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Autore: shilyss    28/08/2022    19 recensioni
Il dio dell’inganno si guardò attorno: la foresta, innaturalmente silenziosa, quasi priva di colore – se ne accorse solamente in quel momento – li avvolgeva con i suoi alberi familiari, con i rami scheletrici che schermavano la poca luce esistente. Non c’era alcuna fessura, nessuno strappo a indicare una cesura tra i due mondi.
“Dov’è?” mormorò Loki.
“La sentirai.”
“La vedrai.”

Tutta la conoscenza e l'astuzia del mondo non bastano a raggiungere e a oltrepassare il Valgrind, il magnifico cancello oltre cui si estende il Valhalla. Non è detto che basti nemmeno morire in battaglia. Per chi non riesce a trovare la via, il destino è quello di rimanere in un limbo, come uno spirito errante.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hela, Loki, Odino, Sigyn, Thor
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Storia di uno spirito errante

Capitolo 1

Osservare il mondo attraverso una fessura

 

 

Solo la morte m’ha portato in collina

Un corpo fra i tanti a dar fosforo all’aria

Per bivacchi di fuochi che dicono fatui

Che non lasciano cenere, non sciolgon la brina

Solo la morte m'ha portato in collina

(Un chimico, De André)

Loki Laufeyson capì che stava morendo quando la prima visione squarciò il suo campo visivo, ottenebrando tutto il resto. Vide il palazzo di Asgard e la dimora di Odino, col suo tetto spiovente, altissimo, che si stagliava, nero, contro un cielo grigio e rarefatto, che sapeva di neve. L’immagine svanì, rapida com’era comparsa. Fissò stupito la propria mano sporca di sangue, osservò la lama rossa, conficcata troppo vicino al cuore. Il dolore gli mozzava il respiro. Raccolse le ultime energie per rivolgere a Thanos un sorriso arrogante e sbieco, perché nemmeno l’orribile ferita che lo avrebbe spedito nel Valhalla poteva impedirgli di usare l’ultimo strumento ancora in suo possesso – la propria voce, roca e insinuante, ambigua e stregata, abituata a recitare incantesimi e mentire, per dire la verità e maledire.

“Tu non sarai mai un dio,” promise con nera soddisfazione, tra i denti, e in quel momento sentì, per la prima volta nella sua lunga vita, un brivido gelido risalirgli lungo la schiena, ghiacciargli le ossa. Boccheggiando sputò sangue e si accorse che la sua mano tremava. Il volto piatto e largo di Thanos scomparve di nuovo, le urla disperate e furiose di Thor svanirono. Davanti ai suoi occhi c’era il palazzo di Asgard. Ora l’immagine era più precisa: attorno a lui danzavano piccoli fiocchi di neve, dietro il tetto nero e aguzzo si intravedevano le montagne che circondavano il fiordo, di un verde intenso e cupo. Le porte della dimora di Padre Tutto erano sprangate e decorate con incisioni note, che Loki conosceva alla perfezione – da bambino, a occhi chiusi, a volte ne seguiva i contorni con le dita, ripercorrendo le vittorie di Odino sui giganti di ghiaccio, e non solo. Huginn e Muninn volteggiavano davanti a lui, come se lo stessero aspettando. Ricordò di aver rinnegato Asgard molte volte e di aver combattuto e tramato contro di essa, ma rammentò anche di aver fatto ogni cosa per salvarla, risparmiandola dal fuoco corrosivo e annichilente di Surtur. Era anche il figlio di Odino, in fondo: della magnifica terra degli Æsir sarebbe stato sempre il fiero principe, l’astuto difensore. L’aveva ammesso solo pochi istanti prima, al termine di un percorso lungo e tortuoso fatto di rancore e vendette: un groppo denso e nero all’altezza del petto che si era sciolto solo quando Padre Tutto, prima di morire, aveva ammirato la potenza dei suoi complicati incantesimi, riconosciuto che l’inquietudine che agitava il suo spirito era fatta della stessa sostanza di quella che albergava nel suo cuore vecchio e stanco. Thor gridava, ma la sua voce inarticolata, grondante di dolore, si mescolava all’improvviso gracchiare dei corvi, alla sensazione della neve sotto gli stivali. Avrebbe potuto ingannare ancora Thanos, forse, e salvarsi la vita, ma era troppo astuto e sagace per ignorare l’ineluttabile corso che avrebbero preso gli eventi, per non sapere che il Tempo è fatto di punti fermi, fissi: se oltrepassati, il futuro, da molte strade possibili, si incanala verso uno, uno soltanto. Thor lo vendicherà: è l’unico che ne ha la forza e l’occasione, a patto che Loki gliene lasci una. Il sacrificio richiesto va pagato con la vita, ma gli Æsir amano i sacrifici e c’è stato un tempo in cui, fieri e sprezzanti, non si preoccupavano di chiederne in abbondanza agli uomini del nord che li adoravano, anzi. E poi, fratello, morire in battaglia è quello che ogni figlio di Asgard desidera: non c’è alcun onore nell’andarsene nel proprio letto, con i capelli incanutiti: la morte migliore va cercata sul campo di battaglia, nel sangue e nel fango.

