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Autore: Aly_07    29/09/2022    7 recensioni
Abel. Il suo nome sulle labbra ha un sapore, sempre lo stesso, da quando ha memoria. E lei non riuscirebbe mai a descriverlo a parole, a nessuno, ma saprebbe riconoscerlo all’istante tra tutti gli altri sapori del mondo. Il suo nome sa di lui, sa di casa, sa di loro due insieme e di tutto quello che hanno fatto, delle cose che hanno visto, di quelle che hanno sognato, sa di tutto quello che lui è sempre stato per lei. Non riuscirebbe mai a descriverlo ma se si concentra, se si impegna abbastanza, è quasi certa di riuscire a ricordare la prima volta che l'ha sentito sulle labbra. La prima volta che l’ha pronunciato.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Abel Butman, Georgie Gerald
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Abel


Fa male. Tanto.
È un dolore lancinante che la fa contorcere in spasmi e crampi tra le lenzuola appena cambiate, ci suda di nuovo dentro mentre sua madre accompagna zio Kevin alla porta e prende in braccio Arthur, cercando di calmare il suo pianto disperato.
Fa male, troppo. Piange anche lei, certa di essere rimasta sola nella stanza finché un’altra mano non copre la sua, molto più grande, più calda e più sicura. Le dita si intrecciano insieme per istinto, scorrono sul palmo, scivolano da sole negli spazi giusti. E lei sente già un po' meno dolore. "Sei qui…”

“Sono qui." Un sussurro teso, sottile, un bacio leggero tra i capelli sulla fronte. "Va tutto bene, Georgie… starai bene.”

“Ma fa così male… fallo smettere, Abel! Fa’ qualcosa, qualsiasi cosa ma ti prego fallo smettere, mi fa troppo male!”

Lui si siede sul bordo del letto e sforza un sorriso, uno di quelli davvero tirati. "Lo so… fa male anche a me.”

“Anche a te?” Lei sgrana gli occhi e prova a sedersi di scatto, preoccupatissima, ma si lascia cadere di nuovo sul cuscino con un lamento strozzato e le braccia strette intorno alla pancia. “Vuoi dire che… Abel, ma allora le hai mangiate anche tu?”

“No, certo che no,” mormora lui tra i denti, la linea della mascella così tesa da scricchiolare. Si sporge per sistemarle bene il cuscino, pettina dolcemente una ciocca di capelli dietro l'orecchio. E poi sistema anche le coperte, rimbocca un lembo del lenzuolo e lo stritola tanto da sbiancare le nocche. E poi esplode. “No che non le ho mangiate, solo tu potevi fare una cosa così stupida! Ma come ti è saltato in mente, Georgie? Sono velenose! Come accidenti fai a non sapere che sono velenose?”

“Scusa…” singhiozza lei, raggomitolata su se stessa, “mi dispiace tanto, io non…”

“Non piangere… dai, spostati." Lui si sdraia sul letto accanto a lei e la abbraccia, continua a tenerle la mano mentre l’altra si perde nel groviglio dorato dei suoi capelli. Li pettina tra le dita, li lascia ricadere sul cuscino solo per raccoglierli di nuovo sulla nuca, all’infinito, finché lei non si rilassa. “Così va un po’ meglio?”

Lei annuisce, singhiozza piano e tira su col naso, gli si accoccola addosso. E adesso sembra ancora più piccola, ancora più indifesa. E lui è ancora più teso, un fascio di nervi scoperti e sensi di colpa intrecciati insieme. “Abel… ma sei arrabbiato?”

“Sì.”

“Scusa, mi disp-…”

“Non ce l'ho con te.”

“… guarda che Arthur non c'entra niente!” Lei indietreggia un po' per alzare gli occhi, enormi, luccicanti di lacrime colpevoli. "Non è stata colpa sua, ha anche provato a farmele sputare! Si è spaventato tanto, non prendertela con lui, non è stata colpa sua!”

“Ma vuoi stare calma? Non sono arrabbiato con lui, è colpa mia.”

“Che dici… Abel, ma tu non c'eri nemmeno!”

