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Autore: Parmandil    05/09/2022    1 recensioni
La Destiny doveva esplorare il Multiverso, ma qualcosa è andato storto e l’equipaggio è stato ucciso. Anni dopo, una banda di contrabbandieri ha abbordato la nave alla deriva, venendo risucchiata nel Multiverso, senza le coordinate di ritorno. Agli avventurieri non resta che esplorare una realtà dopo l’altra, in cerca d’indizi sulla via di casa, mentre cercano di riscoprire in loro quello spirito che creò la Federazione.
La prima tappa della Destiny la porta in uno strano cosmo in cui pensiero e realtà si confondono. La peggior minaccia per gli avventurieri potrebbe annidarsi in loro stessi, in quel subconscio che è uno spazio inesplorato, pieno di terrori e traumi, ma anche di rimpianti e bramosie. Riusciranno i nostri eroi a fuggire dallo Spazio Caotico, prima che siano i loro stessi demoni a distruggerli? Ma soprattutto, vorranno davvero andarsene?
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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-Capitolo 3: Desideri irresistibili
 
   Quando ebbe aiutato Talyn a curarsi dai numerosi graffi e lividi che si era procurato nel crollo, Losira gli si rivolse con apprensione. «Te la senti di tornare in plancia? Posso dispensarti per la giornata, se vuoi. Dopo ciò che hai passato...».
   «Dopo ciò che ho passato nel mio alloggio» puntualizzò il giovane. «Se torno lì, rischio di rivivere tutto daccapo. No, preferisco tornare in plancia con gli altri. Certo, prima o poi dovrò dormire di nuovo...» si preoccupò.
   «Cercheremo di andarcene prima di allora» disse la Risiana. «Voglio andare in sala macchine a scambiare due parole con gli ingegneri, riguardo a quegli strani guasti».
   Lasciarono insieme l’infermeria, memori di quanto fosse rischioso aggirarsi da soli, e si divisero solo quando raggiunsero i turboascensori. Talyn ne prese uno per salire, mentre Losira ne prese un altro per scendere di livello.
   «Sala macchine» ordinò distrattamente la Risiana. Sentì l’ascensore che scendeva e lesse i livelli sul piccolo schermo: 10, 20, 30...
   «Qualcosa non quadra» si allarmò Losira. Era già scesa oltre il dovuto. «Ho detto sala macchine!» disse con voce stentorea, pensando che il computer avesse frainteso l’ordine.
   Il turboascensore continuò a scendere, imperterrito. Era già al livello 40, uno dei più bassi, e non accennava a rallentare. Si sarebbe schiantato?!
   «Sala macchine, sala macchine!» ripeté la Risiana, sempre più spaventata. «Computer, ferma il turboascensore! Arresto immediato!». Poiché le parole non sortivano effetto, premette il pulsante per l’arresto d’emergenza. Ma anche questo fu inutile: l’ascensore continuò a sfrecciare verso il basso. Superò il livello 50...
   «Livello 50?!» si stupì Losira. C’erano soltanto 45 ponti sulla Destiny. O 47, se si contavano il ponte superiore della plancia e un mezzo ponte con alcune strumentazioni al livello più basso. Sotto a quello c’era la corazza inferiore dello scafo. Ma quel maledetto turboascensore la stava portando sempre più giù, in ponti inesistenti: 60... 70... 80...
   La paura si trasformò gradualmente in una morbosa curiosità. La Risiana voleva sapere fin dove l’avrebbe portata quell’ascensore, in quali piani inesistenti. Si sarebbe mai fermato? E in tal caso, cosa avrebbe trovato all’apertura della porta? Un mondo alieno? Un girone infernale, pieno di diavoli e fiamme? Tutto era possibile, in quel cosmo in cui pensiero e realtà si confondevano.
   Giunto a un impossibile ponte 88, il turboascensore finalmente si fermò. La porta si aprì col solito sibilo discreto e Losira si affacciò su uno stanzone rivestito di mattonelle bianche. Almeno non c’erano diavoli coi forconi, si disse: era già qualcosa. Ma quel salone aveva qualcosa di stranamente familiare, che la fece rabbrividire fino al midollo. Sembrava una sala operatoria... no, si corresse, era un obitorio con gli strumenti per le autopsie. E lei c’era già stata, lo riconosceva.
   La Risiana fece qualche passo in avanti, come trascinata da una forza irresistibile. Il suo sguardo andò verso il fondo della sala, dove su un lettino giaceva un corpo, ricoperto da un telo bianco simile a un sudario. Allora le sembrò che ogni calore abbandonasse il suo sangue. Aveva già vissuto quella scena: era il giorno in cui aveva visto i resti sfigurati di suo marito, morto per l’incidente – no, il sabotaggio – alla levi-car.
   «No, no, no...» mugolò Losira, coprendosi il viso. Aveva sopportato una volta quella vista; non poteva farlo di nuovo. Si girò verso il turboascensore, scoprendo che la porta si era richiusa. Allora si avvicinò, ma quel maledetto ingresso rimase sigillato. «Apriti, dannazione! Non puoi lasciarmi qui!» gridò, battendoci sopra i pugni. Ma non sarebbero state certo le sue mani a sfondare la lastra di duranio. Lì era e lì sarebbe rimasta, fino a che lo Spazio Caotico lo avesse voluto.
   Fremendo d’angoscia, la Risiana tornò a fronteggiare la salma sul lettino. «Cosa vuoi da me, eh?! Non mi servi tu, per ricordare d’essere vedova! L’ho ricordato ogni giorno, per sedici anni!» inveì. La sua voce si spense in quel salone gelido e opprimente.
