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Autore: Doux_Ange    16/09/2022    0 recensioni
La storia di Anna e Marco, raccontata attraverso le voci dei personaggi intorno a loro.
Che ci racconteranno anche qualcosa in più su di sé.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anna Olivieri, Marco Nardi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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... OR WHITE?
 
Ci volle molto però a conquistare la fiducia di Anna. Per quanto fragile mi fosse apparsa quel giorno, si dimostrò nelle ore e giorni a seguire un riccio ricoperto di aculei pronti a tenere lontano chiunque tentasse di avvicinarsi.
La capivo molto da questo punto di vista. Quando la vita ti ferisce, in tutti i modi possibili, devi imparare a difenderti come meglio riesci. E chiudersi in se stessi, sebbene sia la cura più sbagliata, è anche la forma di difesa più semplice da mettere in pratica. Lei poi, per sua natura, non mi era mai sembrata nemmeno un tipo così estroverso.
Imparando a conoscerla, ho scoperto poi che anche con lei, come con me, la vita non era stata clemente.
Ha perso suo padre che aveva solo dieci anni e in virtù di ciò è dovuta crescere prima del previsto. Ha trasformato quel dolore in senso di responsabilità e ha lottato per divenire quel qualcuno capace di dare giustizia a tutti coloro che altrimenti non l’avrebbero avuta.
Quando pensava di aver ricostruito la sua vita, tutto era di nuovo crollato. Divenuta Capitano dei Carabinieri e ottenuto il primo incarico nella sua città natale, il suo fidanzato dell’epoca se ne era uscito che voleva diventare prete. E allora era di nuovo dovuta ripartire da capo.
Poi aveva conosciuto il Maresciallo e Marco. Ed era iniziato quell’amore nato tra le mura della caserma, dopo ore e ore trascorse insieme. Finalmente di nuovo in piedi, pronta addirittura al grande passo. Poi era arrivata la proposta di un lavoro in Pakistan.
E infine il fiume in piena che l’ha travolta.
Tutto mi sarei aspettato, tranne che lo stesso uomo capace di quella dichiarazione di cui ero stato testimone imprevisto avesse potuto tradirla a pochi giorni dal matrimonio. E per di più con la Procuratrice Santonastasi, che avrei avuto modo di incontrare svariate volte in quei mesi.
Più passavano i giorni con Anna, più imparavo a conoscerla, anche se le informazioni che mi dava di sé erano poche e frammentarie. Giorno dopo giorno riuscivo a farmi spazio tra gli aculei, cercando di trovare la via giusta per far breccia e conquistarmi la sua fiducia.
Per farlo, avevo capito di dover assecondare il suo desiderio di vedermi perlomeno tentare un approccio con mia figlia, per poi dedicare a lei l’attenzione di cui aveva bisogno.
Così, un paio di settimane dopo quel pomeriggio in cui decisi di usare il suo dolore a mio favore, lasciai che Anna mi convincesse a passare qualche ora con Ines.
Senza rendermene conto da lì a poco mi affezionai a quello scricciolo di sei anni che per qualche assurda ragione mi stava accettando, nonostante la mia immotivata – perlomeno ai suoi occhi – assenza fino a quel momento. Ma dopotutto, era difficile non volerle bene: era una bambina adorabile, solare e piena di innocenza. Tutta sua madre, insomma. E se era stato semplice innamorarmi di Irene, altrettanto facile mi stava riuscendo farlo con lei.
Ogni rapporto però ha bisogno che il sentimento sia corrisposto. E sebbene la bimba mi stesse dando il beneficio del dubbio di essere cambiato e tornato per lei, nel mentre c’era qualcun altro pronto a farle davvero da padre. E non uno qualunque.
Sapevo che il mio iniziale rifiuto di fare il padre aveva spinto – senza che si potesse prevederlo – la piccola tra le braccia di Nardi. Per quanto ripetessi ad Anna che fosse meglio per Ines avere uno come lui come padre rispetto a uno come me, non nego che in quei mesi vederli insieme mi indisponesse non poco. Ero geloso del loro rapporto. Del fatto che Ines cercasse lui, o Anna, e non me. Erano comunque due estranei per lei, eppure erano le sue figure di riferimento. Ma era colpa mia, in fondo. Non avevo il diritto di sentirmi in quel modo visto che io avevo rifiutato di prendermi le mie responsabilità già molto tempo prima.
Tuttavia, più passavo del tempo con la piccola, più sentivo crescere in me la volontà di stare con lei. Di prendermene cura. Il problema era come.
Perché sì, forse aveva ragione Anna a pensare che il bene di Ines fosse quello di stare con me, ma io cosa potevo effettivamente offrirle?
Vivevo nel camper della fidanzata del mio ex compagno di cella. Se non fosse stato per Don Matteo non avrei nemmeno trovato un lavoro per mantenere me stesso, figurarsi lei. Come avrei potuto essere il suo bene, alle condizioni poste da Anna?
Eppure, a pochi mesi dal colpo al portavalori, io stesso arrivai a convincermi che avrei potuto darle una vita migliore di quella che stava vivendo, che io potevo essere il bene di Ines. Ma a modo mio. Ancora una volta.
Se il colpo fosse andato a buon fine, il denaro ricavatone mi avrebbe permesso di offrirle più di quello che una vita in canonica con un prete, una perpetua e un sacrestano poteva darle.
Di fronte a quella epifania, ripresero i miei quotidiani contatti con Renzo, che era ormai quasi pronto a mettere in atto il suo piano. Era felice di sapere che la mia titubanza era dissipata, che ero pronto e carico come nelle prime settimane dopo che mi aveva proposto il colpo. Era contento che Ines mi avesse convinto – seppur inconsciamente – ad aiutarlo, come promesso.
Ma se da una parte, una voce nella mia testa ripeteva incessantemente che quello che volevo fare era giusto, perché l’avrei fatto per lei, per mia figlia, dall’altra parte una vocina più debole, forse stanca di urlare senza essere mai ascoltata, proveniente da una zona all’altezza del petto, cercava di comunicare con me per dissuadermi da quello che volevo fare.
Capii da dove quella vocina afona provenisse quando ormai era troppo tardi, o quasi.
Nelle ultime settimane prima del colpo, infatti, il mio geniale piano iniziò a ritorcersi contro di me.
Perché era Anna che doveva innamorarsi di me e io ero quello che doveva conquistarsi la sua fiducia, non il contrario.
Eppure, più passavano i giorni, più mi rendevo conto che quei finti sentimenti usati per sedurre Anna stavano lentamente diventando realtà.
Il suo spirito da crocerossina intenzionata a salvarmi a tutti i costi, conseguenza anche delle mie macchinazioni, mi aveva rapito.
Mi piaceva. Mi ero realmente innamorato. E ci può essere più sfiga di questa? Più ironia di questa? Un delinquente che si prende una sbandata per un carabiniere!
Era un problema. E bello grosso. Perché il piano della rapina per andare a buon fine necessitava dell’aiuto inconsapevole di Anna fino alla fine. Fino a quando non mi sarei dato alla macchia, portando con me anche Ines. Perché di una cosa ero certo a pochi giorni dal colpo: non volevo più rinunciare a lei. Stava sempre più preferendo passare il tempo con me rispetto a quello con Marco. Era mia figlia. Si sentiva mia figlia. E io volevo essere suo padre.
Questo però complicava ulteriormente le cose. Perché se ero arrivato al punto di voler essere padre, era per merito suo. Di Anna. Della ragazza di cui mi ero innamorato e a cui avrei spezzato il cuore, come tutti gli altri. Ma a differenza loro, volutamente. Fin dall’inizio.
E so che c’era una via di uscita, che era lampante ci fosse il modo di essere padre di Ines e al tempo stesso stare con Anna, se avessi voluto.
Key word: volere.
Quella strada era la più difficile. Richiedeva un cambiamento, uno snaturamento di quello che sono e che sempre sarò. E io non volevo cambiare. O perlomeno lo pensavo.
Ma soprattutto non volevo scegliere. Perché lo avevo già fatto e non era servito a risparmiare dolore a nessuna delle parti in causa nove anni fa.
Perché quando scelgo, faccio sempre la scelta sbagliata, anche quando penso di fare quella giusta. E sapevo sarebbe successo di nuovo.
Non mi stupii dunque, quando presi dalla mano di Renzo la pistola per la rapina, di aver scelto ancora una volta l’amore della donna che secondo me, come mia sorella, mi avrebbe comunque continuato ad amare incondizionatamente, senza giudicarmi, anche dopo la rapina, invece di quello dell’altra, o meglio, invece di quello di entrambe.
Non ero cambiato in quei mesi, in quegli anni. Ero sempre il vecchio grigio Sergio. Quello capace di fare del bene, ma anche e soprattutto del male, a chi lo circonda.
 