“Potevi morire, Georgie… zio Kevin ha detto che potevi morire,” lui affonda il viso tra i suoi capelli, stringendola di più, prende un respiro ma la voce gli trema lo stesso, “voi due siete piccoli, ho sbagliato a lasciarvi soli. Potevi morire e io non c’ero nemmeno, ti ho lasciata da sola…”

“Abel… ma stai piangendo?”

“… sta’ zitta…”

“Oh, Abel…”
 
 


Abel. Riemerge dal sogno col sapore del suo nome sulle labbra, ma non apre gli occhi, non ci riesce. E non riesce a muoversi, il corpo è inerte e lontano, distaccato dalla mente, due isole diverse separate dal mare che lambisce le coste della coscienza e le sgretola. Non sta più dormendo, non è ancora sveglia, deve essere rimasta invischiata in un sogno. Un ricordo, qualcosa con cui riempire il buio denso che l'ha risucchiata, qualcosa che è rimasto lì per anni e anni sepolto appena sotto la superficie. Un ricordo vivido, tangibile, perché il dolore lei lo sente davvero, lancinante e continuo. E sente lui, sente le sue braccia che la avvolgono e il calore del suo petto che la racchiude, il battito del suo cuore contro la guancia. Sente l'odore della sua pelle, il tocco costante della sua mano che le accarezza la schiena. Sente lui, lo sente piangere a denti stretti tra i suoi capelli e vorrebbe aprire gli occhi per guardarlo, e invece ha paura. Paura di svegliarsi sul serio e ritrovarsi troppo lontana dal suo letto di bambina, dalla sua stanza, dalla sua fattoria abbandonata dall’altra parte del mondo. Preferisce restare lì, dove può essere soltanto una bambina piccola che della vita non sa ancora niente, che ha mangiato una manciata di bacche colorate e ha fatto piangere i suoi fratelli, perfino quello dei due che non piange mai. Vuole restare lì, perché lì c’è lui. Vuole stare lì, dove lui può ancora stringerla così.
 
 


“Non te ne andare, Abel… puoi restare finché non mi addormento?”

“Non mi muovo da qui.”

“Me lo prometti?”

“Te lo prometto.”
 
 


“Bugiardo…” morde i singhiozzi e ingoia le lacrime che non si fermano mai, non finiscono mai. È un bugiardo, continua a ripeterlo mentre il sogno si sgretola e lei è sempre più sveglia. E lui non c'è, il calore del suo corpo nel letto non è reale, la sua voce ce l'ha soltanto dentro la testa, lui non è davvero lì a tenerla stretta e a farla sentire al sicuro. Lui non c’è, anche se aveva promesso. E lei non vuole più aprirli gli occhi, se lui non c'è. Non ci vuole più stare, in un mondo in cui lui non c'è.
 


 
Ti voglio, Abel. Toccami, stringimi, non fermarti – le parole addensano l’aria tra di loro, fondono i respiri, scivolano tra le labbra che si cercano e sulle lingue intrecciate anche se lei non le dice, non le pronuncia, lei lo guarda negli occhi e basta. I vestiti sono già caduti tutti, il pavimento è gelido e lei non trema, non sente freddo, non ha paura. Sente soltanto lui, soltanto l’amore che diventa tangibile e fisico e satura l’aria di gemiti sottili e ansiti rochi, e si sparge in brividi sulla pelle nuda. Soltanto lui, soltanto il suo corpo bollente che le pesa addosso e il sapore di baci bagnati che schioccano morbidi sulla gola, sul seno, il suo respiro nell’orecchio e tra i capelli e il graffio di denti che hanno fame di lei da sempre, il tocco di mani che hanno aspettato tutta una vita per poterla stringere così. Sente lui e lo guarda negli occhi e basta questo, in un solo sguardo ci sono loro due e tutto quello che sono stati, quello che entrambi hanno sempre saputo, anche quando sembrava così sbagliato da dover fingere di non saperlo. Sono nati per questo istante, tutta una vita passata a negarlo non è bastata. E se adesso non riescono neanche a parlare, è perché in tutta una vita è la prima volta che si sentono così. Completi. Finalmente interi.
 


