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Autore: J85    29/09/2022    0 recensioni
Quinto ed ultimo capitolo del pentagono di racconti con protagonista Sara Silvestri.
Nello specifico, si tratta di una mia personale rivisitazione del manga "Cyborg 009", in cui la storia è stata decisamente modificata.
Inoltre, questa storia a capitoli servirà ad esplorare il mio personale universo narrativo, sviluppato durante tutti questi anni di passione per tutti questi anni di scrittura e immaginazione.
Per uno strano scherzo del destino, nove persone, di varie nazionalità e professione, si ritrovano con la propria vita totalmente stravolta dall'essere stati trasformati in mutanti, ognuno con un suo potere specifico.
Ad aiutarli, arriverà proprio la nostra Sara che li addestrerà per affrontare al meglio l'organizzazione criminale nota come Spettro Bianco, in tutta una serie di avventure, compresi what if e crossover.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Cross-over, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 2

I nove prendono coscienza di sé”




Buio più totale. Poi tornò la luce.

Nove persone, di nazionalità e ceti sociali differenti, si risvegliarono di colpo sperando di aver soltanto sognato un incubo, per poi trovarsi a viverlo sul serio. Apparentemente ognuno si trovava in una piccola stanza, dalle pareti spoglie e la mobilia assente, che ricordavano in maniera inquietante le celle usate nei manicomi.

“Ma dove diavolo sono? E come ci sono finito?” era il quesito che, praticamente all’unisono, si chiedevano i prigionieri.

D’un tratto qualcosa si accese. Dopo un iniziale spavento, i nove si accorsero dello schermo fissato nel muro, ad un altezza di circa due metri.

“Ben svegliati signori…” furono le parole che la donna comparsa sul display sembrava rivolgere a loro “Il mio nome è Sara e, onde evitare qualsiasi fraintendimento, non sono la vostra carceriera…”.

Questa informazione sembrò tranquillizzare l’animo di alcuni.

“… Per l’esattezza, non dovete nemmeno considerarvi prigionieri” proseguì lei, con i capelli biondi e gli occhi castani a caratterizzare un viso davvero piacevole “e vi trovate in questo lugubre luogo soltanto perché abbiamo deciso di salvarvi la vita…”.

I più attenti tra gli ascoltatori notarono subito che la ragazza si era appena espressa al plurale.

“… Dunque, quello che sto per dirvi non sarà semplice da comprendere ma, nonostante ciò, desidero comunque la vostra più totale fiducia: Voi nove siete ora da considerare dei mutanti!”.

Ciascuno di loro, già sorpreso di non essere l’unico in quell’assurda situazione, rimase totalmente spiazzato da quell’ultima rivelazione, considerando quanto grottesca fosse.

“Per la precisione, a rendervi così è stata un’associazione criminale contro cui ci battiamo con tutte le nostre forze. Tale associazione ha preso il nome di Spettro Bianco, a cui capo vi è il terrorista internazionale Mohammed Al-Shirida…”.

Tutti nomi che, ciascuno di loro, aveva già udito, anche solo di sfuggita.

“… tali fuorilegge, come folle gesto di sfida nei nostri confronti, hanno scelto in maniera casuale nove esseri umani, inserendo nei loro corpi un particolare gene, che gli studiosi identificano come “Gene H”, che, una volta dentro l’organismo, altera in maniera irrecuperabile il DNA…”.

Dopo quest’ultima dichiarazione, l’unica donna del gruppo, proruppe in un pianto disperato.

“… Ma è proprio in questa situazione che entriamo in gioco noi!” esclamò quasi esaltata l’autodichiaratasi Sara “Noi dell’Humana siamo riusciti a prelevarvi, purtroppo dopo che il gene era già venuto a contatto con voi, sia in forma liquida che gassosa…”.

In molti fecero mente locale, ripensando agli ultimi avvenimenti che la loro mente, ora molto scossa, ricordava.

“… Per darvi l’opportunità di vendicarvi!” la signora prese un attimo di pausa “Nello specifico, a causa dello stesso Gene H, ognuno di voi ha acquisito una capacità sovrumana o, se preferite, un superpotere…”.

Dopo questo, lo shock fu totale per tutti.

