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Autore: Ragazzamagica    25/09/2022    4 recensioni
[Questa storia partecipa alla Challenge “Puoi scriverlo, ma a queste condizioni” indetta dal forum Siate Curiosi Sempre.]
Quando suo fratello Jonathan rientrò a casa - viso pallido e madido di sudore, l’espressione di chi sia stato sottoposto a un forte stress - Shelley lo guardò con preoccupazione crescente, chiedendosi che cosa lo avesse ridotto così.
Non poteva neanche immaginare la portata del rischio che suo fratello avrebbe assunto per lei, solo per metterla in guardia sugli orrori della loro città.
Ma si sarebbe trovata a realizzarlo molto presto.
Genere: Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando suo fratello Jonathan rientrò a casa - viso pallido e madido di sudore, l’espressione di chi sia stato sottoposto a un forte stress - Shelley lo guardò con preoccupazione crescente, chiedendosi che cosa lo avesse ridotto così. A dispetto di alcune sue bizzarrie, sapeva essere un ragazzo forte: non si faceva intimorire tanto facilmente.
Ma quando, alla sua richiesta di spiegazioni, reagì snocciolandole la stessa solfa - quella di presunti malviventi rintanati nel profondo delle strade cittadine, che per giunta avrebbero anche tentato di rapinarlo - soffiò con rabbia, buttando all’esterno tutto il suo sdegno.
“Sei rientrato con quell’aspetto solo per cercare di convincermi, quindi” gli disse. “Non hai nessuno straccio di prova, eppure continui ad insistere! Sappi che non intendo limitare me stessa e le mie uscite serali solo perché pensi che ci sia qualcosa…”
”Ce le ho, le prove…” disse Jonathan, un’opaca stanchezza impressa nello sguardo.
”Ah, davvero?” chiese Shelley, fingendo di crederci.
Jonathan emise un sospiro, abbassando lo sguardo a terra.
"No… Quando mi hanno assalito ho solo pensato ad uscire da quella situazione… Avrei voluto filmare tutto, ma avevo il telefono scarico…”
Shelley ebbe una risatina sardonica. Jonathan la fissò stralunato.
”Tu hai le stesse condotte iperprotettive di nostro padre. Sempre a parlare di fattacci ed eventi che non ho mai visto accadere sotto i miei occhi. Sareste disposti a raccontarmi di tutto pur di limitarmi…”
"Ma che dici, Shelley. Non vogliamo limitarti, vogliamo solo…”
"Proteggerti” completò Shelley per lui, roteando gli occhi al cielo. “Buonanotte, Jonathan. Ah, e complimenti per essertela cavata ed essere fuggito dalla tua rapina immaginaria. Non è da tutti”.
Prima di salire al piano di sopra, gettò un’ultima occhiata al fratello, che si era accasciato sul divano, lo sguardo vitreo rivolto al pavimento.
Era talmente credibile che avrebbe potuto quasi credergli.
Peccato per lui che non lo fosse abbastanza.
Non sarebbero riusciti, né padre né figlio, a privarla della sua sacrosanta libertà. Non importava cosa si fossero inventati.

Jonathan fissò il telefono. Lo schermo era un muro grigio e inerte.
”Maledizione…” Aveva finito per vagare per così tanto tempo. L’autonomia del telefono lo aveva… abbandonato, sul più bello. Era così che accadeva nel più stereotipato dei film. Quando il misfatto accadeva, la vittima della situazione non aveva più mezzi per difendersi.
A meno che non avesse riprovato.
Ora sapeva anche per esperienza diretta che sua sorella correva dei rischi tangibili. Era così cieca che li avrebbe visti soltanto se ci avesse sbattuto la testa.
Ma lui non avrebbe lasciato che lo facesse.
Se l’era cavata una volta, se la sarebbe cavata una seconda.
”Se non mi crederà neanche con un video registrato, allora potrà benissimo andare a quel paese. Ma io le tenterò tutte, e devo provarci ancora, solo un’ultima volta” pensò.
Trascorse buona parte della notte a digerire lo smacco e a rilassare i suoi sensi in allerta, in compagnia di un mal di testa che gli martellava contro le tempie. Alla fine, con più determinazione di prima, si alzò dal divano e andò a dormire.