Alla scelta finale, quella che mi ha poi ricondotto dietro le sbarre insomma, ci sono arrivato anche a seguito di una serie di eventi susseguitisi le settimane antecedenti la rapina. Eventi su cui non ho avuto alcun controllo.
Eventi che avrebbero smosso la coscienza di chiunque, tranne evidentemente la mia.
Il primo grande momento in cui avrei potuto fare la scelta giusta, ma quella giusta davvero, si è presentato in occasione del ballo organizzato dal comune di Spoleto per celebrare le cariche della città.
Anna aveva bisogno di un accompagnatore, alcuni suoi colleghi già sapevano di noi, ma lei era titubante – con ragione – a uscire allo scoperto e dire pubblicamente che frequentava me, l’ex galeotto. Ero certo avrebbe declinato il tutto, che avrebbe messo la sua carriera davanti al resto, come aveva sempre fatto. Non mi feriva rimanere nell’ombra, soprattutto visto quello che da lì a non molto avrei fatto. A quell’evento c’erano troppi pezzi grossi, troppa visibilità per uno che voleva fare una rapina qualche settimana dopo. Però avevo anche una recita da tenere in piedi. E così ho tirato la corda, o meglio ho toccato le corde giuste dentro di lei, inconsapevolmente.
Perché non avevo tenuto conto del fatto che la Anna che si era lasciata andare a quella nuova storia d’amore con me non era la stessa che avevo conosciuto mesi prima. Il dolore che Marco le aveva inferto, quella storia perfetta andata in fumo per una scelta sbagliata, l’avevano accecata e resa molto meno lucida di un tempo. Quella stessa cecità l’aveva spinta a chiedermi di andare con lei a quel ballo, ben conscia che andarci insieme a me – l’ex galeotto, seppur innocente – volesse dire mettere a rischio la propria carriera. Quella stessa carriera che era pronta a scegliere al di sopra dell’amore per Marco solo sette mesi prima.
Era evidente che non fosse la vera lei. Che stesse cercando in tutti i modi di allontanarsi dalla ‘vecchia’ se stessa, dalla Anna che mai e poi mai si sarebbe comportata con tanta leggerezza, che mai si sarebbe lasciata sfuggire i dettagli più minuti. Faceva di tutto pur di andare contro al suo ex e non dargliela mai vinta. Faceva di tutto pur di trovare una via diversa a quella precedentemente percorsa, al fine di non soffrire più. E i miei metodi da casanova e perenne vittima degli eventi la aiutavano - e invogliavano - a farlo. A modo suo, forse, voleva vendicarsi. E quale strategia migliore, se non sfruttare la gelosia? Lui le aveva spezzato il cuore facendola soffrire: era il suo turno di stare male, senza poter avere ciò che più desiderava, come era successo a lei con la loro storia.
Di fronte alla sua proposta avevo accettato, incapace come sempre di trovare una via d’uscita. Era rischioso andare al ballo, attirare attenzione su di me e soprattutto su di lei, sulla caserma.
Ma mentre mi scervellavo per trovare un escamotage che mi impedisse di presentarmi alla festa, fu inaspettatamente Marco ad aiutarmi – aiutarci – a uscire dal labirinto in cui i miei metodi sornioni ci avevano trascinato. E lo fece sollevando l’attenzione sul furto del testamento di Irene da parte mia.
Non sono mai stato tanto felice di essere scoperto con le mani nel sacco come quella volta. Una buona recita mi permise di uscirne indenne, ma soprattutto mi permise di passare da vittima innocente agli occhi di Anna ancora una volta. Non mi presentai al ballo, ma lei si presentò al mio camper.
Quella sera non scelsi la via giusta, ma la solita via più facile. Ponendo delle basi alquanto aleatorie a una storia in cui Anna sembrava credere fortemente (o, meglio dire, si imponeva di credere), mentre io non abbastanza.
Il secondo grande momento di svolta avrebbe potuto essere sempre legato al furto del bracciale. A quello che poi è stato definito da tutti noi attori in scena un incidente. Se non fosse stato che quella scoperta mi ha ‘salvato’ dall’andare al ballo, quella mia mossa mi sarebbe potuta costare cara, lo ammetto.
In amore, come in guerra, mai sottovalutare l’avversario.
E a me era toccato un osso decisamente duro. La simpatia che Nardi provava nei miei confronti era pari allo zero, e il sentimento era reciproco da parte mia. Per vari motivi. Il PM amava quanto me, se non più di me, le due donne che ora tenevo ‘in pugno’. Era pronto a qualsiasi cosa pur di proteggerle. Ed era evidente non avesse alcuna intenzione di mollare la presa.
Ma per quanto sapessi che mi teneva d’occhio e aspettasse solo un mio passo falso per dimostrare ad Anna di chi poteva realmente fidarsi, ero stato ingenuo a pensare che mia figlia avrebbe tenuto nascosto il mio segreto al suo adorato tutore legale.
Quando Anna mi convocò in caserma per chiedermi del bracciale, fui felice di dire la verità. Perlomeno la mia versione della verità.
Sebbene infatti nel testamento Irene avesse sottolineato che il bracciale non valeva nulla, se non in termini affettivi, io ero sicuro che il bracciale che aveva riposto nella cassetta di sicurezza in banca fosse invece quello che le avevo regalato io qualche mese prima di entrare in carcere. La più piccola parte di una vecchia refurtiva. Mi avrebbe fatto comodo rivenderlo, sostituendolo con un altro di bigiotteria. Nessuno se ne sarebbe accorto. E così è successo. la parte più difficile avrebbe dovuto essere convincere l’impiegato della banca ad aprirmi la cassetta, visto che l’autorizzazione a farlo spettava a Ines una volta maggiorenne, e nel frattempo al suo tutore. Ma il fato una volta tanto mi era venuto incontro e l’impiegato si era rivelato essere una impiegata, e anche lei come altre era caduta nella rete di bugie da cascamorto del mio repertorio.
Quel giorno scoprii di essere un attore migliore di quanto credessi, perché tutti i presenti al mio interrogatorio credettero alla bugia del braccialetto privo di valore. Soprattutto Anna, alla quale si era palesata un’altra possibilità di dare contro a Marco, per ripicca di quanto fattole mesi prima.
Peccato solo che il suo ex, come del resto il Maresciallo - ma anche sua madre e chiunque cercasse di metterla in guardia -, avessero ragione a dubitare di me. Tuttavia, quel loro dubitare, per una volta mi aveva giocato a favore. Perlomeno fino a quando, nel pomeriggio di quello stesso giorno, Marco non si era presentato da me al motodromo per parlarmi.
Fu in quel momento che avrei potuto cambiare le cose, fare inversione e non proseguire per la strada intrapresa. E trasformare quel sentimento da comoda bugia a verità. Probabilmente su entrambi i fronti. Sarebbe stata l’occasione perfetta affinché Anna si innamorasse veramente di me, senza fermarsi invece a quel sentimento superficiale che tutto poteva essere tranne amore.
Marco era venuto a scusarsi con me, ma soprattutto a chiedermi di non far soffrire le due donne a cui teneva così tanto. Di non far soffrire in particolare Anna, perché a farle del male ci aveva pensato già lui. E non se lo meritava.
Giuro che non mi aspettavo la sua visita, men che meno le sue parole. Non con quello sguardo, e quel tono che lasciavano chiaramente intendere ritenesse ogni speranza infranta.
Mentre mi voltava le spalle per andarsene, le mie certezze iniziarono a vacillare. Perché l’ex di Anna era venuto a chiedermi di non fare il suo stesso errore, conscio che forse, sotto sotto, qualcosa io stessi veramente tramando e che quell’incidente non era stato affatto un incidente. Era venuto, seppur sconfitto, da me, a dirmi di non commettere i suoi stessi errori. Lui aveva sbagliato e perso, forse irreversibilmente, il cuore della donna che avrebbe voluto sposare. Io potevo ancora recuperare.
Lì ho capito davvero, per la prima volta, quanto ancora la amasse e quanto evidentemente quella notte che aveva rovinato la loro storia fosse stata per un lui un qualcosa fuori dalle sue reali intenzioni, un qualcosa che aveva commesso senza volerlo sotto l’effetto dell’alcol e del dolore al pensiero di perderla.
E forse è questo che li ha tenuti sempre insieme nonostante tutto.  Il fatto di essere consapevoli entrambi – quindi non solo Marco – che quella notte fosse stata veramente un errore che mai sarebbe stato ripetuto.
Poi c’è l’inevitabile fase dell’accettazione degli eventi, della vendetta, della guarigione. E loro tutte le fasi le hanno vissute, senza mai allontanarsi. Senza mai fuggire dalle loro responsabilità, dalle loro paure. Ma vivendole, assimilandole, perché anche quelle aiutano a crescere.
A quel punto ho veramente pensato alle mie di azioni, a quelle che avevo già commesso e a quelle che avevo in progetto. E ho capito come a differenza loro io non ero cresciuto. Perché stavo sempre continuando a correre, a scappare.
E anche quella volta non ho cambiato la rotta. Come non l’ho fatto nemmeno la sera dopo, quando Anna è venuta al camper da me.
Avrei potuto, in entrambe le occasioni – per di più così ravvicinate tra loro -, se solo avessi voluto. Ma non ho voluto. Perché quando sei grigio e il nero è ormai a un passo da te, il bianco è solo una luce in fondo a un tunnel troppo lungo da percorrere.
 
E se la svolta non è mai arrivata, la strada verso la mia meta a un certo punto si è però definitivamente spianata. E a fornirmi l’assist finale per andare in goal, ci aveva pensato ancora una volta Marco Nardi.
Dopo la sera che aveva fatto visita al mio camper, le cose con Anna si erano rimesse perfettamente in carreggiata e Renzo mi aveva suggerito di muovermi col piano, prima di rischiare nuovamente di perdere l’occasione.
Per poter però giungere dentro alla caserma indisturbato a piazzare il processore, avevo bisogno della certezza che Anna si fidasse ciecamente di me. E devo ammettere che per arrivare a capirlo mi ci è voluta molta fatica.
Perché se da una parte si era finalmente lasciata andare alla nostra avventurosa storia e non aveva più paura di nascondersi, dall’altra per certi specifici aspetti ancora teneva il freno a mano tirato. In cosa? Beh, non nego per esempio di aver sperato in qualche giro di giostra con lei. Dopo anni in carcere, poi...
Purtroppo, non ho mai vinto.
E dire che ci ho provato, più volte, soprattutto la sera in cui è venuta a scusarsi con me al camper. C’era tutto: i vestiti eleganti, lo champagne, la riconciliazione, l’atmosfera... Ma niente. Lei è stata sempre impossibile da smuovere. Altro che grigio... le mie notti sono sempre finite tutte in bianco, e non quello a cui avrei aspirato, ecco. Anna l’aveva messo in chiaro: quel suo ‘no’ era tassativo, niente compromessi di alcun tipo. Per dire, nemmeno dormire insieme, nel senso più innocente del termine.
Era come se nonostante tutto ciò che era successo, considerasse l’idea di concedersi una specie di tradimento nei confronti di quell’ex, Marco, che tanto ex per lei forse non era.
Quest’ultimo punto divenne evidente quando Marco si legò le mani da solo, spianandomi completamente la strada.
Il PM aveva fatto di tutto per riconquistarla, ma devo dire che neanche io sarei caduto così in basso da sfruttare un malinteso per una sospetta malattia pur di averla accanto, sebbene capissi che per una come Anna ci si spingerebbe a far pazzie senza rimorso.
Quando lei aveva scoperto la verità, definirla furiosa sarebbe riduttivo. Credo stesse giungendo in quel momento alla realizzazione di provare ancora qualcosa per lui, qualcosa che la paura di perderlo aveva fatto tornare a galla prepotentemente. Ne fui testimone in prima persona quando, di fronte alla mia domanda a bruciapelo “Non è che lo ami ancora?” preferì svincolarsi e rigirare la frittata, dicendomi che era la gelosia a farmi parlare in quel modo.
Ed è vero, ero geloso. Non riuscivo a capire cosa accidenti ci vedesse in lui, nonostante tutto. L’aveva tradita, l’aveva ferita ripetutamente, eppure lei in fondo lo amava ancora. Perfino la mia battuta sulla stanza da condividere ‘in amicizia’ a Roma con lui aveva cementato le mie paure. La sua continua esitazione nel rispondere non faceva altro che alimentare i dubbi che , con lui ci avrebbe dormito senza problemi, e che quella ‘gita’ imprevista mi avrebbe fatto perdere il poco terreno che ero riuscito a guadagnarmi. Sarebbe ricaduta tra le sue braccia, era chiaro. Non mi stava bene quella situazione, e non è un problema ripetere che fossi estremamente geloso. E la cosa mi spaventava a morte, perché da lì a poco avrei ottenuto da lei il medesimo odio che dopo la scoperta della bugia della malattia pensavo nutrisse nei confronti di Marco.
Ma se quella mossa da parte del PM aveva fatto sì che Anna smettesse totalmente di dargli ascolto, dall’altra scoprii poco prima di rientrare in carcere che dentro di lei lo aveva perdonato, gli aveva perdonato tutto. E aveva perdonato anche me: l’uomo per mano della quale aveva quasi perso la vita.
 