 
Una volta sola. Completa, intera una volta sola, e poi dilaniata e strappata a metà e sanguinante di dolore e lacrime per il resto della vita. Lui avrebbe dovuto toccarla così per sempre, avrebbe dovuto baciarla così per il resto della vita. E avrebbe dovuto baciarla così anche sotto quel temporale, e all’ombra di quegli eucalipti, e in quella serra, e in ogni altro minuto di ogni altro giorno. Avrebbe dovuto, e invece l’ha lasciata sola. L’ha lasciata vuota.
 
 


“… lasciala, Abel. Adesso lasciala dormire, resto io con lei. Hai sentito cosa ha detto lo zio Kevin, deve essere controllata di continuo e se ti addormenti anche tu…”

“Io non mi addormento.”

“… ma allora non vuoi proprio darmi retta? Tu sei troppo piccolo per stare sveglio tutta la notte e tuo fratello non può rimanere da solo, è già abbastanza spaventato. Se vuoi davvero aiutarmi va' in camera tua e bada a lui, non ho tempo per i capricci, lasciala dormire e…”

“No.”

“… Abel! Ti prego, non ti ci mettere anche tu! Non ne ho già abbastanza, di preoccupazioni?”

“Gliel'ho promesso, mamma… io gliel’ho promesso. Non mi muovo da qui.”
 

 

“Me l’hai promesso, Abel… tu hai promesso..." piange nel cuscino già inzuppato e stringe forte i pugni, le unghie scavano solchi di dolore nella carne viva. Adesso è sveglia davvero, abbastanza da sapere che sta piangendo su un cuscino e non sul petto di lui. Le lacrime che le bruciano la gola stanno bagnando una federa, non i risvolti della sua camicia sempre troppo slacciata, non i lembi del fazzoletto sempre legato attorno al collo. È soltanto una federa, c’è soltanto un cuscino. Lui non è davvero qui.
 


 
“Sei davvero qui…” arriccia il nasino e lo strofina contro il petto di lui, indietreggia senza sciogliersi dal suo abbraccio mentre si stropiccia gli occhi per guardarlo, “… ma quanto ho dormito?”

“Un bel po’.”

“Lo sai che ho sentito la voce della mamma? Forse però me la sono sognata…”

“Non te la sei sognata, è venuta a controllare di continuo.”

“… sembrava arrabbiata, lo sai? È arrabbiata con te?”

“Con me?" Lui sbuffa via un sorrisetto sfrontato, un sopracciglio si solleva appena. "Ma fai sul serio, l'hai mai vista arrabbiata con me?”

“Allora con me…”

“Ehi, non è arrabbiata con nessuno," le solleva il mento e la guarda, il sorriso tagliente si smorza in uno molto più dolce, "non ce l'ha con te, Georgie. La mamma è soltanto preoccupata.”

“… però non c'è.”

“Ci sono io, non ti basta?”

Sì, certo che basta. In realtà è tutto quello che serve per farle tornare il sorriso, uno dei più luminosi. “E sei rimasto sempre qui?”

“Non mi sono mai mosso.”

“Senza dormire?”

"Senza dormire."

“E non sei stanco?”

“Di te? Certo che sono stanco, sei sveglia da due minuti e già non ti sopporto più.”

“Bugiardo…”

“È vero invece, eri meglio quando dormivi. Sei fastidiosa, Georgie... e poi sei viziata, capricciosa…" lui ride e prova a girarsi nel letto, e invece non ci riesce, perché lei gli sta avvinghiata addosso come un koala, "... e appiccicosa, sei anche appiccicosa. E soprattutto sei…”

“… falla finita!”

“… ecco, vedi? Anche permalosa…”

“Oh, insomma! Basta! Smettila, Abel!”
 


 
Abel. Il suo nome sulle labbra ha un sapore, sempre lo stesso, da quando ha memoria. E lei non riuscirebbe mai a descriverlo a parole, a nessuno, ma saprebbe riconoscerlo all’istante tra tutti gli altri sapori del mondo. Il suo nome sa di lui, sa di casa, sa di loro due insieme e di tutto quello che hanno fatto, delle cose che hanno visto, di quelle che hanno sognato, sa di tutto quello che lui è sempre stato per lei. Non riuscirebbe mai a descriverlo ma se si concentra, se si impegna abbastanza, è quasi certa di riuscire a ricordare la prima volta che l'ha sentito sulle labbra. La prima volta che l’ha pronunciato.
 
