Everything’s
changing,
but…
nothing will really change.
04.
bagliore
Che sera quieta, concluse Ned Flanders osservando la
volta stellata di ottobre: il frescolino che aveva scompigliato i suoi baffi
perfettamente curati riempì il volto di pelle d’oca, facendolo sorridere.
Nostalgico si strinse sulle spalle la coperta di pile che sua moglie Maude amava, prima di passare a miglior vita e raggiungere
il Signore a cui tanto loro si erano votati. Chiuse gli occhi preso da un
improvviso sconforto, espirò e si chiese ancora una volta – una delle tante –
come si stesse sentendo l’anima della sua adorata, lassù, in quel paradiso che
aveva sempre immaginato caldo e speciale per lei, bianco e semplice, cordiale.
Un paradiso che pregava esistesse.
Immaginare la moglie in un luogo nullo, o peggio ancora svanita nel buio,
annientata, polvere in una bara sottoterra... no, non era così che aveva
imparato a sognare, vivere e reagire.
No.
Anche se…
Scosse la testa vergognandosi del ricordo di aver dubitato dell’esistenza
stessa del suo Dio, una entità così benevola e sempre presente che si era presa
ciò che lui amava di più. Sì, per un periodo lasciò da parte la Chiesa, le
confessioni, l’aiuto alla comunità e la disponibilità verso un prossimo di cui
non voleva prendersi carico. Soprattutto quando il prossimo portava il nome di
Homer Simpson. Ned si era sempre convinto con tutto
se stesso, nel cercare di rigettare la cattiveria che gli aveva divorato la
mente per mesi, che la morte di sua moglie fosse stata un tragico incidente.
Effettivamente lo era stato.
Il problema era che ci accostava fin troppo spesso il termine evitabile, e
sapeva in cuor suo, profondamente, (lì dove anche la religione in cui cercava e
dava tanto appoggio difficilmente sarebbe arrivata), che la colpa era di quel
uomo e del suo comportamento sfrontato, disastroso, a tratti innominabile.
Certo, però… chi era lui per giudicare?
Nessuno, ovvio.
Soltanto che aveva visto, subìto, appreso così tanto in tutti quegli anni di
vicinato che aveva persino identificato il capofamiglia dei suoi vicini come
una prova ultima che il Signore gli aveva dato per poter migliorarsi, e
comprendere quanto la vita potesse essere un dono prezioso. Sconvolto dallo stesso
pensiero cattivo che aveva tinto di buio per qualche minuto le sue rasserenanti
riflessioni serali, rientrò in stanza senza chiudere le tende della finestra,
dimenticandosi come spesso accadeva di avere una panoramica diretta sul piano
superiore della casa di fianco, e sulla camera padronale dei suoi vicini.
E la vide.
Con la coda dell’occhio vide Marge Simpson ingoiare qualcosa e sospirare
chiaramente – Ned era metodico e un po’ impiccione,
non ricordava ne assumesse a quell’ora, soprattutto così tardi. Se si fosse
concentrato avrebbe potuto scorgere e sentire il respiro della donna fino a lì:
sapeva di esasperazione, e non per dire, ma il volto di lei era abbastanza
esplicativo. In fondo, lo era sempre stato.
Colto sul fatto, tentando di mascherare l’imbarazzo di essere stato beccato nel
guardarla nel suo spazio personale, alzò una mano timidamente e dipinse il
miglior sorriso che poteva regalarle, ricevendo in risposta un solo cenno: Marjorie Simpson, una delle persone più cordiali e benevole
che conosceva, pareva l’ombra di se stessa.
E fu sconvolto nel notarlo.
Sconvolto genuinamente come lui solo poteva essere, anche perché se l’era presa
a cuore dal momento in cui si era reso conto di che razza di matrimonio fosse quello
di lei. Poteva definirsi giudicante, ecco, forse sì. Magari anche un filino
tradizionalista, se non retrogrado, uno alla “vecchia maniera” ma non pensava
di esagerare ritenendo perfettamente sbagliato per lei il marito che aveva
scelto.
Marge meritava di più, lo aveva sempre meritato, eppure eccola lì ancora come
sua vicina, in quella casa, i bambini ormai grandi ma la costanza di lui sempre
lì.