   «Insomma, che cosa devo fare? Guardarlo di nuovo? Dirgli addio? Dopo potrò tornare sulla Destiny?» si chiese Losira. Non avendo altro da fare, si avvicinò al corpo del marito. Ogni suo passo risuonò nello stanzone, finché gli fu accanto. Stava per sollevare il sudario, ma all’ultimo le mancò la forza. Si accasciò sul pavimento, scossa dai tremiti. Sedici anni prima era una persona onesta, che poteva guardare i resti del consorte per dirgli addio. Ma adesso che cos’era? Una ladra, una truffatrice, una contrabbandiera? Aveva fatto di tutto per il profitto e ormai si sentiva così sporca nell’animo che non osava più confrontarsi con quell’immagine del passato.
   Fu allora che udì un fruscio e percepì un movimento accanto a sé. Per lunghi attimi rimase completamente paralizzata dal terrore. Qualcuno si stava muovendo, e poteva essere solo... no, rifiutava di accettarlo. Ma non poteva rimanere per sempre lì accasciata accanto al lettino. Con estrema lentezza, alzò lo sguardo; e poco ci mancò che non le si fermasse il cuore. Perché la salma si era rialzata dal giaciglio. Se ne stava seduta, con il capo reclinato, cingendosi le ginocchia raccolte con le braccia. Era ancora coperta dal telo bianco e se ne stava immobile, in assoluto silenzio. Ma si era mossa, indiscutibilmente.
   «Che cosa sei tu?! Che vuoi da me?!» gridò Losira, scattando in piedi. «Insomma, smettila di tormentarmi!». Al colmo della disperazione, afferrò il sudario e lo strappò da colui che le stava innanzi.
 
   «Capitano, abbiamo un problema!» disse Talyn, non appena Rivera rimise piede in plancia.
   «Uno solo? Avanti, dimmi» borbottò l’Umano.
   «Quello è il problema» disse il giovane, indicando lo schermo principale. Davanti alle mutevoli nubi azzurre spiccavano numerose navicelle giallastre, piccole e irte di spuntoni. Il Capitano riconobbe le bionavi degli Undine, la temuta Specie 8472. Erano sfuggiti per miracolo al loro attacco, nello Spazio Fluido, quando la Destiny era in piena efficienza. Potevano cavarsela ora che tanti sistemi erano in avaria?
   «Sono venticinque navi e danno energia alle armi!» avvertì Talyn.
   «Attivo l’Allarme Rosso» disse Naskeel, dato che il Capitano non dava l’ordine.
   «No, fermo!» lo bloccò Rivera. «È praticamente impossibile che gli Undine ci abbiano seguiti fin qui. Questa è un’illusione come le altre. Nasce dal fatto che la battaglia contro di loro è ancora fresca nella nostra memoria e abbiamo paura d’incontrarli di nuovo».
   «E se anche fosse? Lei stesso ha detto che queste illusioni sono ai limiti della realtà. Finché sono in essere, possono danneggiarci e anche distruggerci. Ecco perché dobbiamo affrontarle» sostenne Naskeel. Così dicendo azionò l’Allarme Rosso, che oltre ad allertare l’equipaggio comportava l’attivazione automatica di scudi e armamenti.
   «Ho detto no! Se l’equipaggio si spaventa, è la fine! Arriveranno sempre più bionavi e ci faranno a pezzi!» insisté il Capitano, balzando alla consolle tattica. Disattivò l’Allarme Rosso, dopo di che aprì un canale con tutta la nave. «Qui è il Capitano Rivera, v’informo che si è trattato di un falso allarme. L’unica minaccia sono le nostre paure, come quella d’essere aggrediti o di restare in trappola. Quindi cercate di... pensare positivo. Mi rivolgo soprattutto agli ingegneri: convincetevi che la nave è a posto e scoprirete che lo è davvero. Tutti quei guasti che state trovando non sono che la materializzazione dei vostri timori. In realtà non ci sono danni a bordo, così come non ci sono nemici là fuori. Dico a tutti: è di vitale importanza che riusciate a convincervi! Focalizzatevi sui ricordi più felici. Pensate ai momenti in cui vi siete sentiti più protetti, più al sicuro. Se accanto a voi c’è un amico, abbracciatelo e ditegli quanto gli volete bene. È un ordine! Plancia, chiudo».
   «Bellissimo discorso, sono commossa» commentò Shati. «Ma gli Undine sono ancora là fuori» aggiunse, additando la flotta nemica. Le bionavi sfrecciavano da tutte le parti, come uno sciame di calabroni, sebbene nessuna avesse ancora aperto il fuoco.
   «No, non sono là fuori! Sono solo nella nostra mente!» insisté il Capitano, aggirandosi nella plancia per rivolgersi a tutto il personale. «Dovete credere che sia così. So che sembra folle, ma vi chiedo un... un salto di fede. Non abbiate paura!».
   Chiuse gli occhi, sforzandosi lui stesso di credere che gli Undine non fossero lì, che non potessero fare alcun male. «Non possono nuocermi. Non possono nuocere al mio equipaggio. Non possono danneggiare la nave. Non sono là fuori. Non esistono!» si ripeté.
   Passarono lunghi secondi. La Destiny era in quiete: nessun sussulto, nessun allarme, segno che le bionavi non avevano aperto il fuoco. Era già un buon segno. Finalmente Rivera osò riaprire gli occhi. Lo schermo panoramico offriva un’ampia visione dello Spazio Caotico: non c’era traccia di bionavi.
