ACHERON
L'acqua
del fiume era gelida e gli lambiva le caviglie nude, donando sollievo e
dolore
ai piedi scalzi che scalavano il sedimento.
Scorreva
placido a valle con un suono rilassante, del tutto in contrasto con
l'orrore
che era costretto ad affrontare per salvare il suo povero figlio, tanto
immobile da non percepire il suo respiro.
L'uomo
dalla bocca cucita lo trasportava sulla schiena, osservando con la coda
dell'occhio appena abbozzato le sue braccia penzoloni, troppo lasciate
a loro
stesse per definirle vive.
Egli
guardò in basso, cercando di intravedere il viso del suo
bambino nel riflesso
dell'acqua, ma non riuscì a scorgere nulla in quello
specchio torbido: oscuro
era il fiume e oscura era l'aria, così come era oscuro il
suo cuore. E non solo
quello.
Le sponde
erano costeggiate da alberi che si estendevano per miglia, ricoprendo
interamente il lato della montagna che stava scalando con grande
fatica, mentre
il cielo era privo di stelle e non forniva alcuna luce per illuminare
il
cammino.
Più
di una
volta si era fermato, esausto, allungando il collo verso l'alto, nella
speranza
di scorgere la cima e, con essa, il sole del mattino, ma puntualmente
veniva
deluso.
Chissà
se
la luce avrebbe sciolto il suo corpo nero come la pece, lungo e sinuoso
come le
ombre a mezzogiorno, dove persino i suoi occhi non erano che
scarabocchi
bianchi disegnati dalla mano di un bambino, forse il suo bambino,
e la bocca sigillata per non poter proferire parola.
Ma egli
non era lì per sé stesso, no: aveva iniziato quel
viaggio per suo figlio, la
marionetta inanimata e bianchissima che si trascinava dietro come una
croce,
credendo che, davvero, potesse iniziare a respirare da un momento
all'altro.
La foresta
osservava ogni suo passo, così come i suoi abitanti. Su un
piccolo cumulo di
detriti, un semibusto fissava l'uomo con occhi senza palpebre.
«Non
è
lontano, fratello. Il tempio è proprio lì, sulla
cima: ti stanno aspettando»
disse quello con voce metallica. «Sei proprio sicuro che tuo
figlio abbia perso
l'anima?»
Appena
pose quella domanda, aprì la piccola bocca meccanica ed
emise un lungo e basso
allarme.
Era certo
che avrebbero provato a fermarlo: dopotutto, ingannare la morte non era
un
compito facile, e chi era senza vita non tollerava che fosse restituita.
A quel
segnale fecero eco versi più acuti e striduli che
risuonavano tutt'intorno,
come se fossero ovunque nella foresta. L'uomo si sentì
circondato e abbandonò
il letto del fiume per correre verso la sponda di sinistra, trovando
rifugio
tra gli alti alberi dalla corteccia grigia.
Si
accovacciò prestando massima attenzione ai suoni: il
fogliame era in fermento
non troppo lontano, segno che numerosi inseguitori gli stavano dando la
caccia.
Doveva fare in fretta.
Sentendosi
affine con l'oscurità della notte e, pertanto, sicuro di
risultare invisibile,
valutò di rimettersi in cammino entro qualche minuto, quando
il rumore di un
ramo spezzato lo fece girare di scatto: una bambola di porcellana alta
quanto
lui, vestita di rosso e dal viso eroso apparve all'improvviso, tendendo
le
braccia verso l'uomo che, preso dal terrore, non poté far
altro che lasciare
andare il suo bambino e buttarcisi sopra per proteggerlo col suo corpo.
Le ombre
potevano sanguinare? Egli sperava di non doverlo scoprire ma, quando
sentì il
tocco gelido dell'automa, pensò che il sangue, perlomeno,
aveva calore e sapeva
di vita.
