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Autore: Adeia Di Elferas    12/09/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Aspettate!” la voce di Maria Giovanna Della Rovere fece frenare all'istante il passo di Giovanni Andrea Bravo.

L'uomo, già in abiti da viaggio, stava solo andando a controllare di non aver lasciato nulla nel suo alloggio, e poi sarebbe partito. Malgrado la forte tentazione di andare a cercare la moglie di Venanzio da Varano e dirle quello che avrebbe potuto essere un addio, aveva preferito cercare di evitare un nuovo contatto con lei.

Fin dal giorno in cui era stato messo nella sua scorta, il veronese non aveva fatto altro che interessarsi sempre di più a quella giovane donna, che tutti descrivevano sempre come scialba e taciturna, senza alcuna attrattiva, e che invece a lui accendeva un qualcosa di indefinibile che lo portava a non staccarle gli occhi di dosso ogni volta in cui si trovavano nella stessa stanza e a cercare ogni pretesto per parlarle e avvicinarsi a lei.

Maria Giovanna in tutte quelle settimane di mezza reclusione non aveva fatto nulla per incoraggiarlo, ma nemmeno per allontanarlo e tanto era bastato a Bravo per restarne ancor più ammaliato.

Quella mattina mattina, però, proprio non se l'era sentita di andare da lei e spiegarle che sarebbe partito per tornare chissà quando. Anche se all'inizio gli era sembrato solo un gioco per passare quei giorni ricchi di tedio e attesa, ormai per lui si trattava di una cosa seria e non aveva alcuna voglia di legarsi con impegno a qualcuno, men che meno a una donna sposata con una suocera tanto dispotica quanto crudele.

Aveva quindi pensato che fosse meglio per entrambi separarsi senza troppe spiegazioni e troppi addii prima che tra loro succedesse davvero qualcosa – anche qualcosa di molto piccolo e apparentemente insignificante – che lo portasse a ritenersi legato a lei.

E invece eccola che muoveva qualche passo a ritmo di corsa per raggiungerlo, dicendo: “Aspettate, vi prego!”

“Madonna Varano...” fece lui, con un tono tanto formale che Maria Giovanna quasi se ne risentì.

Si era abituata, giorno dopo giorno, a vederlo prendere sempre più confidenza con lei, arrivando, quando era certo che nessuno potesse sentirlo, a chiamarla semplicemente 'Maria', senza titoli onorifici, né cognomi, né altro...

“Ditemi che non è vero!” esclamò lei, accalorata, le guance di norma prive di colore che si facevano rosse come il fuoco e le mani che, prese dalla frenesia del momento, correvano al braccio di lui come a volerlo trattenere con la forza: “Ditemi che non state davvero partendo per Urbino!”

Il soldato la guardò per un lungo istante. Nei suoi occhi giovani poteva vedere tutta la sua incredulità e la sua disperazione, mescolate al desiderio indicibile di sentirlo smentire ogni cosa.

Giovanni Andrea, però, non poteva smentire un bel niente, dato che era tutto vero: “Guidobaldo mi vuole al suo fianco...” disse in fretta, distogliendo lo sguardo, ma non sottraendo il braccio alla presa della ventenne, che si era fatta ancora più salda: “I condottieri ribelli hanno trovato un accordo con il Valentino, ma lui non si fida e vuole i suoi uomini più leali al suo fianco, e io sono uno di questi.”

“No, vi prego...” sussurrò la Della Rovere, non riuscendo più a trattenersi, gli occhi che si velavano di lacrime e la discrezione, sempre usata per paura di essere vista da qualcuno in atteggiamenti poco consoni al suo status, che svaniva da ogni suo gesto e da ogni sua parola: “Non lasciatemi qui da sola... Io voglio che voi restiate... Siete l'unica cosa bella che mi sia mai capitata in vita mia!”

Il soldato deglutì, sollevando di nuovo lo sguardo verso di lei, giusto in tempo per rendersi conto che si stava abbandonando a un pianto silenzioso. Era stato ingenuo, forse, benché tutto si ritenesse fuorché ingenuo, eppure non si era reso conto di quanto davvero quella donna si fosse avvicinata a lui.