“… Per questo motivo, ognuno di voi è stato equipaggiato con un’uniforme antiproiettile ed in grado di adattarsi alle vostre nuove abilità…”.

D’un tratto, tutti e nove si accorse del loro nuovo vestiario: una calzamaglia rossa con, cucita sul davanti, un’enorme lettera H di colore giallo. Dello stesso colore erano anche i guanti, il mantello e gli stivali che avevano indosso. A concludere tutto vi era una cintura nera ben strinta alla vita.

“…Infine vado ad elencarvi, rispettivamente per ciascuno di voi, le vostre nuove capacità acquisite: cominciamo dal Soggetto N. 1: Igor Wansa; hai acquisito poteri mentali come telepatia e telecinesi”.

“Soggetto N. 2: Jack Lincoln; hai acquisito la capacità di volare”.

“Soggetto N. 3: Frédérique Arone; hai acquisito varie super viste, per l’esattezza telescopica, microscopica, a raggi x, calorifera, notturna e termica”.

“Soggetto N. 4: Andrea Alberti; hai acquisito la capacità di mutare ogni parte del tuo corpo a piacimento in un’arma da fuoco”.

“Soggetto N. 5: Geran Giunan; hai acquisito forza e resistenza sovrumane”.

“Soggetto N. 6: Chang Yu; hai acquisito la capacità di emettere vampate di fuoco dalla bocca”.

“Soggetto N. 7: Bernardo Borghi; hai acquisito la capacità di mutarti in qualsiasi animale od oggetto a tuo piacimento”.

“Soggetto N. 8: Juna; hai acquisito la capacità di resistere alla pressioni sottomarine”.

“Ed infine Soggetto N. 9: Johnny Wayne; hai acquisito una velocità corporea pari a quella della luce”.

I nove prigionieri erano ora più consapevoli di loro stessi.

“Capisco il vostro attuale disorientamento…” riprese la signorina sullo schermo “e, d’accordo con i miei capi, abbiamo deciso di lasciarvi liberi di prendere ciascuno la propria scelta. I vostri nuovi poteri vi saranno utili per la fuga e, da parte nostra, non vi sarà alcun tentativo di riportavi qui”.

Con loro grande sorpresa, i nove compresero perfettamente ogni singola parola della donna, che presentava un ben riconoscibile accento italiano. Informateli di questo, la donna misteriosa interruppe definitivamente la comunicazione.


Una volta che lo schermo tornò totalmente scuro, il ragazzino russo, forse per la sua giovane età, decise di prendere tutti quegli ultimi attimi come un grande gioco. Per questo girò immediatamente il capo verso le sbarre presenti nell’unica piccola finestra presente. Lei aveva assicurato che con la sua mente poteva fare dei prodigi, ed è ciò che subito tentò. Concentro i propri pensieri verso il grigio ferro che le componevano e, come in uno dei più belli sogni infantili, la materia iniziò ad obbedire al suo volere psichico. Infine, una volta piegate le due centrali, fu un gioco da ragazzi per Igor passare attraverso l’apertura appena creatasi, aiutandosi con una sedia lì presente per arrivarci meglio.


La francesina, una volta a conoscenza dei suoi nuovi poteri acquisiti, non smetteva un attimo di toccarsi i suoi occhi chiari. Constando che, per lo meno al tatto, nulla era mutato da prima di quella spiacevole avventura.

“I miei occhi!” si ripeteva costantemente “Cosa hanno fatto ai miei occhi?”.

Dunque ricordò il finale del comizio della bionda sullo schermo. Se era ciò che volevano, non li avrebbero costretti a rimanere. Tornò poi alla parte che la riguardava, cercando di richiamare alla mente l’elenco delle varianti della sua vista avanzata.

Dopo qualche secondo, rammentò la vista a raggi x dunque, se era riuscita a ben interpretare quella definizione, in pratica si trattava di vedere anche attraverso i muri.

“Tentare non nuoce” si convinse iniziando a scrutare intensamente la barriera di mattoni che aveva di fronte. Fu più semplice di quanto supponeva e, come per magia, la parete scomparve in dissolvenza, lasciando spazio al verde di una foresta.

“Oh mon dieu!” esclamò, portandosi la mano alla bocca e, al contempo, facendo tornare visibile il muro grigio.