   «I sensori non rilevano alcun vascello» confermò Talyn. «Siamo salvi... o dovrei dire che non siamo mai stati in pericolo».
   «Quindi è finita? Abbiamo trovato come proteggerci?» chiese Shati, stupita dall’apparente facilità della soluzione.
   «Sarà finita quando avremo abbandonato lo Spazio Caotico» corresse il Capitano. Non voleva dirlo, per non incrinare il morale, ma intuiva che tutti loro non potevano tenere sempre a bada i pensieri negativi. Durante il sonno, in particolare, erano in preda al loro subconscio. No, la vera salvezza stava solo nell’andarsene. «Plancia a sala macchine, rapporto» ordinò.
   «Signore, è come diceva lei» rispose Irvik. «La maggior parte dei nostri problemi si sono dissolti!».
   «La maggior parte?».
   «Ecco, abbiamo ancora dei problemi con quel trasformatore» ammise l’Ingegnere Capo. «Forse si tratta di un vero guasto».
   «O forse non c’è ancora abbastanza ottimismo a bordo» sospirò il Capitano. «Lavorate al trasformatore, ma ricordate di mantenere il giusto atteggiamento mentale. Dovete credere fermamente che lo riparerete in fretta e senza difficoltà».
   «Ci proveremo, Capitano... devo dire che non ho mai lavorato così» ammise il Voth. «Vedremo che succederà. Sala macchine, chiudo».
   Ora che era tornata la calma, Rivera si chiese se c’era un modo per aiutare l’equipaggio a mantenere il relax. Magari poteva chiedere a Giely di somministrare qualche sostanza tranquillante. Già, ma quale? Non voleva drogare l’equipaggio, perché questo avrebbe ulteriormente abbassato il controllo emotivo. E non voleva nemmeno dare dei sonniferi, perché il sonno peggiorava le cose. Serviva qualcosa di blando. Stava per chiedere un parere a Losira, quando notò che il suo Primo Ufficiale non era ancora tornato.
   «Qualcuno ha visto Losira, o sa dov’è?» chiese in tono calmo, cercando di non far preoccupare nessuno.
   «Era con me in infermeria, poi ha detto che sarebbe scesa in sala macchine per discutere dei guasti» ricordò Talyn. «In effetti è via da un pezzo» notò, consultando l’ora sulla consolle.
   «Plancia a Losira, rispondi» disse il Capitano. Come temeva, non fu accontentato. «Già, proprio come temo... ed è questo il problema!» si disse. «Talyn, vedi di localizzarla» ordinò, sempre in tono calmo.
   «Qualcosa non va» disse l’El-Auriano. «Non rilevo i suoi segni vitali a bordo».
   «Non è che se ne sia andata con qualche navetta o capsula?».
   «Sono ancora tutte al loro posto».
   «Ahi, ahi!» si disse Rivera. Questo era un problema inedito. Il suo Primo Ufficiale mancava all’appello e aveva la sgradevole sensazione che non bastasse desiderare intensamente il suo ritorno.
 
   Nell’obitorio regnava il silenzio. Losira fissava il marito, senza riuscire ad articolare parola. L’ultima immagine che aveva di lui era un corpo maciullato, irriconoscibile; ma ora lo vedeva integro, nel pieno delle forze e della salute.
   «Amore, cosa ci faccio qui? Sai spiegare?» chiese Atrevius. Si era avvolto il telo bianco attorno ai fianchi e sedeva sul lettino, guardandosi attorno meravigliato.
   «Non conosco tutte le risposte» mormorò Losira. «Qual è l’ultima cosa che ricordi?».
   «Vediamo... ero stato alla capitale, a discutere con quella canaglia del Ministro» ricordò il Risiano. «Diceva che non poteva aiutarci, il buffone, come se non fosse stato lui a firmare il provvedimento d’esproprio! Sono uscito dal palazzo con un diavolo per capello e ho preso la levi-car. Stavo tornando da te, riflettendo sul da farsi, quando...» esitò.
   «Quando?» incalzò Losira.
   «I miei ricordi sono confusi, ma credo di aver avuto un incidente» disse Atrevius. «Sì, la levi-car s’è guastata ed è precipitata. Ho provato a eiettarmi, ma anche il seggiolino non funzionava. Ricordo il fischio dell’aria nell’abitacolo e il suolo sempre più vicino. Temevo che fosse la fine... temevo di non rivederti. Invece sei qui, anima mia!».
   Fece per abbracciarla, ma Losira si ritrasse. «Non ricordi altro?» chiese.
   «Temo di no. Devo aver perso i sensi. Siamo all’ospedale, vero? Per quanto sono stato svenuto?» chiese, notando con stupore l’assenza di medici.
   «È passato più tempo di quanto credi. Non mi trovi invecchiata?» chiese Losira, fissandolo con un misto d’orrore e desiderio.
   «Non direi... beh, forse appena appena» si corresse Atrevius, fissandola attentamente. «Insomma, cosa vuoi dirmi? Quanto è passato?».
   «Sedici anni, amore mio» rispose Losira in un soffio.
   «Sedici...!» esalò il visconte, sgranando gli occhi. «Vuoi dirmi che sono rimasto in coma per tutto questo tempo?!».
   «Magari fosse così semplice, caro. No, tu sei morto in quell’incidente» rivelò la moglie. «Questo è l’obitorio in cui vidi i tuoi... i tuoi resti. Dopo di che dovetti fuggire da Risa, per non finire allo stesso modo. Sono passati sedici anni e non ho più rimesso piede sul nostro pianeta».