Sorrise, e l’ennesimo ghigno sul suo viso affilato fece infuriare il Titano folle, spingendolo a infierire su di lui con un ultimo, inutile colpo. Loki non c’era già più. Si trovava di nuovo ad Asgard, di fronte alle porte del palazzo, ora spalancate. Al centro della sala, crepitava un grande fuoco. Era perfettamente consapevole di aver passato la soglia tra la vita e la morte.

 

Da qualche parte, nel mondo dei vivi, Thor si era lanciato sui suoi resti mortali, perché anche gli dèi di Asgard erano fatti di carne e sangue e, se feriti, sanguinavano, soffrivano. Loki non rimpiangeva quel corpo agile e svelto che aveva abitato con soddisfazione, ora abbandonato in una posa innaturale, a occhi aperti. Nelle sue pupille verdi, un tempo attente e vivaci e ora vitree e fisse, era rimasto impresso non il volto deformato dall’ira del Titano pazzo né quello, dolente, di Thor, ma il palazzo dal tetto aguzzo come la punta di una freccia, fatto per resistere alla neve che avrebbe reso bianco il fiordo su cui si ergeva. La magnifica, bellissima e adorata Asgard.

Ne pronunciò il nome calpestando la neve, spiato dai corvi di Odino – ora che apparteneva alla schiera delle ombre, poteva chiamarli col loro vero nome: Memoria e Pensiero. Dedusse che doveva avvicinarsi al fuoco che guizzava al centro della sala. Per quanto le fiamme fossero alte e ben visibili, sembrava fossero incapaci di rischiarare l’ambiente, ma le sensazioni che provava in quanto spettro erano ragionevolmente differenti da quelle distinte quand’era vivo. Per un maestro di magia del suo calibro e della sua astuzia, in fondo, quella situazione non era che un’occasione per ampliare le proprie smisurate conoscenze, accrescere il seiðdr che, lo sentiva, era ancora legato alla sua anima. Fece per oltrepassare la soglia del palazzo, ma qualcosa – una forza sconosciuta – lo trattenne. I corvi gracchiarono, rammaricandosi per l’inconveniente. Loki si voltò indietro e increspò le labbra sarcastiche in un sorriso affilato come il metallo.

“Non è ancora il momento, per te, di attraversare questa porta,” spiegò una voce nota, vicina e lontana al tempo stesso. Davanti al palazzo c’era un’immensa e fitta foresta. Loki non sapeva – non riusciva a ricordarlo, e forse non aveva davvero importanza, se la casa di Odino si affacciasse davvero su quella distesa di alberi. Così come accade nei sogni, in cui la realtà muta e si distorce per seguire i nostri pensieri, il mondo ultraterreno in cui lo spirito del dio dell’inganno era finito sembrava piegarsi a leggi al momento ignote. Dalla foresta emerse una figura sottile: prima era nient’altro che un’ombra indistinta, ma poi iniziò ad avvicinarsi assumendo consistenza, forma e colore.

“Hela,” la riconobbe Loki. “Dunque non è il Valhalla che mi attende, ma il tuo regno,” osservò.

La dea della morte gli mostrò la parte intatta del suo viso e gli rivolse un sorriso lieve. “I cancelli di Helgrind rimarranno chiusi per te, Loki di Asgard. Almeno per ora.” Gli scivolò accanto col suo abito ampio e scuro, tenendo in ombra la parte deturpata del suo corpo di ragazzina. “Sei a metà strada tra il regno dei vivi e quello dei morti. Sei condannato a rimanerci finché ogni questione sarà sciolta. Allora Helgrind o Valgrind si schiuderanno per te,” concluse, svanendo così com’era comparsa, in maniera lenta e inesorabile.