Forse era il suo fare mite – che solo di rado lasciava il posto a qualche eccesso di rabbia o disperazione, scusato da tutti per via della situazione delicata in cui si trovava il marito Venanzio da Varano – o il suo aspetto poco appariscente... Qualcosa doveva aver mascherato anche agli occhi attenti del veronese l'esatta cifra del sentimento che ormai Maria Giovanna nutriva per lui.

“Io non posso non andare.” spiegò l'uomo, irrigidendosi appena: “Mi è stato dato un ordine e io sono un soldato.”

“Portatemi con voi, allora!” lo implorò la giovane, restandogli aggrappata: “Non lasciatemi qui da sola... Senza di voi io non sono più nulla...”

Bravo sentiva il cuore battere veloce. Quello rischiava di essere il lancio di dadi che avrebbe cambiato il suo futuro. Fino ad allora si era trattenuto, usando la testa più di qualunque altra parte di sé, ma davanti a quella dichiarazione tanto accorata, come poteva fingere di non provare le stesse cose?

“Io...” provò a balbettare, reso incerto come un bambino, proprio lui, che di norma con le donne era impavido e spavaldo come il migliore dei guerrieri in battaglia...

“Non sareste nemmeno venuto a salutarmi?” chiese, con la voce rotta, la Della Rovere.

Giovanni Andrea scosse il capo: “No.” e aggiunse: “Per noi non c'è modo di essere felici... Non con tuo marito in vita. Credevo fosse meglio per entrambi dividerci senza aggiungere altro...”

Alla giovane non era sfuggito il passaggio al 'tu' diretto usato dal veronese, e così decise di assecondarlo.

“Se proprio devi andare, promettimi che tornerai e mi porterai via di qui.” soffiò.

Bravo si morse il labbro, tentato di colmare quella brevissima distanza che separava il suo volto da quello della Della Rovere, di baciarla, di accettare quell'insana proposta di rapirla e portarla lontano da lì... Ma non fece in tempo a fare nulla, perché in lontananza si sentirono dei passi e del clangore di metallo, che incavano probabilmente l'arrivo di qualche altro armigero che, come lui, stava facendo in fretta i bagagli per correre a Urbino.

Se Giovanni Andrea si fermò, nell'avvertire la vicinanza di qualche testimone scomodo, Maria Giovanna invece si sentì spronata ad agire, come se quel pericolo acuisse l'urgenza che sentiva nel trovare anche solo una piccola soddisfazione.

Con un movimento rapido e fluido si sporse in avanti, alzandosi sulla punta dei piedi, e baciò Bravo. In un primo momento le sembrò una cosa stranissima, che nulla aveva a che vedere con il contatto spesso indesiderato che aveva avuto con le labbra di suo marito Venanzio, ma nel momento in cui il veronese rispose, trovò molto difficile mettersi un freno.

Staccandosi da lui con violenza, quasi che si stesse infliggendo da sola un supplizio gravissimo nel privarsi del suo sapore, la donna si risistemò un momento, appena prima che da dietro l'angolo sbucassero due compagni d'armi di Giovanni Andrea.

Questi, completamente stordito da quanto era appena accaduto, non capacitandosi di come un misero bacio gli fosse bastato per sentire le orecchie fischiare e il petto esplodere di gioia, non riuscì nemmeno a trovare le parole per salutare i due commilitoni e attese semplicemente che lo superassero ricordandogli che entro meno di mezz'ora doveva essere pronto.

“Tornerò.” promise a quel punto, in un sussurro, gli occhi puntati in quelli di Maria Giovanna: “E finché saremo entrambi in vita non ci lasceremo mai più, te lo giuro.”

La donna, che era passata dal pianto al giubilo, stava di nuovo passando alla disperazione, pensando che Bravo se ne sarebbe andato ugualmente, ma quella promessa le lasciava una speranza enorme a cui aggrapparsi.

