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Autore: Kanako91    24/09/2022    1 recensioni
Chi erano l’Esterling Nero e il Re Stregone di Angmar prima di diventare famosi come Nazgûl?
Come sono entrati in possesso dei rispettivi anelli?
Nove erano gli anelli dati agli Uomini e questa è la storia di due di loro, tra Númenor e l’Est della Terra di Mezzo.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Khamûl, Sauron, Stregone di Angmar
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Parte I. Il tenente - 3. Timori e verità


Nomi utili:

Khamûl: futuro tenente dei Nazgûl (unico con un nome canonico)
Hurren: zia di Khamûl
Badem: secondo marito della zia di Khamûl
Rahamadi: generale haradrim, suocero di Khamûl
Harshani: moglie di Khamûl, figlia di Rahamadi
Gente del Sole: gli Esterling
Gente del Serpente: gli Haradrim
Doragzûl: grande città a Est della Terra di Mezzo
Vaharabadi: capitale dell’Harad e poi dei Regni del Sole
Uomini della Morte: i Númenóreani
Doragmalik: titolo per "Gran Re"
Sempregiovani: gli elfi che hanno rinunciato alla chiamata dei Valar e sono rimasti a Est della Terra di Mezzo (Avari)
Demoni pallidi: gli elfi partiti per l'Ovest e che abitano l'Ovest della Terra di Mezzo (Eldar o Amanyar)




3. Timori e verità




Alla fine, l’idea di far restare Harshani in silenzio in presenza di altri si rivelò sciocca e inutile. Era molto più pratico lasciarle giocare un ruolo complementare al suo quando erano entrambi presenti alle udienze o alle sedute di concilio con i suoi ufficiali e governatori.

Insieme ottenevano più di quanto Khamûl avrebbe ottenuto da solo.

Anche se i figli, la ragione per cui si erano sposati, non arrivarono subito. Dopo un anno senza alcun segno, Harshani era diventata impaziente e ansiosa, come se davvero il suo ruolo si limitasse a quello di fattrice. Per quanto avesse ironizzato a proposito la prima notte, quella era la più grande paura che la agitava.

«Perché continui a voler venire a letto con me? Non serve a niente» disse Harshani, una sera.

«Potrei essere io» le disse, stendendosi al suo fianco. «Non ho di certo alcuna prova di poter concepire».

Lei lo guardò oltre la spalla, cauta.

«L’unica prova che serve arriva sempre quando ci accoppiamo, di cos’altro c’è bisogno?»

Khamûl scrollò le spalle. «E tu, una volta ogni luna, dimostri a tua volta che sei in grado di concepire».

Harshani tornò a dargli le spalle, avvolta nella vestaglia di seta rossa, i capelli che ricadevano sul materasso, seguendo la linea della schiena come un fiume nero e lucido.

Lui si sistemò dietro di lei e le avvolse un braccio intorno alla vita. Con un gesto esitante, Harshani gli coprì la mano con la sua.

«Se il tuo ventre rimane vuoto, non hai meno valore per me» le disse, strofinando le labbra contro il suo collo. «Credo possa vedere anche tu che il tuo ruolo in questo regno non si limita a quello di fattrice».

«Ma tutto quello che hai costruito avrà bisogno di eredi, non può finire con te» disse lei e chiuse gli occhi. «Forse dovresti iniziare a considerare una seconda moglie».

Khamûl si ritrovò a ridacchiare. «Donna, me ne basta una di moglie».

Lei rimase immobile e lui si sollevò su un braccio, per guardarla meglio in viso.

«E mi basti tu».

Le palpebre di lei fremettero per la voglia di aprirsi, ma fu prova della sua forza di volontà se rimasero chiuse.

«Dico davvero, Harshani».

Al che lei si girò per guardarlo in faccia.

«Anche se mi manca qualcosa tra le gambe?»

Khamûl soffocò una risata. «A chi importa cosa abbiamo tra le gambe? A me non di certo». Le prese il mento tra pollice e indice. «Conta qualcosa solo quando si tratta di far figli e non sono molto interessato all’argomento, mi pare di averti fatto capire».

E procedette a dimostrarle a cosa fosse interessato davvero.


* * *


Quasi per beffarsi delle rassicurazioni di Khamûl ad Harshani, in quel periodo, spuntò un giovane che sosteneva di essere il figlio del Doragmalik.