Loki tornò a fissare il grande fuoco che crepitava nella sala altrimenti buia. Inutile porre altre domande a Hela: non gli avrebbe risposto. Piuttosto, doveva riflettere sulle parole, solo all’apparenza semplici, della signora di Helheim. E poi, ancora, ragionare sulle impreviste possibilità che la sua inattesa condizione di spirito errante gli offriva.

 

Anche la morte rappresentava una succosa opportunità, per il brillante ingannatore. Il suo stato gli consentiva l’accesso a quello che i vivi chiamavano l’inconoscibile: assaporò dentro di sé la gioia che gli avrebbe provocato scoprire i segreti del mondo dei morti, tutti. Quale immenso e smisurato potere avrebbe potuto ottenere, se avesse svelato ogni mistero di quel non luogo dove ogni essere vivente, prima o poi, avrebbe transitato? Non riuscì a fare a meno di sorridere al pensiero dell’uso che avrebbe fatto della conoscenza acquisita, perché ogni regola, per quanto stringente e ben fatta e lungimirante sia, nasconde una zona d’ombra, lascia aperta una via d’uscita. È fatta per essere violata. La sete di sapere e l’ambizione avevano corroso Loki figlio di Odino per tutta la sua lunga e travagliata esistenza, e avrebbero continuato a farlo anche ora che era morto, ma quello che il fiero Ase ignorava, o tentava di accantonare in un angolo della propria mente, era il suo bisogno impellente di varcare la soglia del palazzo di Odino, di scaldarsi davanti a quel fuoco vicino e lontano al tempo stesso. Furono le lingue fatte di fiamme a catturare nuovamente la sua attenzione, distogliendolo dai suoi gloriosi e nefandi propositi: deglutì. Gli parve di scorgere un’ombra che lo attendeva, al di là delle braci rosseggianti. Un vecchio con un bastone e un cappello floscio che gli copriva il volto, un vecchio cieco a un occhio – Odino, Padre di Tutto, dio delle forche e della magia.

Doveva raggiungerlo e, per farlo, sciogliere qualsiasi nodo lo tenesse avvinghiato alla propria vita passata – sì, ma quale? Lungo tutta la sua esistenza, Loki si era dedicato a molte, moltissime cose: oltre a difendere e a osteggiare Asgard a seconda dei casi e delle opportunità, aveva vissuto un considerevole numero di avventure col proprio fratello – l’erede designato, l’alleato perfetto, invidiato e protetto a costo della propria stessa vita. Allo stesso tempo, aveva coltivato la sua intelligenza viva e brillante, dedicandosi allo studio della magia e di qualsiasi altra scienza gli capitasse davanti con una dedizione e una passione sconfinate. La conoscenza lo inebriava, gli dava potere – lo rendeva simile a Odino, il padre adorato prima e contrastato con violenza poi, di cui avrebbe desiderato essere il solo, vero erede. Di fronte all’ennesima sfida d’astuzia che gli si poneva davanti, tuttavia, il brillante dio dell’inganno si rese conto di non avere abbastanza indizi per compiere il proprio destino, o, al contrario di averne fin troppi. Fu sopraffatto da una sensazione strana, una vertigine fatta di nomi, rancori, battute sferzanti, battaglie, scoperte, sconfitte, vittorie, desideri e incubi. Si ritrovò a terra, boccheggiante, le mani che afferravano la neve gelida e compatta, il corpo sconquassato da un dolore che ricordava fin troppo da vicino quello inflittogli da Thanos. Aveva ripercorso la sua lunga vita d’Ase nel giro di pochi secondi, ma quella visione improvvisa, anziché indicargli una via o rappacificarlo con la propria turbolenta esistenza, gli aveva lasciato addosso un’inquietudine gelida strisciante, un tremore sconosciuto e indegno per lui, che era nato per essere re. Sapeva di aver perso qualcosa d’importante.

L’ombra oltre il fuoco dovette provare una qualche sorta di compassione per la sua figura prostrata dal dolore e dallo stupore, perché si fece più vicina – irraggiungibile, ma tanto prossima da poter essere riconosciuta da Loki. Ecco il volto severo e segnato di Odino sotto il capello floscio, il suo unico occhio, di un azzurro intenso, fissarlo con solennità. Era lo stesso sguardo lungo e indagatore che gli aveva tributato un numero infinito di volte quando, al ritorno da un’ambasceria o da una missione, lo soppesava in silenzio, giudicandolo.