“Non è possibile! Non è possibile!” iniziò ad urlare, ghermendosi la testa con le dita affusolate.

Dopo aver camminato nervosamente per la stanza per qualche minuto, ripeté nuovamente la lista delle super viste. Vista calorifera. Dunque sparare raggi laser dagli occhi.

Questa volta alzò il capo e andò a fissare la finestrella sbarrata. Un minimo di concentrazione e due raggi scarlatti andarono a colpire i piccoli tubi metallici, procurando un minimo fragore e qualche scintilla.

“AH!” fu l’urlo di spavento della donna, shockata da cosa era riuscita appena a fare, con le parti tranciate che caddero rumorosamente sul pavimento.

La via per la libertà era libera. Bastava solo riuscire ad arrivare verso quella piccola fessura in alto. A quel punto Frédérique rimembrò di essere una delle migliori ballerine di Parigi. Con la giusta rincorsa, il balzo più elevato possibile, aiutandosi appoggiando a mezz’aria la punta di un piede sulla stessa parete, scavalcò rapida e fu all’esterno.


“Ancora quelle maledette armi!” imprecò furioso Andrea “Non mi è stata nemmeno concessa la possibilità di morire in quel dannato incidente!”.

Con le lacrime agli occhi, per un attimo gli comparve di fronte l’immagine dell’unica persona che per lui contava nella vita: la sua fidanzata Francesca. Doveva fuggire da quel posto per lei.

Ad una prima occhiata, il muro che aveva davanti non sembrava presentare particolari qualità di resistenza quindi, per un vero e proprio arsenale vivente quale era diventato, era uno scherzo poterlo tirare giù. Alla fine prese la decisione.

“Va bene, figli di puttana! Volete la guerra? Facciamo la guerra!”.

Arrivato con la schiena verso la parete di fronte a quella da abbattere, che tra l’altro presentava una porta, quasi sicuramente chiusa a chiave e, ancora più probabile, che dava verso l’interno dell’edificio, il ragazzo chiuse gli occhi alla ricerca della giusta concentrazione.

“Trovato!” ruppe di colpo il silenzio “Penso che dovrebbe bastare la cara e vecchia bazookata!”.

Appena terminate le sue parole, sentì uno strano formicolio alla mano destra. Preoccupato, andò subito a guardare cosa stesse succedendo e, con suo grande orrore, vide il suo arto deformasi per poi, infine, assumere la forma di un bazooka a raggio ridotto.

Alberti arrivò vicino al vomitare ma si accorse, o meglio ebbe la sensazione, che l’arma era carica e pronta a sparare. Allora un ghigno perfido gli si disegnò sul viso e, aiutandosi anche con l’unica mano rimasta umana, piazzò l’arma da fuoco sulla sua spalla destra.

Fissando per bene l’obiettivo tramite il mirino, lasciò partire il colpo. Dalla bocca dell’arma partì davvero un piccola razzo che, come da previsioni, si schiantò contro i mattoni. Il forte rinculo fece volare il giovane italiano gambe all’aria. Quest’ultimo si rialzò a fatica, tossendo per l’alta quantità di polvere creata dall’esplosione. Una volta che questa nebbia artificiale si diradò, si rese conto della riuscita del suo piano.

“Sì! Fanculo figli di puttana!” urlò mentre correva verso la luce proveniente dalla grande apertura.


L’enorme indiano stava ancora riflettendo sulle parole pronunciate dalla donna virtuale. Sapeva già di possedere un’elevata forza fisica, donatagli direttamente dal Grande Spirito. Dunque non concepiva come questo ulteriore dono potesse essergli d’aiuto nella propria esistenza. Ma di certo sapeva che il suo popolo, gli Shoshoni, non si era mai arreso, e così avrebbe fatto anche uno dei suoi ultimi figli.

Fatta la sua scelta si accorse, tastando, che nei pantaloni della singolare uniforme che stava indossando vi era qualcosa. Infilandoci la sua enorme mano estrasse degli anonimi tubicini di plastica. O almeno così potevano sembrare ad un primo sguardo, ma Geran sapeva di cosa si trattava: i colori per la pittura facciale della sua tribù. Ciò che ne seguì fu una delle più solenni cerimonie per la cultura del suo popolo.