 


Il calore del fuoco, lo scoppiettio rassicurante nel caminetto acceso, i riflessi delle fiamme tra i capelli neri di Abel seduto sul pavimento accanto a lei, tra quelli di Arthur che invece è sdraiato a pancia in giù vicino alla cesta di vimini dove i gattini stanno tormentando la loro mamma. Le risatine sommesse e gli sguardi complici, quelli che non hanno bisogno di parole, la pelliccia morbida sotto le dita e i miagolii acuti dei cuccioli quando sono davvero piccoli, quando hanno appena aperto gli occhi e tutto li incuriosisce e li sorprende. Il ticchettio dei ferri che lavorano la lana, i gomitoli colorati che rotolano per terra. La voce di sua madre, dell’unica madre che abbia mai conosciuto.

“… e con quello che mi facevi passare, ti correvo dietro tutto il santo giorno e tu chiamavi sempre e solo papà. È stata la tua prima parola, la ripetevi di continuo.”

Un lampo di azzurro, gli occhioni limpidi di Arthur che si sollevano di scatto e cercano quelli della mamma. “E io, invece?”

“Tu eri anche peggio di lui, non mi hai fatto dormire una sola notte per mesi interi! Ma almeno mi hai dato soddisfazione, piccolo mio... hai detto prima ‘mamma’!"

Un altro paio di occhioni enormi, verde giada stavolta, si sollevano dalla cesta di gattini per cercare quelli della mamma. Ma lei non li guarda, è di nuovo concentrata sul lavoro a maglia. “E io? Io che cosa ho detto, prima 'mamma' o ‘papà’?”

“Nessuno dei due, Georgie... tu hai detto ‘Abel'.”

Resta a bocca aperta. Sposta lo sguardo su suo fratello, che finge di prestare attenzione soltanto ai gatti e sta facendo davvero del suo meglio per trattenere il sorrisetto sfacciato che gli tira l'angolo della bocca. E i suoi occhi brillano quando la sfiorano di sfuggita, uno scintillio di verde mare, un abisso così profondo e intenso tra le ombre dei capelli che gli ricadono sul viso. E lei è estasiata, rapita, assolutamente incapace di distogliere lo sguardo da lui. “Davvero, mamma? Davvero ho detto prima ‘Abel’?”

I ferri smettono di ticchettare e la mamma sospira, sollevando un viso ancora troppo giovane per essere già così stanco. "Sì, davvero… chiamavi sempre lui, è stata la tua prima parola.”
 



Deve averlo capito in quel momento, di amarlo.
La prima volta che l'ha chiamato per nome.
La prima volta che ha sentito quel sapore.
La prima volta che ha visto i suoi occhi brillare, perché lei aveva imparato a chiamarlo per nome.
 


 
“Abel…”

“Dillo ancora.”

“Abel…” rovescia la testa all’indietro, inarca la schiena sotto di lui e gli avvolge una gamba attorno ai fianchi, lo attira più vicino. E lui spinge più forte e si muove più veloce e il suo nome le cade di bocca insieme ai sospiri, ai gemiti incontrollati e sfatti, morbidi, arresi, “… Abel... Abel...”

“Ancora.”

 

 
“Abel…” adesso è un gemito di dolore muto, un mormorio strozzato, soffocato nel cuscino. Non vuole che suo padre la senta piangere, non vuole vederlo correre di nuovo qui a preoccuparsi per la sua bambina che singhiozza nel sonno ogni notte. Lei ha promesso. Ha promesso di essere felice, di essere forte, coraggiosa, ha promesso di ricominciare a sorridere alla luce del sole. Ma anche lui aveva promesso, lui che poteva fare tutto. E se lui non ci è riuscito, se quella promessa è l’unica che non ha mantenuto, come può sperare di riuscirci lei?
 
 


“Stringi la mia mano.”

“Fa male lo stesso…”

“Lo so, tu stringila. Più forte che puoi.”
 