Loki si rialzò in fretta, recuperando l’antico contegno principesco e, così come aveva fatto poco prima con Hela, parlò per primo, allargando le braccia. “Sembra che dovrò restare in questo limbo ancora per un po’. Deluso, padre?”

Odino, in vita, aveva sempre apprezzato l’insolente ironia di Loki. Lo aveva punito un numero incalcolabile di volte per la sua tracotanza e detestava quando si comportava in maniera irrispettosa nei suoi riguardi, ma ammirava l’abilità del figlio nel trasformare le sconfitte in opportunità, quella sua capacità di risollevarsi sempre e di volgere ogni cosa a proprio favore propria dei truffatori e degli intriganti. In questo si assomigliavano; se lo aveva trattato con estrema durezza, era stato perché in Loki vedeva i suoi difetti esaltati come in uno specchio impietoso. Nella morte, però, Padre Tutto si era fatto ancora più saggio, o forse aveva assunto una tale consapevolezza del mondo e degli universi da poter passare oltre l’irriverenza del figlio che aveva scelto di salvare e di allevare.

“Hai studiato molte cose, nella tua vita, figlio mio, ma alcune sono sfuggite comunque alla tua intelligenza pronta e acutissima. Solleva quel velo, guarda attraverso le sue fessure il mondo che hai lasciato. Per sciogliere i nodi che ti impediscono di oltrepassare i cancelli del regno dei morti, devi prima riannodare ogni filo, guardarti indietro.”

L’ingannatore ascoltò in silenzio, elaborando già il piano che gli avrebbe consentito perlomeno di avvicinarsi al fuoco caldo e guizzante che bruciava alle spalle di Odino: solo così avrebbe scacciato quel freddo lacerante e sconosciuto che gli ghiacciava le ossa come mai prima di quel momento. Dopo, quando le sue dita di mago che sentiva rigide e doloranti si fossero scaldate, avrebbe potuto ragionare su come varcare i confini di Valgrind. Era morto in battaglia, del resto. Con onore, per difendere suo fratello. Riteneva di meritare il Valhalla, ma di Loki Laufeyson occorre dire che aveva sempre avuto un’altissima opinione di sé e una fede incrollabile nel fatto che gli spettasse un destino glorioso. Nemmeno la morte violenta e straziante inflittagli da Thanos era riuscita a scalfire questa sua convinzione – illusione?

 “So che stai soffrendo, che vorresti varcare questa soglia,” proseguì Odino, comprensivo e implacabile al tempo stesso. “Incamminati verso la foresta, attraversala. Troverai ciò che cerchi.”

Fessure. Si tratta di ricordi o di strappi nel tessuto che separa il mondo dei vivi da quello dei morti?” intuì Loki. Nei suoi occhi scintillava una luce vivace e attenta. Era pronto a raccogliere la sfida di Padre Tutto, a interpretare quel mondo che, lo intuiva, era fatto di simboli e significati nascosti, come i sogni.

“Non hai bisogno che te lo confermi io, Loki. Lo capirai molto velocemente – forse l’hai persino già capito,” suggerì Odino e al dio dell’inganno parve, ma forse si sbagliava, che Padre Tutto sorridesse con un sorriso identico al suo – breve e laterale, lupesco.

 

Lasciare le porte del palazzo, spalancate eppure impossibili da attraversare, fu insospettabilmente difficile per il dio dell’inganno. Nel mondo ultraterreno alcuni bisogni propri di chi possedeva ancora un corpo di carne e di sangue svanivano, ma altri si acuivano e diventano insopportabili. Sentiva di doversi scaldare attorno al fuoco, sapeva di averne un bisogno disperato. Si chiedeva se quel freddo assoluto e spiazzante, sensazione che in vita era sconosciuta all’altero gigante di ghiaccio cresciuto dagli Æsir, fosse una sorta di beffardo contrappasso. Una punizione per la propria diversità. Fu a malincuore che decise di lasciare il palazzo, muto e dalle linee affilate che si stagliava contro un cielo grigio e compatto, carico di neve. Seguì i corvi verso l’intrico di alberi dov’era scomparsa Hela, volgendo solo un’ultima occhiata attenta al fantasma di Padre Tutto che, diritto in piedi sulla soglia del palazzo scuro, lo attendeva in silenzio.