Ora che aveva riacquistato i suoi colori, poggiò violentemente le sue stesse possenti mani sui mattoni grigi.

“Che il Grande Spirito mi guidi” sospirò tra sé e sé.

Di scatto, i muscoli del suo corpo si tesero fragorosamente. Una volta che iniziò a digrignare i denti, il muro stesso sembrò imitarlo, aprendo delle crepe sulla sua superficie. Il gigante aumentò sempre più la sua pressione. Ormai la parete era diventata una grossa ragnatela di crepe. Con il primo potente urlo emesso dalla bocca di Giunan, i mattoni crollarono, come spaventati.

Quasi di colpo, il pellerossa si trovò al di là della sua cella. Un grido di vittoria, come solo il suo popolo poteva emanare, riecheggiò in tutta la zona. Poi qualcosa catturò la sua attenzione.


il dandy moderno sembrò annoiato anche da questa assurda avventura.

“Diamine! Tutto ciò è seccante!”.

Anche la sua stanza presentava la medesima apertura verso l’esterno delle precedenti. Ma con soltanto la più bella ambizione di ogni uomo, è cioè la capacità di poter volare, non poteva andare molto lontano.

Battendo rumorosamente la punta del piede sul pavimento, tenendo le braccia incrociate ed il viso imbronciato Jack Lincoln cercava di trovare una soluzione.

Indispettito, si scaglio con violenza verso la porta “Aprite subito! Voi non sapete con chi avete a che fare! Brutti bastardi!”.

Nessuna risposta.

“Porca miseria! Ci deve pur essere un modo per uscire da qui!” si convinse l’inglese, cercando di non precipitare nello sconforto più totale.

Improvvisamente, due frastuoni, uno di seguito all’altro, riempirono l’aria, facendo tremare il suolo e mandando lo sfortunato con il sedere per terra.

“Ma che diavolo?!” esclamò, portandosi vicino all’altra parete da cui era provenuti i due potenti rumori.

Non riuscendo ad arrivare comodamente alla finestrella, cercò di allungarsi il più possibile, riuscendo infine nel suo intento ad arrivare ad oltre due metri di altezza. Da lì riuscì ad intravedere delle figure umane, o almeno così sperava, ed un bosco nelle vicinanze.

Facendo però mente locale, sorpreso di quanto in alto era riuscito ad arrivare, controllò i suoi piedi, che stavano tranquillamente fluttuando nel vuoto.

“Oh santo cielo!” proruppe “Ma allora è tutto vero!”.

Con un sorrisetto ebete dipinto sulla bocca, notò all’esterno una figura gigantesca giungere nella sua visuale. Allora colse la palla al balzo.

“Scusa omaccione…” tentò di catturare la sua attenzione “Sì, dico a te. Potresti darmi una mano ad uscire di qui? Da solo non so come fare”.

L’altro non proferì parola ma, a suon di pugni, tirò giù in un attimo il muro.

“Wow!” fu l’ultima esclamazione di Jack, ancora aggrappato alle sbarre della finestrella.


“Come sarebbe a dire fuoco dalla bocca?” proseguiva nella sua protesta il cuoco cinese “Voi mi avete preso per un drago? Per quanto mi riguarda di drago io ho solo le nuvolette nel mio ristorante!”.

Ovviamente non vi era nessuno nella stanza in grado di replicare. L’ometto si grattava nervosamente la testa, cercando di sbollire la sua rabbia. Poi iniziò a sentire del movimento verso l’esterno dell’edificio.

“Chi c’è là? Mi sentite?”.

Ma ancora nessuna risposta.

L’ira tornò ad accumularsi in lui e, quasi di getto, sputò una calda lingua di fuoco verso la finestra.

“Per Mao! Che diavolo è successo?” esclamò sorpreso Chang.

Fece subito mente locale “Io davvero sputo fuoco? Come drago!”.

Riempì bene i suoi polmoni d’aria e, scatenando tutta la sua furia, investì le piccole sbarre d’acciaio con un’infernale vampata. Non ci volle molto prima che esse iniziassero a squagliarsi come burro. In pochi minuti, la luce filtrava pienamente nella cella del prigioniero.