Peccato che a nessuno risultasse che il suo predecessore avesse avuto mogli e generato figli. E, se si fosse trattato di un bastardo, era impossibile provarne l’ascendenza visto che il Doragmalik non lo aveva riconosciuto.

Nonostante ciò, c’era gente che –forse in un moto di nostalgia– ci credeva e presto si diffusero voci sulle capacità incredibili di questo giovane, al punto che Khamûl lo invitò a Vaharabadi per assicurarsi che non ci fosse davvero qualche fondamento in quelle dicerie.

Il giovane però non accettò il suo invito, né andò mai a trovarlo a palazzo, il che lasciò a Khamûl ampio spazio per delegittimarlo definitivamente con le stesse dicerie che lo avevano innalzato da fastidio a minaccia.

Dopotutto, se era davvero il figlio del precedente Doragmalik, perché non si era presentato a sostenere il suo diritto a regnare?

Entro poche settimane il giovane sparì dalle cronache e, quando i suoi uomini gli portarono il cadavere, Khamûl vide nient’altro se non un ragazzino dell’Estremo Est come tanti altri.

«Era così giovane. Poteva essere mio figlio» disse Khamul ad Harshani, quella sera.

Lei gli posò le mani sulle spalle. «A dimostrazione ulteriore che non poteva essere figlio del Doragmalik».

«Qualcuno l’ha usato contro di me. E contro di te».

Harshani abbassò lo sguardo e le sue mani scivolarono via, ma Khamul le afferrò prima che lei potesse ritrarsi.

«Troveremo chi ha osato tanto». Premette le labbra contro le sue nocche, gli occhi nei suoi, e lei annuì.

«Insieme».


* * *


Una sera, durante un viaggio verso Nord, il sonno lo eludeva e Khamûl andò a sedersi fuori dalla tenda mentre Harshani riposava serena. Nonostante l’aria della notte fosse fredda, non aveva sentito la necessità di indossare altro al di fuori del perizoma che si era avvolto alla vita.

Tutto taceva nel campo, fatto salvo lo scricchiolio ogni tanto delle armature dei soldati di guardia, ma c’era un’aria strana che non lo faceva rilassare. Un formicolio tra le scapole, come se qualcuno lo stesse osservando non visto.

Un’ombra si mosse alla sua sinistra e Khamûl si tese, pronto a chiamare aiuto e mettersi tra l’intruso e l’ingresso della tenda.

Ma l’ombra non diede segni di ostilità. Anzi, abbassò il cappuccio per mostrare un viso dagli angoli affilati, la pelle dorata come gli occhi e i capelli, lunghi e lisci che si perdevano dentro il mantello nero in cui era avvolto.

«Ho sentito parlare di te, Doragmalik Khamûl» disse quello che era un uomo, a giudicare dalla voce profonda, ma di una bellezza tale e così diversa da quella di qualsiasi uomo Khamûl avesse mai visto, che stentava a crederlo umano.

Non somigliava neppure ai Sempregiovani che lui aveva imparato a conoscere. Khamûl non aveva esperienza con i demoni pallidi per far paragoni, forse perché l’uomo non sembrava adatto a fare paragoni con qualsiasi altra creatura di quel mondo.

«Mi auguro cose buone» gli disse, scrutandolo.

L’uomo incurvò le labbra in un sorriso appena accennato.

«Ammirevoli, oserei dire». Mosse un passo verso Khamûl. «Un lavoro migliore di quello fatto da chi ti ha preceduto».

A giudicare dal suo aspetto, Khamûl non avrebbe dato all’uomo tanti più anni di quelli che ne aveva lui. Ma a guardare meglio era difficile dargli un’età: il suo aspetto era giovane sì, ma c’era un’antichità nei suoi occhi che parlava di ben altre esperienze di vita. Forse non era un demone pallido, ma qualcosa di ugualmente antico sì.

«Un gran complimento, visto che il mio obiettivo è ricostruire quel che era caduto».

«Intento apprezzabile e molto apprezzato» disse l’uomo. «Un’impresa di questa mole, però, richiede una tempra sovrumana. Pensi di averla?»

Khamûl lo scrutò. «Non sono solo, per fortuna».

«Ma arriva sempre il tramonto e allora credi che avrai ancora la compagnia che hai adesso? A tutti piace cantare al sole nascente, ma quando le nubi lo offuscano ci vuole un attimo per voltargli le spalle e accelerarne il tramonto».