Quello che accadde nei giorni successivi infatti si rivelò imprevedibile quanto devastante per tutti.
Da qualche settimana il processore ideato da Renzo era pronto ad essere usato. Restava solo da individuare l’obiettivo, il portavalori più adatto alle nostre esigenze. Renzo aveva studiato tutto, ancora una volta, nei minimi dettagli: il 12 ottobre un portavalori con a bordo circa due milioni di euro – frutto dell’incasso dei vari supermercati della zona - sarebbe partito da Spoleto per raggiungere una banca a Perugia.
Una fortuna – la ‘nostra’ – su quattro ruote avrebbe attraversato la superstrada fuori Spoleto nel bel mezzo del nulla per ben 20 minuti, alle ore 9.44. L’occasione perfetta per la rapina.
Renzo aveva trovato anche una complice spietata al punto giusto, Zelda, per portare a termine il colpo.  Possedevamo tutto per procedere.
Tutto, meno l’ultimo passaggio.
Per poter agire velocemente e indisturbati senza rischiare di lasciarci le penne, era necessario avere i codici di accesso per sbloccare le ante del portavalori. Solo quelli infatti ci avrebbero permesso di svaligiarlo e darci alla fuga prima dell’arrivo inevitabile dei carabinieri.
Per avere accesso ai codici servivo io, anzi serviva sfruttare l’“amicizia” che mi legava ad Anna e cinque minuti da solo nel suo ufficio.
Ricordate di come prima parlassi del fatto che avevo bisogno di guadagnarmi la sua fiducia? Dopo l’equivoco della malattia di Marco, Anna mi aveva detto di come lui avesse provato a baciarla, consolidando le mie paure e le mie gelosie. Tuttavia, in quel frangente, mentre si scusava nemmeno fosse colpa sua che l’ex ci avesse riprovato - o ci fosse realmente da biasimarlo -, mi aveva detto di voler fondare la nostra ‘relazione’ sulla sincerità e sulla fiducia.
A quelle parole la voce nella mia testa aveva urlato ‘Bingo!’ mentre quella vocina afona nel petto cercava di comunicare con me invano.
Era troppo tardi per tirarsi indietro.
Così, il pomeriggio di una settimana esatta dopo, libero dalle accuse di aver ucciso la compagna di Renzo – vittima del più recente caso di cronaca nera spoletina – ho agito.
Il piano era semplice: sarei salito su per proporle una ‘tregua’ dopo che, per via del caso in cui ero stato coinvolto, l’avevo trattata male e trascurata, fingendo di dimenticare la giacca. Con una scusa, poco dopo sarei salito a riprenderla, facendo in modo di essere da solo.
Quest’ultima parte sarebbe stata la più complicata da attuare, perché un privato cittadino non può essere lasciato da solo in un luogo così importante come l’ufficio di un Capitano dei Carabinieri, men che meno un pregiudicato, ma la fortuna quel pomeriggio mi aveva incautamente sorriso.
Perché non solo Anna si fidò di me a sufficienza da lasciarmi salire da solo nel suo ufficio (diciamo in modo non proprio volontario, ma anche lì sono stato fortunato), ma perfino i suoi sottoposti divennero complici inconsapevoli del piano mio e di Renzo: il maresciallo aveva trattenuto Anna in piazza per chiederle un parere non so su cosa e gli altri agenti non si erano curati di me, troppo impegnati nei loro compiti per risolvere il caso della morte di Serena.
Da solo, nel suo ufficio, fingendo di recuperare la giacca, posizionai il processore al computer di Anna. Quando lei mi raggiunse, preoccupata che ci mettessi tanto a scendere, era ormai troppo tardi.
L’insetto del rimorso non mi sfiorò nemmeno per un secondo quel pomeriggio, in quei giorni. Per quanto i miei sentimenti per Anna non fossero più finti come in origine, ero più determinato che mai a portare a termine il piano. Soprattutto dopo ciò stava succedendo a Renzo in quei giorni.
Il passato infatti era ripiombato nella sua vita, anche per via della sua causa contro la LuckyTec. Di lì a qualche giorno, ci sarebbe stata l’udienza decisiva per la storia del brevetto rubato - che lui era sicuro di vincere - contro i due ex soci: Astrid, la sorella di Serena nonché sua ex fidanzata, e suo marito Donato, l’amico comune dei due con cui Astrid aveva rubato il brevetto dell’antivirus che li aveva resi milionari dopo la fondazione dell’azienda tutti e tre assieme.
A peggiorare un periodo già di per sé complicato per il mio padrino, era intervenuta la morte di Serena stessa. Un caso di omicidio, in cui ero rimasto coinvolto anche io. La notte della sua morte infatti Renzo si trovava al lavoro. C’era stato un blackout alla fabbrica presso cui prestava servizio come agente della sicurezza, e avevano chiesto il suo intervento perché nessuno era in grado di risolvere il problema. La mattina seguente, provando inutilmente a rintracciarla, Renzo preoccupato mi aveva chiamato pregandomi di andare a casa sua a controllare che non fosse accaduto niente, poiché lui era ancora al lavoro.
Giunto a casa sua, però, ho fatto la macabra scoperta.
E sempre lì, sono rimasto incastrato nella rete del ragno.
Avendola trovata io senza vita, ero stato il primo ad essere indagato dalla Procuratrice Santonastasi. Con il mio curriculum, era inevitabile. Poco importava che ci fossero prove in grado di incastrare la vera colpevole: Astrid, la sorella di Serena. La proprietaria della LuckyTec, nonché una Freschi Simonelli, una delle famiglie più ricche di Spoleto.
Lei aveva cercato di corrompere Serena con 500 mila euro, al fine di metterla a tacere e non rivelare al mondo la colpevolezza sua e di suo marito sul furto dell’antivirus ideato da Renzo.  Serena aveva infatti trovato il modo di provare che il certificato di donazione firmato da Renzo in possesso della LuckyTec fosse contraffatto, ma prima che potesse rivelarlo era stata uccisa. Guarda caso, proprio la sera stessa in cui ha rifiutato l’assegno propostole da Astrid.
Tuttavia, la Freschi Simonelli era una incensurata. E quei pochi, ma pur buoni, indizi di colpevolezza non erano sufficienti agli occhi della Santonastasi per metterla in stato di fermo e fare ulteriori verifiche. La verità era che Astrid, a differenza mia, non solo aveva la fedina penale pulita, ma anche un portafoglio pieno a dismisura.
Io invece, pregiudicato, ero un bersaglio facile. A me il beneficio del dubbio di essere cambiato non era concesso. Bastava la mia presenza in casa di Renzo a rendermi colpevole agli occhi del PM e della Procuratrice. Non che fossi un santo.
Renzo comunque era amareggiato e furioso per la situazione. Per l’ennesima volta, il mondo si stava dimostrando ingiusto con chi non aveva abbastanza soldi per difendersi e soprattutto con un innocente.
Anche grazie a questo mi aveva convinto ancora di più a perseguire il piano.
Ciò che però non avevo calcolato, era che la ragnatela in cui ero rimasto incastrato non era quella della Legge cattiva contro me ex carcerato. No.
La mente dietro la trappola era il mio stesso mentore.
Ma me ne sono accorto troppo tardi.
E per questo sono rimasto complice fino alla fine della mente tanto geniale quanto delirante di Renzo Cicogna.
 
Rimasi agli arresti domiciliari con l’accusa di omicidio per tre giorni presso la canonica di Don Matteo. Fu possibile grazie alla fiducia che Anna riponeva in me e alla sua capacità di far ancora breccia nel cuore di Marco.
Sebbene innocente, continuai in quei giorni la mia recita da perfetta vittima degli eventi, soprattutto con Anna. Al contempo, in canonica, i presenti – Natalina su tutti - dimostrarono di avermi accettato, nonostante la riluttanza e l’ostilità dei primi mesi. Tutti loro credevano nella mia rinnovata buona fede e io cavalcai volentieri quell’onda. Uscendone vincitore.
Anna riuscì infatti a dimostrare la mia innocenza rispetto al caso di omicidio.
Una volta libero, il 10 ottobre, la prima cosa che feci fu andare da Renzo, per gli ultimi dettagli da limare per la rapina.
Il giorno successivo piazzai la scheda nel pc di Anna e la sera Renzo lo hackerò.
Il giorno prima della rapina al portavalori, feci anche in modo di ultimare la mia parte di piano, proponendo a Ines di partire per un campeggio insieme, perché ero stato diligente e avevo ottenuto in tempi non sospetti il permesso dai servizi sociali.
Dopo il furto, infatti, avrei dovuto darmi alla macchia per qualche tempo. Scappare, come mio solito. Ma non volevo più lasciare indietro chi amavo, mia figlia perlomeno.
Perché la donna di cui mi ero innamorato non poteva venire con me. E come la mia precedente fidanzata, era destinata a rimanere col cuore spezzato dopo la mia scelta.
 