 

La distesa di alberi non era più scura e spaventosa di quelle che Loki Laufeyson – o forse sarebbe più opportuno dire Odinson – aveva attraversato nel corso della sua movimentata esistenza. Betulle, querce, olmi, faggi e cespugli di more si mostravano al suo passaggio: erano gli stessi arbusti secolari che circondavano l’Asgard della sua giovinezza, quando andava a caccia con Thor. Un periodo della sua esistenza spensierato e felice, un ricordo che scoprì caro, a cui non pensava più da un tempo remotissimo, sebbene suo fratello avesse tentato invano di rievocarlo in più occasioni. All’epoca il suo cuore non era ancora avvelenato dal rancore e dall’ambizione al punto di tradire i segreti degli Æsir per favorirne i nemici; eppure, in lui c’era già il seme di quella stortura che lo avrebbe spinto a seminare il caos in lungo e in largo per i Nove Regni, quell’insoddisfazione che lo rendeva perennemente inquieto. Ma è davvero così sbagliato, si domandò, nutrire alte aspirazioni, bramare l’eccellenza, il potere, la sapienza? Thor era un cacciatore meno paziente e accorto di lui, ma più fortunato e brutale. Per questo capitava che, a volte, non sempre, portasse a casa le prede migliori. Loki piegò le labbra in una smorfia di dispetto. Non sempre, fratello, non sempre.

Quasi come se l’avesse evocato, vide lo strappo. Si trattava di una fessura, uno squarcio slabbrato nel rarefatto mondo ultraterreno, una finestra oltre cui sporgersi per spiare i vivi. Huginn, il corvo del pensiero, gracchiò, invitandolo ad agire in qualche modo.

L’Ase gli rivolse un’occhiata sbieca. “Non insistere, ho capito,” sibilò. Si sporse oltre l’apertura e fu colto da un dolore violentissimo e improvviso. Per un momento brancolò nel buio, accecato dalla fitta. L’anima sanguinava e soffriva, comprese, come il corpo – forse persino di più. Quando riprese il controllo di sé, scoprì di trovarsi in una stanza lurida e spoglia, fatta eccezione per qualche vecchio mobile noto e delle armi gettate in un angolo. Un irriconoscibile Thor beveva da solo, il corpo possente abbandonato su uno degli scranni imbottiti preferiti da Odino, ma l’ampia camera non aveva più nulla dello splendore posseduto quando Padre Tutto regnava su Asgard.

Loki osservò il dio del tuono disgustato, rammaricato, stupito. Muninn volteggiò per la stanza e gli si posò sulla spalla. Così come aveva fatto per secoli all’orecchio di Odino, lo informò dei fatti capitati tra i vivi. Il dio dell’inganno ascoltò quel gracchiare che finalmente aveva un senso; scoprì che non erano passate poche ore dalla sua morte, ma settimane. Thor aveva ucciso Thanos, vendicando lui e tutte le vittime del Titano, ma quell’uccisione non gli aveva lasciato in mano niente, né uno scopo né una soddisfazione. Possedeva un regno, ma non sapeva che farsene.

Loki avrebbe voluto sputargli contro tutto il suo disprezzo: non era lui l’erede degno, designato? Colui che poteva rendere l’amatissima e fiera Asgard ancora più splendida di quanto aveva fatto Padre Tutto? Perché ora si ubriacava senza ritegno in quella solitudine sofferente?

“A che è servito vendicarti, eh fratello? Dimmelo. Tu avevi tutte le risposte. Una fottuta spiegazione per ogni cosa.”

Loki s’irrigidì e per un attimo, uno solo, immaginò che l’altro lo avesse visto, magari per via di tutto quell’idromele trangugiato. Aprì la bocca per rispondergli e insultarlo come meritava, ma Huginn gracchiò che non era affatto così che stavano le cose. Thor non vedeva né lui né i corvi. Parlava da solo, sfogandosi col ricordo del fratello perduto. Lo aveva già fatto in passato e lo avrebbe fatto ancora: solo per un caso il fantasma di Loki in quel momento era lì per ascoltarlo.

“L’ho ucciso e non mi è rimasto nulla. La sua morte non ha portato indietro nessuna delle sue vittime –nemmeno tu sei tornato.”

Loki, che pure aveva compreso perfettamente la propria condizione, increspò le labbra sottili in una smorfia indispettita, misurò la stanza sporca con passi nervosi.