   «Suvvia, è assurdo!» protestò Atrevius. «Non sono morto, questo devi ammetterlo. Guardami, sono tutto d’un pezzo!» disse, tastandosi il petto e le braccia.
   «Mio marito è morto. Tu non so chi sei» dichiarò Losira, indietreggiando di un passo.
   «Amore, non puoi dire sul serio!» fece il visconte, saltando agilmente giù dal lettino. «Se fossi un impostore, ricorderei la nostra vita insieme? C’incontrammo la prima volta alla baia di Suraya, durante il Festival delle Lune. Tu mi rovesciasti accidentalmente un cocktail addosso e così io ti convinsi a berne un altro con me. Ti chiesi di sposarmi durante una visita ai giardini sotterranei delle piante luminescenti. Andammo a Betazed in luna di miele e poi vivemmo nella mia villa sulle rive della Laguna Temtibi...».
   «Basta così! Stai traendo queste informazioni dalla mia memoria!» protestò Losira.
   «Scherzi? Non sono un telepate, lo sai bene!» obiettò Atrevius.
   «Io non so cosa sei... mi correggo, lo so eccome!» si scaldò la Risiana. «Sei la proiezione dei miei rimpianti e di un desiderio impossibile. Ti vorrei ancora accanto – oh, quanto lo vorrei! – ma so che non può accadere».
   «Non può? Sta già accadendo!» insisté il marito. «Io sono qui, mi sento vivo, e ti amo ancora come il primo giorno. Vieni con me, andiamocene da questo luogo di morte» disse, accennando all’obitorio. «Torniamo a casa nostra, e se ci sfratteranno allora troveremo un altro posto dove vivere assieme...».
   «Non è così semplice!» gemette Losira. «In questo momento non siamo su Risa, bensì su un’astronave, la Destiny. E l’astronave si trova in una realtà parallela, lo Spazio Caotico, dove i pensieri diventano realtà. È questo che ti ha fatto tornare, capisci?».
   «Oh, andiamo! Questo è ancor più difficile da credere rispetto a... tutto il resto!» sbuffò Atrevius, accostandosi. «Ma se anche fosse: tu hai detto che in questo luogo i pensieri diventano realtà. Ebbene, il mio ritorno non è forse una realtà? Non sono qui davanti a te? Non puoi forse vedermi, udirmi, toccarmi?». Ciò detto le prese il volto tra le mani e la baciò, come aveva fatto tante volte in passato.
   «Io... non sono più sicura di cosa è reale e cosa no» ammise Losira, sentendo il sapore del bacio. «So solo che ti amo e non voglio perderti un’altra volta. Cosa che accadrà, se...» si bloccò.
   «Se cosa?» la incalzò il marito.
   «Se mai questa nave abbandonerà lo Spazio Caotico» mormorò Losira.
 
   «Sala macchine a plancia, mi pregio d’informarvi che il trasformatore è riparato! Possiamo tornare nel Vuoto quando volete!» annunciò Irvik, sempre un po’ cerimonioso.
   «Restate in attesa, è sorta un’altra complicazione» rispose il Capitano. «Losira è scomparsa, pare che non si trovi a bordo».
   «Ma come! Proprio ora che è tutto riparato...!» si sgonfiò il Voth.
   «Non me ne parli, o vado in bestia anch’io» ammise Rivera. «Tenetevi pronti a partire, vi richiamerò io. Plancia, chiudo». L’Umano si girò con tutta la poltrona, così da fronteggiare i suoi ufficiali di plancia. «Qualcuno ha suggerimenti su dove potremmo cercare Losira?».
   «Io ho un suggerimento d’altro genere» disse Naskeel.
   «Sentiamo».
   «Losira è un solo individuo, su trecento che compongono questo equipaggio. Non trova illogico mettere a repentaglio trecento vite, prolungando la permanenza in questo spazio, solo per salvarne una?» chiese il Tholiano.
   «È molto illogico» riconobbe il Capitano. «Ed è anche la cosa più umana da fare».
   «Losira non è Umana».
   «Intendevo dire che è la cosa più giusta da fare!» si scaldò Rivera.
   «Curioso come per voi Umani i due termini siano sinonimi» commentò il Tholiano, sempre calmo.
   «Pensala come vuoi, ma non abbandono uno dei miei ufficiali nel pericolo».
   «Quindi si tratterrebbe anche se fossi scomparso io, al posto di Losira?» chiese Naskeel.
   Stavolta il Capitano accusò il colpo. Non sapeva proprio se avrebbe attribuito la stessa importanza al Tholiano, considerando i loro trascorsi.
   A trarlo dall’imbarazzo fu Talyn. «Signore, ho un riscontro sui sensori interni. Losira è riapparsa» avvertì.
   «Dove?».
   «Si trova nel turboascensore 13, sta risalendo dagli ultimi ponti. Anche se...». L’El-Auriano verificò rapidamente i dati dei sensori. «Con lei nell’ascensore c’è un secondo segno vitale. Un altro Risiano. Non corrisponde a nessuno dell’equipaggio».
   «Un’apparizione, dunque. Non mi piace che le stia così addosso. Trasferiscili qui entrambi!» ordinò il Capitano, estraendo il phaser. Lui e Naskeel andarono nell’adiacente saletta di teletrasporto. Si appostarono pronti a colpire, in caso di pericolo; ma dovettero ricredersi.
   Losira e Atrevius apparvero sulla pedana, avvinghiati in un bacio passionale. Resisi conto del trasferimento, si lasciarono.