L’ultimo - disperato, se vogliamo - tentativo di fermarmi e farmi ragionare lo tentò Don Matteo, la mattina del 12 ottobre, mentre mi apprestavo a partire con Ines all’alba per il campeggio.
Aveva intuito, non so come, che fossi coinvolto in qualcosa e stava cercando di farmi cambiare idea, dicendomi di farlo per Ines, per il suo bene. Ma era proprio per lei che lo facevo, perché avevo imparato a volerle bene davvero, e volevo che avesse una vita come si deve, come quella del figlio di Astrid e Donato, con un futuro in discesa.
Al tempo stesso, so per certo che se a salutarmi fosse arrivata in tempo Anna, quella mattina, mi sarei tradito. Dopo la nostra chiacchierata la sera precedente, ero sempre più certo dei miei sentimenti per lei, ma di sicuro non dei suoi per me. Per quanto cercasse di dimostrarmi il suo ‘amore’, sentivo tra le righe di quello che mi diceva che il suo cuore non avrebbe mai potuto essere davvero mio. Per quanto non perdesse occasione di ripetere che Marco era un capitolo chiuso della sua vita, perlomeno nella veste che aveva avuto un tempo, vedevo nelle loro interazioni quella complicità che con me non aveva e mai avrebbe avuto.
Una volta scoperta la verità poi, non sarei stato meglio di lui. Perché anche io ero in procinto di tradirla. Di tradire la sua fiducia, esattamente come in fin dei conti aveva fatto lui. E sapendo di essere già sconfitto in partenza, ho fatto in modo di evitare di incontrarla prima di mettermi in viaggio.
 
Solo una volta seduto sul furgone con Zelda, in attesa del portavalori, mi sono reso conto di non aver calcolato bene cosa avrei fatto dopo la rapina.
Nell’immediato, se tutto fosse andato bene, avrei proseguito la mia strada per il campeggio con Ines come se niente fosse. Ma successivamente?
Tornando a Spoleto, avrei dovuto affrontare i postumi del colpo, giacché i carabinieri avrebbero dovuto inevitabilmente indagare sul furto e avrebbero scoperto del processore nel PC di Anna. Trovato quello sarebbero comunque risaliti a me, indipendentemente dal fatto che sia io che Zelda avessimo preso tutte le precauzioni del caso per non essere riconosciuti.  
Dandomi alla macchia, come invece avevo pianificato, tutti avrebbero sospettato di me, proprio perché scomparso nel nulla lo stesso giorno della rapina. L’Arma avrebbe disposto foto segnaletiche mie ovunque e io avrei costretto Ines a una vita da fuggiasca.
Insomma, scacco matto.
Ero intrappolato, senza via d’uscita.
E per di più, avevo trascinato con me mia figlia. La bambina di cui avrei dovuto prendermi cura. La bambina che per altro non era in affido a me, e quindi scappando agli occhi della Legge avevo rapito.
In quel momento mi resi conto del fatto che Renzo non aveva pensato al mio bene, insieme al proprio. Io ero solo una pedina sacrificabile nella sua scacchiera. Capii che non era un caso nemmeno che a recuperare il processore a casa sua, dopo la morte di Serena, ci aveva mandato me.
Ma era troppo tardi.
Tardi per tornare indietro, riavvolgere il nastro e fare la scelta giusta.
Però non era tardi per tentare comunque di fuggire, alleggerire l’eventuale pena che inevitabilmente mi avrebbe ricondotto in carcere.
E così sono sceso dal furgone, lasciando Zelda da sola a fare il colpo.
Conscio che se fosse andata male, lei avrebbe rivelato il mio nome. Ma non importava.
C’era una piccola ma fievole luce di speranza di poterla fare franca e fuggire, anche solo qualche giorno, con mia figlia. Di passare del tempo con lei, prima che ci venisse tolta la possibilità di stare insieme. Probabilmente, per sempre.
 
E c’era in cuor mio la speranza che Anna potesse perdonarmi, che l’essermi fermato in tempo dal commettere in prima persona il furto fosse sufficiente a rendermi ‘innocente’ ai suoi occhi. Perché per amor suo e di mia figlia mi ero tirato indietro. Insomma, speravo che l’ennesima balla mi salvasse, almeno in parte, dal suo giudizio.
Perché se non è una balla la parte in cui affermo di amarla – e glielo dissi, nel momento più sbagliato dell’universo, poco prima di scendere dal furgone -, lo era invece il fatto che mi fossi tirato indietro per amore suo e di Ines.
Se mi sono fermato, è stato solo per salvare il mio fondoschiena.
Poi sì, c’entravano anche quei mesi passati a Spoleto in cui una banda di sconosciuti – chi più, chi meno – ha iniziato a credere in me, quando nessuno, nemmeno io ci credevo. C’entrava il fatto di essermi innamorato di mia figlia, di quella bambina che avrebbe avuto tutto il diritto di odiarmi eppure non l’ha mai fatto, nemmeno quando inizialmente mi è stata ostile. E c’entrano quegli occhi verdi che mi hanno ammaliato e spinto a cercare di essere una persona migliore.
Ma prima di tutto, mi sono tirato indietro per paura delle conseguenze delle mie azioni. E sono scappato. Come faccio sempre, invece di assumermi le mie responsabilità.
Gettata la maschera, sono corso via, al fine di raggiungere il più velocemente possibile il casale dove si trovavano Renzo e Ines per riprendermi quest’ultima e raggiungere casa. Dopotutto, non avevo fatto niente di concreto. Mi avrebbero al massimo fermato per aver congegnato il piano, per esserne complice, ma il mio essermi tirato indietro doveva pur contare qualcosa.
Ma il fato era stato troppo clemente con me negli ultimi giorni per assistermi ancora.
Nella corsa, infatti, avevo sentito il rumore delle sirene delle auto dei carabinieri. Non sapevo come, ma avevano scoperto tutto prima del previsto, evidentemente. E sempre in quella mia fuga verso casa, nel silenzio lasciato dalle stesse vedette dopo il loro passaggio, ho udito distintamente dei colpi di pistola.
Il suono aveva alterato la mia corsa, ma non l’aveva fermata.
Solo una volta giunto al casale, la realtà dei fatti mi piombò addosso.
Tentati di ignorare Renzo, appostato fuori pronto a chiedermi come mai fossi lì e per di più senza Zelda, nel tentativo di raggiungere Ines e portarmela via.
Fu lui, l’artefice di tutte le malefatte di quei giorni, a darmi la notizia. Zelda era stata arrestata, ma non aveva fatto i nomi dei complici.
Tuttavia, aveva sparato a uno dei carabinieri per difendersi.
E l’agente rimasto ferito nel conflitto a fuoco non era un carabiniere qualunque.
 
Quando Renzo pronunciò il nome di Anna, il mondo attorno a me, quasi come nei film, prese a muoversi a rallentatore.
Il mio cervello andò letteralmente in tilt. La donna di cui mi ero innamorato era in fin di vita in un letto di ospedale. Avevo perso la sua fiducia, perché inevitabilmente avrebbero scoperto c’entrassi io col furto dei codici, ma soprattutto stavo perdendo lei, fisicamente. Avevo fallito nell’unico punto che mi ero prefissato, fin dall’inizio: non farle del male.
Io volevo solo riprendermi quello che la vita mi aveva tolto. Volevo un futuro migliore per Ines e per me. Non volevo che succedesse quella tragedia.
Il mio tentativo di salire in macchina per andare da lei e vedere come stesse fu fermato da Renzo, che mi mise spietatamente davanti alla realtà dei fatti: non ero innocente. E non lo ero perché mi ero lasciato trascinare io in quella vicenda da lui, cascando per primo nella sua ragnatela. Ero vittima, complice, ma anche e soprattutto carnefice.
Perché io avevo procurato le pistole.
Io avevo piazzato la scheda nell’ufficio del Capitano.
Io l’avevo circuita per quello scopo.
La colpa era mia, ero l’unico da poter realmente incastrare. Non lui, Renzo non compariva da nessuna parte. Mi aveva incastrato. Tirando a indovinare, avrebbe potuto tranquillamente dire che io gli avevo rubato quel dispositivo e organizzato tutto, e la mia parola non sarebbe valsa a niente. Niente.
Ma il peggio doveva ancora arrivare.
Quella situazione mi aveva condannato a una vita da fuggiasco. E ancora peggio, aveva condannato Ines a diventare una reietta per colpa mia.
Nonostante mia avesse fregato, Renzo restava l’unica persona in grado potermi aiutare a uscirne. E in mancanza di alternative gli diedi ascolto un’altra volta.
Rimasi al casale, con Ines, in attesa di ricevere i documenti falsi che Renzo mi avrebbe procurato per iniziare una nuova vita lontano da lì. Ero pronto veramente a relegare Ines a quella vita che non era un upgrade di quella precedente, bensì un downgrade. Tutto, pur di non tornare in galera.
Non servì il tentativo di Don Matteo di convincermi a tornare, quando stupidamente mi misi in contatto con lui per sapere di Anna. Spezzai la sim e gettai il telefono con cui lo chiamai, pur di non essere rintracciato. Pur di rimanere libero.
Ma la libertà ha sempre un costo.
E la mia libertà era costata più del dovuto. Solo, non a me.
Scoprii dalla televisione della morte di Anna.
Il Capitano dei Carabinieri di Spoleto era venuto a mancare a causa degli irreversibili danni procurati dai colpi di pistola di Zelda.
O almeno quelle erano le parole che aveva usato la giornalista durante il notiziario. Nella mia testa quel capitano dei carabinieri era morto a causa mia.
E se fino a quel momento ero convinto di non tornare mai più a casa, bastò ricevere quella notizia per farmi cambiare idea.
Era troppo tardi per ottenere il suo perdono. Ma volevo salutarla un’ultima volta. Dirle, anche se non poteva più sentirmi, che avevo sempre avuto ragione io, che in me non c’è niente di buono. O che se veramente c’è, nessuno è mai stato in grado di tirarlo fuori.
Tornai a Spoleto con l’intento di fare tutto questo e di lasciare Ines in canonica, rimettendomi in fuga da solo.
Avevo imparato in quei mesi a riconoscere le azioni giuste da fare, ma non ne avevo compiuta nemmeno una. Speravo che sottrarre Ines da quella vita falsa a cui volevo condurla fosse sufficiente a dimostrare che in fondo un briciolo di coscienza vivesse anche in me.
Non potevo immaginare però che anche la notizia al telegiornale fosse una trappola. E io ci ero nuovamente cascato.
Ma per una volta non mi importò di essere stato raggirato.
Perché Anna era viva.
Era lì accanto a me.
E in quel momento fui disposto ad accettare tutte le conseguenze del mio gesto. Anna era viva, ed era l’unica cosa che contava. Accettai quasi con sollievo le manette che lei stessa chiuse attorno ai miei polsi.
 