Oltre ogni
previsione, la bambola lo abbracciò dolcemente e
strofinò la guancia di
ceramica sulla schiena di lui, per poi accarezzare il suo ventre e
scendere
giù, verso zone che l'uomo percepiva come intime, facendolo
tremare come una
foglia.
Egli non
osò girarsi, ma gli parve di aver intravisto un microfono
incastrato male nella
bocca, o meglio, nel foro che aveva per bocca, e infatti il suono
gracchiante
di una voce disturbata cercava di sussurrare al suo orecchio.
«Sei
davvero bello, amore mio. Stasera ci divertiamo» disse quella
in modo
inquietante. «Perché non porti nostro figlio a
giocare fuori? Sarà così stanco
da dormire tutta la notte».
La piccola
marionetta bianca che stava proteggendo non reagì a quelle
parole, ma se il
padre voleva salvarla, doveva comunque stare al gioco: annuì
deciso, si liberò
della gelida stretta della bambola e si rimise in marcia col
figlioletto sulla
schiena, non guardando mai e poi mai in faccia quella cosa.
Tornò
a
camminare nel fiume, almeno per un po'. Perlomeno avrebbe visto
arrivare
chiunque nella sua direzione, anche se il dolore ai piedi si faceva
sempre più
intenso a causa delle pietre che calpestava.
I versi
che sentiva intorno a lui erano alti e minacciosi, ma finché
nessuno lo avesse
attaccato avrebbe continuato ad avanzare. Fu proprio dopo qualche
minuto,
oppure ora, di marcia, che in lontananza vide una figura che
giudicò umana;
vestita di un candido camice e seduta su una sedia di legno nel bel
mezzo del
letto del fiume, sembrava che stesse attendendo qualcosa, o qualcuno.
Era
totalmente incurante del luogo in cui si trovava, ma l'uomo era
disperato e
quello pareva non ostile. Quando gli fu vicino, come tutti in quel
bosco
maledetto, notò che il volto era sbavato e irriconoscibile,
come se qualcuno
avesse passato la mano sugli acquarelli.
«Eccola,
finalmente! Stavo iniziando a preoccuparmi» disse quello con
enfasi nella voce,
ma nessuna espressione facciale a supportarlo. «Ha
subìto un brutto incidente,
non dovrebbe andare in giro a zonzo così. Venga, si sieda
qui».
Era un
medico, o almeno questo era ciò che dimostrava essere. Forse
il tempio in cima
alla montagna non era l'unica soluzione, d'altronde chi avrebbe mai
immaginato
di incontrare un dottore in mezzo a un fiume?
L'uomo
fece scendere con delicatezza suo figlio dalla schiena, lo
afferrò sotto le
ascelle e glielo mostrò, supplicandolo con i movimenti di un
povero muto
disperato. La piccola marionetta bianca oscillava tra le mani del
padre,
pesante come il corpo morto che era, ma il medico sembrò non
vederla nemmeno.
Egli
allora batté il piede nell'acqua creando un tonfo,
frustrato, e quasi gli mise
tra le braccia il suo povero bambino, ma agli occhi di quello,
semplicemente, non
esisteva.
«Su,
su,
lo so che è agitato, ma devo visitarla. Ha preso una bella
botta dietro la
testa, sa? Probabilmente c'è emorragia cerebrale. Non sono
questioni che
possono attendere» disse il dottore incrociando le braccia.
L'uomo non
poteva cambiare la forma dei suoi occhi, ma se avesse potuto li avrebbe
sgranati, spaventato. Scosse la testa, stringendo suo figlio al petto,
per poi
toccarsi appena sopra il collo con la mano: una grossa e dolorosa
frattura era
comparsa dietro il cranio, poteva sentire chiaramente dei pezzi
mancanti con i
polpastrelli.
Pur senza
volerlo, aveva risposto alla domanda che si era posto poco prima: a
quanto
pare, le ombre non sanguinano.