Non voleva irrompere nella loro quotidianità con il pensiero di cercare di
migliorare le cose, anche se avrebbe volentieri mosso il suo indice sotto al
naso di Homer Simpson in segno di completo dissenso. Non sarebbe servito
assolutamente a niente, l’aveva sentito gridare fin troppe volte per essere
convinto di poter riuscire a parlare cordialmente con lui; spesso era stato a
tanto così dal mollare la presa.
Era lo sguardo di Marge a tenerlo vicino, e nell’ultimo periodo, a preoccuparlo
più del solito.
Il suono ormai poco familiare del campanello interruppe la quiete del 742
Evergreen Terrace. Marge posò lo straccio con cui
stava spolverando il salone da pranzo e abbassò il volume della televisione che
le stava tenendo compagnia, mentre il resto della famiglia era fuori nel vivere
la propria quotidianità piena – e a tratti, per chi era fortunato,
soddisfacente. Si chiese incuriosita di chi potesse trattarsi, stropicciandosi
le gambe dei pantaloni di tuta che aveva deciso di indossare per pura comodità.
A dir la verità oramai li indossava anche per uscire di casa e portare avanti
le più svariate commissioni, dimenticando a volte persino di pettinarsi. Si
avvicinò osservando dallo spioncino, sorpresa. Sorrise e tentò di sistemarsi i
capelli pettinandoli con le dita.
Non riceveva una visita tanto piacevole da parecchio tempo.
«Buongiorno, Marge. Posso? Ho portato dei biscottini.» Ned
Flanders sorrise nel porgerle un pacchettino trasparente tenuto assieme da uno
spesso nastro dorato, una confezione regalo da pasticceria.
Gli occhi della donna si illuminarono: biscotti, e per di più fatti a mano,
fragranti e golosi… come avrebbe potuto rifiutare? Le piccole gole zuccherate
erano l’unico sfizio che si concedeva, già avendo
litigato con lo specchio e la pelle che un po’ cadeva e un po’ faceva quello
che voleva sul suo fisico non proprio giovanissimo. Invitò l’inatteso ospite a
entrare e seguirla in cucina, era un’occasione perfetta per una tazza di tè e
qualche dolcino colorato.
«Allora, Marge, eccoci qui. Caspiterina, quanto tempo sarà passato? Dovrei
decisamente passare più spesso.» Ned esordì con una
classica frase di rito, così come era abituato: gentilezza come prima cosa.
«Come va?» Una domanda non casuale di cui avrebbe ascoltato con attenzione la
risposta, come avrebbe fatto chiunque. Si presumeva, almeno.
«Beh, diciamo che non è un periodo facile, anzi.» Esitò lei, versando l’acqua
bollente dal bollitore e servendo una tazza colma al vicino. «Dopo il ricovero
le cose sono un po’ più… lente, ecco.»
Ned aspettò prima di riprendere, intuiva potesse
esserci dell’altro, le pause tra una parola e la successiva erano state tante.
Con la scusa di rimescolare il contenuto profumato della ceramica, attese.
Attese sì, ma non arrivò nulla di che. La donna addentava silenziosa, masticava
altrettanto, e così tre o quattro volte, evitando in ogni modo di incrociare lo
sguardo di lui.
«I ragazzi? Tutto bene?»
«Certo, certo, Ned. Bart lavora, vive in un piccolo
appartamentino dall’altra parte della città. Lisa è andata a stare da Muntz, non so se ti ricordi di lui.»
Un cognome familiare, temuto. Certo che Flanders si ricordava di Nelson Muntz, aveva perseguitato una intera generazione di bambini
a Springfield, i suoi figli compresi. Corrugò la fronte stupito: Lisa doveva
essere cambiata davvero tanto nel corso del tempo per poter uscire con… con
lui.
«Oh, ma non essere prevenuto, sai? È diventato davvero un bravo ragazzo, ci
aiuta spesso in casa con piccoli lavoretti ed è sempre disponibile per
qualsiasi cosa. È cresciuto bene.»
L’ospite stava per aggiungere “anche tuo figlio lo ritenevi un bravo bambino,
questo non vuol dire che lo fosse davvero”, morse però le parole tra i molari
evitando una uscita tanto spontanea quanto infelice. Il metro di giudizio in
casa Simpson era il più strano con cui si era scontrato, decisamente.
«E la piccola?»