“Ti rimane Asgard, ti rimangono gli Æsir. Perché non ti basta? A me sarebbe bastato.” Nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole, però, non poté fare a meno di sorridere. Aveva mentito. La soddisfazione non sarebbe stata mai nella sua natura e, a parti inverse, anche se non si sarebbe mai lasciato abbattere in quella vergognosa maniera, riconobbe che la sua natura lo avrebbe portato a smaniare in vista di nuove conquiste, altri obiettivi. Thor, invece, si crogiolava nel passato ed era rimasto incastrato in un lutto che si sommava a molti altri. Si sentiva responsabile per ognuna di quelle morti. Loki, pur non accettando la sua visione, scoprì che la comprendeva. Il distacco dalla vita mortale, rifletté, doveva aver donato anche a lui una qualche forma di nuova saggezza.

Thor si asciugò la bocca col dorso della stessa mano che un tempo aveva brandito Mjollnir. “Non mi interessa prendere le decisioni di un re. Non mi importa niente di tutto questo. Lascerò che scelga ciò che vuole. Abbiamo fatto abbastanza,” decise. Accartocciò e gettò via con fare brusco una pergamena che teneva sulle ginocchia. Fino ad allora l’ingannatore non l’aveva nemmeno notata. Anche questo faceva parte delle inesplicabili regole del mondo dei morti. Certi dettagli comparivano solo in un determinato momento, altri rimanevano per sempre invisibili. L’involto giunse quasi a toccare la punta degli stivali di Loki. Alcune frasi erano leggibili. L’ingannatore fece un passo indietro, allontanandosi.

Il corvo del pensiero gli chiese se avesse letto le rune incise sulla pergamena. Loki rispose di no e allora il volatile volse verso di lui i suoi occhi neri e rapaci.

“Bugia,” gracchiò.

“Ho risolto ogni questione con Thor, figlio di Odino. Sono morto per dargli un’opportunità che lui non ha saputo sfruttare a sufficienza,” sibilò con disprezzo. Tentò di deliziare quell’ubriacone del dio del tuono con qualche terribile scherzo, ma invano. Non riusciva a interagire con i vivi. Non ancora, almeno.

“Questo è vero,” rispose l’altro corvo, Muninn. “Ma non sta a te decidere come il primo figlio di Odino debba trascorrere la sua esistenza o governare il regno che ha ereditato.”

“Allora perché la fessura era qui?”

“Per permetterti di guardare,” disse Huginn, il corvo del pensiero. Col becco sfiorò la pergamena malamente arrotolata, facendola muovere in direzione dello stivale dell’ingannatore. Dopo, tutto si fece nero.

 

Il tempo, per uno spettro errante, è un concetto astratto. Loki non ricordava come e perché avesse abbandonato la camera spoglia di Asgard dove Thor era andato a soffocare il proprio dolore. Quando riprese coscienza di sé era di nuovo nella foresta sconosciuta, così simile a quelle della sua prima giovinezza, eppure tanto diversa. Huginn e Muninn avevano atteso che si riprendesse appollaiati su un albero: due figure nere contro un cielo color metallo. Sollevandosi da terra, il dio dell’inganno scoprì una debolezza nuova, sconosciuta come il freddo che non voleva abbandonare le sue ossa. Ripensò al palazzo dove lo attendeva Odino, al fuoco che crepitava alle sue spalle, così necessario e invitante.

Deglutì, scosso dai brividi. “Quanto tempo è passato?” s’interessò, scrollandosi di dosso un paio di foglie secche.

“Ore. Giorni. Per te non ha più importanza,” gracchiò Huginn.

“E cosa ne ha?”

“Quello che cerchi di dimenticare, maestro di magia. La lezione che non hai voluto imparare,” rispose il corvo.

“Non c’è insegnamento che non abbia raccolto, puntualizzò l’Ase.” Persino dalle sconfitte ho imparato qualcosa.” Grondava alterigia.

“Ma sei arrogante. Come tutti gli Æsir. Come il dio corvo,” puntualizzò Huginn alzandosi in un volo breve e preciso. “Una lezione non l’hai imparata, no.”

“Abbiamo tentato.”

“Ma ti rifiuti di guardare.”

“Non vuoi conoscere quello che non puoi controllare.” I messaggeri di Odino dovevano essere furiosi.

“Accusate me di non voler cedere al caos? È divertente,” si difese Loki.

“È vero,” gracchiò Huginn. “Il signore del caos lo scatena solo se può rimanere nell’ombra. A osservare.”

“A manipolare,” ricordò Muninn. “Ma ora è tempo di guardarti indietro.”

“Non puoi vagare ancora a lungo senza una dimora,” aggiunse il fratello. “Ma fai resistenza. Colpa del seiðr. Il dio corvo ce lo aveva detto.”