In preda
al panico, l'unica cosa sensata che gli venne in mente fu quella di non
indugiare
oltre e scappare, correre via veloce verso il tempio in cima alla
montagna,
verso il luogo in cui avevano assicurato la salvezza del suo bambino.
Almeno,
ciò era quello che gli avevano detto. Chi glielo aveva
detto? Ormai non
importava più.
Strinse
con forza il corpicino tra le braccia, poi fece forza sulle gambe per
muoversi
il più velocemente possibile nell'acqua che, a man mano che
risaliva la
corrente, diveniva sempre più nera e melmosa. Non aveva
alcun senso, ma ormai
non importava più.
«Aspetti!
Non può andar via nelle sue condizioni!»
gridò il dottore a gran voce.
L'uomo non
si voltò nemmeno: raggiunse la sponda sinistra e
continuò la corsa sui
ciottoli, ferendosi i piedi più e più volte.
Un boato
dietro le sue spalle lo fece sussultare e incespicare fino a cadere a
terra,
aveva sentito l'onda d'urto rimbombare nel suo petto: quello che prima
si era
presentato come una figura benevola, aveva spalancato la fessura che
aveva per
bocca e aveva urlato fortissimo, forse per richiamare altri abomini.
Ma, ormai,
non importava più.
Se egli
avesse potuto urlare altrettanto forte il suo terrore, probabilmente li
avrebbe
spaventati tutti a morte e fatti allontanare, invece non
poté fare altro che
correre via da quel delirio che voleva suo figlio. Dalle frasche
sbucarono tre
esseri dal corpo lunghissimo e flessibile come gomma, pallidi e senza
volto.
L'uomo non
era certo di possedere un cuore funzionante, ma in quel momento
qualcosa stava
pestando furiosamente il torace. Ogni passo degli esseri erano tre dei
suoi, li
percepiva dietro il collo e sapeva di non potercela fare: si lanciarono
su di
lui come sacchi vuoti, lasciando che la loro stessa consistenza
schiacciasse il
suo corpo al suolo.
Si
dimenò
con tutta la forza che poteva, ma non servì a nulla e fu
costretto a lasciare
andare il bambino dalle sue braccia. Un piccolo lamento
vibrò nella gola
dell'uomo, intrappolata proprio come lo era lui.
Rassegnato,
si fece trasportare indietro, dove il dottore lo stava attendendo: lo
fecero
sedere di peso sulla piccola sedia mezza marcia, e lo tenevano fermo
con le
loro mani abnormemente lunghe.
«Grazie
al
cielo è tornato! Ha rischiato davvero molto comportandosi in
questo modo, è da
sconsiderati! Per fortuna che l'hanno convinto a ripensarci».
L'uomo lo
guardò con occhi ridotti a fessure, scuotendo la testa e
cercando di far capire
che no, quello che diceva non era vero, che niente in quel posto lo era
davvero.
«Faremo
in
fretta, ok? Tu, vieni pure qui» disse ad una delle melme
pallide. Quella si
sistemò proprio davanti lui, immobile. «Mi
può dire se la riconosce?»
Quello
scosse la testa, sospirando forte e con il forte istinto di piangere.
«Quest'altra,
invece?» domandò indicando l'altro essere dietro
di lui.
Erano solo
dei maledetti ammassi tutti uguali, come avrebbe mai potuto
distinguerli?
Perché gli stava facendo questo? Scosse di nuovo la testa,
stavolta con più
frustrazione.
«Ah...
capisco. Capisco, sì» sussurrò il
medico.
Chiamò
a
sé la terza melma, parlandole a bassa voce come si fa per
non turbare i
pazienti.
«Avverti
lo specialista, è abbastanza grave. Sì, non
riconosce nemmeno i suoi cari».
Un'altra
menzogna! Non era vero nemmeno quello, perché suo figlio era
poco lontano che
lo attendeva, ed era solo colpa loro se aveva dovuto lasciarlo.