 
Ma la sua mano non c’è. Lui non c’è, tra le dita non c'è altro che la stoffa stropicciata della camicia da notte, pieghe di seta e sbuffi di pizzo che drappeggiano la curva di una pancia ogni giorno più grande. E lui non c’è, non è qui a vederla crescere. Non c’è, forse non l’ha neanche sentita quando lei gli ha detto di aspettare un bambino. Forse non ha neanche avuto il tempo di realizzare che sarebbe diventato padre, un attimo prima di morire.
 
 


“Ti ho sentita.”

“E come hai fatto? Non potevi sentirmi dall'ovile…” lei smette di massaggiarsi la gamba e lo fissa sospettosa, incredula, resta seduta per terra e inizia a raccogliere il bucato sparso intorno mentre lui recupera la cesta che è ruzzolata fino allo steccato, “… allora, me lo dici come hai fatto? Guarda che è impossibile, Abel… non ho nemmeno urlato, non puoi avermi sentita.”

“Sono qui, no? Non lo so come ho fatto, ti ho sentita,” lui borbotta a mezza bocca, posa la cesta sull'erba accanto a lei che inizia a riempirla di nuovo. E lui la ferma, le blocca il polso e le solleva il mento per guardarla. “Lascia perdere il bucato, ci penso io. Ti sei fatta male?”

“Sì, alla cavigli-… aaah! Abel! Mettimi giù! È soltanto una storta, posso camminare, mettimi giù!”
 


 
Dio, lo sente ancora ridere. Sente la sua voce vibrare, ne sente il graffio e il calore, la forza delle sue braccia che la circondano e la sollevano come se non avesse peso. E lo sente prenderla in giro per essere sempre così distratta, così goffa, così maldestra da non riuscire neanche a stendere il bucato senza inciampare e ruzzolare nel cortile in mezzo a un mucchio di lenzuola bagnate. Lo sente ridere e sente il tocco delle sue dita sulla caviglia gonfia, quando lui la mette seduta sul tavolo della cucina per controllare i danni. Sente le risate incastrarsi in gola e i respiri frantumarsi, nel petto di entrambi, quando l’orlo della gonna sale un po’ troppo sulle gambe nude e lui ritrae la mano, subito, come se si fosse scottato al calore di una fiamma. E per un attimo, un lampo così breve da non darle il tempo di elaborare correttamente il pensiero, lei sente il desiderio, la voglia, che quella mano resti esattamente lì dov’è. Il bisogno fisico che lui la tocchi ancora.
 


 
“Stringimi, Abel… abbracciami, stringimi forte.”

“Georgie, non… no, smettila, siamo grandi per queste cose…" lui ringhia sottovoce, lancia una rapida occhiata a Arthur e si assicura che stia ancora dormendo. E scivola all'indietro verso il bordo del letto per fare spazio a lei che gli si è appena intrufolata sotto le coperte, e ringhia un po' di più, "... Georgie, tu devi smetterla di fare così! Se la mamma ti trova di nuovo qui... sparisci, tornatene nella tua stanza!”

“Perché? Voglio dormire con te.”

“No… Georgie, tu non…”

“E dai, fratellone… smettila di brontolare..." ridacchia lei in un sussurro da cospiratrice, nasconde il viso nell'incavo del suo collo e gli si avvinghia addosso come un koala, "... non fare tante storie, abbracciami e basta. Non riesco a dormire senza di te.”
 
 


“Non riesco a respirare, Abel... io non respiro più…” si tira su di scatto, seduta al centro del letto, boccheggia in cerca d’aria e sa già che non ne troverà abbastanza, “… fa troppo male, ti prego fallo smettere… fa’ qualcosa, qualsiasi cosa, ma fallo smettere…”
Nasconde il viso tra le mani e ci singhiozza dentro e lo sente in quel momento, un tocco così leggero, quasi impercettibile. Sgrana gli occhi nel buio della stanza, trattiene perfino i singhiozzi mentre si chiede se l’abbia sentito davvero. E mentre se lo chiede lo sente di nuovo, quello sfarfallio improvviso sulla pancia. Solo che non è sulla pancia in realtà, non proprio. È dentro.
Le dita tremano mentre spostano le coperte e scivolano sulla seta della camicia da notte, e premono in quel punto esatto, incerte. E lo sente ancora, e poi ancora, e non l’aveva mai sentito prima e adesso invece non riesce a sentire più nient’altro.
“Il nostro bambino…” sussurra, più piano che può, poggiando di nuovo la schiena tra i cuscini, “… Abel, è il bambino… il nostro bambino si muove…”
Continua a sfiorare la pancia inseguendo il frullare d'ali che la accarezza da dentro, mentre i singhiozzi si calmano e il respiro torna quasi regolare, e lacrime diverse scivolano lungo le guance.
Non è sola, non è vuota.
Lui non l’ha lasciata sola.
 