Nel cielo spiccava una falce di luna.
Malevola, poiché irradiava una luce confortante su una notte che non prometteva niente di buono. Nient’altro che una trappola, per coloro che si fidavano di lei.
Molte erano le ombre che insidiavano i torbidi vicoli cittadini. Jonathan lo sapeva bene, mentre dava le spalle all’astro. Quella notte lui vagava alla ricerca del buio, di fitte trame di intrighi ordite da subdole creature padrone della notte.
Un cappuccio calcato sul capo, la felpa ad ingrossargli la figura, si preparava ad affrontare coloro che - lo sapeva - si nascondevano da qualche parte.
Sua sorella non voleva credergli. Nella sua testa riecheggiavano le parole di biasimo con cui l’aveva apostrofato.
“Basta con queste fisime, Jonathan” sbottava, schioccando la lingua. “Non hai alcuna prova di quello che dici. Sai cosa penso? Che tu sia alla ricerca di attenzioni”.
Le iridi turchesi del ragazzo conobbero un luccichio distinto. Aveva colto la sfida. Non si sarebbe tirato indietro, se si trattava di dimostrare ciò in cui credeva.
”È illogico che la città sia tenuta sotto controllo da questa sottospecie di organizzazione criminale di cui ti riempi la bocca. Dai, dillo: vorresti che non uscissi con tal ragazzo, o con quell’altro, la notte. Temi che mi accada qualcosa. Ma io so badare a me stessa, e non esiste proprio nessun nemico immaginario dal quale debba tenermi lontano”.
Digrignò i denti. Si rese conto che le sue non erano solo propugnazioni ideologiche. Non era per inseguire degli ideali che si stava calando nella periferia della città, mettendo a rischio se stesso pur di procacciarsi una maledetta prova.
Lo faceva per lei, perché si sincerasse una volta per tutte che fosse vero e stesse alla larga dei guai. Maledetta Shelley…
Un sospiro abbandonò le sue labbra sottili: una rassegnazione in contrasto con la lucida attenzione che impregnava il suo sguardo e scandagliava i dintorni. La sera prima era stato rapinato, e se l’era cavata: poteva farcela anche questa volta.
In realtà, era da tempo che fiutava qualcosa di strano. Non aveva mai collezionato conferme vere e proprie, ma indizi mischiati alle sue intuizioni. Nonché le soffiate di amici ben più ottusi di lui, che si sfidavano ad affrontare quei quartieri solo per dimostrare chissà cosa. Quei racconti erano, a volte, talmente particolareggiati nel descrivere un pericolo corso tanto stupidamente, da fargli venire la nausea.
Ed eccolo lì, alle prese con lo stesso tipo di follia. Traffici illeciti, aggressioni violente, scambi di informazioni riservate: non aveva alcun interesse a scivolare dentro quella fanghiglia, voleva solo avere per le mani un elemento con cui dimostrare che tutto ciò stava accadendo.
La sua mano stringeva con dita malferme il telefono, nella tasca della felpa. Un angolo di calore in un sentiero cittadino alla mercé dei fuorilegge.
Jonathan vi si aggrappò più che poteva, confidando di utilizzarlo… scacciando quella parte di sé che invece trovava l’idea troppo spaventosa, e desiderava che una simile eventualità non si presentasse mai. Ma stavolta il telefono era ben carico e lui doveva utilizzarlo.
”Cosa dovrei cercare, esattamente?” si chiese, quando ebbe l’impressione che il vuoto girare si stesse prolungando senza esito. La verità era che stava seguendo una stradina secondaria, ma non periferica quanto i vicoli che, ramificandosi, si perdevano negli angoli d’ombra e nella sporcizia. Era a quelli che doveva puntare, ma finora aveva sempre sperato di non dovercisi inoltrare.
Si fermò e il suo sguardo ne percorse uno, il più vicino, fin dove poteva.
Sentì i suoi sensi tendersi ed affilarsi, e i brividi di freddo che si mischiavano a quelli della paura.
”Per Shelley” si incoraggiò, stringendo in una presa sudaticcia il telefono in tasca. Un curioso paradosso tra il freddo dell’esterno e il troppo calore all’interno dello scomparto, ma non osava sfilare la mano da lì, dall’unica fonte di conforto che avesse.
Con un po’ di immaginazione avrebbe potuto fingere che fosse la mano di un altro essere umano. E credere che sua sorella gli stesse sorridendo incoraggiante, spingendolo ad affrontare quelle insidie per lei, soltanto per lei.
Prima che potesse scappare, costrinse le sue gambe ad immettersi nella stradina laterale.
”Devo trovare qualcosa”.
Sperò infatti che fosse lui a farlo, e non che gli altri trovassero lui.