Khamûl strinse i pugni. «Se sei venuto a farmi fare un bagno di umiltà, non ne ho bisogno, grazie. Mi rendo conto che tutto questo non durerà per sempre. Ciò non vuol dire che non farò del mio meglio perché resti in piedi per tutta la durata della mia vita».

Lo straniero inclinò il capo, come a riconoscere l’errore e accettare il rimbrotto.

«Non ti auguri che ti sopravviva, però?»

«Certo che sì. Mi auguro che i miei successori possano ereditare questo regno e farlo prosperare ancora a lungo».

«Ma una volta che tu te ne sarai andato, credi davvero che tutto questo reggerà? Che i tuoi figli saranno all’altezza del ruolo per cui sono nati?»

Khamûl aveva evitato di proposito l’argomento, ma si vide costretto a rispondergli: «Li crescerò perché lo siano».

Lo stranierò arricciò un angolo della bocca. «I figli spesso sfuggono al controllo dei genitori: hanno aspirazioni proprie che possono essere diametralmente opposte a quelle che noi vorremmo».

Khamûl lo scrutò. Parlava da padre? Faticava a vedere quell’uomo come il padre di qualcuno. Che tipo di figli poteva aver avuto? E che strada potevano aver intrapreso così diversa dalla sua?

«Me ne preoccuperò quando sarà tempo» disse Khamûl.

«Sempre che rimanga il tempo per preoccuparsene» disse lo straniero. «Dopotutto, la vita dei mortali è così breve che quella dei loro regni spesso non supera la loro scomparsa».

Lo straniero risollevò il cappuccio e mosse un passo indietro.

«Dove stai andando?» disse Khamûl e gli andò incontro.

«Non è un discorso che sei pronto a sentire, il mio. Ci rivedremo quando lo sarai».

E come era emerso dalla notte, così sparì.

Khamûl rimase a guardare, incerto di cosa avesse appena vissuto. La strana sensazione che aveva annunciato l’arrivo di quello straniero era svanita con lui. E tutta la conversazione sembrava più un sogno, che qualcosa che era avvenuto davvero.

Scrollò le spalle, quasi per sbarazzarsi di quel ricordo, e rientrò nella tenda, dalla sua Harshani.


* * *


Mesi dopo, Harshani prese Khamûl in disparte da una riunione del consiglio per premergli la mano contro il suo ventre, il viso raggiante.

Non ci fu bisogno di parole.

Con una risata, Khamûl la prese in braccio e la fece roteare in aria, mentre lei rideva così forte che si accasciò sulla sua spalla. La fece tornare con i piedi a terra solo per riempirle il viso di baci.

La scoperta gli fece più piacere di quanto avrebbe mai immaginato. Poteva essere stato convinto della minore importanza di un figlio rispetto al rapporto che aveva con sua moglie, ma ciò non escludeva il sincero desiderio di poter stringere –un giorno– il frutto della loro unione.

«Vedi che funziona tutto bene?» le disse. «Non c’è nulla di sbagliato in te».

«E nemmeno in te» disse lei e gli tirò il viso verso il suo, per baciarlo con una tale foga che Khamûl rimpianse di doverla lasciare per tornare al consiglio.

Avrebbe voluto festeggiare più a lungo.

Quando nella riunione gli presentarono gli scontenti di una provincia colpita da recenti piogge torrenziali, Khamûl stanziò abbondanti aiuti e mandò l’esercito ad assistere la popolazione senza pensarci due volte.

Forse non era il modo più lungimirante di regnare, ma contava qualcosa di fronte alla gioia che provava in quel momento?

Non gli importava che fosse maschio o femmina, era felice della sola idea di avere un figlio.

Ed era certo che la vita avrebbe avuto grandi cose in serbo per lui.


* * *


Il suo primogenito, il suo erede, nacque dopo un lungo travaglio che lasciò Harshani spossata e le dita di Khamûl doloranti dove lei gliele aveva stritolate per il dolore e la fatica. Per ore l’aveva retta sullo sgabello da parto, cercando di non essere d’intralcio alla levatrice e a sua zia, tutto pur di restarle al fianco in quel momento.

Alla fine, gli misero tra le braccia un fagotto rugoso e urlante e Khamûl lo portò ad Harshani che riposava sul letto, i capelli sudati appiccicati alla fronte e le guance scure.

Decisero di chiamarlo Samir.

