vista diventa più nitida, riesco a muovermi meglio anche se ho le membra irrigidite e deboli, magre come sono. Sto talmente meglio rispetto a prima che riesco a riconoscere la persona, in piedi accanto alla porta, che inizialmente ho scambiato per una sagoma scura: è Haymitch. Haymitch, che mi osserva come se stesse osservando una creatura dell’orrore.
Tutto ciò che è accaduto nell’ultimo mese e mezzo me lo racconta durante il viaggio in hovercraft che ci porterà a casa, qualunque sia la casa a cui si sta riferendo Haymitch. Dopo la morte della Coin e dopo avermi fatta uscire dall’Anfiteatro, e dopo aver riportato la calma in mezzo al marasma che avevo causato con quella freccia, hanno trovato il cadavere di Snow ancora legato al palo. Non hanno indagato molto sulla natura della sua morte, da quanto mi dice Haymitch. Ciò che più premeva loro, al momento, era capire cosa fare con me. La Ghiandaia Imitatrice, il simbolo della Rivoluzione, che aveva appena ucciso la presidente di Nuova Panem.
Si è cominciato ad organizzare il mio processo e nel frattempo sono state indette delle elezioni straordinarie. A vincere le elezioni è stata la Paylor, e con la sua elezione è giunta anche l’istituzione della repubblica. Non ci sarà più un regime in questa nazione, ma una repubblica, come quelle che esistevano già secoli fa e che sono state narrate nei libri di storia.
Il mio processo è iniziato e si è cominciato ad indagare sui motivi che mi hanno spinta a compiere l’insano gesto mentre io, all’oscuro di tutto, vegetavo nella stanza che era diventata la mia prigione. Molte persone hanno testimoniato in mia difesa, compresi Haymitch e Plutarch, ma la testimonianza chiave del processo è stata quella fornita dal dottor Aurelius, il mio strizzacervelli, che ha visto in me una ragazza fragile, indebolita dalle sofferenze e dai traumi subiti ed in un profondo stato di shock per ciò che aveva visto il giorno del bombardamento. Sono stata riconosciuta incapace di intendere e di volere, e per questo ho avuto il permesso di essere rilasciata e di tornare a casa. Dovrò continuare la terapia psichiatrica, unica clausola che devo rispettare per avere la mia libertà, anche se come libertà non è granché, dato che da quel che mi dice Haymitch è considerabile più come un esilio che come un vero lasciapassare. 
- Dov’è casa? – chiedo, la voce arrochita.
- Al 12, dolcezza. Peeta ti sta aspettando – risponde, le labbra che si stirano in una sorta di sorriso.

Peeta. Peeta è al Distretto 12 e mi sta aspettando. Questo è un risvolto della storia che non mi aspettavo di sentire.
- Dov’è mia madre? – questo gioco di domande mi fa sembrare una bambina in cerca di certezze, e forse un po' lo sono, perché di certezze io non ne ho più.
- Lei è al Distretto 4. Sta aiutando a costruire un ospedale – dice. Si muove e cerca qualcosa nelle tasche del suo cappotto. Tossicchia come per schiarirsi la voce. – Mi ha chiesto di darti questa, appena ne avrei avuto la possibilità.
Haymitch mi porge una busta bianca, una lettera. Riconosco mia madre nella grafia svolazzante con cui è stato scritto il mio nome. Guardo la busta, ma non la apro. La aprirò più tardi… forse. Dipende. Non lo so.
- Non tornerà – ammetto. Non ho bisogno di una risposta.