“Bene! Ben fatto!” si congratulò con sé stesso.

A questo punto però sorse un altro problema: come raggiungere l’apertura nella parete, tenendo conto inoltre dell’altezza poco elevata di Yu.

Ma l’uomo non si perse d’animo ed iniziò ad accumulare sotto di essa ogni cosa, presente là dentro, che poteva tornargli utile.

Per prima cosa spostò, rumorosamente e con una certa fatica, la brandina provvista di materasso che si trovava in un angolo. Poi una misera sedia in legno traballante e, infine, sciolse il braccio in cui si trovava lo schermo da cui aveva parlato Sara, afferrandolo al volo e stando attento a non bruciarsi con la parte ancora incandescente.

Anche in cima a questo particolare totem, l’asiatico fu costretto comunque a mettersi in punta di piedi per arrivare all’orlo della salvezza.


Il messicano non stava più nella pelle.

“Grazie signore! Tutto ciò è fantastico! Con questo potere voglio vedere chi oserà più darmi dei fastidi, quando sarò tornato a casa!” quest’ultimo discorso lo fece rinsavire “Ah, giusto! Prima devo tornarci!”.

Lisciandosi i baffi con le dita, squadrò per bene tutta la stanza da cima a fondo.

“Dunque… per prima cosa potrei trasformarmi in una chiave ed aprire semplicemente la porta. Ma poi non so cosa potrei trovarci dietro e, a differenza di quell’italiano, non credo di potermi trasformare in un arma. Bene, non mi resta che puntare direttamente verso l’esterno. Quindi direi di trasformarmi in un potente bulldozer e tirar giù questo inutile muro. Però di rumore ce n’è già stato abbastanza ultimamente. Allora potrei soltanto mutarmi un piccolo uccellino indifeso e volare felice verso la libertà. Oppure…”.

La sua fantasia sfrenata venne fermata bruscamente da un terzo frastuono, seppur più leggero degli altri.

“Però c’è gente che si sta dando da fare…” si ammutolì di colpo non appena sentì delle voci provenire dalla stanza a fianco.

Purtroppo non riuscì a sentire molto, dato l’elevato spessore della parete, solo qualche parola indefinita come “Harlem” o qualcosa del genere.

“Bueno, ora è il mio turno!” si decise infine, scrutando la finestrella con le sbarre, in alto, scegliendo la terza delle opzioni da lui pensate poco prima.

Uno strano formicolio invase tutto il suo corpo, mentre aveva ben in mente l’animale in cui si stava tramutando. A poco a poco, vide la stanza alzarsi silenziosamente, per poi comprendere che in realtà era lui che si stava rimpicciolendo.

Pochi secondi erano bastati per sostituire Bernardo Borghi con un passerotto comune. Notando il frutto dei suoi sforzi, il volatile iniziò a cinguettare di felicità. Poi riprese di nuovo coscienza di sé e si apprestò a spiccare il volo.

Volo che però si concluse amaramente con il becco sbattuto contro i mattoni.

Una volta precipitato a terra, il pennuto si rimise faticosamente in piedi per effettuare un nuovo tentativo. Questa volta ci andò più cauto e, sbattendo più velocemente che poteva le ali, cercò di arrivare il più vicino possibile all’altezza della finestrella. Una volta riuscito in ciò, tentò di prendere la giusta corrente d’aria proveniente proprio da essa. Rilassando i muscoli delle ali vi riuscì e, passando in verticale tra le due sbarre centrali, si trovò con il minuscolo muso baciato dai caldi raggi del sole.


Nella cella più esterna, l’americano cercava ancora di comprendere la sua situazione.

“Ma è possibile? Siamo addirittura in nove rinchiusi come dei ladri! Anzi, addirittura come malati di mente! Almeno fatemi sapere come si è conclusa la corsa!” sbraitava contro ignoti.

Una volta apparentemente rassegnatosi, diede uno sguardo alla parete alla sua sinistra.

“Forse un altro prigioniero si trova dietro quel muro?” tornò a riflettere ad alta voce “Aspetta un attimo! Cosa aveva detto quella bambola bionda? Giusto, ora ho la supervelocità!” esultò, alzando le braccia al cielo.