Avrebbe voluto essere abbastanza sfacciata da dirgli che l'avrebbe voluto subito, in quel momento, che non si sarebbe curata di nulla e di nessuno, che avrebbe addirittura voluto portare in grembo un suo figlio, e diventare sua moglie, uccidendo, se necessario, Venanzio con le proprie mani, pur di rendersi presto vedova... E invece tacque, annuendo solamente e portandosi una mano alle labbra, quasi a rievocare quell'unico bacio che si erano scambiati.

L'uomo mosse un passo avanti, per provare a baciarla di nuovo, ma ormai il palazzo si era svegliato e i servi, gli altri soldati, e perfino la suocera della Della Rovere cominciavano a parlare e rumoreggiare per le stanze vicine.

Così altro non poté fare che dirle solo: “Sarai per sempre mia e io sarò per sempre tuo.” e detto ciò, chinò il capo in modo elegante, allargò le forti spalle e si preparò davvero a partire, con una strana palude di sentimenti che si mescolavano nella sua anima e che lo rendevano allo stesso tempo felice come mai era stato e nervoso come un cavallo da guerra alla sua prima giostra.

 

Caterina stava leggendo la lettera di Luigi Ciocca, che le era appena stata recapitata, ma continuava a pensare all'incontro avuto un paio d'ore prima con l'aspirante nutrice di Pier Maria. Si trattava di una ragazza giovane, più o meno dell'età di Bianca, che, per fame, aveva accettato di sfamare il piccolo De Rossi, sottraendo del latte al suo stesso bambino, e che si era detta pronta a lavorare fin da subito.

La Tigre non aveva potuto rivelarle la verità su Pier Maria, ma aveva avuto il sospetto che alla popolana non interessasse nemmeno sapere qualcosa del piccolo che avrebbe accudito: l'unico dettaglio che le importava era a quanto ammontasse il salario che le sarebbe stato accordato. Dato che nel patto di lavoro rientrava anche una clausola di discrezione e segretezza, la cifra era più alta del normale e dunque la ragazza aveva accettato subito.

C'era stato qualcosa, nel modo febbrile in cui i suoi occhi si erano spalancati nel sentire parlare di denaro, che aveva messo addosso una tristezza assoluta nella Sforza. Aveva riconosciuto la miseria e la disperazione che aveva visto tante volte nei bassifondi di Forlì, e si chiedeva quanti infelici dovessero contare i bassifondi di Firenze che, di certo, dovevano essere almeno dieci volte più grandi e cento volte più popolosi.

Con uno sbuffo quasi annoiato, la donna finì di rileggere la lettera di Ciocca, che, tra le altre cose, le commissionava una collana di corniole, credendo, forse, che lei fosse capace di fare ogni cosa, ignorando che fosse Bianca l'autrice di tutti quei piccoli oggetti o degli abiti che lui di quando in quando richiedeva. Alla Leonessa irritava un po' quel modo di porsi dell'oratore bolognese, che di certo chiedeva quei beni per venirle incontro, finanziandola senza offenderla con donazioni gratuite, tuttavia non le piaceva sentirsi dare ordini.

Richiuse la missiva, riuscendo finalmente a rivedere nell'insieme il suo contenuto. Oltre alla commissione della collana, si parlava della figlia del papa, la povera Lucrecia che, persa la figlia – o il figlio, Caterina non ricordava, né voleva sapere cosa fosse – si era ritirata in un monastero di clarisse, dal quale sarebbe uscita a breve. Si parlava di politica, della confusione che imperava nel centro dell'Italia, e poi si faceva cenno a un parlamento segreto che si era tenuto a Trento.

L'Imperatore, a quanto pareva, stava affilando le lame per rimettersi in mezzo alla confusione, ma egli stesso doveva far fronte a molti problemi interni, oltre che sopportare le insistenze dei suoi alleati e dei suoi sottoposti.

Uno per tutti, che pareva lo stesse tormentando, era Galeazzo Sanseverino che, a Innsbruck, vestiva di nero ogni giorno, in segno di lutto, e chiedeva continuamente udienza a Massimiliano affinché riaccettasse sotto la sua ala protettrice i suoi due fratelli: Antonio Maria Sanseverino e il Cardinale Federico. Gli sforzi di Galeazzo Sanseverino, però, rischiavano di restare frustrati per via della scomoda decisione di Gaspare Sanseverino di rimettersi sotto la bandiera del Valentino.