Finii in carcere, per la seconda volta nella mia vita, a distanza di 7 mesi giusti da quando ne ero uscito. Sarei stato sottoposto a un processo lampo nei giorni successivi il mio stato di fermo. Ero accusato di aver concorso alla realizzazione del piano della rapina, ma non venni accusato, come successo invece a Zelda, di tentato omicidio, non avendo preso parte al conflitto a fuoco ed essendomi tirato indietro prima dell’effettiva messa in opera dell’assalto al furgone.
Il giudice al processo mi diede un anno e mezzo per i reati commessi, e tenne anche conto del fatto che i precedenti sei anni in carcere li avevo fatti da innocente, seppur avevo mentito e quindi ero stato complice di mia sorella in qualche modo.
Mentre rientravo in carcere, dopo il processo in tribunale, non mi aspettavo di veder arrivare Anna di corsa a cercarmi. E soprattutto a dirmi che mi avrebbe aspettato.
Nonostante ciò che le avevo fatto, nonostante il male arrecatole, nonostante le conseguenze che lei stessa avrebbe dovuto subire sul lavoro a causa mia, mi aveva perdonato.
Ed era pronta addirittura ad aspettarmi. A darmi una seconda possibilità.
Finsi di credere alle sue parole. Finsi di credere che aveva ragione e che se ne valeva la pena poteva deciderlo solo lei.
Egoisticamente mi aggrappai a quelle sue parole. Alle sue visite e a quelle in cui avrebbe portato anche Ines.
In quella mia nuova permanenza in carcere, avrei avuto qualcosa a cui tenermi per non soccombere: la speranza che là fuori ci fosse chi mi avrebbe aspettato. Che alla mia uscita ci sarebbe stato qualcosa per cui valeva la pena andare avanti e sopportare una pena comunque meritata.
Tuttavia, le cose presero a cambiare in maniera evidente dopo i primi sei/sette mesi dentro. Le avvisaglie c’erano già state, ma era stato più comodo per me ignorarle. A quel punto però non era più possibile, e la mia convinzione iniziale cominciò a prendere forma reale.
Non valeva la pena di attendermi. Ma soprattutto la sua vita sarebbe stata migliore lontano da me. E, consapevolmente o meno, lei aveva già iniziato ad andare avanti.
Non è un caso che, più noi ci allontanavamo - forzatamente -, più lei contemporaneamente andasse riavvicinandosi a lui.
Dopotutto, non lo aveva estromesso dalla sua vita quando il male glielo aveva procurato lui, perché mai avrebbe dovuto farlo quando lui aveva deciso di sacrificare la sua carriera, e non solo, per lei?
Esposi i miei dubbi ad Anna più volte durante le sue visite in quei mesi. Lei negò sempre ogni cambiamento che io le facessi notare. Testardamente pensava di potermi tenere nascosto cosa accadeva fuori. Rinviando l’inevitabile momento del confronto.
Non penso lo facesse per paura di dover ammettere che aveva sbagliato e che io avevo ragione. Che mi voleva bene, ma non mi amava. Cercava di convincersi che sarebbe potuto continuare tutto come prima, se lo sarebbe imposta se necessario, lo capivo. Era una cosa che aveva già fatto nei mesi passati insieme.
Però era evidente che nel quadro era tornato lui. In pianta stabile. Anche se Anna cercava di nascondermelo negando l’evidenza.
Ero geloso, lo ammetto. Ma non potevo farci nulla.
Lui era fuori, libero di agire e riprendersela. Io dentro, a causa delle mie ‘libere’ azioni.
Ma anche avessi potuto agire, non avrei mai potuto evitare che le loro strade si ricongiungessero.
Perché non si erano mai veramente divise, sarebbe da stupidi negarlo.
E fu mia figlia Ines a riempire i vuoti di narrazione di Anna, nei mesi a venire.
Seppi da lei che Anna aveva perdonato Nardi, che lui l’aveva ‘salvata’ dalle conseguenze del furto dei codici. La bambina me lo raccontava come fosse una fiaba, perché ai suoi occhi innocenti così era. E non solo ai suoi, forse.
E soprattutto, divenne evidente che a poco a poco quei due stavano ricostruendo il loro legame.
Erano informazioni che Ines, ingenuamente, mi dava mentre mi raccontava delle sue giornate. Mese dopo mese la presenza di Marco nei suoi racconti si fece sempre più costante.
Marco che l’accompagnava a scuola la mattina, o a giocare la domenica pomeriggio. Marco che l’aiutava a fare i compiti durante la settimana quando Anna non poteva per via dei turni al lavoro. Marco con lei ed Anna per la ‘pizzata’ di rito del sabato sera. Marco che si alternava ad Anna per leggerle le favole la sera prima di dormire. Marco che c’era sempre.
Non che non me lo aspettassi.
Marco amava molto entrambe. Era già stato pronto in passato ad occupare il ‘mio’ posto nelle loro vite. Non aveva motivo di non esserci ora che il posto era nuovamente vacante.
Però sapeva che ero io il padre di Ines, e quello il carcere non poteva cambiarlo. Per quanto la sua presenza nei ricordi di mia figlia andasse aumentando, non leggevo in nessuna delle sue mosse malizia.
Nemmeno in quelle compiute verso Anna. Che quel giorno aveva scelto me, non Marco, ma che a differenza di mia figlia poteva cambiare idea, se lui avesse insistito a sufficienza. Sospettavo che gli sarebbe bastato il minimo impegno per riuscirci. Eppure non c’era testimonianza di tutto questo nei racconti che giungevano da fuori.
E questo è ciò che mi ha sempre dato più fastidio: mentre io, a lui, almeno un motivo per detestarmi glielo avevo sempre fornito, lui a me non ha mai dato niente per poterlo fare veramente. Ai miei stessi occhi, lui era l’uomo imperfettamente perfetto che tutti descrivevano.
Quello che avrebbe potuto fregarmi la ragazza, riprendersela, ma non lo stava facendo. Non forzatamente perlomeno. Né apertamente. Perché, da quanto mi risultava, si stava accontentando della veste di amico pur di poterle stare a fianco.
Ma in quei non detti, in quelle risposte vaghe di Anna ai miei dubbi, alle mie domande, in quella sua ritrovata felicità, quel sorriso che non le avevo mai visto nei mesi spesi a conoscerla e una luce costante a illuminarle lo sguardo, era evidente che si muovesse l’ombra del ritorno di fiamma.
Il ritorno della vera Anna, come tutti la descrivevano – o almeno così mi riportava Ines dei discorsi sentiti in canonica e a casa del maresciallo, che frequentava ormai abitualmente.
Non c’era bisogno di ulteriori spiegazioni o chissà quali studi scientifici per capire che la ‘vera Anna’ fosse il frutto della ritrovata serenità tra lei e Marco, nel loro rapporto. Sebbene etichettato come semplice amicizia.
 
Ma se Anna era evidentemente felice di quell’evoluzione, io non potevo invece che pormi domande su domande e mettermi in discussione. Come penso sia anche normale – seppur sbagliato. Perché in fondo ognuno è se stesso, inutile fare paragoni.
Però nelle lunghe ore da solo in carcere - il mio compagno di cella era un tipo taciturno a quel nuovo giro dentro - era inevitabile per me fermarmi a raffrontarmi con lui.
Lui, che aveva il suo bello stipendio sostanzioso e avrebbe potuto tranquillamente garantire ad Ines - e Anna - una vita senza problemi.
Lui, che aveva messo a rischio la sua carriera per un’amica, o meglio per la donna che amava, per porre rimedio ai propri errori.
Lui, che si è fatto carico delle sue responsabilità, e anche delle mie in fondo, senza pretendere davvero nulla in cambio.
Ed io?
Io cosa potevo offrire alle due donne che mi attendevano fuori, o perlomeno avevano promesso di farlo?
Cosa avrei dato io a mia figlia, una volta uscito dal carcere? Senza un lavoro, senza nessuno disposto a darmene?
E soprattutto, volevo davvero fare il padre? Avere una famiglia, una compagna? Assumermi tutte le responsabilità che quella vita comporta?
Avevo dimostrato più di una volta di non esserne all’altezza, e prima di avventurarmi su quella strada avevo bisogno di schiarirmi le idee. Di capire cosa realmente volessi dalla mia vita.
Ed era qualcosa che dovevo capire e fare da solo. A modo mio, nonostante fino all’ultimo incontro Anna mi avesse garantito che sarebbe andato tutto bene, che a casa tutto era pronto ad accogliere la nostra nuova vita insieme. Insomma, che non era cambiato nulla rispetto a quando ero entrato in gattabuia e che avremmo potuto ricominciare. Verificare se ne era valsa la pena di aspettare e percorrere quella nuova strada assieme, ovunque ci avesse condotto. Sapevo bene che non era così. O che, in ogni caso, sarebbe iniziata bene e finita malissimo in un batter d’occhio.
Ecco perché quando mi comunicarono la data d’uscita, confermando che fosse un giorno prima rispetto a quanto anticipato e a quanto comunicato a tutti, non mi premurai di correggere il tiro, di informare Anna e Ines.
Quando le porte del carcere si sono aperte davanti a me, Forrest è corso di nuovo via.
 
Era convinto fosse la cosa migliore. Non me la sentivo di essere buttato nella mischia così e cominciare da capo come se niente fosse successo, come se non avessi trascorso quasi altri due anni in carcere. Sarebbe stato un nuovo periodo di sbarre, invisibili quanto inespugnabili.
L’etichetta di delinquente, di galeotto, mi avrebbe sempre seguito, segnato. I dubbi che avevo quando ero uscito la prima volta dalla prigione era ancora lì, come scheletri nell’armadio pronti a crollarmi addosso una volta aperte le sue ante. Non mi sentivo pronto ad affrontare quel mondo in cui sarei sempre stato fuori posto, in cui mai avrei potuto vivere una vita normale.
Ma soprattutto non ero pronto a fidarmi e affidarmi per cominciare una vita accanto all’unica persona che di me si era fidata pure troppo. Non ero all’altezza di Anna Olivieri. Non lo sono mai stato e mai lo sarò. E non è una questione di status sociale, di ruoli ricoperti nella società. Non è per via del fatto che lei è un Capitano dei Carabinieri e io sono un ex galeotto. Quelle sono etichette che servono a definirci nello spazio, non ci descrivono in toto.
No, io non ero all’altezza di Anna Olivieri perché sapevo – e so – che qualsiasi mia scelta o azione avrebbe finito per ferirla. E non se lo meritava.
E non importa quanto io la amassi, o la ami. Egoisticamente avrei potuto provarci fino alla fine a riaverla nella mia vita – come del resto ho provato a fare. Ma non sarebbe cambiato niente. Avrei rinviato la fine di qualche giorno, settimana o mese, ma sarebbe arrivata comunque. E lei avrebbe scelto sempre lui. Anche se ci volle tempo prima che arrivasse ad ammetterlo agli altri e a se stessa.
 