- Tu sai perché non può tornare – aggiunge Haymitch.       
Lo so, purtroppo. Papà morto, Prim morta, e almeno novemila persone morte. Il 12 non è un posto in cui vivere, è un cimitero a cielo aperto. È un luogo di morte ed io l’ho visto bene, quel luogo di morte. So cosa mi aspetta al mio arrivo e, da una parte, riesco a comprendere la mamma, riesco a comprendere il dolore che la frena dal tornare a casa. Lei ha perso una figlia, io ho perso una figlia. Abbiamo provato e stiamo provando lo stesso tipo di dolore. È un dolore che non ti fa vivere, che non ti fa desiderare di vivere, e non esiste neanche una parola per indicarlo. Quando perdi un compagno diventi vedova, e quando perdi un genitore diventi orfana… ma quando perdi un figlio, che cosa diventi? Il termine esatto non esiste. È una perdita così grave, così impensabile, e nessuno si è assunto il compito di trovare il termine giusto da inserire nel vocabolario. Nessuno è stato capace di descriverlo.
- Perché tu e Peeta siete tornati?
- Perché non abbiamo un altro posto dove andare – dice, e sembra sincero.
Io, Peeta, e Haymitch. Manca solo Effie all’appello per completare il team delle meraviglie, la Squadra del Distretto 12. Ma il team delle meraviglie non esiste più. Quei giorni sono terminati.
Il viaggio dura ore, ore in cui Haymitch prova a farmi mangiare e bere qualcosa. Non lo faccio, e non mi interessa se lo deludo agendo in questo modo. Mi sdraio sui sedili e fingo di dormire, e lascio che lui faccia finta che non sappia che sto facendo finta di dormire. A farci i dispetti siamo ancora parecchio bravi, noto compiaciuta.
È sera inoltrata quando l’hovercraft atterra nel piccolo spiazzo del Villaggio dei Vincitori e ci consente di scendere. Haymitch mi sostiene per la vita e si mette un borsone in spalla, aiutandomi a camminare tra la neve. La prima cosa che noto, anche se potrei sbagliarmi, sono le luci accese nelle case che sono sempre state vuote, qui, a parte quelle in cui abbiamo vissuto noi. La casa di Haymitch ha luci accese e fumo che esce dal comignolo, e le ha anche la casa di Peeta. La mia, invece, no. La mia casa è buia. La mia casa è senza vita.
E non è a casa mia che Haymitch mi conduce lentamente, adeguando i suoi passi ai miei. Mi conduce a casa di Peeta. Andiamo verso la porta di servizio, quella che affaccia sulla cucina, e la porta è già aperta per accoglierci. La porta è già aperta, rischiarata dalla luce gialla che proviene dai lampadari, e c’è Peeta sulla soglia.
C’è Peeta con un sorriso enorme sulle labbra.
- Bentornati – dice. – Bentornata a casa, Katniss.
- Ti ho riportato la mogliettina, ragazzo! – esclama Haymitch.
Smetto di ascoltare la serie di battute che si scambiano, perché non ho occhi né interesse per nient’altro al di fuori del ragazzo che ho davanti. Il ragazzo che ho imparato a conoscere davvero dopo i nostri primi Hunger Games, il ragazzo di cui mi sono innamorata quasi senza accorgermene, il ragazzo che ho sposato e con cui ho quasi messo al mondo una figlia. Il ragazzo che credevo di non rivedere più.
Peeta parla ancora, ma non lo ascolto. Torno a percepire qualcosa solo quando sento il calore emanato dalle sue braccia che mi avvolge, ed il calore aumenta quando inspiro anche il suo profumo. Il profumo di pane, di cannella, di casa.