Incollerito
tentò di nuovo la fuga, ma un'altra minaccia si era fatta
largo nelle torbide
acque del fiume: un mostro enorme, quadrupede e peloso, dal volto
bianco di
porcellana e le zampe sostituite da stampelle, era sbucato dal cuore
della
foresta, forse attratto dal chiacchiericcio, e aveva caricato le melme
con
tutto il suo peso.
Mentre le
calpestava sul fondo dell'acqua, il dottore cadde a pezzi
all'improvviso, come
se gli avessero staccato la corrente, e in quel momento l'uomo
scattò via nella
direzione dove aveva lasciato il figlioletto.
Egli non
aveva idea di che bestia fosse, se si cibasse di carne oppure erbe, ma
il suo
fuggire la invogliò a inseguirlo: era incredibilmente veloce
su quelle protesi
che la sorreggevano.
Stavolta,
l'uomo non ricadde nella trappola: afferrato il bambino per un braccio,
se lo
mise sulla spalla destra e si precipitò verso un albero,
scalandolo con non
poche difficoltà.
La
creatura si scontrò contro il tronco per farlo cadere, senza
successo, così
provò a scalare la corteccia con quelle anomale zampe
artificiali.
L'uomo
avrebbe voluto gridare, piangere e maledire il creato, ma non potendolo
fare si
concentrò su cosa era invece in grado di fare, ovvero
reggersi forte.
Dopo
qualche minuto, la bestia si fermò, ma lo sventurato non
poteva sapere che intenzioni
avesse: il volto della creatura era inespressivo, una maschera di
porcellana su
cui vi erano incisi due cerchi per rappresentare gli occhi e una
piccola
fessura per la bocca.
Semplicemente,
quella si stancò, e tornò nella foresta. L'uomo,
dal canto suo, era
terrorizzato a morte da tutto ciò che aveva intorno, ma da
quell'altezza poteva
vedere il tempio non troppo lontano dalla sua posizione.
Insieme a
quello, notò anche movimento in mezzo agli alberi, ombre che
strisciavano e
strani esseri umanoidi che cercavano lui, illuminandosi la strada
tramite luci
che uscivano dalle mani.
Baciò
e
accarezzò il figlioletto per un po', fino a decidersi di
scendere e percorrere
quell'ultimo tratto di strada, l'ultima fatica verso la fonte del fiume.
Con ogni
passo verso l'alto, il cielo si faceva sempre meno oscuro, segno che
l'alba era
vicina, e di questo ne fu sempre più grato.
Il tempio
non era altro che una vecchia casupola di legno, preoccupando
profondamente
l'uomo, ma ormai aveva raggiunto la sua meta e non poteva tirarsi
indietro.
L'interno
era spoglio, disabitato da molto tempo e con solo un tavolo decadente
al centro
esatto della stanza; le pareti erano tappezzate di fogli, documenti
legali a
giudicare dal contenuto, e seduta a terra sulla destra c'era lei, la
bambola in
rosso.
L'uomo
ricordò il suo gelido tocco e rabbrividì, tentato
di fuggire via di nuovo; si
chiese come aveva fatto a raggiungere quel posto, ma nel momento in cui
fece un
passo nella sua direzione, quella mosse il collo e la testa, tendendo
di nuovo
le braccia verso di lui.
«Dammelo»
disse la bambola con la solita voce gracchiante, indicando il bambino.
«Non può
rimanere con te ora che sei malato. Devo portarlo via».
Senza
capire bene perché, l'uomo si avventò su di lei e
la prese a calci, per poi
sfondarle la testa contro il muro: ella, a differenza di lui,
sanguinava.
Disgustato,
adagiò il figlioletto sul tavolo sporco e si
gettò in ginocchio unendo le mani
in preghiera, ma non accadde niente. La bambola, avendo ancora il
microfono
incastrato in gola, riuscì a parlare per l'ultima volta
prima di spegnersi
definitivamente.