 
Il 2 maggio 2022 ebbe inizio la mia nuova vita. Quella che speravo essere meno grigia.
Varcata la porta del carcere di Spoleto mi dileguai nel nulla. Ero convinto che in poche settimane avrei trovato la risposta alle mie domande e a quel punto sarei potuto tornare indietro da quella famiglia che non avevo cercato ma mi aveva in qualche modo accolto e mi aspettava.
Ero certo che quel tempo non avrebbe cambiato nulla. In fondo, mi avevano atteso per due anni. Che differenza avrebbe potuto fare un pochino di tempo in più? Mi avevano perdonato cose peggiori rispetto a quella fuga e capito in momenti in cui perfino ai miei occhi avevo poco senso.
Non avevo timore di pensare che al mio ritorno mi avrebbero rifiutato.
Ines mi avrebbe perdonato certamente. Anna col tempo anche. Magari con lei non sarebbe stato altrettanto facile e immediato come con mia figlia riuscire a spiegare quella ‘pausa di riflessione’, ma aveva sempre compreso tutto di me, anche quelle cose che non capivo io di me stesso. Ero sicurissimo avrei potuto avere un futuro con lei, con loro.
Perché non ero fuggito per non tornare più. No, quella volta volevo tornare, ma volevo farlo da uomo maturo, sicuro di sé e con un lavoro serio, in grado di provvedere al bene della famiglia che finalmente ero certo di voler formare.
Perché in quelle settimane divenute mesi io, Sergio La Cava, avevo capito cosa volevo, o almeno buona parte di quello che desideravo.
 
Il mio ritorno a Spoleto non è andato esattamente come nei miei piani, però.
Posi fine alla mia ‘latitanza’ circa sette mesi dopo la mia uscita dal carcere. Ma avrei dovuto intuire che le cose forse in quel lasso di tempo erano cambiate quando nessuno aveva provato a rintracciarmi. Doveva essere un campanello d’allarme il fatto che la mia ragazza non mi avesse mai cercato, nemmeno per il bene di mia figlia, giusto?
Sono sempre stato un po’ duro di comprendonio, ma quella volta più che mai, mi sa che ho dato troppo per scontato.
Perché dopo mesi e anni a convincermi, a pressarmi, perché mi prendessi cura di mia figlia, di fronte alla mia nuova fuga aveva deciso di lasciarmi lo spazio che apertamente non le avevo chiesto, ma mi ero preso? Un’azione anomala, da parte sua perlomeno.
Al mio arrivo a Spoleto, capii perché.
 
Era un tardo pomeriggio di dicembre quando mi presentai alla porta della canonica di Don Matteo per riprendermi la mia vita.
Bussai più volte, ma non ricevetti risposta. Forse era un segno del destino anche quello, che però non volevo capire. Presi a guardarmi intorno, domandandomi dove potessero essere finiti tutti. Fu Spartaco, alquanto sorpreso e non esattamente contento di vedermi, a informarmi che erano tutti a vedere la partita di calcetto di mia figlia.
E a quel punto, quello sorpreso fui io. Mia figlia giocava a calcetto? Da quando? Ma soprattutto come aveva fatto a convincere Anna a farla giocare? Anna odiava il calcio e ci rimproverava sempre quando, prima di finire in carcere, ci vedeva giocare assieme nel parco sotto casa sua invece di fare i compiti.
Raggiunsi gli impianti sportivi di Spoleto abbastanza velocemente. Al mio arrivo la partita era quasi finita. Mancavano una quindicina di minuti. Mia figlia era la stella della squadra, col dieci sulle spalle e una tecnica da far invidia ai compagni maschietti. Un rigore all’ultimo minuto decretò la vittoria della sua squadra. Non lo tirò lei, ma era felice lo stesso. E io per lei.
Mi godetti i festeggiamenti post vittoria da lontano, fino a quando non vidi la scena che mi pose di fronte a una realtà che non mi piaceva affatto.
Perché dimostrava che le mie convinzioni erano errate.
Le cose erano decisamente cambiate rispetto a come le avevo lasciate ed ero stato sicuro di ritrovarle, e tanto.
Li avevo già notati oltre la rete, in quei pochi minuti passati a vedere la partita. Come me, stavano assistendo alla performance di Ines, ma lo stavano facendo assieme, proprio come due genitori farebbero con la propria figlia.
E sempre insieme esultarono al goal decisivo della vittoria. Abbracciandosi come mai io avevo visto loro fare, perché non ne avevo mai avuto modo.
Quando ero entrato in carcere i due erano ancora ai ferri corti, o così ricordavo. Comunicavano per ragioni strettamente lavorative, in poche occasioni avevano un po’ abbassato l’ascia di guerra, ma non erano intimi come lo erano sicuramente stati prima del tradimento e come sembravano esserlo ora.
E okay, sapevo si fossero riavvicinati per via dei racconti di mia figlia durante gli ultimi due anni, ma come amici. Non così. Non così tanto come appariva da quella scena.
E se già quella mi fece drizzare le orecchie, la successiva scena più di tutte mi ridestò dal sogno dorato che mi ero fatto per il futuro. Mentre attendevo che la folla di genitori e figli defluisse dal campo, li vidi tutti e tre assieme in mezzo al rettangolo verde di gioco, abbracciati a festeggiare la vittoria come fossero una famiglia.
Erano una famiglia ai miei occhi.
E se non lo erano di fatto, poco ci mancava.
Una scena degna di un film. Idilliaca, oserei dire. Per gli altri. Non per me. Perché Anna poteva anche comportarsi come una mamma con la bambina, ma lui no.
Lui non poteva aver preso il mio posto.
Non doveva prendere il mio posto. Ines era mia figlia, non sua, e Anna era la mia ragazza, non la sua, e quelle libertà con loro due non gli spettavano. Se mi fossi mosso nel modo giusto, sarebbe stato di nuovo fuori dai giochi come la prima volta. Ero sicuro.
Era lì solo perché il posto era vacante. Era la riserva nella mia squadra, nella mia partita. Io ero il titolare, e ora che ero rientrato dalla lunga ‘squalifica’, era tempo mi riprendessi il mio posto.
Se molte certezze quel pomeriggio vacillarono, una rimase salda al suo posto: mia figlia non riservava rancore nei miei confronti. Anzi.
Non esitò a corrermi incontro appena mi vide, tra lo sconcerto di Anna e Marco rimasti immobili quasi avessero visto un fantasma.
Dopo il lungo abbraccio di riconciliamento con mia figlia, salutai con un cenno la coppia, ancora ferma e incapace di credere fossi veramente lì, tornato evidentemente per rovinare l’idillio perfetto che si era creato. 
Mia figlia insistette affinché Marco e Anna le permettessero di tornare a casa con me. Accettarono, a malincuore, la sua richiesta.
C’erano astio e diffidenza nei miei confronti, non ci volle molto a capirlo. Da Marco me lo aspettavo. Da Anna anche, ma non fino al livello che percepii dal suo tono freddo nel parlarmi. Dal gelo che i suoi gesti emanavano.
Però non diedi tutto per perduto dopo quel primo incontro, dopotutto l’avevo intuito che non sarebbe stato tutto rose e fiori. Ero ben deciso a riprendermi ciò che era mio. Anche se per la prima volta avessi dovuto intraprendere la strada più difficile.
Non avevo ancora capito, in quel momento, di non essere all’altezza di Anna. Mi ci vollero ancora un paio di incontri con lei, soprattutto perché mia figlia nel mentre mi lanciava segnali di speranza e io pur di assecondare i suoi desideri ero pronto anche a schiantarmi in un palo.
E così è stato.
Perché se Ines, dall’alto della sua innocenza, era certa Anna fosse solo momentaneamente arrabbiata con me perché ero andato via senza dirglielo, ma avrebbe capito la mia scomparsa se le avessi parlato, Anna dal canto suo era ben ferma nella sua posizione rispetto al suo rapporto con me. Se è vero che non aveva parlato male di me a mia figlia, lei aveva nettamente cambiato atteggiamento.
 
