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Autore: mattmary15    19/09/2022    0 recensioni
La notte di Halloween gli unici due senza maschera sono Bruce e Clark.
Bruce ha bevuto troppo, Clark vorrebbe essere ubriaco. L'inevitabile ha il volto della notte di Gotham.
Questa one shot è stata scritta per partecipare al #7emezzochallenge del gruppo Nonsolosherlock multifandom.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Batman, Superman
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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L’alcol dà, l’alcol toglie

Questa storia partecipa alla #7emezzochallenge del gruppo Nonsolosherlock multifandom.

Prompt: X scopre che il nemico non è veramente chi crede; un uomo dà una gomitata a X in mezzo alla folla. C’è una ragione dietro a quel gesto;  X ha la tendenza a bere troppo e dire esattamente quello che ha in mente; X e Y fanno sesso.
Buona lettura. 
Mary

 

Gotham, di notte, ha il profilo di New York. Di quella peggiore.

Di notte la città è come un porto franco dove, a seconda di chi sei o cosa vuoi essere, puoi ottenere ciò che cerchi.

Qualcuno la attraversa di corsa per tornare a casa, al sicuro. Qualcun altro ci corre attraverso scappando da o verso il pericolo nascosto fuori dalla luce di ogni lampione. 

Bruce sa benissimo perché adesso è seduto al bancone del Mooney’s fissando il suo bicchiere di Macallan Amber.

Ha consumato, una dopo l’altra, tutte le bottiglie di Aultmore della cantina Wayne facendo un torto ad Alfred che le ha conservate per anni nella speranza di poter avere un’occasione davvero speciale per aprirne una.

E’ buffo come i fumi dell’alcol abbiano il potere di far dimenticare ogni cosa logica e ovvia della nostra vita e far riemergere ricordi che da sobri non vorremmo né potremmo rivivere. Ad esempio, questo era quello che gli diceva suo padre. L’alcol dà e toglie, mai in maniera uguale e soprattutto sempre in modo ingiusto.

Batte il tumbler sul tavolo e un ragazzo sulla trentina gli riempie il bicchiere. 

Bruce lo fissa da un pò. Ha un paio di occhi blu vivi e luminosi. Gli ricordano il motivo per cui è uscito di casa, la notte di Halloween, senza costume.

Camminando lungo la quinta strada ha incrociato sei Batman, due Robin, tre Catwoman e undici Joker. Il mondo è diventato uno schifo.

Anche Bruce si sente uno schifo e il whisky non c’entra niente.

Negli ultimi sei mesi ha dato la caccia a Superman in ogni modo possibile. Ha studiato ogni sua abilità, ogni sua mossa. Ha cercato ogni punto debole, ogni mezzo con cui ferirlo. Ha scoperto ogni suo segreto ed è arrivato alla sua identità.

Guarda ancora il ragazzo dagli occhi blu che ogni tanto gli sorride. Bruce beve tutto d’un fiato dal suo bicchiere e gli fa cenno di riempirlo da capo.

Il ragazzo gli si avvicina ma una donna gli toglie la bottiglia di mano e lo serve al suo posto.

“Signor Wayne, quando mi hanno detto che era qui non ci ho creduto.”

“Perché questo è un locale da quattro soldi o perché è un locale che ricicla i soldi di Carmine Falcone?” 

La donna gli sorride posando la bottiglia. Le sue unghie laccate tamburellano accanto al bicchiere di Bruce.

“Ha sempre l’abitudine di dire così schiettamente quello che pensa o ha bevuto un po’ troppo?”

Bruce ricambia il sorriso e fa tintinnare il bicchiere contro la bottiglia. Non ha alcuna voglia di recitare la parte dello stupido playboy annoiato stanotte. Tantomeno con Fish Mooney. 

“Sono qui per bere in santa pace. Speravo di passare inosservato.”

“Lei non passa mai inosservato, signor Wayne,” gli risponde la donna versandosi anche lei  un bicchiere di whiskey, “men che meno in un locale di Carmine Falcone. Però, se proprio vuole, abbiamo un privé che potrebbe fare al caso suo.”

Per un momento Bruce pensa davvero di infilarsi in una delle camere del bordello del Night anche solo per vedere come finisce. Sospira e si alza.

“Persino io mi accorgo quando ci si sta per infilare in un vicolo cieco e questa città mi ha già riservato brutte sorprese nei vicoli.”

Bruce si alza, sfila dalla tasca tre banconote e le lascia sul bancone. Ne allunga una quarta al barista che guarda il suo capo prima di accettarla. Lo fa timidamente e Bruce non può evitare di pensare che anche in quello gli ricorda Clark Kent. Prende il cappotto e infila l’uscita d’emergenza. 