Una volta riabbassatele, tornò pensieroso “Vediamo un po’… dai fumetti della mia infanzia, mi sembra di ricordare che, chi aveva questo superpotere, poteva anche attraversare le barriere fisiche, come appunto questo muro, facendo accelerare le particelle del proprio corpo…”.

Passò ancora qualche secondo prima che il pilota si decidesse ad effettuare una prova.

“Ok!” tirò un grosso sospiro “Andiamo! Pronti, partenza, via!” la partenza fu ottima ma, dopo pochi passi, Johnny si arrestò di colpo.

“Cazzo! E se poi quella stronza stesse bluffando?”.

Ancora pieno di dubbi, squadrò nuovamente i mattoni grigiastri.

“Va bene! Al limite mi prenderò una facciata contro il muro…”.

Ora sembrava davvero tutto pronto “Pronti, partenza, via!” con la giusta rincorsa, Wayne scattò verso la parete. In quei pochi attimi, sentiva tutto il suo corpo rispondergli alla perfezione, come solo la sua autovettura era stata in grado di fare fino ad allora.

Passato neanche un secondo si ritrovò con davanti un’anonima parete grigia.

“Tu chi sei?”.

Il biondo sobbalzò a quella domanda, arrivata in maniera tanto improvvisa. Subito voltatosi, vide un ragazzo di colore, all’incirca della sua stessa età.

“Ciao, mi chiamo Johnny, tu come ti chiami?”.

“Juna”.

“Sei di Harlem?”.

“No, Congo”.

I due rimasero entrambi un attimo spiazzati.

“Beh comunque…” riprese lo statunitense “Sono qui per tirarti fuori da questo buco!”.

“Tu che potere hai?”.

“Supervelocità”.

“Io non capito bene, ma credo di poter andare sott’acqua”.

“Oh… ok! Beh attualmente però non ti è molto utile, giusto?”.

L’africano non gli rispose nemmeno.

“Dunque, se davvero sono riuscito ad attraversare quel muro” ipotizzò, indicandogli la direzione da cui era comparso “credo che, se ti stringi forte a me, riusciremo a farlo entrambi ed usciremo incolumi da qui”.

Lo zairese rimase ancora in silenzio, perplesso.

“Beh dai fratello! Piuttosto che restare prigioniero qua dentro…” tentò di convincerlo.

Juna infine sorrise “D’accordo, Johnny”.

“Benissimo! Allora, vieni un attimo con me…” detto questo, il duo si spostò nelle vicinanze della parete con la porta “Bene! Ora credo che ti convenga stringerti forte al mio busto”.

Il nero non sembrava ancora convinto del tutto.

“Forza Juna! Un po’ di coraggio cazzo!” sbottò il biondo.

A quel punto, l’africano si decise ad obbedire a Wayne che iniziò “Pronti, partenza, via!”.

In un secondo scarso, il giovane di colore si trovò con le gambe che gli fluttuavano nell’aria per poi, di colpo, atterrargli nuovamente al suolo. Questa volta però si trattava di un suolo erboso.

“Te l’avevo detto che ce l’avremmo fatta!” esclamò il suo salvatore.


In quei minuti, i nove ebbero modo finalmente di conoscersi gli uni con gli altri.

“Allora siamo davvero nove!” constatò felice Bernardo.

“Nessuno di voi, gentili signori, ha fame?” domandò Chang, sempre alla ricerca di nuovi clienti per il suo ristorante.

L’unica donna del gruppo si avvicinò all’unico minorenne.

“Ciao bimbo, io sono Frédérique e te come ti chiami?”.

“I-Igor” rispose timidamente l’infante.

“Non so voi gente…” attirò l’attenzione Johnny, una volta posato a terra il suo passeggero di colore “ma io me la filo!”.

“Sono d’accordo con te biondino, non voglio rimanere in un posto del genere un attimo di più!” accolse la proposta Jack.

La comitiva era però frenata nella fuga dalla natura impervia che si presentava dinnanzi a loro. L’unico a non esserne intimorito era l’africano che partì a gambe levate. Pochi secondi dopo fu la volta dell’indiano che, fatto qualche passo, si rigirò verso i sette rimasti “Voi non venite?”.