 

- Sei così infreddolita, tesoro. Ti preparo un bel bagno caldo, vuoi? Facciamo un bel bagno caldo prima di cena – dice Peeta quando restiamo da soli in casa. Haymitch è andato a casa sua, e Peeta mi deposita sulla sedia accanto al caminetto.
- Ho già fatto il bagno – protesto.
- Ne fai un altro, che male c’è? Giusto per scaldarti un po'.
Vorrei dirgli che mi scalderò lo stesso anche senza fare il bagno, semplicemente stando accanto al caminetto acceso, ma sembra non volermi ascoltare e sparisce dalla cucina per salire al piano di sopra. Mi lascia da sola, anche se solo per cinque minuti. Torna di sotto dopo esattamente cinque minuti, come mi rivela l’orologio sulla parete, e mi prende per mano. Mi sorride, mi accarezza le guance. Mi invita a salire al piano di sopra.
In bagno, davanti alla vasca, rimango ferma mentre Peeta mi spoglia degli strati di abiti che mi hanno fatto indossare a Capitol City. Cappotto, camicia, pantaloni, scarpe, intimo: Peeta toglie tutto e non fa commenti quando si trova di fronte il mio corpo nudo, mezzo bruciato e magro, troppo magro. Non fa commenti nel vedere il modo in cui mi sono ridotta. Non fa commenti nel vedere l’ombra in cui mi sono trasformata durante la prigionia. Non fa commenti di alcun genere, e guidandomi mi fa immergere nell’acqua calda.
Rimango rigida, all’inizio, con le mani posate sul bordo della vasca pronte a scattare se dovesse succedere qualcosa di improvviso, qualcosa che possa mettermi in pericolo, ma il calore delle mani di Peeta, insieme al calore dell’acqua, mi fanno rilassare. Mi tranquillizzo, e smetto di restare all’erta come un animale ferito. C’è Peeta qui con me, Peeta non lascerà che qualcuno mi faccia del male. Peeta ha detto che andrà tutto bene. Mi fido di Peeta, del ragazzo d’oro che si prende cura di me, che mi lava, che non ha nessuna intenzione di lasciarmi andare via nonostante io abbia fatto di tutto per realizzare questo desiderio.
Peeta inizia a chiacchierare del giorno in cui è tornato al 12, una decina di giorni fa, mentre usa la spugna per insaponarmi. Dice che è stato Haymitch a convincerlo a tornare a casa prima che finisse il mio processo: non c’era bisogno di tante persone ferme a Capitol City senza fare nulla, e dato che l’infermità mentale stava funzionando alla grande come scappatoia, nel giro di pochi giorni si sarebbe risolto tutto per il meglio. Peeta a casa, Haymitch ad aspettare il mio rilascio, e Sae la Zozza che dava una mano a Peeta a sistemare la casa per il mio ritorno.
- Ho portato un po' di abiti da casa tua e li ho sistemati nell’armadio, in camera – chiacchiera Peeta. La spugna, adesso, percorre la mia schiena. – Non sono molti, e se serve posso aiutarti a prenderne degli altri. Potremmo andare a vivere a casa tua, se vuoi…
- No – lo blocco, posando di nuovo le mani sul bordo della vasca. – No. Voglio stare qui. Voglio stare qui con te.
- Va bene, Katniss.
E così, Sae la Zozza è tornata al Distretto 12. Immagino che anche lei non sapesse dove altro andare, adesso che la guerra è finita e tutti, in qualche modo, stanno respirando questa nuova aria di pace. Oppure, semplicemente, Sae la Zozza è stata costretta a tornare al 12. È stata obbligata per aiutare Peeta a prendersi cura di me, e forse è stato Haymitch stesso a chiederle di farlo. Così, in questo esilio che sono costretta a vivere nel luogo in cui sono nata, nel luogo che si è trasformato in un cimitero, avrò ben tre baby-sitter ad osservarmi. Tre guardiani.
- Non eravate costretti a tornare per me – la mia voce, bassa e arrochita da interi giorni di quasi silenzio, cede sull’ultima parola quando esprimo a voce ciò che mi passa per la testa.
- Katniss, ma cosa stai dicendo? – Peeta lascia la spugna ed io la vedo galleggiare sul pelo dell’acqua per non osservare i suoi occhi, fissi sul mio viso lacrimoso. Posa le mani calde sulle mie spalle, e con i pollici sfiora le clavicole evidenti. – Questa è casa nostra! È ovvio che saremmo tutti tornati a casa…
- Non tutti sono tornati – non so se sa che la mamma ha scelto di andare al Distretto 4 per non vedere il luogo in cui si è trasformato il 12. Ha preferito ricominciare in un luogo completamente estraneo a lei, pur di non ricordare le atrocità che si sono consumate qui. Credo che Peeta lo sappia già, ma non glielo domando. E lui non me lo dice.
- Torneranno presto, te lo prometto.