Senza altre cerimonie, Harshani scoprì un seno e assistette loro figlio che cercava la mammella con la piccola bocca aperta e affamata. Quando finalmente Samir trovò quel che desiderava, si rilassò contro di lei, e Harshani prese a intonare una canzone a mezza voce.

Non era stata una canzone familiare per Khamûl, prima di sentirgliela cantare. Era in una delle lingue del Sud, una canzone dell’infanzia di sua moglie. Lui non ne ricordava nessuna e non sapeva come condividere parte della sua infanzia con quel bambino, ma non gli andava di chiederne qualcuna alla zia.

Doveva venire da lui e da lui non emergeva alcuna canzone.

Eppure, Khamûl rimase incantato davanti a quel quadretto, per un attimo senza fiato. Poteva aver ricostruito un regno andato in frantumi con una guerra, riunito popoli che si erano sempre combattuti, ma davanti a quella visione di sua moglie e del suo primogenito si ritrovò di fronte alla vera dimensione di quel che stava facendo.

Un mondo in cui la sua famiglia e la sua discendenza potessero vivere in pace.

In cui Harshani sarebbe stata al sicuro e altre bambine, al contrario di lei, non avrebbero dovuto crescere col padre lontano e che a malapena aveva tempo per loro.

Un mondo in cui si poteva amare senza paura di perdere la persona amata per uno scherzo del destino.

Harshani sollevò lo sguardo verso di lui e gli sorrise.

Un mondo in cui lui poteva amare qualcuno senza rischiare di perderlo il giorno dopo.

Samir monopolizzò la loro vita in fretta, soprattutto quella di Harshani che doveva spesso mollare tutto per sfamarlo. E Khamûl dovette imparare a mettersi in secondo piano di fronte a quelle esigenze che potevano svegliarli nel mezzo della notte e rendergli difficile riaddormentarsi.

«Ha il caratteraccio adatto a regnare» disse Harshani una volta, crollando spossata di fianco a Khamûl nel letto.

Lui le avvolse un braccio intorno alle spalle e la tirò a sé, per permetterle di accoccolarsi contro di lui.

«Non credo lo abbia ereditato da me. Mia madre non ha mai detto una volta alla zia che ero stato un neonato impossibile».

«Nemmeno mia madre ha fatto commenti simili, quindi da me non può aver preso» gli disse, pungolandolo con un gomito nella pancia.

«Allora staremo a vedere a chi somiglierà crescendo» le disse, per poi mettersi a massaggiarle una spalla tesa, finché dai massaggi non passarono a tutt’altra tecnica di rilassamento, piano e in silenzio per non svegliare il mostriciattolo urlante che non aveva dato loro un attimo di tregua.

Di fronte alla nascita di una nuova vita Khamûl aveva scoperto di essere incapace di far qualcosa per ridurre le sofferenze di sua moglie e la cosa lo meravigliava ancora, a distanza di mesi dall’evento.

Un bel ridimensionamento, visto quanto si stava dimostrando bravo nel togliere quelle stesse vite che richiedevano tante difficoltà per venire al mondo.

Nel guardare Samir sorridergli quando lo riconosceva, Khamûl si chiedeva come avesse reagito suo padre nel vederlo così piccolo, rotondo e tutto sommato indifeso. Si chiedeva anche se avesse senso usare le armi per imporre la pace. Gli sembrava sempre più un controsenso e quello influenzò molte sue decisioni.

Con un erede e la prospettiva di altri in arrivo, nessuno sembrava trovare quel cambio di tattica un’assurdità. Le province e le tribù su cui regnava apprezzarono più la carezza della sua mano, che la durezza del suo pugno.

La pace che si stabilì in quel periodo gli lasciò così tanto tempo da passare con Harshani, che iniziò anche a porsi domande che non aveva mai avuto il tempo e il modo di porsi. Né aveva saputo formulare.






Nota dell'autrice


Anche qui abbiamo uno straniero, ma direi che non ci sono dubbi su chi si tratta ;)

Nello specchietto in alto, ho aggiunto un po' di altri termini ricorrenti in questa parte di storia che non avevo pensato di aggiungere prima. Temo sempre di trattare lǝ lettorǝ da stupidǝ a mettere troppe note su roba che si evince già dalla storia, però allo stesso tempo mi rendo conto che, con tutta la terminologia non-canonica che ho usato, potrebbe servire un aiuto a chi (per sua fortuna) non sta nella mia testa. Spero, quindi, che siano utili!

Grazie a chi sta seguendo la storia e alla prossima settimana,

Kan


   
 
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