   «Beh?» fece Rivera.
   «Capitano, ti presento mio marito, il visconte Atrevius!» annunciò Losira, emozionata.
   Ci fu un lungo silenzio.
   «Onorato di fare la sua conoscenza» disse infine Rivera. «Ho sentito molto parlare di lei. In particolare ho sentito che era morto».
   «Capitano!» si scandalizzò Losira.
   «Non ti preoccupare, anima mia. È comprensibile che il nostro anfitrione sia spaesato» la calmò il visconte. «Capitano Rivera, le chiedo ufficialmente asilo sulla sua nave. E se non è troppo, vorrei anche qualcosa da mettermi addosso» aggiunse, dato che indossava solo il telo bianco stretto attorno ai fianchi.
   «Avrà i vestiti, poi parleremo del resto» disse Rivera, scrutandolo arcigno.
 
   Più tardi, gli avventurieri e il loro ospite erano seduti al tavolo tattico.
   «Davvero, non vedo quale sia il problema» disse Atrevius in tono animato. «Sono un cittadino federale in difficoltà, che le ha chiesto asilo sulla sua nave. Cosa le impedisce di accogliere la mia domanda?».
   «Tanto per cominciare, io e il mio equipaggio non apparteniamo alla Flotta Stellare» rispose il Capitano. «Abbiamo occupato questa nave abbandonata dopo la distruzione della nostra, ma rimaniamo liberi mercanti».
   «Avventurieri» corresse Losira, appiccicata al marito redivivo.
   «Chiamaci come vuoi. Resta il fatto che non siamo vincolati al regolamento di Flotta» chiarì Rivera. Tornò a concentrarsi sul visitatore. «Secondo: lei non è chi dice di essere. Non è il visconte Atrevius, non è un cittadino federale... non è neppure vivo».
   «Mi creda, sono vivo quanto lei. Se la sua dottoressa avrà la bontà d’analizzarmi...» cominciò il visconte, accennando a Giely.
   «Atrevius è morto sedici anni fa!» disse brutalmente il Capitano. «Lei potrà anche avere il suo aspetto, i suoi ricordi e la sua personalità. Potrà persino ingannare gli strumenti medici. Ma sappiamo tutti che è una copia creata dallo Spazio Caotico. Una copia che può svanire in qualsiasi momento, com’è capitato alle altre».
   «No, lui non svanirà! Il nostro amore ci terrà uniti!» proclamò Losira, afferrandogli il braccio come se temesse che glielo portassero via.
   «Copia, copia!» rise il visconte. «Cos’è una copia, e perché dovrebbe valere meno dell’originale? Il suo medico è una Vorta: non si riproducono forse per clonazione? Dunque anche la dottoressa qui presente è una copia. Devo dedurne che non attribuisce valore alla sua persona?».
   A quelle parole Giely s’irrigidì, colpita nel vivo.
   «Ah, mi risparmi queste baggianate!» sbottò Rivera. «La dottoressa è un vero individuo, con un bagaglio d’esperienze che la rendono unica. Lei invece non ha vita autonoma. È una proiezione mentale creata dallo Spazio Caotico, sulla base dei ricordi e dei desideri di Losira. Quando ce ne andremo da qui, lei cesserà d’esistere!» avvertì.
   «Vuoi dire se ce ne andremo da qui» disse Losira, con aria torva. In quella tutti avvertirono distintamente una vibrazione della nave.
   «Irvik a Rivera, c’è stata un’esplosione in sala macchine!». La voce dell’Ingegnere Capo giungeva affannata dal comunicatore. «Abbiamo tre feriti, di cui uno grave. C’è una perdita di refrigerante, dobbiamo evacuare la sala macchine!».
   «Fatelo, poi sigillate la perdita. Usate gli Exocomp» suggerì il Capitano, alludendo ai robottini riparatutto che aiutavano i tecnici. «Avvertitemi a cose fatte. Rivera, chiudo».
   «Sarà meglio che vada a occuparmi dei feriti» disse Giely, lasciando il posto.
   «Mh-mh» mugugnò Rivera, senza staccare gli occhi da Losira. Appena la dottoressa se ne fu andata, passò all’attacco. «Sei stata tu! Ci hai sabotati!» ringhiò.
   «Provalo, Capitano» fece lei con aria beffarda.
   «Dannazione, non scherzare! Hai sentito Irvik: tre feriti, di cui uno grave» le ricordò il Capitano. «Se non ti accontentiamo, che farai? Ci ucciderai uno a uno con la forza dell’inconscio, finché tu e quel simulacro resterete soli su questa nave?!» inveì. Ma vedendo il suo sguardo, si pentì di averglielo suggerito.
   «Questo può essere facilmente prevenuto» disse Naskeel, estraendo il phaser che portava in cintura. «Se la Comandante muore, il suo inconscio non potrà più nuocerci» disse, prendendola di mira. Losira si ritrasse, spaventata, e Atrevius le fece scudo.
   «Ehi, fermo!» lo bloccò Rivera. «Qui nessuno spara a nessuno senza il mio ordine. Deponga il phaser, Tenente, e torni nei ranghi!» ordinò.
   «Come vuole, Capitano» fece il Tholiano, imperturbabile. La tensione si allentò; Atrevius e Losira tornarono a sedersi.
   «Sentite, non serve che ci spariamo fra noi. Lo Spazio Caotico ci ucciderà comunque, uno dopo l’altro» intervenne Shati. «Dobbiamo andarcene finché possiamo!».