“Ok, ci sto!” esclamò l’uomo proveniente dagli Stati Uniti d’America “Chi arriva ultimo è un mutante!” e, detto questo, scattò via in un lampo di luce.

Gli altri rimasero a bocca aperta, vedendo in azione un potere mutante differente dal proprio.

“Bueno, lasciamo che gli altri ci precedano. Noi andremo del nostro passo, vero gigante?” sentenziò il messicano, dando una pacca d’approvazione sul corpo robusto del pellerossa.

“Aspettate un attimo!” allarmò tutti Andrea “Com’è che, nonostante siamo tutti di nazionalità differenti, riusciamo a capirci perfettamente?”.

I presenti si ammutolirono tutti, riflettendo sulla veridicità di quanto osservato dall’italiano.

Fu il britannico ad infrangere il silenzio “Personalmente preferirei pensarci nel salotto di casa mia, con davanti una fumante tazza di tè”.

“Allora vamos! L’importante per ora è mettersi in salvo!” approvò Borghi.

“Vieni piccolo” disse la francesina, con la mano aperta rivolta al russo “Tienimi la mano così non ti perderai”.

“Grazie” fu la parola udita da una giovane voce nella mente dalla ballerina.

Lì per lì sorpresa, tornò poi a guardare il ragazzino “Ah giusto! Tu sei il telepate”.


Dunque anche gli ultimi sette individui presero la via del bosco. L’inglese rifiutò di staccarsi da loro, utilizzando il suo potere del volo, per evitare di trovarsi disorientato in una zona aerea a lui sconosciuta. Ad ogni minimo rumore sospetto, il baffuto della comitiva gridava un “Cos’è stato?”, rintanandosi dietro l’enorme figura di Giunan. Fatti sempre amico gli energumeni, se ti è possibile. Era una delle regole che aveva imparato direttamente dalle strade di Città del Messico.

“Sicuro che non puoi trasformare la tua mano in una bussola?” insistette Yu.

“Negativo. Hanno detto solo armi. Comunque, già ci ho provato e non succede assolutamente nulla!” rispose seccato Alberti “Piuttosto perché non lo chiedi allo spagnolo lì?”.

“Sono messicano, amigo” controbatté giustamente l’interpellato “Però potrei davvero provare a…”.

Il loro battibecco fu interrotto da un nuovo scricchiolio sinistro.

“Questa volta l’avete sentito anche voi! Giusto?” riprese Bernardo.

“Magari è solo il ruscello lì di fronte…” azzardò una Arone sempre più spaventata.

“Non era un rumore di madre natura” tagliò corto Geran, mettendosi già in posizione di combattimento.

“Bene, si comincia!” lo seguì Andrea, tramutando la sua mano destra in una pistola Browning semiautomatica.

Nella selva, in quegli istanti, non si udiva alcun suono.

“Eccoli!” urlò il più giovane dei sette, sia con la propria bocca che con la propria mente.

Da dietro i tronchi presenti tutti attorno a loro, comparirono delle nere figure, non identificabili per via dei passamontagna sulla testa. Non diedero tempo ai fuggitivi di organizzarsi, facendo subito fuoco verso di essi.

Lo shoshoni caricò verso alcuni di loro, lanciando un urlo di battaglia tipico della sua tribù. Con suo stesso stupore, vide che le pallottole sparategli contro gli rimbalzavano contro.

Colui che doveva diventare un militare effettuò quello che, secondo per lo meno le previsioni di suo padre, era la prima cosa che gli avrebbero insegnato i suo superiori: Rispondere al fuoco con il fuoco. Ed il giovane se la cavava dannatamente bene.

La donna ed il bambino si strinsero sempre di più tra loro. Finché una pallottola non colpì la prima ad un braccio. Allarmato dal grido di dolore della fanciulla, Wansa si concentrò e, come con un magico incantesimo, bloccò il resto dei bussolotti in aria, facendoli infine cadere al suolo, ormai totalmente innocui. La transalpina, nonostante lo spavento iniziale, notò felice una cosa.

“Ragazzi! Queste uniformi sono antiproiettili!”.

“Buona a sapersi, allora nessuna pietà!” urlò il ragazzo di Trento “Anche tu, nanetto, datti da fare!”.