«Sei
tu
l'anima da riparare, non lo capisci?»
L'uomo
batté i pugni a terra, esausto, non sapeva cosa fare. Da
fuori, le urla si
fecero più vicine: sapevano dove si trovava, e lo stavano
raggiungendo.
Si
portò
le mani sul viso, sulla bocca cucita, e si convinse che gli dei non lo
stessero
ascoltando perché non poteva parlare.
Doveva
salvare il suo povero figlio. Trovò una vecchia accetta per
tagliare la legna
in un baule accanto al camino polveroso e decise che la bocca se la
sarebbe
fatta da solo.
Un'ombra
lunga e sinuosa entrò dalla porta cigolante, guardandosi
intorno con aria
afflitta. L'uomo cercò nascondiglio dietro il tavolo,
dapprima spaventato, poi
incuriosito da quella figura così simile a lui.
Provò
a
parlagli con la nuova bocca che si era scavato nel volto, felice di
poter
finalmente interagire con qualcosa di familiare, ma non si era potuto
fare la
lingua per articolare le parole: anche se da quella rudimentale fessura
non
uscirono che versi incomprensibili, erano comunque sufficienti per
farsi
notare.
Almeno,
ciò era quello che sperava. Non solo l'entità non
lo degnò di uno sguardo, ma,
a differenza sua, la lingua l'aveva eccome, e non perse tempo
nell'usarla.
«Porca
puttana» esclamò quello proprio accanto
all'uomo.
Un altro,
simile alla cosa appena entrata, arrivò pochi secondi dopo.
«Merda.
Ma... è morto?» chiese al compagno piegandosi
sulle ginocchia per riprendere
fiato. Tornato in sé, si precipitò dal bambino.
«Grazie a Dio, il ragazzino è
vivo!»
«Chiamo
subito i soccorsi, anche se c'è quel diavolo di orso a valle
che ci sta creando
un sacco di problemi. È ferito?»
«No,
è
solo privo di conoscenza. Penso lo abbia drogato».
«La
stessa
roba che si è preso questo bastardo qui?»
«Non
credo: gli avrà dato le benzodiazepine per farlo stare buono
mentre lo portava
in questa baita. Abbiamo trovato la boccetta insieme alle sue
medicine» disse
quello mentre ispezionava l'ambiente. «No, questo qui si
sarà calato degli
acidi prima di ammazzare la moglie per l'affido del figlio».
Quando
finalmente egli comprese, il suo cranio rotto prese a ripararsi da
solo, pezzo
dopo pezzo, ricordo dopo ricordo. Tuttavia, non lo accettò.
Non poteva essere
lui quell'immagine sbiadita con i vestiti imbrattati di sangue.
L'uomo
uscì fuori dalla catapecchia, e notò che l'alba
non era ancora sorta. Il mondo
era calato in un crepuscolo eterno, dove eterni automi continuavano ad
attenderlo nel buio.
Si
portò
le mani al viso in cerca della fessura che si era creato per pregare i
falsi
dèi promessi: tendeva a sgocciolare e a rimarginarsi in
fretta, come la cera
delle candele usate.
Con una
pietra trovata in terra, continuava incessantemente a tenere aperto
quel buco
vuoto, cosa che, a quel punto, non era più di nessuna
utilità: tutto ciò che
desiderava era urlare, e urlò, fortissimo, senza sosta.
Il
mezzobusto che aveva incontrato a valle era impiccato a un ramo proprio
lì
accanto, guardandolo stavolta con una parvenza di giudizio nel volto
immobile.
«Non
dovresti gridare così: ti sentiranno tutti, anche chi non
vorresti mai
incontrare» disse con voce metallica. «Forse era
tutto nella tua testa, o forse
è accaduto davvero, ormai non importa più. Povero
bastardo... Dio non ama chi
arriva qui, fratello. I morti non perdonano».