   «Sono d’accordo» intervenne Talyn. «Ho già passato una notte sotto le macerie e tremo al pensiero della prossima. Se la nave è in grado di portarci via, dobbiamo farlo subito, prima che accada qualcosa di veramente grave».
   A quelle parole Losira si riscosse. «Se avete tanta paura di questo spazio, andatevene pure! Ma lo farete senza di me, perché io resto qui con mio marito» dichiarò.
   «Hai perso la ragione?! Non puoi restare qui da sola!» esclamò Rivera, categorico. «Del resto, dove staresti? Non ci sono pianeti su cui sbarcarti».
   «Dammi una navetta. Magari lo yacht del Capitano, che è più spazioso» rispose la Risiana.
   «E vorresti passare il resto della tua vita lì?!» inorridì Rivera. «Morirai al primo guasto. E se non morirai, diverrai pazza. Posto che tu non lo sia già» insinuò.
   «Le potenzialità dello Spazio Caotico sono inesplorate. Poco fa ero in un intero ambiente creato col pensiero, fuori dalla Destiny!» rivelò Losira, eccitata. «Col tempo potrei apprendere a creare interi mondi».
   «Sì, creerai un mondo in sei giorni e il settimo ti riposerai! Ma ti ascolti quando parli? Sei in pieno delirio d’onnipotenza!» accusò il Capitano.
   «Se anche riuscissi a creare un habitat vivibile, si dissolverà nell’attimo in cui perderai la concentrazione, o in cui ti addormenterai» rincarò Talyn.
   «Inoltre, rifiutandoti di seguirci, hai ammesso che tuo... marito non è altro che una proiezione della tua mente» notò Shati. «Può esistere solo finché ti trovi nello Spazio Caotico e svanirà quando te ne andrai».
   «Siete tutti contro di me!» protestò Losira, passando lo sguardo da uno all’altro. «Che vi ho fatto, per meritare questo?!».
   «Ancora non capisci? Se ce ne fregassimo di te, ti avremmo già abbandonata. È proprio perché ci stai a cuore che rifiuto di lasciarti in un’illusione che può diventare letale in qualunque momento!» spiegò il Capitano, accorato. «Pensaci! In tre giorni di permanenza nello Spazio Caotico abbiamo già avuto danni e feriti, senza contare l’equipaggio prossimo al crollo nervoso. Pensa cosa potrebbe capitarti nell’arco di anni interi! Perché se decidi di rimanere, è una scelta definitiva. Noi non torneremo qui. Nessuna nave federale verrà per anni, forse per secoli. Non vedrai mai più una sola persona vera; solo proiezioni della tua mente ossessionata».
   «Come se ci fosse chissà che, nelle persone vere!» sbottò Losira. «Sono state le persone vere a distruggere la mia vita. Come hanno distrutto la tua, Capitano. E la tua, e la tua!» aggiunse, rivolta a Talyn e Shati. «Tutti noi abbiamo cercato di fare del bene, in principio. In cambio abbiamo ricevuto solo odio e disprezzo dai nostri simili. Se anche riuscissimo a tornare, continuerebbero a torturarci per il gusto di farlo. Nessuna buona azione resta impunita! E allora piuttosto restiamo qui, dove la loro malvagità non può raggiungerci».
   «Ci siamo noi, e tanto basta perché le nostre ossessioni ci consumino poco alla volta» disse tristemente il Capitano. «Noi umanoidi siamo bravi a raccontare storie di... demoni sorti dall’Inferno, ma in ultima analisi temiamo noi stessi».
   Tornò il silenzio, che si protrasse a lungo. Infine Atrevius prese la parola: «Se è determinato a lasciare questo spazio per non tornarvi mai più, allora permetta a me e mia moglie di passare queste ultime ore assieme. Così almeno ci diremo addio, cosa che non potemmo fare l’ultima volta».
   «Andate, ma non tentate strane mosse. Vi terremo d’occhio coi sensori» avvertì Rivera.
   Atrevius e Losira si alzarono e lasciarono la sala tattica a braccetto. Attraversarono in fretta la plancia, per poi scendere nei ponti inferiori. Di lì a poco i sensori confermarono che si erano recati nell’alloggio della Risiana.
   «Non capisco!» sbuffò Shati. «Tutti noi abbiamo visto concretizzarsi le nostre peggiori paure. Perché solo Losira ha visto avverarsi i suoi desideri?».
   «Forse perché tutti noi abbiamo ancora qualcosa da perdere. Solo Losira, invece, ha perso così tanto che le restano solo i rimpianti» rispose il Capitano.
 
   Nelle ore seguenti giunsero rapporti di altre apparizioni strane e pericolose in ogni angolo della nave. Giely distribuì dei blandi tranquillanti all’equipaggio, ma anche questa era una soluzione palliativa. Infine, verso sera, Irvik segnalò che i danni in sala macchine erano riparati. «Inizio il ciclo di ricarica del nucleo, partiremo fra un’ora» riferì l’Ingegnere Capo.
   «Ottimo lavoro» si congratulò Rivera. «Plancia a equipaggio, v’informo che lasceremo lo Spazio Caotico entro un’ora. Finora avete resistito egregiamente; tenete duro e tra poco saremo salvi. Plancia, chiudo».
   Passato qualche secondo, il Capitano ricordò l’altra faccenda che lo angustiava. «I piccioncini sono ancora nel loro nido d’amore?» chiese. Gli aveva inibito l’uso del teletrasporto e aveva persino posto una sentinella nelle vicinanze, ma non era certo che questi accorgimenti bastassero.