La mattina dopo la partita di calcetto, quando ero certo che Anna fosse ancora a casa e non in caserma, mi presentai al suo appartamento, con la ferma intenzione di spiegare la mia posizione e riaggiustare tutto tra noi. Giunto al suo pianerottolo, incontrai  inaspettatamente Marco che stava scendendo dal piano superiore, diretto al lavoro.
La cosa mi sorprese molto. Non sapevo vivesse in quel palazzo. Ines non me lo aveva mai detto e Anna, nemmeno a dirlo, di lui non mi parlava mai.
Il mio ‘nemico’ viveva a due passi dalla donna che amavo! Un brutto segnale a mio avviso. Soprattutto ora che, per la prima volta da quando ci conoscevamo, Anna appariva schierata dalla sua parte e non dalla mia.
Dal nostro breve incontro uscii però relativamente convinto che la mia partita con Anna non fosse ancora del tutto persa.
Marco non era felice di vedermi lì quella mattina, quello era poco ma sicuro. E anzi, sembrava piuttosto arrabbiato all’idea che stessi andando da Anna. Chiaro segnale che era ancora geloso, nonostante tutto. Tradotto nella mia testa: lui ed Anna erano ancora solo amici. In qualsiasi misura, ma il confine non lo avevano ancora passato.
C’era speranza che Ines avesse ragione. E la spallata che Marco mi diede andando via non scalfì la mia sicurezza di risolvere tutto. Di essere ancora in gioco.
A distruggere quella sicurezza ci pensò poco dopo una porta in faccia. Quella dell’appartamento di Anna.
Non me lo aspettavo, lo ammetto. Qualche reticenza sì, ma la porta in faccia no. Sì che il mio discorso faceva acqua da più parti, ma il senso c’era, aveva senso. Lei però non mi aveva nemmeno fatto concludere di parlare, limitandosi a rivolgermi un’espressione infastidita e due parole in croce per di più colme di risentimento.
Allontanandomi di fronte a quel rifiuto di dialogare, mi chiesi se forse le mie convinzioni non fossero errate. Se non avessi calcato un po’ la mano immaginandomi un futuro troppo fuori dalla mia portata.
Però quello era solo il mio primo tentativo di ricucire lo squarcio che avevo creato, forse ci voleva un po’ di tempo, mi ripetevo. Era normale avere qualche difficoltà subito. Col tempo avrei fatto breccia tra gli aculei della corazza di Anna, come la prima volta. Dovevo essere paziente. Attendere come mi aveva promesso di fare lei. L’avevo ferita, era normale ricevere un po’ di resistenza.
Non potevo arrendermi alla prima porta in faccia. Al primo schiaffo però magari...
No, fermi. Era per dire. Non ci fu nessuno schiaffo.
Non fisico perlomeno.  
E forse sarebbe stato meglio quello fisico, a pensarci bene, visto che quello ‘metaforico’ era stato prima dritto e poi a manrovescio.
La mano d’andata mi colpì, metaforicamente parlando, quando scoprii da mia figlia che l’anello di famiglia che le avevo consegnato, Anna lo aveva restituito a Ines.
Era di Irene, anche se non penso lo abbia mai messo. Glielo avevo regalato insieme al famoso bracciale, qualche mese prima del mio arresto. Un altro pezzo della refurtiva. Non pose domande sulla provenienza di quei gioielli, ma penso sospettasse non fossero opera di attività molto lecite, visto che non avevo il becco di un quattrino all’epoca.
Come con Irene, anche con Anna quell’anello non doveva essere simbolo di una proposta di matrimonio, quanto più una promessa: quella di voler costruire un legame più serio di quello vissuto fino al momento in cui lo regalavo. Irene me lo riconsegnò quando le dissi che non ero pronto a riconoscere il figlio che portava in grembo come mio.
L’anello tornò in mio possesso al termine della prima pena, insieme a quei pochi beni che mi erano stati confiscati una volta finito dentro.
Al mio secondo soggiorno in carcere, l’anello era di nuovo finito sotto custodia, ma riuscii a fare in modo che Anna lo avesse. Non fu facile farle ottenere l’autorizzazione a prendere la scatolina blu che lo conteneva tra gli oggetti sottoposti a ‘confisca’, ma alla fine finì tra le sue mani. Non avevo potuto consegnarglielo personalmente, ma una volta certo lo avesse avuto, le chiesi di custodirlo fino al mio ‘ritorno’ e di considerarlo simbolo del nostro futuro insieme.
Sapere che lei lo avesse riconsegnato a mia figlia poco dopo la mia fuga non poteva certo essere un buon segno.
E se quella scoperta era lo schiaffo a man dritta, quello a manrovescio era paragonabile a una doccia ghiacciata.
Convinto da mia figlia, provai a restituirglielo la sera stessa della scoperta. Anna stava uscendo dalla canonica, dopo aver messo a letto mia figlia. Ero arrivato troppo tardi, lasciandomi sfuggire la possibilità di ricreare un momento famigliare che ero certo avrebbe potuto aiutarmi a rompere il ghiaccio piombato sulla nostra storia. Avevo dimenticato la ‘routine’ di Ines, e avevo commesso un altro errore che mi sarebbe certamente costato.
Non potendo fare altrimenti, provai a giocarmi comunque la carta della compassione per mia figlia. Le mostrai la scatolina blu, dicendole che Ines me l’aveva restituita affinché gliela riconsegnassi, come erano d’accordo.
Ma fu inutile.
Lì capii che in quei mesi Anna era cambiata. O forse era tornata se stessa. Quella vera, come tutti dicevano.
Perché quella di fronte a me non era la Anna che avevo imparato a conoscere, quella disposta a darmi ascolto e credermi incondizionatamente. A concedermi possibilità senza remore.
Ma soprattutto, quella che si lasciava commuovere dai miei discorsi da vittima e abbindolare dai miei metodi da casanova dei poveri.
Ero a un passo dallo schianto. Ma non mi fermai, provai a prendere il toro per le corna, spiegandole che mi aveva fatto paura l’idea di affidarmi a un’altra persona e per quello ero fuggito.
Ma era tardi. E lo schiaffo, che non mi diede ma sentii comunque dopo aver provato a baciarla, mise la parola fine a ogni mia possibilità di riaverla.
Non lo voleva, quell’anello.
Non voleva i miei baci.
Ma soprattutto non voleva più me.
Mi respinse, intimandomi di non provare mai più a baciarla. Con una voce debole che però non celava il disgusto per ciò che avevo fatto e insistevo a rifare.
A quel punto, tentai l’ultima e disperata carta: infilarle la scatolina di nascosto nella tasca della giacca e sperare che una volta calmatasi, avrebbe cambiato idea.
Un sogno che non divenne mai realtà.
Non riuscii più a ricucire la storia con Anna. Qualche giorno dopo mi riconsegnò l’anello e mi intimò di non fare del male a Ines, o mi sarebbe venuta a cercare e uccidere lei stessa, con le sue mani.
Le sue parole erano dure come la pietra, anche se la sua voce non era più piena di risentimento come prima.
Nei giorni precedenti mi aveva proposto una tregua, per il bene di Ines. Non sarebbe cambiato nulla fra di noi, ma mi concedeva il beneficio del dubbio che fossi veramente tornato per restare. Penso c’entrasse anche qualche discorso tenutosi tra lei e Ines di cui non ero a conoscenza. Fatto sta che la tregua mi permetteva di provare a essere veramente padre. I servizi sociali avrebbero preso una decisione sulla mia idoneità o meno.
Fui felice di aver avuto quella possibilità.
Sapevo che anche il più piccolo errore mi sarebbe potuto costare caro, ma ero pronto a provarci. Ad aprirmi alle difficoltà che essere padre comporta, a intraprendere la strada giusta e in salita, destinata a schiarire il grigio della mia esistenza.
E sapevo anche che Ines stessa non mi avrebbe reso la vita semplice. La bambina che mi aveva sempre amato incondizionatamente, in quei giorni era venuta da me mettendomi di fronte a una triste verità: se è vero che in amore vince chi fugge, ed è altrettanto vero che quando vuoi bene a qualcuno torni sempre, a volte tornare non basta.
E mia figlia temeva scappassi di nuovo. Che per paura di non essere capace a fare il padre, l’avrei nuovamente abbandonata. Era un pensiero semplice il suo, ma espresso in toni strani anche per una bimba come lei, molto più matura della sua età anagrafica.
Ero certo che dietro quelle parole ci fosse Anna. E lì capii perché non era destino percorressimo la medesima strada. Mentre lo era per lei e Marco.
Non so perché, ma in piedi davanti alla canonica, quando comunicammo a Ines che poteva venire a vivere con me, mi tornò in mente una citazione di Bukowski, che a Irene piaceva molto, e che bene si adattava a tutto quello successo in quei giorni:
Volevo ricordarti che l’amore è rimanere e non sparire per vedere se uno poi ci tiene, o qualcosa del genere comunque.
Ero sempre fuggito. E dietro non mi era mai corso nessuno, non fino alla fine della strada perlomeno. Però una persona, alla fine di una delle mie maratone, era rimasta ad attendermi, dimostrando di tenere a me. E io non potevo deluderla scappando di nuovo.
Forse non mi meritavo quel suo affetto incondizionato, ma potevo provare a guadagnarmelo. Non volevo sprecare quell’opportunità che Anna aveva fatto in modo di concedermi, anche se non capivo perché si fosse impegnata a farmela avere in modo tanto determinato.
Solo qualche giorno dopo il nostro ultimo incontro da Spartaco, mesi fa ormai, mi resi finalmente conto del perché mi aveva aiutato. O meglio, perché aveva aiutato mia figlia, in quella situazione.
Non voleva Ines crescesse col rimpianto di sapere di avere un padre, ma non poter stare con lui, perché qualcuno o qualcosa lo impediva.
Sapeva cosa volesse dire crescere senza quella figura così importante, e desiderare con tutte le proprie forze di poterlo avere a fianco.
A lei questa possibilità era stata tolta e non voleva Ines vivesse quanto accaduto a lei, se poteva evitarlo. E valeva la pena fare un tentativo serio, se io dimostravo di avere intenzioni altrettanto serie.
Per quanto pessimo potessi essere come padre e uomo, esserci sarebbe stato sufficiente rispetto a non esserci affatto per Ines. Perché sì, sapeva lei stessa che Marco sarebbe stato senza ombra di dubbio un padre di gran lunga migliore di me per la bambina, ma io c’ero, e avevo ancora la possibilità di restare, per mia figlia. Di migliorare, per lei. Costruire, e ricostruire pian piano quello che era mancato nel tempo.
E questo discorso vale anche in un rapporto di coppia.
Per questo, la guerra alla fine l’ha vinta lui.
Che era rimasto dopo tutti gli errori commessi, sperando un giorno di riguadagnarsi la fiducia perduta, invece di scappare e poi sperare che il tempo e la lontananza potessero sanare le ferite, e magari ricominciare da dove aveva lasciato.
Il giorno del mio ultimo incontro con Anna, da Spartaco, quando mi riconsegnò l’anello senza troppi giri di parole, mi resi conto di quanto ero stato ingenuo a pensare che per lei la storia con me potesse rappresentare più di una semplice parentesi.
A distanza di anni dalla fine ‘tragica’ della sua storia con Marco, si era di nuovo innamorata di lui. O lo era ancora, perché non sono certo avesse mai smesso di amarlo. Quel giorno più che mai, ero curioso di sapere cosa avesse quell’uomo di tanto speciale da essere riuscito a riconquistarla nonostante il male che le aveva fatto. In altre parole, cosa avesse più di me.
Inutile precisare che non me lo disse, anzi non rispose proprio alla mia curiosità esplicita che chiedeva se ci stessero riprovando.
Non credo che siano affari tuoi.
Così glissò la domanda su di lui, chiudendo il sentimento dietro uno sguardo per me impenetrabile. Non erano affari miei, e non dovevo chiedere. Perché la sua storia con Marco era un argomento taboo che con me andava troncato.
Aveva sempre fatto così, del resto. Fin da quella volta in cui le chiesi se fosse sicura lui fosse solo una persona a cui aveva voluto bene e non che amava ancora. La conversazione terminò lì.
E sebbene fossi certo che quella non sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei vista, il suo saluto suonò come un addio.
Quando al suo posto, al tavolino del bar, rimase la semplice sedia vuota, dentro di me sentii il colpo dello schianto.
Come se fossi andato a sbattere contro un muro a duecento all’ora.
Di quei mesi ed anni non era rimasto niente se non il mio senso di colpa.
Perché me l’ero cercata. Per quello che avevo fatto la prima volta, e per la mia fuga quando invece sarei dovuto restare.
 