 

Alzarsi al mattino è difficile. E diventa più difficile giorno dopo giorno. Non è vero che, col passare dei giorni, si torna ad avere le vecchie abitudini. No, non è assolutamente vero.
Le notti sono orrende. Trascorro ore cercando di addormentarmi, e quando finalmente accade gli incubi mi svegliano, e per riprendere sonno devo aspettare le prime luci del mattino. Allora, con la confortante luce del giorno che penetra dalle tende, la possibilità di tornare a sprofondare nel sonno diventa molto più allettante, molto più rassicurante. Per la prima volta, riesco a capire il motivo per cui Haymitch preferisce dormire durante il giorno. Peeta, però, non vuole che io trascorra l’intera giornata a non fare nulla sotto le coperte. Peeta non vuole che io dorma tutto il giorno.
Peeta è, in definitiva, il motivo per cui mi alzo dal letto la mattina. Le sue braccia mi stringono quando mi sveglio in preda agli incubi, e le sue braccia sono lì ad afferrare le mie quando, soprattutto nelle mattine di pioggia, vorrei dimenticare di essere viva. Le sue braccia, le sue mani, la sua voce ed il suo sorriso sono sempre lì, pronti ad accogliermi e a mostrarmi che dopotutto, quella che stiamo cercando di affrontare insieme è una vita bella, e degna di essere vissuta.
Ci sono intere giornate in cui non ci credo veramente. Quelle giornate in cui il ricordo delle perdite e degli eventi a cui ho assistito è abbastanza forte da irrigidire tutto il mio corpo. E quando quelle giornate arrivano, neanche Peeta riesce a compiere la sua magia. Neanche le sue parole, il suo amore, le sue buone intenzioni riescono a farmi uscire dal bozzolo di coperte in cui si trasforma il letto. L’unica cosa che può fare, in giornate come queste, è sdraiarsi e farmi sentire che non sono da sola, ad affrontare il dolore. C’è anche lui insieme a me, e ci sarà sempre. Me lo promette di continuo, ogni volta, e so che sarà così. Peeta non mi mentirebbe mai.
Al contrario, sono io che gli mento. Sono io quella che si comporta male con lui. Sono io quella troppo impegnata ad autocommiserarmi per capire che non sono l’unica al mondo ad aver sofferto, a soffrire, e che soffrirà ancora. Sono egoista, in questo non sono cambiata. Sarò anche andata fuori di testa, ma l’egoismo è rimasto ben radicato in me.
Me ne accorgo quando è ormai marzo inoltrato, a parecchie settimane di distanza dal mio ritorno al 12. In queste settimane Peeta si è occupato di me, mi ha mostrato la routine che svolge ogni giorno per non restare mai con le mani in mano e cerca di coinvolgermi come può: fa il pane, prepara dolci e biscotti, cucina a pranzo e a cena. Alcune volte esce per condividere il cibo che ha preparato con le persone che hanno reso vivo il Villaggio dei Vincitori e che sono diventati i nostri vicini di casa. Un paio di volte l’ho aiutato a consegnare i cesti con il pane, ma per tutte le altre ho preferito restare in casa. C’è sempre Sae la Zozza quando Peeta esce, e lei non è come Peeta: mi urla contro quando vede che, a parte stare seduta in cucina, non ho intenzione di fare altro.
- Dovresti andare a caccia – mi suggerisce il pomeriggio di metà marzo in cui capisco di star sbagliando tutto con Peeta. – Avere un po' di carne fresca non può che farci bene. E a te farà bene prendere un po' d’aria.
- Non ho le mie armi – dico. Allungo una mano per afferrare un biscotto.
L’unica cosa positiva è che sto riprendendo il peso perso durante il processo. Peeta cucina sempre i dolci perché ha notato che mi piacciono un sacco, ed anche se mangio solo questi ne è felice. Almeno non morirò di fame… e i dolci che prepara lui sono pieni di calorie. No, non morirò di fame. Diventerò grassa grazie a lui.
- Che fine hanno fatto quelle che usavi qui?
- Non lo so… 