   «Negativo, sono spariti dall’alloggio» avvertì Talyn. «Eppure avevo regolato i sensori per avvertirmi. Sono nell’hangar 1... si direbbe che siano passati direttamente da un ambiente all’altro, senza usare il teletrasporto».
   Rivera ricordò come lui e Talyn fossero passati direttamente dall’astrometria alla plancia, il giorno prima. Non c’era modo di trattenere qualcuno, finché si trovavano nello Spazio Caotico. «Dobbiamo fermarli prima che facciano qualche sciocchezza. Talyn, vieni con me. Naskeel, a lei la plancia».
 
   Gli hangar della Destiny si trovavano nella sezione ad anello dell’astronave, uno per lato, e avevano dimensioni ragguardevoli. Vi si trovava una gran quantità di caccia, navette e Work Bee, ovvero navicelle specializzate nelle riparazioni. Nell’hangar 1, inoltre, trovava posto lo yacht del Capitano, il Centurion. Era una navicella assai grande, dalla forma che ricordava le Ali Volanti della vecchia Terra. Al suo interno si trovavano cuccette, replicatori, persino un bagno con doccia sonica, che garantivano una lunga autonomia di missione. Il Centurion inoltre era pesantemente armato e corazzato, da cui il suo nome battagliero.
   Quando Rivera e Talyn giunsero nell’hangar, il portello esterno si stava già alzando, con il campo di forza a trattenere l’atmosfera. «Fermiamolo, presto!» disse il Capitano, correndo a una consolle di controllo. Ma scoprì che i comandi non rispondevano.
   «No, non è così che funziona in questo spazio» ricordò Talyn. «Bisogna volerle, le cose. Chiuditi!» ordinò, levando la mano verso il portone blindato. E il portone si richiuse, nascondendo le nubi azzurre e i bagliori dello Spazio Caotico.
   In quella però il Centurion si alzò in volo, rimanendo stazionario a pochi metri d’altezza. Ruotò leggermente, in modo da fronteggiare l’uscita. Un ronzio indicò che i phaser anteriori erano innescati. «Losira a Rivera. Se non vuoi che faccia un buco in quel portone, lascia che si apra!» avvertì la Risiana tramite il comunicatore. Un attacco del genere avrebbe messo fuori uso l’intero hangar, perché non c’era modo di riparare il portone senza sostare in un cantiere spaziale. Per gli avventurieri sperduti nel Multiverso sarebbe stato un disastro.
   «Losira, ascolta, quel che stai facendo è pura follia. Se tuo marito ti amasse davvero, non ti trascinerebbe in questo suicidio...» tentò il Capitano.
   «Hai dieci secondi per aprire, poi lo farò io con le armi!» minacciò la Risiana.
   A quelle parole Talyn corse in avanti, frapponendosi tra il Centurion e il portone. Trovandosi sulla linea di fuoco, era spacciato se i fuggitivi avessero sparato. Anche se i raggi phaser gli fossero passati sopra la testa, l’esplosione ravvicinata lo avrebbe travolto. «Talyn a Losira, mi vedi? Dovrai uccidermi per andartene!» avvertì il giovane, premendosi il comunicatore.
   «Levati di lì, idiota!» gridò la Risiana, che aveva già le mani sui comandi di fuoco.
   «Non lo farò» dichiarò Talyn, fronteggiando il Centurion. «Resta con noi, ti prego. Dici di aver ricevuto solo odio, ma qui a bordo c’è gente che si preoccupa per te. Io, ad esempio. Mi hai raccattato per la strada quand’ero un orfano che viveva di furtarelli. Mi hai accolto sulla vostra nave, mi hai confortato, mi hai dato un’istruzione. Quello che ho, lo devo tutto a te. Sei quanto di più simile abbia a una madre. E anche se dici sempre che nessuna buona azione resta impunita, è chiaro che non lo credi davvero. Sei così buona che non riesci a vivere in modo cinico, nemmeno se ti sforzi! E allora non fuggire verso il nulla. Non autodistruggerti, perché allora quelli che ti hanno fatta soffrire l’avranno davvero vinta!».
   A quelle parole, Losira pensò che sarebbe morta di crepacuore. Ci pensò Atrevius a toglierla dall’impasse. «Basta così» disse il Risiano, facendo posare il Centurion. Disattivò i motori e aprì il portello. «Devi tornare con loro. Quel ragazzo ha ancora bisogno di te».
   «E di te che ne sarà? Ti ho appena ritrovato, e già ti perdo di nuovo...» sussurrò Losira, gli occhi lucidi di lacrime.
   «Se quel che mi hai detto è vero, sono morto da tempo» sospirò il visconte. «Questo strano spazio mi ha dato la possibilità di tornare a dirti addio, e ne sono grato. Addio, dunque!» disse abbracciandola strettamente. «Ricordami, se vuoi, ma non lasciare che il rimpianto ti precluda ogni futuro. Vivi al meglio i giorni che ti restano».
   «Io... non so se...» mugolò la moglie, stringendolo con tutte le forze.
   «Se vuoi farmi felice, allora sii felice tu stessa. Io sarò in pace» promise Atrevius. «Addio, anima mia».
   «Addio, mio caro amore» sussurrò Losira, con gli occhi chiusi. Quando li riaprì, si accorse d’essere sola. Le sue braccia non stringevano che l’aria. Con un sospiro, le lasciò ricadere lungo i fianchi. Poi rialzò la testa e lasciò la cabina, percorrendo il Centurion fino al portello. Qui trovò Rivera e Talyn ad attenderla. «Se n’è andato» disse con dignità.