L’aria fredda della notte gli punge il viso anche se lui è troppo ubriaco per sentirlo.

Le urla della festa in piazza lo richiamano sulla strada principale. Camminando, si mischia alla folla. C’è qualcosa di confortante nell’essere in mezzo a tutta quella gente travestita senza indossare una maschera. Come se quel gesto si traducesse improvvisamente in una manifestazione di coraggio. 

La sfilata lo trascina fino alla Municipal Square. Nessuno sembra accorgersi che ha iniziato a piovere. Guardano le mongolfiere a forma di pagliacci che si sollevano tra i palazzi e pare che gongolino a vedere tutta la gente che festeggia, urla e balla sotto di loro.

Un uomo, in uno sconsiderato gesto di confidenza, gli passa un braccio intorno al collo. “Ehi amico, tu non ce l’hai una maschera? Ne vuoi una? Sono due dollari.” Dice porgendogliene una di gomma. Bruce la guarda e si scosta. 

“Non mi piacciono i pagliacci.” 

L’uomo gli dà una gomitata.

“Magari quello è più il tuo tipo!” Esclama indicando una figura alle sue spalle. Bruce non sa perché lo fa, ma si volta. Un ragazzo che indossa un costume rosso e blu con una S sul petto avanza verso di lui.

“Serve aiuto?” Gli chiede ridendo e Bruce realizza che quello non é un tizio qualunque ma Superman.

“Che ci fai qui?”

“A quanto pare stasera abbiamo sentito entrambi la necessità di uscire senza indossare le nostre maschere.”

“Piove.” Risponde Bruce cui l’alcol ha tolto la forza di mantenere le apparenze e ha dato la voglia di fregarsene delle ovvie conseguenze.

“A te da fastidio?”

“No. Forse dovrebbe. Sono troppo ubriaco per decidere.”

“Non stai bevendo un po’ troppo ultimamente?”

“In effetti sono stato sobrio circa due ore negli ultimi quattro giorni.”

“Non sembra da te.” Bruce scoppia a ridere. Alcune gocce di pioggia gli cadono dai capelli appiccicati alla fronte fin sulle labbra. 

“Che ne sai tu di me?”

“Non sei uno che ama avere tutto sotto controllo?”

Bruce lo guarda come se lo vedesse per la prima volta. Le persone intorno a loro continuano a ballare e cantare. Lui è costretto ad alzare la voce per farsi sentire.

“Tutto sotto controllo? Tutto sotto controllo? Hai la più pallida idea di cosa significhi avere scoperto chi sei?” Clark allarga appena le braccia.

“Posso capire che tu sia ancora diffidente nei miei confronti, che pensi che prima o poi darò di matto e brucerò tutto il Pianeta.” 

Bruce riesce a malapena a sostenere il suo sguardo. L’alcol toglie e l’alcol dà si ripete.

“Puoi capire? Tu credi? Mio caro Clark, buono, generoso e nobile Clark, tu non sai un cazzo. Io ho passato gli ultimi sei mesi alimentando la mia rabbia e il mio senso di frustrazione per l’attacco alieno a Metropolis con il solo scopo di trovarti e ucciderti. Mi hai sentito? Io non volevo niente altro che farti sanguinare, soffrire come ho sempre sanguinato e sofferto io! Non sai che significa vedere la persona che hai odiato tanto a lungo, battersi per te, sacrificare se stesso per te e per le persone che hai messo in pericolo malgrado tutti i tuoi sforzi.” Bruce vede l’aria che esce dalle sue labbra farsi fumo a un passo da quelle di Clark. Non va bene, ma non riesce a fermarsi. E’ la notte dei fantasmi e tutti quelli che si porta dietro hanno deciso di venire fuori assieme. “Non sai che significa sentirsi in colpa. Non sai che significa accorgersi di aver sbagliato su tutta la linea perché la persona che hai condannato senza sforzarti di capire, è esattamente l’opposto di quello che pensavi. Non sai che significa sentire che quell’odio si è lentamente mutato in qualcosa che non puoi controllare, in qualcosa che, come te, fa luce nell’oscurità di ciò che sono. Tu non lo sai.” Conclude voltandosi per respirare a bocca aperta. Gli manca l’aria e ha bisogno di bere. Di nuovo.

Mentre parlava ha lasciato cadere il cappotto in terra così si china a raccoglierlo dall’asfalto bagnato e lo scuote.

La voce di Clark quasi non si sente in mezzo alla confusione. 