Con un altro sbuffo che, questa volta, somigliava più a un sospiro sconsolato, Caterina si alzò e lasciò la saletta, per tornare nella propria stanza. Avrebbe messo la lettera di Ciocca assieme a quella non firmata del De Rossi. Troilo era stato gentile a scriverle, spiegandole con esattezza ciò che intendeva fare e che il suo amore per Bianca restava immutato. Anche se erano poche righe, alla Tigre erano bastate per sentirsi un po' più tranquilla in merito al futuro della figlia.

Era quasi arrivata alla sua camera, quando sentì parlare concitatamente Fortunati e frate Lauro. Il piovano era rientrato la sera prima da Firenze, dopo un soggiorno brevissimo di appena un giorno e una notte, ma dal suo rientro lui e Caterina non avevano avuto molto modo di parlare. Come accadeva spesso negli ultimi tempi – anche per colpa, o merito a seconda dei punti di vista, proprio di Francesco che, per evitare discussioni preferiva concedersi con lei altri tipi di schermaglie – si erano ritrovati, dopo una separazione pur molto breve, a far prevalere la passione al discutere di affari di Stato.

Rallentando il passo la Leonessa tese l'orecchio, cercando di capire quale fosse l'argomento che rendeva la voce di Bossi molto più bassa del solito, e quella di Fortunati decisamente agitata. In un primo momento credette parlassero di suo figlio Ottaviano, che, notoriamente, causava solo problemi, ma poi capì che i soggetti della discussione erano ben altri.

Infervorata, senza riuscire ad aspettare, si mise quasi a correre e raggiunse i due uomini. Fissò il piovano con due occhi di ghiaccio e si rivolse a lui come se frate Lauro non fosse lì.

“Che starebbe a significare che i condottieri ribelli hanno trovato un accordo con il figlio del papa?” gli chiese, tesa.

Il fiorentino, che avrebbe voluto ritardare il più possibile quel dibattito, dato, tra l'altro, che non aveva lui per primo le idee chiare su quanto fosse accaduto a Cartoceto, riuscì solo a dire: “Forse hanno trovato un accordo...”

Bossi, in mezzo a loro, occhieggiava ora verso la Leonessa ora verso il piovano, indeciso se andarsene o restare e sentire cosa si sarebbero detti e vedere cosa avrebbero fatto.

“Un accordo? Che significa, un accordo? Come possono aver trovato un accordo con qualcuno che avevano giurato di voler uccidere?” chiese Caterina, parlando tanto rapidamente da mangiarsi perfino le parole.

In forte difficoltà, Francesco sollevò le sopracciglia e, con uno sguardo proprio a frate Lauro, quasi a cercarne l'appoggio e l'aiuto, provò a spiegare: “Sembra che alcuni... Ecco sembra che Paolo Orsini sia stato determinante... Che abbia veicolato le proposte fatte dal Valentino, che, essendo molto vantaggiose per i condottieri...”

Senza potersi trattenere, la Tigre fece uno sbuffo sonoro e scosse il capo: “Ma figuriamoci! Quel diavolo non farebbe mai nulla che possa avvantaggiare chi fino a ieri voleva pugnalarlo alle spalle!”

“E invece...” provò a proseguire il piovano, ma anche questa volta la milanese lo bloccò.

“Ti rendi conto che si tratta di un ragionamento da stupidi?” gli disse: “Sono convinta che se Firenze avesse supportato i ribelli, invece che vendersi ai Borja...”

“Anche Bologna alla fine ha fatto il doppio gioco!” ribatté Fortunati, arrabbiandosi: “Tante parole, ma i loro inviati hanno votato a favore come gli altri, ed è anche per merito loro, se i condottieri sono tornati al servizio del Valentino!”