Lo so, invece. Sono nel bosco. Sono sparse per i boschi, nei luoghi dove le nascondeva sempre mio padre e dove, poi, abbiamo cominciato a nasconderle io e Gale. E dovrebbero essere ancora lì, se non erro. Chi altri potrebbe essere andato a zonzo per i boschi in cerca di armi che non sa neanche dove si celino?
- Secondo me lo sai: è che non vuoi andare a prenderle – sentenzia Sae, scuotendo la testa. – Sto andando, ragazza. Vuoi che ti mandi qualcuno che ti faccia compagnia mentre aspetti il tuo innamorato?
Oggi, Peeta è uscito prima del solito e non mi ha detto dov’è che sarebbe andato: ha detto solo che sarebbe tornato in tempo per la cena, e che Sae sarebbe rimasta insieme a me durante il giorno mentre faceva le pulizie. Ma adesso lei le pulizie le ha terminate, e Peeta non è ancora tornato.
Scuoto la testa. – Posso restare da sola.
- Sì, come no – perché dice così? Non ho bisogno di assistenza continua! - Chiama se hai bisogno.
Non lo faccio, ovviamente. Sae è andata via da almeno un paio d’ore e di Peeta non ce n’è neanche l’ombra. Sono un po' nervosa, e non capisco il motivo del suo ritardo: se si fosse trattato di qualcosa di grave me lo avrebbe detto, e non mi avrebbe mai lasciata così tanto sulle spine. Ma allo stesso tempo capisco che se non mi ha detto nulla, vuol dire che non c’è proprio nulla di cui doversi preoccupare. Ed in caso contrario, qualcuno sarebbe venuto a bussare alla porta di casa per avvertirmi.
Non totalmente convinta, prendo posto sull’ampio davanzale della finestra che si trova in salotto, quello pieno di cuscini imbottiti. È l’angolo della casa che adoro di più, perché posso vedere ciò che accade al di fuori anche senza scostare le tende, e senza che nessuno riesca a capire che dietro ci sono io a spiare l’esterno. Da qui posso osservare l’arrivo di Peeta, quando arriverà.
Ma mentre aspetto mi addormento, e non mi accorgo del suo ritorno. Me ne accorgo solo quando la porta sul retro sbatte sui propri cardini, ed è il momento in cui sobbalzo e mi desto dal mio riposino pomeridiano. Il pomeriggio sta diventando sera, ed il cielo ha assunto l’indefinita sfumatura dell’arancione che degrada verso il blu. È la fine del tramonto.
- Peeta? – lo chiamo con voce roca. Schiarisco la voce prima di riprovarci. – Peeta?
Silenzio. Non mi risponde. Scendo dal davanzale ed esco dal salotto per andare a cercarlo. – Peeta? – dico di nuovo, arrivando all’ingresso, e getto una rapida occhiata alle scale che portano al piano superiore. Che sia salito? Ho già messo il piede sul primo gradino quando sento un singhiozzo provenire dalla cucina. Peeta è ancora in cucina.
Scatto velocemente per raggiungerlo, e la scena che mi ritrovo davanti agli occhi mi fa bloccare sulla soglia. È qualcosa per cui non ero preparata, e per cui lui stesso non mi aveva preparata, dato che non mi aveva accennato nulla. Peeta è seduto davanti al grande tavolo di cucina ed ha i vestiti sporchi di terra, di carbone e di cenere. Persino i suoi capelli biondi ne sono sporchi. È seduto davanti al tavolo, e piange con le mani posate sul ripiano.
- Peeta – lo chiamo di nuovo, avvicinandomi. Ho paura a toccarlo, ho paura di chiedergli il motivo per cui è ricoperto di sporcizia, ed ho ancora più paura di chiedergli il motivo per cui sta piangendo e singhiozzando. Sfioro lo stesso la sua mano, perché nonostante la paura non posso farne a meno.
Lui la stringe e sembra tranquillizzarsi un poco, almeno quanto basta per balbettare poche parole colme di dolore.
- Erano ancora lì. Tutti e quattro. Erano ancora dentro… accanto al punto in cui si trovava il bancone…
Non ci vuole un genio per capire a chi si riferisce, per capire chi sono le quattro persone che si trovavano ancora accanto al bancone del loro negozio. Non ci vuole un genio per capirlo, e adesso tutto ciò che ho davanti agli occhi assume un significato. Una marea di significati.
Peeta ha trascorso tutta la giornata ad osservare e a dare una mano nel recuperare i resti carbonizzati della propria famiglia. Ha visto ciò che è rimasto di loro, ha visto il modo in cui la loro vecchia panetteria si è trasformata nella loro tomba. Ha assistito a qualcosa per cui nessun figlio, e nessun fratello, dovrebbe assistere. Ha aiutato a trasportare i resti della sua famiglia al Prato, l’ampio terreno che si sta trasformando in un’enorme fossa comune per coloro che non sono più in mezzo a noi. Ha preso parte ed ha assistito a tutto ciò senza dirmi nulla, senza farmi preoccupare… e lo ha fatto perché vede, e sa, che sto soffrendo.