“Io so che significa sentirsi in colpa. So che significa non avere la più pallida idea di quello che succederà la prossima volta che ci incontreremo. So che significa aver fatto tutto il peggio che hai in repertorio perché ti rifiuti di considerare un punto di vista diverso dal tuo. So che significa avere la certezza di poter controllare tutto tranne la persona che hai davanti adesso. E di certo so che non ti odio. Sono venuto a cercarti perché Alfred mi ha chiamato per chiedermi di cercarti. Era preoccupato per te e immediatamente lo sono stato io. Ho cercato tra la folla il battito del tuo cuore per trovarti.”

Bruce non si muove, stringe il cappotto. Si volta e torna verso Clark.

“Vorresti farmi credere che tu sai come batte il mio cuore?”

Gli occhi blu che lo guardano si fanno più intensi. Niente a che vedere con quelli del cameriere del Mooney’s.

“Domani te lo sarai scordato.” Risponde Clark che vorrebbe aver potuto ubriacarsi prima di affrontare una conversazione così.

“No, se resti con me fino al mattino.” Gli dice Bruce prendendogli un polso e tirandoselo dietro in mezzo alla folla.

Clark lo segue senza fare alcuna resistenza. Da quando è tornato, ha maturato la consapevolezza che essere accettato da tutti per ciò che è non è possibile e, per la prima volta, la cosa non lo spaventa. Ad averglielo spiegato è stato Bruce, con il suo cambiamento e con quella sua capacità assurda di vivere dei suoi sensi di colpa, del suo rimorso. Clark non sopporta il modo in cui soffre e, allo stesso tempo, lo adora. 

Il fatto che l’uomo sia l’unico che gli abbia mai veramente tenuto testa in vita sua, glielo ha impresso prima nella mente e poi in tutto il resto dei suoi muscoli, cuore per primo.

E’ talmente perso in questi pensieri che quasi gli va addosso quando Bruce si ferma e si volta.

“Saliamo?” Gli chiede col viso accaldato per il passo affrettato e per il whiskey.

Clark solleva lo sguardo e vede il palazzo di fronte a lui.

“Hai una stanza al Gotham Plaza?”

“Sì, no. L’albergo è mio.” Clark scoppia a ridere.

“Entriamo anche se sono vestito così?”

“E’ Halloween. E solo tu puoi pensare a questo piuttosto che al fatto che ti sto portando nel mio pied-à-terre.” Clark non può evitare di arrossire.

“Sarebbe un po’ tardi per quello.” Risponde mentre l’altro lo trascina dentro l’hotel.
 

 

Le lenzuola stropicciate gli si sono arrotolate intorno alle gambe.

Bruce scalcia per liberarsene e si muove pigramente nel grande letto della sua suite.

Cerca qualcosa sul comodino e il rumore di vetri infranti lo costringe ad aprire gli occhi.

Il sole del mattino filtra dalle persiane socchiuse. Un venticello freddo entra dalle imposte lasciate aperte e rabbrividisce.

A dire il vero non sa se il brivido che gli attraversa la schiena dipende dal vento o dal fatto che un paio di occhi blu lo fissano dall’altra parte del letto disfatto.

“Buongiorno.”

“Buongiorno.” Risponde mettendosi seduto e rendendosi conto di essere completamente nudo. “E’ successo quello che credo sia successo?” Chiede alludendo ai vestiti sparsi sul pavimento, la bottiglia di vino rotolata sul tappeto e un paio di segni evidenti sulle sue braccia. Rimarranno dei lividi.

“Non è successo niente che tu non ricordi.”

Clark si mette seduto al suo fianco e gli toglie una piuma dai capelli. Il cuscino a cui appartiene è a brandelli accanto alla porta del bagno. Bruce abbassa il capo e lo scuote. Clark rimane in silenzio. Non sa bene cosa dovrebbe dire adesso. Bruce solleva il capo e lo guarda. Per un attimo ha pensato di farglielo credere, di fargli credere che non ricorda niente di quella notte incredibile che hanno trascorso l’uno accanto all’altro, stretti come non sarebbe possibile immaginarlo, però lo ha promesso e non ha più voglia di infrangere promesse.

“Sei rimasto fino al mattino per cui so che ascolti il mio cuore e che potresti riconoscerlo tra mille. Da stanotte, credo di poterlo fare anche io.”

Clark sorride.

“Tecnicamente non credo sia possibile.”

“E’ possibile,” dice sporgendosi verso di lui e baciandolo con passione, “io sono Batman.”

Clark si lascia spingere sul letto. Sul suo petto non c’è una cicatrice ma la ferita inferta da Doomsday sanguinava ancora. Non più.

Gotham, di giorno, ha il profilo di New York. Il migliore. Quello dove gli spazi rimasti vuoti, si riempiono.

 

  
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