 


“Fa ancora male?”

“Va un po’ meglio…” lei si massaggia la pancia e si siede a gambe incrociate al centro del letto, ormai è quasi giorno, sempre più luce entra dalla finestra aperta e rischiara la stanza. E lui strizza gli occhi e sbadiglia, si stiracchia come un gatto insonnolito. E lei gli sorride. "Sei stanco?”

“No..."

“Sei ancora arrabbiato?"

“... sì.”

“Con me?”

“Sei proprio una scema, lo sai?” Si siede anche lui e le sorride, il buffetto è inevitabile, la centra dritta in mezzo alla fronte, “io non sono mai arrabbiato con te.”

“Anche se faccio qualcosa di sbagliato?”

“Tu fai sempre qualcosa di sbagliato.”

“E allora perché non ti arrabbi?”

“Anche se mi fai arrabbiare poi mi passa,” lui scrolla le spalle e si strofina le mani sul viso, ci sbadiglia dentro, “con te mi passa sempre.”

“E perché?”

“Non lo so, in realtà non ci ho mai pensato,” lui inclina un po’ la testa e la guarda, incerto, perché non se l’è davvero mai chiesto il motivo. Non ancora. “Con te è così, non lo so il perché. È così e basta, Georgie... è tanto strano?”

“Non lo so…” lei inclina la testa dallo stesso lato e lo fissa, incerta, incredibilmente seria, “… forse è un po’ strano, ma è così anche per me. Con te è così e basta… non lo so il perché.”
 

 

“Perché ti amo, Abel...” mormora a occhi chiusi, si sdraia su un fianco e si rannicchia meglio sotto le coperte, senza mai smettere di accarezzarsi la pancia, “… ti ho sempre amato così, ogni giorno, da quando riesco a ricordare.”
Si accorge di scivolare via dalla realtà e cadere di nuovo nel sogno quando un’altra mano copre la sua, molto più grande, più calda e più sicura. Le dita si intrecciano insieme per istinto, scorrono sul palmo, scivolano da sole negli spazi giusti. E lei sente già un po' meno dolore. “Sei qui…”

“Sono qui." Un sussurro teso, basso e graffiato, un bacio leggero tra i capelli dietro l’orecchio. "Va tutto bene, Georgie… starai bene.”

“Ma fa così male…”

Lui le sposta i capelli da un lato e la bacia di nuovo, sulla spalla stavolta, e le sue labbra sono calde e lei lo sente respirare sulla pelle. “Lo so… fa male anche a me.”

“… avrei voluto dirtelo... avrei voluto dirti tante cose, e non ti ho neanche mai detto che ti amo…”

“Me l’hai detto, io ti ho sentita. Me l’hai detto ogni giorno, da quando riesco a ricordare.”

Lei sorride tra le lacrime e si accoccola meglio contro di lui, la schiena premuta sul suo petto e le mani intrecciate insieme sulla pancia, sul loro bambino. La sola cosa reale per cui valga ancora la pena di svegliarsi dai bei sogni. “Non te ne andare, Abel… puoi restare finché non mi sveglio?”

“Non mi muovo da qui.”

“Me lo prometti?”

“Te lo prometto.”

























Scritta di getto subito dopo aver finito di rileggere il manga, è sparita qualche ora perché l’ho sistemata un minimo e ho corretto svariati errori. Ce ne saranno di sicuro altri che al momento mi sfuggono, ma è un po’ uno sfogo a caldo e volevo condividerlo così com'è. Grazie per averlo letto ^^

- Aly

 







   
 
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