“Bologna!” sbottò la Tigre, sotto gli occhi attoniti di frate Lauro, che assisteva a quello scambio serrato con un misto di curiosità e terrore: “Mia nipote Ippolita ha fatto quello che poteva! Bologna è indipendente e non potevo sperare di aver da loro più di quanto abbia avuto... Ma Firenze..! Io sono una cittadina di questa Repubblica, eppure non mi sembra che nessuno...”

“Tu in questa Repubblica vali meno di niente!” lo scatto di collera di Francesco fu così repentino e inatteso – almeno per Bossi, che, a differenza di Caterina, poteva dire di non aver visto mai una volta il piovano alterarsi – che Fortunati per primo se ne spaventò tanto da parlare poi con voce così sottile da essere appena udibile: “Io parlo per il tuo bene, Caterina... Renditi conto che non sei più una di quelle che le pedine le muovo...”

“Ma sono solo una pedina senza valore in mano ad altri.” parafrasò la donna, dovendogli dare intimamente ragione, ma non volendo accettare apertamente di essere sminuita: “E allora Firenze si renda conto che questa pedina senza valore nelle mani sbagliate può dare comunque scacco matto al re.”

Da quel momento in poi, la Sforza e Fortunati continuarono a punzecchiarsi, esibendosi in un'esternazione di nervosismo che a Bossi ricordò certi liti tra innamorati origliate quando ancora faceva il frate in città. Anche se l'argomento era ora la politica, ora la guerra, al milanese parve che la tensione di fondo poco c'entrasse con tutti quegli affari.

Tuttavia, seppur verso la Tigre potesse nutrire qualche dubbio, nulla avrebbe fatto vacillare la sua convinzione che il piovano mai e poi mai si sarebbe lasciato sedurre e soggiogare da quella donna, tanta era ferma la sua fede e la sua determinazione a osservare il suo voto di castità. Non era passato molto tempo da quando frate Lauro aveva avuto modo di parlare direttamente con Fortunati di voti e giuramenti e per la forza con cui il religioso si era espresso, non potevano esserci dubbi circa la sua rettitudine morale.

Malgrado ciò a Bossi qualche vaghissimo dubbio restava, nel vedere Caterina e Francesco scambiarsi stoccate sempre più serrate, i volti ormai tanto vicini da lasciar davvero intendere una confidenza maggiore di quella che ci si sarebbe attesi tra una penitente e il proprio confessore.

“Quel Gonfaloniere! È un buono a nulla!” disse la Tigre, mentre il frate smetteva di seguire i propri ragionamenti e tornava a seguire, invece, le parole dei due litiganti: “Diglielo ai tuoi amici Salviati!”

“Soderini, invece, è l'uomo giusto per...” provò a dire Fortunati, ma non riuscì a finire la frase, di nuovo travolto dalla voce ferma e implacabile della Sforza.

“Soderini è l'uomo giusto – gli fece eco lei – per mandarmi in disgrazia! Ma ti sembra normale mandare uno come quel Machiavelli a parlare con il figlio del papa?!”

Questa volta il piovano non provò nemmeno a ribattere e, abbassando lo sguardo, attese il colpo di grazia.

“Mandare Machiavelli a Imola!” ripeté Caterina, esasperata: “Tanto valeva mandarglielo con le brache già calate, pronto a ricevere la benedizione pontificia!”

“Sei volgare come i soldati a cui ti sei sempre mischiata...” commentò Francesco, non riuscendo a trattenersi, trovando come sempre irritante il modo in cui la donna che amava riusciva a essere greve anche senza usare apertamente parolacce e bestemmie.

La Leonessa parve risentirsi enormemente per quell'inciso, tuttavia non voleva far capire a frate Lauro – della cui presenza si era quasi dimenticata fino a quel momento – quanto il piovano avesse il potere di influire sul suo umore con poche semplici parole.

Così, sollevando il mento, concluse: “Forse hai ragione: non sta a me immischiarmi negli affari della Repubblica...” e poi, passandogli accanto con il sangue che ancora ribolliva, riuscì a sussurrargli all'orecchio, senza farsi sentire da Bossi: “Stanotte non venire in camera mia: ho bisogno di stare da sola e ragionare.”