Ma anche lui sta soffrendo. Anche lui soffre come me, con la mia stessa intensità. E vorrei esserci arrivata prima, vorrei non essere stata così cieca ed ottusa da non capirlo.
Avvolgo Peeta tra le braccia incurante dello sporco, incurante della cenere che potrebbe ricoprire anche me. Lo avvolgo tra le braccia incurante di tutto, tranne del dolore che torna ad essere più intenso e lo porta a piangere più forte. Avvolgo Peeta tra le mie braccia e lo stringo forte, desiderando di poter prendere parte del suo dolore per trasferirlo dentro di me. Gli bacio i capelli, chiudendo gli occhi. Piango insieme a lui, e prometto a me stessa di non essere più così egoista.
Prometto a me stessa di sforzarmi, di fare di più.
Prometto a me stessa di amare Peeta come merita di essere amato.

 

Il giorno dopo mi offro di accompagnarlo a consegnare i cestini pieni di pane e dolcetti. È il primo gesto che compio dopo ciò che è accaduto ieri, e so, sento di aver fatto bene perché lui mi ringrazia con un sorriso enorme. È felice, ed io sono felice se lui è felice. Non cancellerò mai più quel sorriso dalle sue labbra.
Dopo questo primo gesto ne compio altri, tanti altri. Superato l’ostacolo rappresentato dalla piazza e dal Giacimento in cui continuano le operazioni di recupero dei cadaveri, mi inoltro sotto il punto della recinzione che conosco così bene, dopo averlo superato tante volte in anni e anni di caccia, e vado di nuovo nei boschi. Arco e frecce sono ancora lì, nel punto esatto in cui li lasciai più di un anno fa, e provo a riprendere a cacciare. E scopro che mi è mancato cacciare, ma ancora di più mi è mancato camminare in mezzo alla foresta, in mezzo alla natura. E sono felice quando riesco a prendere uno scoiattolo, anche se è solo uno scoiattolo e so che potrei fare di meglio. E sono ancora più felice quando capisco che questo scoiattolo potrò portarlo a casa senza doverlo nascondere dagli occhi indiscreti dei Pacificatori, perché loro non ci sono più. Cacciare non è più vietato, fuggire dalla recinzione non è più vietato. Niente è più vietato.
E capisco che la pace è davvero arrivata. La pace è arrivata per tutti, ed è arrivata anche per me.
Apro finalmente la busta che la mamma ha consegnato per me tramite Haymitch, quella che non sono mai riuscita ad aprire prima d’ora. Leggo le brevi righe con cui ha riempito il foglio, vado al telefono e compongo il numero che mi ha lasciato. Risponde quasi subito, e piangiamo insieme. Sentire la sua voce è quasi un balsamo per il mio cuore ferito. Sentire la sua voce mi fa capire che lei, anche se è lontana, non mi ha abbandonata del tutto. Vorrei che fosse qui, vicino a me, vorrei raggiungerla anche se non posso lasciare il Distretto 12, ma lei mi promette che lo farà: viaggiare e tenere i contatti tra i diversi distretti non è più vietato, e la mamma mi promette che non appena potrà, non appena si sentirà abbastanza forte per farlo, verrà a trovarmi. Tornerà al 12.
Tantissime altre persone tornano al 12 con l’avanzare della primavera. Riconosco nei tanti visi che incrocio per la strada Thom, uno dei ragazzi che lavorava con Gale in miniera, Delly, suo fratello, e tanti altri ancora. Sono tornati perché in fondo questa è casa loro, è il loro luogo natio, ed è difficile abbandonare il luogo in cui si è nati e cresciuti. Sono tornati per ricominciare e per aiutare a ricostruire. Il Distretto 12 non sarà più un posto in cui si muore di fame, ma un posto diverso. Un posto migliore.
Anche Peeta vuole ricostruire.
- Davvero?
- Davvero. Vorrei ricostruire la panetteria nello stesso punto, ed esattamente com’era prima.
Vuole farlo per ricordare la sua famiglia, e per non dimenticare. È importante per lui non dimenticare, e non so come faccia a non avere paura di tutti i ricordi orribili di cui sono piene le nostre menti. Io vorrei dimenticare, se fossi capace di dimenticare, ma Peeta ha ragione: è importante ricordare, è importante perché ricordando possiamo imparare a non ripetere i nostri errori, ed in particolare gli errori che altri hanno commesso e che ci hanno fatto soffrire così tanto.
È importante ricordare anche se non vogliamo farlo: me lo fa capire persino Ranuncolo, quando torna a casa durante una mattina di inizio aprile. Fa il suo trionfale ritorno miagolando, lamentandosi per la zampa ferita che tiene sollevata e, soprattutto, irritato nel trovarsi davanti me, l’orribile ragazza che non sopporta, invece di Prim, la sua adorata padroncina. Vede me, la persona che quando lo vide per la prima tentò di affogarlo, e non la paperella che invece pianse e si disperò per curarlo e tenerlo come animale domestico. Siamo sempre state agli antipodi, io e Prim, persino in fatto di animali domestici.
Lo prendo in braccio e non reagisco quando mi soffia contro, non reagisco rispondendogli male come ho sempre fatto in tutti questi anni di convivenza forzata. Guardo l’orrendo gatto di mia sorella e vorrei urlare perché me la ricorda tanto, ma evito di farlo. Mi costringo a non urlare, ma non costringo me stessa a non piangere. Piango ancora una volta per lei, per la ragazzina di appena quattordici anni che è cresciuta troppo in fretta e che se ne è andata troppo presto. Piango per lei, e piango perché adesso dovrò prendermi cura del suo stupido gatto. Devo farlo per lei, perché so che ci tiene a questo vecchio gatto spelacchiato, ed anche perché so che altrimenti non me lo avrebbe mai perdonato.
- Dovrai accontentarti di me – dico allo stupido gatto, tirando su col naso.
Lo lavo, curo le sue ferite, lo nutro. E dopo un paio di giorni, Ranuncolo sembra accettare questa sorta di compromesso: entrambi accettiamo di sopportare la persona, e l’animale, che ci ricorda la persona che abbiamo amato così tanto e che vorremmo fosse ancora qui con noi.