Una speranza che si era rivelata ambiziosa al punto da essere ingenua.
Jonathan, per la prima volta e nonostante le preoccupazioni che nutriva per sua sorella, desiderò non essersi mai cacciato in quel guaio.
Sentiva la morsa soffocante della paura ostruirgli la gola, lottare per strappargli dei gemiti da bambino.
Si era accucciato dietro un bidone della spazzatura, facendosi più piccolo che poteva. Alle sue spalle chiacchiere inequivocabili, di chi stava progettando qualcosa di grosso infischiandosene non solo delle leggi del paese, ma anche della primissima prescrizione etica: il rispetto per la vita.
Confabulavano fittamente. Ma aveva capito che stavano parlando di uccidere un uomo.
Il sudore aveva agguantato anche le porzioni di pelle scoperta. Sentiva gocce fredde rigargli il viso, la schiena. Affiancarlo in quella sfinente attesa.
Pregava che se ne andassero.
Che non si accorgessero di lui.
Aveva avuto solo un’unghia di tempo per rintanarsi dietro quel contenitore di lamiera. L’unica barriera tra sé e loro.
Nel disperato tentativo di proteggere altri aveva dimenticato di prendersi cura di se stesso, della propria sicurezza. Si chiese se lui per primo fosse consapevole di che razza di criminali frequentassero quelle strade.
Una fitta rete di rimpianti e angosce dalle bande striminzite gli si stringeva addosso, gli asfissiava il respiro, inondandolo del terrore che può provare solo chi senta la propria vita appesa ad un filo.

Rimase accasciato lì per un tempo che gli parve lunghissimo. I due uomini continuavano a parlare e a definire ulteriori dettagli, apparentemente incuranti della sua presenza.
Lottava contro se stesso, a metà tra la tentazione di carpire informazioni con cui denunciarli - se ne fosse uscito vivo - e l’impulso di ignorare tutto, o fingere di farlo, per avere salva la vita.
Il bidone scricchiolò, ma lui non si era mosso di un millimetro.
Gli si torsero le viscere.
Chiuse gli occhi, nella convinzione infantile di poter sparire alla vista.
”Perdonami, Shelley. Non avrei dovuto mettermi a rischio in questo modo. Vorrei tornare a casa e accogliere a me la la tua rabbia indignata. Vorrei essere con te. A casa. Vorrei essere a casa. A casa, Dio, Dio, Dio santissimo, ti prego…”
Sentì una pressione gelida sulla fronte. Ad incombere su di lui, la sagoma di un uomo massiccio a malapena distinguibile.
Sgranò gli occhi, identificando la natura del metallo che gli premeva sulla pelle.
Aveva cercato di preparare se stesso a quel momento, ma niente gli impedì di rivolgere un ultimo sguardo sbalordito all’uomo, nella sconcertante attesa del colpo che stava per perforargli il cranio.
"Perdonami, sorellina”.
Chiuse gli occhi.






Nota dell’autrice
Sono davvero tanto emozionata, torno a pubblicare su questo sito dopo così tanti anni…
Forse avrei dovuto chiamare la storia “Quell’emozione che serra la gola”, perché sono davvero contenta di essere tornata a pubblicare qui, rincorrendo una vaga idea di racconto.
Ringrazio il forum Siate Curiosi Sempre per avermi ispirato e dato quest’opportunità. Avevo proprio bisogno di una bella scossa creativa.
Ho cercato di fare del mio meglio per azzeccare il rating e il BBcode, spero che il risultato sia apprezzabile.
Inutile dirvi, lettori, quanto mi emozionerei anche a leggere le vostre recensioni - le prime dopo millenni. Grazie a tutti, e speriamo che EFP possa tornare a risorgere, rigoglioso.

  
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