Mentre la donna si allontanava a passo di marcia, il frate guardò il piovano con aria preoccupata, trovandolo sbiancato di colpo: “Che vi ha detto di così grave? Parete un cencio...”

Fortunati, sbattendo un paio di volte le palpebre, sollevò una mano e borbottò: “Nulla, nulla... Le sue solite intemperanze...”

 

Andrea Bernardi posò la penna ancora gocciolante di inchiostro sul bordo della scrivania e fece un sospiro profondo. Sapeva che il Valentino era entrato a Forlì ormai da ore, ma non capiva come mai ancora non lo avesse mandato a chiamare.

Gli aveva fatto sapere, per lettera, mentre era già in viaggio da Imola, che avrebbe voluto vedere presto i nuovi capitoli delle sue cronache, per leggerli con piacere ed eventualmente consigliargli qualche variazione, e invece ancora non lo aveva mandato a chiamare.

Il buio era già sceso sulla città da tempo, e presto le locande si sarebbero stipate di tiratardi, ma Bernardi non riusciva nemmeno a pensare di mettersi a cena. Sua moglie, nella stanza accanto, non osava provare a chiedergli nulla, lasciandolo al suo lavoro.

In realtà, lui e Caterina – la donna che aveva potuto sposare soprattutto grazie al Valentino – si conoscevano ancora poco e si sopportavano lo stretto necessario. Anche se lei era giovane e bella, Andrea non riusciva a provare nessun trasporto nei suoi confronti e, se non fosse stato per la facilità di averla al suo fianco e per la solitudine che di quando in quando lo mordeva, probabilmente non avrebbe nemmeno diviso mai il letto con lei. Caterina, dal canto suo, provava un reverenziale timore per quell'uomo colto e buono, che, però, era molto più vecchio di lei e all'occorrenza sapeva pretendere quel che gli spettava senza fare troppi complimenti.

Alla fine, non sopportando più quell'attesa e quel silenzio, rendendosi conto che intanto la pagina su cui stava lavorando languiva, Bernardi decise di prendere il toro per le corna e presentarsi senza invito da Borja.

Indossò uno degli abiti migliori che proprio il Valentino, nel 1500, gli aveva comprato, e uscì di casa senza dire alla moglie né quando sarebbe tornato né dove fosse diretto.

Attraversò in fretta le strade di Forlì che portavano fino al palazzo in cui Cesare era alloggiato, senza guardare nulla di ciò che lo circondava. La città era ancora per metà un cantiere a cielo aperto, ma lui che la conosceva bene riusciva a orientarsi benissimo.

Arrivato a destinazione, si fece annunciare e venne messo in attesa in una saletta. Attese con pazienza e quando sentì dei passi fu certo che sarebbe stato il Duca di Valentinois ad arrivare. Restò quindi molto deluso nel vedere invece Piero Francesco da Spoleto, segretario ducale, il quale, con poche e semplici frasi gli spiegò che il Duca era stanco e avrebbe riposato fino al mattino dopo.

Bernardi incassò il colpo con una certa disinvoltura, ma nel momento stesso in cui si trovò di nuovo in strada, si trovò a maledire ogni angolo di Forlì, ogni nuovo stemma borgiano, ogni palazzo ristrutturato, odiò perfino il lontano profilo ancora per buona parte diroccato di Ravaldino... Aveva venduto la sua anima, qualche anno prima, per avere un po' di considerazione, e ora che cosa si ritrovava? Solo un altro potente che lo ignorava dopo averlo sfruttato...

Arrivato a casa prese a male parole la moglie, che gli aveva solo chiesto cosa preferisse mangiare per cena. Si chiuse nel suo studiolo e si mise a fissare con rancore il fuoco del camino, ancora vestito di tutto punto e corroso dalla rabbia.

Passarono circa due ore, quando sentì dei rumori arrivare dall'ingresso. Alzatosi di malavoglia, andò a controllare e trovò la moglie intenta a parlare con due uomini.

“Il Duca vi vuole a cena.” fece uno di loro e Bernardi, già del tutto dimentico della delusione e della collera, si disse subito pronto e, senza nemmeno salutare Caterina, seguì i due messi ducali.