 

L’acqua della vasca in cui sono immersa inizia a diventare fredda, e questo mi fa capire che è passato parecchio tempo da quando ho iniziato a fare il bagno. Non è solo la temperatura dell’acqua a suggerirmelo: lo fanno anche le mie dita. I polpastrelli si sono raggrinziti e adesso somigliano tremendamente a delle prugne secche. Immergo di nuovo le mani e faccio smuovere la schiuma rosa che ancora galleggia sul pelo dell’acqua.
Insieme alla routine, insieme ai vecchi gesti automatici e insieme alle nuove attività in cui mi coinvolge Peeta, sono tornati anche i miei bagni serali. Ne faccio sempre uno prima di cena, proprio come ai vecchi tempi. Vecchi tempi… non mi piace come espressione. La parola “vecchio” rimanda inevitabilmente al passato e a tutto ciò che è accaduto in seguito. Cerco di non pensare troppo al passato, anche se capisco l’importanza di non doverlo dimenticare. Me lo dicono di continuo, tutti quanti: Peeta, Haymitch – quando non è troppo ubriaco, naturalmente -, Aurelius durante le sedute di terapia.
Aurelius mi dice sempre che non bisogna mai avere paura dei nostri ricordi, non importa quanto dolorosi o brutti essi siano. Nel sentirglielo dire ho pensato che il consulto psichiatrico servisse più a lui che a me, perché doveva essere decisamente pazzo per pensare qualcosa del genere. Io cerco di seguire i suoi consigli e di ricordare nonostante i brividi di terrore, che alcune volte sono decisamente troppo forti da controllare… e non riesco a controllarli sempre. Quindi finisco sempre con lo smettere di pensare, di estraniarmi per quanto posso. È anche per questo che ho ripreso a fare il bagno la sera: mi rilassa. Al contrario degli altri, che pensano quando si rilassano, io svuoto la mente.
È un altro modo per andare avanti.
Piego le ginocchia e porto le gambe contro il petto, seguendo con le mani la linea dei polpacci. Sotto i polpastrelli riesco a sentire le grinze che la pelle ha creato rimarginandosi dalle ustioni. Sono tante, queste grinze. Sono anche molto visibili: alcune di meno, altre di più. La mia pelle ha assunto un aspetto bizzarro, simile a quello di una coperta patchwork. Non sono mai stata una ragazza interessata alle apparenze, all’aspetto fisico o ai trattamenti estetici: qui al 12 nessuno si è mai potuto permettere un trattamento estetico, e prima degli Hunger Games non avevo neanche mai fatto una ceretta alle gambe. Non mi è mai importato di essere o meno presentabile per qualcuno, ma improvvisamente queste cicatrici così chiare mi fanno sentire inadeguata ed insicura. Non è qualcosa che vorrei mostrare a qualcuno di mia spontanea volontà.
Riporto le gambe in acqua quando bussano alla porta del bagno; tempo due secondi e la testa di Peeta fa capolino dallo spiraglio che avevo lasciato. Chi altri poteva essere se non lui? Mi stavo dimenticando della sua presenza in casa.
- Non volevo disturbarti – dice, facendomi l’occhiolino. – Volevo solo dirti che la cena è quasi pronta.
- Ho quasi fatto. Non ci metto molto… - ribatto in fretta. Mi metto a sedere e cerco di sciacquare dai capelli la schiuma in eccesso.
Sono concentrata sui capelli e lo sciabordio dell’acqua mi riempie le orecchie, quindi non noto subito ciò che sta accadendo all’interno del bagno. Non noto subito i vestiti di Peeta che, uno ad uno, raggiungono il pavimento insieme alle scarpe. È il tonfo prodotto da una di queste che mi fa voltare la testa e mi fa capire che c’è stato un cambio di programma.
- Ma la cena non è quasi pronta? – faccio, sconcertata; anche divertita, in realtà. Questa proprio non me l’aspettavo.
- La riscalderemo, non andrà a male. Fammi un po' di posto – esclama con un sorriso.
Si lamenta, invece, quando nota che l’acqua è fredda. Perdiamo del tempo, ridendo insieme, nel riportare l’acqua ad una temperatura accettabile; ci verso dell’altro sapone e nel giro di poco siamo circondati da altra schiuma rosa e profumata. Una delle poche cose buone di cui non mi pento, quando mi rendo conto di vivere in una casa concepita e costruita interamente dagli architetti di Capitol City, è la grandezza spropositata delle vasche che ci hanno installato. Sono abbastanza grandi da contenere tre persone, ed io e Peeta insieme ci stiamo più che comodamente. Lui ha la schiena premuta contro il bordo, così io posso prendere tranquillamente posto tra le sue gambe ed accoccolarmi contro di lui, contro il suo petto.
- Hai dei capelli lunghissimi – mormora mentre li pettina lentamente con le dita. – Non me ne sono mai accorto prima.
- È perché li tengo sempre legati – sembra stupido ribadirlo, anche se è la pura e semplice verità.
- È anche vero che bagnati sembrano più lunghi. Non hai neanche un ricciolo, quando sono bagnati – Peeta continua a districare le ciocche, perso nei suoi ragionamenti. – Sei più bella quando hai i capelli sciolti – se ne esce infine.
Sbuffo. – E questa da dove viene fuori?
- Non te lo avevo mai detto prima? Non ti sto dicendo una bugia: lo penso davvero.
- Va bene – mi giro per poterlo guardare in viso. – A me invece piaci di più quando hai la barba: perché non te la fai mai crescere?
- Non la sopporto – confessa, ridendo. – Vogliamo continuare con questo gioco?
- Quale gioco?
- Il gioco delle verità. Dai, è divertente! – mi incita non appena nota la faccia poco convinta che ho fatto. Mi abbraccia. – Inizio io! Vediamo…
- Sembri un bambino! – lo prendo in giro.
- Tu invece una vecchia di cent’anni – ribatte. Blocca le mie braccia nelle sue per evitare che possa ribellarmi contro di lui. – Vediamo…
- Peeta…
- Vuoi bene a Ranuncolo. Vero o falso?
- Falso! Non vorrò mai bene a quella bestiaccia.
- Gli vuoi bene, ammettilo. Lo riempi di così tanto cibo che presto rotolerà per casa invece di camminare.
- Ho detto che è falso! – stavolta riesco a dargli uno scappellotto sulla spalla. Mi ci accoccolo subito contro, decisa a continuare questa sfida. – Tocca a me adesso. Ti è piaciuto un sacco fare la doccia a Haymitch, quella notte sul treno. Vero o falso?
- Falso.
- Però non vedi l’ora di ripetere l’esperienza.
- Lo farò fare a te la prossima volta – mi dà un buffetto sulla guancia. - È passato un anno dalla nostra tostatura. Vero o falso?