Tre mesi fa, dopo la mia conversazione con Anna, sono riuscito a convincere Ines che non sarei più scappato.
La giornata fino a quel momento non era andata benissimo – tra il palo ricevuto da Anna e i mille improperi ricevuti da sua madre e Natalina per via di un equivoco legato all’anello – ma si era conclusa meglio di quanto potessi aspettarmi.
Riuscii a convincere Ines delle mie buone intenzioni, promettendole di impegnarmi seriamente a darle quella famiglia che lei tanto desiderava. Anche se non con Anna come mamma.
Allo stesso tempo però volli dimostrarle quanto per me contasse il suo amore facendo la cosa forse più difficile per me: fermarmi e prendere la decisione giusta.
Anche Forrest Gump nel film dopo aver corso, corso e ancora corso si fermò perché stanco.
Io pure lo ero a quel punto. Stanco di scappare, stanco di dover sempre ricominciare da capo ogni volta. Stanco di dover dimostrare di essere cambiato, quando potevo essere una versione migliore di me anche restando lo stesso di sempre.
Così mi trovai un nuovo lavoro a Spoleto, in modo che Ines potesse continuare a vedere e vivere di quei legami che si era costruita in mia assenza, che per lei erano importanti e a cui non era giusto rinunciasse per causa mia.
Nel frattempo i servizi sociali avrebbero avuto modo di tenermi sotto stretta sorveglianza per capire se fossi idoneo a occuparmi di mia figlia.
Avevo intenzione di pianificare il mio futuro e come mai prima di allora, ero in procinto di provare ad aprire la porta che avrebbe dovuto condurmi su una strada, se non giusta, migliore di quella fino ad allora percorsa. Per il bene di mia figlia. A cui speravo susseguisse il mio.
 
 
Sono passati tre mesi dal giorno in cui la porta di un futuro con Anna mi si è chiusa in faccia e quella di una vita con mia figlia ha iniziato ad aprirsi, lentamente, davanti a me.
Non è tutto rose e fiori, anzi la strada dinnanzi a me è in salita. Ma ci sto provando.
Giorno per giorno cerco di prendere una migliore confidenza con il ruolo di padre. Un lavoro duro, per niente facile, tanto che a volte mi viene voglia di riprendere a correre. Scappare. Ma ho promesso ad Ines che non lo avrei più fatto, e questa volta non ho intenzione di rimangiarmi la parola.
Non ora che, a fatica, sono riuscito a conquistarmi la fiducia di mia figlia e delle persone a lei care.
Persone che hanno ancora la loro buona dose di remore nei miei confronti – e non li biasimo – ma che stanno facendo a loro volta lo sforzo di provare a fidarsi di me. Perfino Marco che, addirittura, un mese fa mi ha teso la mano parlando con i servizi sociali affinché mi concedessero un periodo di prova per stare da solo con mia figlia e occuparmi senza aiuti di lei.
Uno step importante per me, per il mio futuro con Ines. Una nuova fase che oggi, finalmente, è in procinto di partire.
Perché oggi è il grande giorno.
Oggi inizia il periodo di prova che Marco è riuscito a farmi concedere, perché senza la sua intercessione so bene non lo avrei mai ottenuto. A partire da questo momento, Ines finalmente vive con me. Non so quanto durerà, se durerà. Ma è un primo passo.
Ci è voluta qualche settimana perché dalle carte si passasse alla realtà, ma il mio deciso impegno e soprattutto l’aiuto che mi ha offerto Marco sono serviti ad arrivare fin qui.
E nonostante le nostre differenze e incomprensioni, gli sono grato di questa opportunità.
Non me lo aspettavo da lui, non era facile ottenere la sua di fiducia, non so come ci sono riuscito.
Soprattutto considerando che negli ultimi tempi nemmeno Anna era più convinta fosse il momento per provare a fare il ‘grande passo’. Proprio lei che era sempre stata la prima a volerci far riconciliare, ora nutriva quei dubbi che prima si era sempre rifiutata di concedere.
A dissipare la sua reticenza alla fine è stato poi lui. Una situazione paradossale a guardare indietro. O forse non così tanto.
Perché non le ha fatto cambiare idea su di me, né lui ha cambiato idea su di me. Si è convinto e l’ha convinta per il bene di Ines. Perché Anna per prima ha sempre creduto che questo step fosse quello giusto per la bambina. E lui per il loro bene, la loro felicità, è sempre stato disposto a fare tutto.
Non mi sono quindi conquistato la sua – la loro - fiducia, ma il loro beneficio del dubbio. Che è comunque più di quanto avrei mai potuto immaginare di poter ottenere da loro dopo tutto quello che è successo. E non potrei esserne più grato.
Perché se oggi sono qui, seduto sul lettino di mia figlia, nel mio appartamento, lo devo a loro e a quel beneficio del dubbio di essere cambiato.
Non posso offrire a Ines una reggia, ma un banale e piccolo bilocale – molto piccolo -, niente di esoso. Qualcosa di adatto alle mie tasche e ad accogliere anche lei. Ma è un inizio.
L’unica camera da letto l’ho lasciata per lei. Per me il divano-letto sarà più che sufficiente.
Voglio che si trovi bene a vivere con me, e soprattutto spero che duri.
E ne sono convinto più che mai, ora che la osservo muoversi tranquillamente nello spazio della sua cameretta come se fosse qui già da una vita e sistemare le sue cose canticchiando sottovoce.
I miei occhi la seguono affascinato, mentre lei sposta i libri di scuola dal suo borsone alla libreria con meticolosità. Ha quasi finito, quando alzando uno degli stessi sul secondo piano dello scaffale, noto qualcosa caderle a terra.
Una busta grigia. O meglio argentata, come prontamente mi corregge quando le chiedo cosa sia. Prima che io riesca a fare un movimento per prenderla, lei la raccoglie in fretta, stringendola a sé in maniera stranamente possessiva.
La vedo titubare, indecisa se rispondermi e spiegarmi cosa contenga.
Cosa potrebbe contenere di così brutto da non volerlo condividere con me?
Mi osserva, dibattuta tra il parlare e il tacere. Dopo qualche secondo decide infine di consegnarmela, spiegandomi di averla ricevuta a Natale, e pregandomi di leggerla da solo mentre lei va in cucina a prendere qualche biscotto dalla credenza per una pausa merenda.
Faccio come mi chiede. Sento i suoi movimenti nella stanza accanto mentre la apro. Per poco la busta e il cartoncino iridescente che c’era al suo interno non mi scivolano dalle dita, una volta capito cosa sia.
È un invito.
A un matrimonio.
Al matrimonio.
Quello di Anna e Marco.
Sapevo che fossero tornati insieme, non era certo un segreto, anzi. Lo scoprii poco dopo quell’ultima chiacchierata da Spartaco con Anna, per essere precisi.  Alla fine la risposta alla mia domanda l’avevo in qualche modo avuta, anche se con qualche giorno di ritardo: sì, avevano deciso di riprovarci.
Come ampiamente previsto.
E come ampiamente sperato anche da parte di tutta Spoleto, visto che la notizia era stata accolta con gioia in lungo e in largo.
Era inevitabile che dalla riappacificazione si arrivasse a questo momento, al loro grande passo.
Anche perché nemmeno un mese dopo l’ultima volta che l’avevo vista da Spartaco, un anello di fidanzamento era comparso all’anulare sinistro di Anna. Difficile non notare quel diamante che, seppur di piccole dimensioni, brillava come la luce nel suo sguardo riapparsa da un paio d’anni a questa parte, da quando lei e Marco avevano fatto pace.
In guerra e in amore alla fine ha vinto lui.
Eliminato l’ultimo ostacolo – me – dalla via, Marco è riuscito a riprendersi il suo posto accanto a lei.
Perché alla fine dei giochi, l’usurpatore ero io, non lui.
Il posto accanto ad Anna è sempre stato solo ed esclusivamente suo. Anche quando tutto attorno a lei era diventato nero a causa del tradimento.
In quel buio, in mezzo al dolore che lei provava, il mio grigio non aveva saputo fare sufficientemente luce.
Ma il bianco della purezza dei sentimenti di Marco per lei, col tempo, sì.
Perché Marco la sua seconda possibilità se l’è guadagnata. Un semplice errore non voluto, una mezza bugia disperata, sono niente rispetto alle mie mille menzogne e al mio averla quasi condotta alla morte.
La data sul cartoncino che stringo fra le mani tremanti dice che non manca molto al lieto evento. Non sono certamente felice di apprendere questa notizia, perché comunque ancora la amo.
Ma so che non posso essere io a renderla felice. Non sono mai stato io quello destinato a farlo.
Lui invece sì.
Perché lui ha avuto la pazienza di aspettare, di rimanere anche quando tutto sembrava perduto. E ha avuto il coraggio di esserci, sempre, a prescindere anche dalla sua, di felicità.
Io no.
Io ho corso per chilometri senza mai voltarmi indietro a guardare se qualcuno mi stesse effettivamente seguendo.
E quando ho avuto la forza di arrestare la mia corsa e mi sono voltato, ho capito di essere nel torto.
In amore non vince chi fugge. Ma chi ha coraggio di restare.
Perché un arcobaleno di colori nasce sempre col ritorno del sole, dopo la più grigia delle tempeste.
 
Eccoci giunti alla seconda e ultima parte della voce di Sergio La Cava. Ci fa piacere sapere che avete superato l’esitazione e avete letto attentamente la prima parte, e speriamo la seconda sia stata di vostro gradimento. Non sappiamo se quello che vi aspettavate, e speriamo di avere opinioni in merito!
Che piaccia o meno (e a noi non piace lo stesso), Sergio è un personaggio realistico. Quanti, nella vita, preferiscono essere grigi? Non è un difetto, fintantoché non si faccia del male agli altri. Se questo accade, bisogna scegliere da che parte stare, nel bene e nel male. Da quello che abbiamo visto nella fiction, speriamo Sergio l’abbia capito, e che di conseguenza stia moooolto lontano da Spoleto a vivere la sua vita. Si porterà dietro Ines, e questo un po’ ci dispiace, ma se è il prezzo da pagare per sapere i nostri insieme, lo accettiamo.
Attendiamo le vostre opinioni!
A presto,
 
Vocina e Grillo
 
 
   
 
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