   «Possiamo lasciare lo Spazio Caotico?» chiese il Capitano.
   «Facciamolo subito e non torniamoci mai più!» rispose la Risiana.
   Rivera fece un cenno d’assenso e se ne andò, lasciandola con Talyn.
   «Grazie per essere rimasta» disse il giovane.
   «Ci sarò sempre... diventerò la tua vecchia palla al piede» disse Losira, riuscendo a sorridere. «Sei come un figlio per me; il figlio che non ho mai avuto» confessò per la prima volta.
 
   Ora che tutto l’equipaggio era concorde, la Destiny poté lasciare lo Spazio Caotico senza difficoltà. Aperta una breccia tra le realtà, vi si tuffò dentro per riemergere nel Vuoto. Quel cosmo senza stelle né pianeti parve accogliente, dopo ciò che gli avventurieri avevano passato. Quella notte poterono finalmente gustarsi un buon sonno, senza il timore di scatenare qualche calamità.
   L’indomani il Capitano andò a far colazione in sala mensa, per osservare l’equipaggio e farsi un’idea dell’umore generale. Come si aspettava erano tutti scossi, ma non tanto da destare preoccupazione. In fondo erano avventurieri incalliti, abituati a fronteggiare i pericoli. Rivera vide i suoi ufficiali prendere le solite ordinazioni al replicatore: una cioccolata calda, una ciotola di latte, un succo di larve spremute, un tè alla cicuta...
   La sorpresa venne quando Losira entrò in mensa. Di norma la Risiana mangiava nel suo alloggio, per non trascorrere più tempo del necessario con la ciurma, ma stavolta pareva aver bisogno di compagnia. Ordinata la colazione al replicatore, gli venne accanto col vassoio. «Posso sedermi?» chiese.
   «Certo, accomodati... viscontessa» l’accolse Rivera.
   «Non chiamarmi così. Ho abbandonato quel titolo con tutto il resto» disse Losira, sedendogli davanti. Aveva nuovamente cambiato colore di capelli: adesso il caschetto era di un verde che sfumava in un orlo dorato.
   «Come vuoi. Scherzi a parte, come ti senti?» chiese il Capitano.
   «Abbastanza bene, credo» rispose la Risiana. «Ma c’è una cosa di cui dobbiamo parlare».
   «Non dirmi che sei rimasta incinta di quella replica di tuo marito!» si allarmò Rivera.
   «Niente del genere» fece Losira, guardandolo storto. «Volevo solo sapere se intendi sottopormi a procedimento disciplinare, per quanto ho fatto nell’hangar».
   «Se fossimo nella Flotta Stellare, senz’altro. Ma per tua fortuna, non siamo nella Flotta» rispose l’Umano, abbozzando un sorriso. «Sa il Cielo che avrei fatto io se mi fossero apparsi, che so, i miei genitori redivivi. Immagino che sarebbe successo, se ci fossimo trattenuti più a lungo».
   «Già... senti, devi rivolgere qualche parola all’equipaggio, dopo giorni come questi» raccomandò Losira.
   «Tecnicamente sei tu, in quanto Primo Ufficiale, l’addetta al morale» notò il Capitano. «Ma sì, m’inventerò qualcosa» promise.
 
   Di lì a poco gli ufficiali erano in plancia. Fu stabilito che per qualche giorno l’equipaggio si sarebbe dedicato a controllare i sistemi della nave, terminando le ultime piccole riparazioni, prima di tentare la fortuna in un nuovo Universo. Poiché non c’erano urgenze, Rivera aprì un canale con tutti i ponti.
   «Capitano a equipaggio, un momento d’attenzione» esordì. «Siamo reduci dalla nostra prima esplorazione del Multiverso. Inutile dire che le cose non sono andate come speravamo. Abbiamo affrontato quella che forse è la sfida più sconvolgente di tutte, il confronto con noi stessi. Lo Spazio Caotico ci ha messi di fronte alle paure, alle meschinità, ai rimpianti e ai desideri irrealizzabili che tutti noi ci portiamo dentro. Sono cose che non vogliamo ammettere, che cerchiamo in ogni modo di negare, perché ci fanno sentire vulnerabili. Ma dopo quest’esperienza, credo sia meglio riconoscere i nostri limiti, così da conoscere meglio noi stessi e agire con più cognizione di causa.
   Tutti noi siamo stati feriti dalle nostre esperienze di vita. Abbiamo perso le nostre dimore, i nostri cari. Abbiamo dovuto confrontarci con la feccia della Galassia, sempre in fuga da un luogo all’altro. Ora siamo persino esuli nel Multiverso. Ma se sappiamo trarne qualche lezione, allora non saranno state sofferenze inutili. Se non abbiamo più chi ci voglia bene, allora vogliamocene gli uni con gli altri, su questa nave. E chissà che, alla fine del viaggio, non ci ritroviamo a essere persone migliori. Alla prossima! Plancia, chiudo».
   Fatto questo, il Capitano scambiò uno sguardo d’intesa con Losira. Era soprattutto a lei che pensava, parlando a braccio. La Risiana annuì, incoraggiata.
   «Chissà come sarà la prossima realtà. Forse saremo tutti disegnati, come fumetti!» fantasticò Shati.
   «Forse vedremo cose che nessuno ha mai visto prima» rincarò Talyn.
   «Forse diventerete finalmente ufficiali responsabili... ma questo è lo scenario più irrealistico» commentò Naskeel, facendo involontariamente ridere i colleghi. E la Destiny proseguì la sua missione, in cerca della via di casa.
 
 
FINE
 
 
   
 
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