La tostatura. Davvero è già trascorso un anno da quella notte? È già trascorso un anno dall’annuncio dell’Edizione della Memoria. Un anno, dal giorno in cui le nostre vite sono cambiate per sempre. Siamo in pieno aprile, dopotutto. Peeta ha ragione: il nostro primo anno come marito e moglie è scaduto. Ne è iniziato un altro. Continuo a pensare che forse il nostro matrimonio non è del tutto valido, ma non sembra importare a nessuno… nemmeno a noi interessa.
- È vero. – mi zittisco, posando il mento sulla sua spalla.
Peeta sfiora la mia tempia con un bacio. – Prossima domanda.
- Mi ami. Vero o falso?
Adesso è lui quello che sbuffa. – Pensi che sia necessario chiedermelo? È ovvio che ti amo, tesoro. Vero.
Sorrido. Gli mordo la spalla. – Prossima domanda.
- Tu mi ami, invece? Vero o falso?
- Lo sai che ti amo. – la domanda successiva la dico in fretta, non credo di averla neanche pensata. Forse dipende dal fatto che ci stavo riflettendo su prima che Peeta venisse a chiamarmi per la cena. Forse dipende dalla mia insicurezza. – Le mie cicatrici sono orribili. Vero o falso?
- Falso. – lui risponde prima ancora che abbia finito di porgergli la domanda. – Non le guardo neanche quelle cicatrici, Katniss. Per me non significano nulla. Per me, tu vali più di qualsiasi segno sulla pelle. – nel dirlo, segue con le dita quella che percorre il mio avambraccio, steso sul suo petto.
Non mi sento rassicurata dalle sue parole. Mi sento più sconfortata, e questo perché non ho pensato prima di chiederglielo. Non sono l’unica, in questa stanza, ad avere dei segni permanenti impressi sulla pelle: anche Peeta ne è pieno. Il suo viso ed il suo corpo sono costellati dei segni che gli hanno lasciato le ferite da lui subite durante la prigionia a Capitol City; la sua gamba sinistra, quella che ha perduto nei nostri primi giochi, senza la protesi termina in un moncone al di sotto del ginocchio. Peeta è pieno di segni, ma non chiede a nessuno se siano orribili o meno. Non me lo ha mai chiesto. A lui non sembra importare. E non importa neanche a me.
Ha cominciato a canticchiare qualcosa a bocca chiusa, qualcosa che non riesco a riconoscere ma che accompagna i miei pensieri poco lineari. Poi, di colpo, arrivano le parole.
- You are so beautiful…
Alzo il viso, incrociando il suo sguardo azzurro che adesso è carico di emozione. Sorride, avvicinandosi fino a far sfiorare le nostre labbra.
- You are so beautiful for me…
Non ho mai sentito cantare Peeta prima d’ora. Non ha mai cantato davanti a me, non ci ha mai nemmeno provato, ed ora mi domando il perché. La sua voce è leggermente roca ma è al contempo aggraziata, e si mantiene sulle note basse per tutto il tempo che impiega a terminare questa sua canzoncina. Anche questa è la prima volta che la sento. Chissà dove l’ha sentita, o chi gliel’ha insegnata…
- È la prima volta che ti sento cantare – soffio, ammaliata dalla sua voce. Ha una voce bellissima.
- Non sono bravo come te – dice come per giustificarsi.
Facendo leva sulle braccia mi siedo a cavalcioni su di lui, posando i gomiti sulle sue spalle ed intrecciando le dita sulla sua nuca. Lo bacio, allontanandomi di tanto in tanto dalle sue labbra solo per ripetere i versi della canzone. È così semplice da restare subito impressa nella mente, quindi non è difficile ricordarla. E le parole, mi rendo conto, possono valere allo stesso modo per entrambi.
- You are so beautiful for me… - canto, sorridendo.
Il suo sorriso fa eco al mio.
- Così bella…
- Ti sei innamorato di me quando mi hai sentito cantare a scuola. Vero o falso?
- Vero. È sempre vero – il bacio che segue questa sua risposta è più lungo, più approfondito. Mi invita ad approfondirlo ancora di più e lo faccio, assecondando la smania che sta pian piano prendendo il sopravvento dentro di me.
Poso le mani sul bordo della vasca, dietro la testa di Peeta, e mi inarco contro di lui che scivola appena dentro l’acqua, mentre percorre e stringe tra le dita i miei fianchi, per poi scendere sempre più in basso…
- Che ne sarà della cena? – mugola ad un tratto contro la mia mandibola.
- Vuoi davvero pensare alla cena adesso?

 

 

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Eccoci qui, miei cari. Anche se con un ritardo di cui farei bene a vergognarmi da qui fino ai prossimi vent’anni.
Quello che avete appena finito di leggere è una versione ampliata e aggiornata del ritorno a casa di Katniss e compagnia bella. Ho sempre trovato un po’ sbrigativa la versione originale contenuta nei libri, e anche molto dolorosa per quel che riguarda il personaggio di Katniss: dopotutto, lì lei era da sola ad affrontare il tutto. Penso che se non fosse stata lasciata da sola le cose per lei sarebbero potute andare molto meglio.
Spero che questa mia versione vi sia piaciuta :) ne avremo qualche altro assaggio nei prossimi due capitoli.
Colgo l’occasione per annunciarvi già da adesso che i prossimi sono i capitoli finali: ebbene sì, siamo davvero alla conclusione. Ci sarà anche un epilogo – bello sostanzioso tra l’altro! -, e poi basta. Fine.
Posso dire che non sono davvero pronta a scrivere la parola “fine”? ç___ç
Con queste lacrimucce vi saluto! Ci sentiamo presto

D.

   
 
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