“Mostratemela,” decise il dio dell’inganno. “È arrivato il momento.” Non poteva dire di essere davvero convinto di ciò che stava dicendo, ma la condizione di sospensione in cui si trovava era ogni momento più straziante.

“Thor la stringeva tra le mani,” ricordò Muninn. “Tu l’hai letta, ma non hai voluto guardare.”

Loki allargò le braccia, esasperato. “C’è un’altra di quelle fessure, da qualche parte?”

Huginn si appollaiò su un ramo basso, tanto da poter fissare Loki negli occhi. “C’è.”

“Sentirai dolore,” precisò Muninn, muovendo con uno scatto il collo nervoso. “È qui.”

Il dio dell’inganno si guardò attorno: la foresta, innaturalmente silenziosa, quasi priva di colore – se ne accorse solamente in quel momento – li avvolgeva con i suoi alberi familiari, con i rami scheletrici che schermavano la poca luce esistente. Non c’era alcuna fessura, nessuno strappo a indicare una cesura tra i due mondi.

“Dov’è?” mormorò Loki.

“La sentirai.”

“La vedrai.”

Dopo, fu il buio e, di nuovo, un dolore terrificante – come se a essere lacerato e strappato via fosse lui, Loki principe di Asgard, e non quella foresta immacolata posta a metà tra il regno dei vivi e quello dei morti.

La vedrai, avevano gracchiato i corvi, ma prima di scorgerla riuscì a sentirla: una fessura nella propria anima straziata che si allargava a dismisura, una ferita in cui i due uccelli avrebbero banchettato. A rompere l’oscurità fu un singulto lacerante, un singhiozzo soffocato, figlio di un dolore senza soluzione, di un vuoto dove precipitare era fin troppo facile. Aprendo gli occhi dopo un tempo impossibile da calcolare, ebbe la certezza che la fessura tra le due realtà si era aperta nuovamente. Si trovava di nuovo ad Asgard e, con suo grande disappunto, riconobbe immediatamente dove. Le ali di Huginn e Muninn frullavano alle sue spalle, spettatori severi e improvvisamente silenziosi di una scena di cui il dio dell’inganno non comprendeva l’utilità o il senso. Non aveva alcuna questione in sospeso nel suo palazzo privato.

Si guardò attorno: non era cambiato nulla dall’ultima volta in cui aveva visto quelle stanze eleganti e curate, dove ogni particolare incontrava il suo gusto sofisticato.

“Questo è uno sbaglio o uno scherzo,” mormorò, ma i due messaggeri di Odino scelsero di non rispondere alla sua provocazione.

 

C’era una bellezza selvaggia nelle dimore degli Æsir: un contrasto che definiva la loro natura piratesca e rapace, che spiegava il loro smodato amore per le merci preziose: tappeti, gioielli, pellicce erano le cose che definivano il loro status insieme, ovviamente, alle armi dalle else intarsiate, forgiate da quegli stessi fabbri di Nidavellir che nelle loro fucine creavano i capolavori di oreficeria più desiderati dei Nove Regni. Lame robustissime e affilate, dotate di nomi altisonanti e spesso intrise di seiðr. Il palazzo di Loki, quello in cui si rifugiava quando non doveva suggerire qualche mossa astuta alle orecchie di Odino, traboccava di questi oggetti e di molti altri: artefatti magici ottenuti o estorti ad altre popolazioni, strumenti di squisita fattura creati per navigare con più sicurezza nei freddi mari che circondavano i fiordi di Asgard e di Jotunheim, pergamene e volumi che raccontavano le storie più antiche dei Nove Regni tutti, in cui erano tracciate le canzoni più struggenti, le saghe più belle, i versi più toccanti. Il dio dell’inganno apprezzava i frutti dell’ingegno altrui: soddisfacevano la sua sete di conoscenza. La sontuosa dimora del dio dell’inganno raccoglieva tutto questo e molto altro ancora: era un palazzo simile a quello di Odino o al Fensalir di Frigga, sebbene fosse posto più a nord, nel lembo di terra che guardava più da vicino i confini di Jotunheim: si affacciava su un fiordo e spiccava in altezza e bellezza. I suoi tetti aguzzi parevano squarciare il cielo, il legno di cui era composta tutta la struttura era stato scelto con estrema cura e trattato affinché rilucesse, quasi. Ma calpestando le assi del pavimento Loki non poteva più sentirle scricchiolare sotto il proprio peso, né sentire l’odore del legno e delle pergamene nel suo studio privato. Si rese conto che mancava dal palazzo – da quel palazzo perfetto, in cui ogni cosa era esattamente dove doveva essere – da molto, troppo tempo: la consapevolezza appena raggiunta lo colse quando arrivò al cuore stesso della dimora. Il corvo della memoria, Muninn, volò sulla sua spalla e girò il collo nervoso verso il letto ampio e sontuoso, il telaio su cui era fissato il principio di un arazzo. Una luce aranciata e soffusa creava un’atmosfera onirica e irreale, posandosi sui tendaggi pesanti, sul camino dove crepitava un fuoco debole, incapace di scaldare l’ampia camera riccamente arredata, palesemente abitata. Loki si fermò sulla soglia, irrigidendo le spalle altere, serrando la mascella virile e affilata. Anche qui ogni oggetto era dove lo ricordava, ma constatarlo non gli provocò alcuna gioia, anzi. Le sue labbra sottili si piegarono in una smorfia tirata, in un ghigno quasi maligno.