La strada che lo portò al palazzotto in cui stava il Duca improvvisamente gli parve bella, luminosa malgrado il buio, ordinata malgrado i cantieri, veloce malgrado le innumerevoli svolte.

Aveva sperato in una cena a tu per tu con il Valentino, ma quando arrivò alla sua tavola Andrea capì di non essere l'unico invitato. Non gli importò più di tanto, dato che Cesare lo fece sedere niente meno che alla sua destra.

Chiamandolo per tutta sera 'amico mio', gli spiegò gli ultimi risvolti della guerra e l'importanza fondamentale di tenere buona la cittadinanza di Forlì. Si dedisò a lui molto più di quanto non fece con gli altri, ossia il Reverendo Monsignor Nicolò Bonafede, protonotaro e luogotenente ducale, Piero Francesco da Spoleto, segretario ducale, Lodovico da Fano e Messer Berto, tesoriere ducale.

Bernardi si lasciò incantare dai toni melliflui del Duca, lo ascoltò rapito, mentre raccontava le sue astuzie e le sue imprese militari. Si perse così tanto in lui – e, soprattutto, nell'importanza che lui gli dava costantemente – da non accorgersi nemmeno che la cena si stava trasformando in una colazione.

Il sole si stava facendo strada tra le nubi dense di fine ottobre, quando il Valentino, gonfio di vino e paonazzo per le risate dovute all'ultima battuta sguaiata di Lodovico da Fano, congedò tutti, Bernardino compreso.

“Attendo, amico mio, che mi mandiate a leggere i capitoli che scriverete dopo stanotte – gli disse, ammiccando – che voglio che i posteri sappiano bene quel che l'Orsini ha accettato e perché...”

Andrea disse che non avrebbe scritto nulla che non fosse uscito dalle labbra di sua signoria e poi, ancora tronfio per quella che a suo avviso era stata una cena trionfale, lasciò il palazzotto e si incamminò verso casa, assonnato, ma soddisfatto.

Distratto, sbagliò svincolo e si trovò a costeggiare la lunghissima facciata di palazzo Numai.

Luffo, che era proprio sulla porta assieme a Giambattista Tonello, stava parlando con questi in modo tanto fitto da non accorgersi di nulla. I due – Bernardi non poteva immaginarlo – stavano discutendo con concitazione della recente decisione di Bologna di ammorbidire, almeno per il momento, l'opposizione al Borja. Per loro, che da anni tramavano nell'ombra per creare un terreno favorevole al ritorno di Caterina Sforza, quel voltafaccia era un colpo tremendo.

Infatti fu con volti cupi che guardarono Andrea, quando si accorsero della sua presenza.

L'uomo, un po' brillo e decisamente poco interessato alle loro faccende, li salutò in modo ossequioso, retaggio di quanto tutti i forlivese abbienti erano suoi clienti alla barberia: “Buongiorno a voi!”

“Siete mattiniero...” commentò Luffo che, per fare buon viso a cattivo gioco, aveva mantenuto buoni rapporti con il barbiere storico anche dopo la caduta di Ravaldino.

“Ero a cena dal Duca..!” allargò le braccia Bernardi, con un sorriso compiaciuto che lasciò intendere quanto, secondo lui, fosse fortunato a poterlo dire: “Si sa, quando c'è amicizia, le ore passano senza accorgersene...”

Numai e Tonello non commentarono, ma lo salutarono di nuovo, inducendolo ad andarsene per la sua strada.

“Se il Borja l'ha voluto alla sua tavola – commentò a voce bassa Luffo, guardando ancora il barbiere che si allontanava e chiedendosi come avesse potuto passare dall'essere il più grande amico personale della Tigre al suo più grande oppositore – allora significa che sa che Forlì potrebbe sfuggirgli di mano al primo soffio di vento...”

“E noi allora faremo in modo di sollevare un ciclone...” ribatté Tonello, con voce sicura, desideroso come non mai di veder tornare sui palazzi il biscione sforzesco e togliere a martellate il toro dei Borja.

 

 

   
 
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