“Come osi? A chi hai detto nanetto?” lo rimproverò infuriato il cinese che, per tutta risposta, esalò una potente fiammata a qualche centimetro da lui, tramutando tre dei loro nemici in vere e proprie torce umane.

Il dandy, tremante come una foglia, cercò una disperata salvezza spiccando in un volo verticale. Purtroppo per lui, constatò che vi erano altri avversari anche aggrappati ai tronchi più alti degli alberi.

La faccenda si faceva sempre più disperata, con gli aggressori che, per assurdo, sembravano aumentare sempre più.

“Questa è davvero la fine” pensava Frédérique sull’orlo del pianto.

La sua disperata preghiera fu incredibilmente ascoltata. Un lampo rosso e giallo comparve di colpo, avvolgendo tutte le persone presenti. Nel giro di pochi secondi, gli uomini in nero giacevano a terra inermi.

“Mi chiedevo come mai ci mettevate tanto…” esordì Johnny Wayne, tornato finalmente visibile ad occhio nudo.

“Almeno noi ci siamo difesi, yankee” gli rispose serio Geran Giunan.

“Piuttosto perché te non sei intervenuto prima!” lo rimproverò Jack Lincoln che, nel frattempo, stava atterrando dolcemente.

La comitiva, presa dall’entusiasmo dovuta al ritorno del Soggetto N. 9, non si accorse del componente della banda appena sgominata che si stava avvicinando al velocista, strisciando silenziosamente sul terriccio presente sulla riva, come il più letale dei serpenti.

A percepirne infine la presenza fu il membro con la vista più sviluppata: Frédérique Arone.

“Attento Johnny!”.

La potenziale vittima però, per assurdo, fu troppo lenta nel voltarsi. In un salvataggio insperato, il braccio con la mano armata di coltello, pronto a sferrare il fendente mortale, fu bloccato dalla mano di un giovane ragazzo africano.

L’aggressore fu il primo ad essere sorpreso da quell’intervento. Tanto sorpreso da non accorgersi di essere sotto mira. Scoprendolo soltanto quando un proiettile lo trapassò in pieno petto.

Appena contemplato l’individuo che crollava esanime al suolo, tutti si voltarono verso il cecchino che aveva colpito il bersaglio.

“Ma sei impazzito Andrea?” lo aggredì gridando la francesina “potevi colpire Juna”.

“Cazzate! Sapevo benissimo a chi sparare!” ribatté seccato l’italiano.

Mentre i due proseguivano nel loro battibecco, il congolese si avvicinò allo statunitense “Ora siamo pari amico”.

“Grazie fratello!”.

“Fermi tutti signori!” richiamo l’attenzione dei compagni Chang Yu “Dov’è Bernardo?”.

Fu allora che gli effettivi otto presenti notarono ciò.

“Io sento ancora i suoi pensieri” informò Igor Wansa, evitando così di far temere il peggio per il loro simpatico messicano.

Saputo ciò, tentarono all’unisono di chiamarlo a gran voce. Fu allora che, con una scena alquanto raccapricciante, dal fogliame che copriva buona parte del manto erboso, iniziò ad ingrandirsi un disgustoso lombrico. L’oscenità poi, via via che passavano i secondi, andava assumendo una forma umana, vestita da un’uniforme diventata ormai familiare.

“Hola gente!”.

Il gruppo riabbracciò il presunto scomparso, infamandolo anche per la sua particolare scelta riguardo l’affrontare la lotta appena svoltasi.

“Loro sono buoni”.

Gli altri, ancora festanti, si voltarono verso il piccolo russo che proseguì “Io penso che loro sono buoni. Sennò non ci avrebbero dato dei giubbotti antiproiettile. Io credo che possiamo fidarci di loro. Soprattutto ora che, io temo, dovremo affrontare altri uomini neri”.

I nove rifletterono ognuno con la propria testa. La scelta era tra tornare ad una vita che non sarebbe stata più la stessa, oppure lottare restando uniti come una squadra. Tutti arrivarono ad una conclusione ma nessuno fiatò. Insieme, tornarono a dirigersi verso l’edificio da cui erano scappati.

Fu così che nacque il gruppo Humana.

  
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