“Non ho nessuna questione in sospeso in questo luogo,” sibilò con voce roca.

“Bugiardo,” gracchiò il corvo. “Bugiardo. Guardala.”

C’era una giovane donna nella stanza, accanto alla grande finestra. La massa dorata dei suoi capelli le ricadeva, sciolta, sulla schiena. Era abbigliata come una principessa, il corpo snello fasciato in un vestito fatto con stoffe pregiate, le braccia, le dita e il collo adornati con gioielli preziosissimi, di mirabile fattura. Il bistro appena colato che le sottolineava gli occhi chiari, rotondi e grigi, dimostrava come avesse da poco ceduto a un pianto breve e disperato. Tra le mani nervose stringeva una tunica di un verde cupo, che, forse, ancora tratteneva l’odore della pelle di colui che l’aveva indossata. La vide affondare il viso nella stoffa scura, come se quell’indumento potesse salvarla da un abisso di disperazione. Loki riconobbe con fastidio che gli apparteneva.

Lei non soffre per me, fidatevi. Non può,” spiegò caustico.

 

Continua

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e cari Lettori del mio cuore,

Quest’estate ho scritto davvero poco, ma il capitolo che avete appena letto è miracolosamente nato in due giorni. Ne seguiranno altri cinque. Spero e prego Loki, Chtulu o chi per loro, di ridarmi un po’ la concentrazione per poter scrivere di nuovo di Loki e Sigyn, perché li amo e parlare di loro mi fa stare bene. E poi, lo sapete, sono del tutti incapace di portare avanti un solo progetto per volta: o mi dedico o più cose insieme, o niente, quindi speriamo che la linfa di Storia di uno spirito errante si irradi anche alle altre long ancora in corso e a quei numerosi progetti che sono ancora nella mia testa.

Qualche appunto: il palazzo di Loki è una mia totale invenzione e la descrizione di quello di Odino è completamente differente dalla versione un po’ pacchianella della Marvel e più simile alle chiese vichinghe o al look di quel film un sacco bello che è The Northman. Helgrind e Valgrind sono i cancelli posti prima di Hel e del Valhalla. La morte di Loki è descritta diversamente rispetto a quella scena tragica che ancora mi fa male vedere (Infinity War) perché mi serviva che morisse, sì (sic) ma in maniera più lenta – quindi con un colpo di spada anziché strangolato. Anche la sorte di Thor è differente: qui è re di Asgard e Asgard non è un accampamento in Norvegia e non è andata distrutta, ma lui sta andando comunque alla deriva – sebbene non nella maniera tragica di Endgame.

Questa storia nasce grazie all’iniziativa “Cinque fette alla torta di melassa:” ogni capitolo avrà un prompt specifico – nel primo era fessura, e una sola canzone di riferimento, Un chimico di De André, tratto dall’album Non al denaro, non all’amore né al cielo. Insomma, con Faber c’è un ritorno alle origini, se vogliamo, alle mie primissime shot. Fino all’ultimo sono stata indecisa se partecipare, ma poi una scena di questa storia ha preso a ossessionarmi e nel giro di 36 ore ecco qua quasi 5k di parole.

Ringrazio di cuore Emi ♥, le cui parole sono sempre preziose e chi listerà, recensirà o semplicemente leggerà questa storia: siete importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano, ecco. ♥

Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate né qui né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale per gli headcanon su Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Creare un mondo con usi e costumi non è uno scherzo.

A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose,

Vostra,

Shilyss

   
 
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