«Maggie? Si sa, i ragazzini cominciano a diventare indipendenti sempre più
presto e credono di avere sempre ragione loro.» “Pure è impegnativa, ed è
difficile parlare con lei, se non impossibile…” commento che si tenne per sé.
Più che una conversazione pareva un interrogatorio dove ognuno cercava di
pilotare la direzione delle informazioni. Forse per questo l’aria tra una frase
e l’altra era così rarefatta.
«Tu invece, Marge, come stai?»
Lei avrebbe dovuto immaginarlo. Ned ne aveva viste,
sentite e vissute abbastanza della sua vita familiare, per non aspettarsi una
domanda simile da lui. Se la questione fosse stata posta qualche mese prima avrebbe
risposto con più tranquillità, e non cercando di litigare con il peso sulla
nuca che cercava di schiacciarla a terra.
Conversare era pesante, le provocava uno sforzo non indifferente. Se non
l’avesse fatto però, le persone avrebbero cominciato a farsi delle teorie.
Springfield aveva la propria routine, così come ogni suo abitante: una città
fatta di bigottismo e persone sempre uguali… guai a cambiare, a uscire dal
personaggio che tutti conoscevano e registravano nei propri ricordi quotidiani.
«Io?» il cucchiaino tremava leggermente tra le dita, provocando un leggero
suono curioso sugli anelli che Marge aveva dimenticato di levare prima di fare
le pulizie. «Al solito, grazie.»
Bugiarda.
Il sospiro si era chiaramente levato, seguendo una scia di frustrazione in
direzione del soffitto.
Ned si alzò
e le si avvicinò, inginocchiandosi e guardandola dietro le lenti spesse degli
immancabili occhiali. «Sai, anche io soffrivo parecchio per il lutto, altroché.
I primi giorni, le prime settimane mi pareva di morire, e ho cominciato a stare
meglio con i farmaci che il dottor Hibbert mi aveva
prescritto…» attese un cenno, una reazione, anche solo una risposta, ma in
assenza di essi continuò, «un po’ mi rincretinivano, ma, caspiterina, guardami
adesso, ti sembro strano?»
«Oh, Ned, tu sei sempre stato strano, sai?» e rise.
Una risata stanca ma sincera.
L’uomo seppe di aver centrato un piccolo grande punto. Non che avesse
un’abilitazione per poterne capire qualcosa, non era certo uno psicologo e
anzi, aveva avuto non poche difficoltà a comprendere i suoi figli nella
crescita dopo la morte della prima moglie, e la separazione dalla seconda. Ma
qui non ci voleva una qualche preparazione specifica per capire la profondità
di un disagio.
Marge lo guardava come a richiedere un muto aiuto, fosse solo anche un orecchio
da cui farsi ascoltare.
Il sorriso non era di circostanza.
A guardarsi non avvertivano quel grande disagio che solitamente avrebbero
potuto percepire altri al loro posto, grazie alla vicinanza, alle tante
confidenze e un rapporto di sana amicizia che veniva costantemente interrotto
dalla presenza di Homer. Non che Marge avesse qualcosa da nascondere, anzi, ma
l’odio che il marito provava per Flanders era tanto palese da rasentare il
ridicolo. Fece rialzare l’amico, lo rassicurò con un sorriso cordiale e parlò
con un certo equilibrio ritrovato.
«Mi da fastidio sapere di aver fallito con me stessa.
Mi da fastidio dover prendere medicine tutti i
giorni, e sperare di non stare male quando sono in pubblico. Ned… fa male quando manca l’aria, quando senti stringere il
collo anche se non c’è nessuna mano a toccarlo. Fa male, Ned…
come hai fatto tu?»
Le lacrime bagnavano gli zigomi sporgenti scendendo fino al mento e macchiando
il cotone dei pantaloni.
«Che stupida, scusami. Quasi cinquant’anni e piango come una bambina, devo
essere proprio patet-» Le labbra si scontrarono con
un maglione, il profumo di ammorbidente di Marsiglia e di casa l’aveva invasa.
L’abbraccio era stretto, tanto stretto da levarle il fiato ma non le dispiaceva
quella sensazione. Anche se il petto tremava, lei ci stava bene lì perché,
fondamentalmente, si sentiva capita, vicina a chi sapeva.
Il russare di Homer riempiva la camera: un’abitudine che Marge non era mai
riuscita a superare, costringendosi spesso a dormire con i tappi alle orecchie.
Anche lei sapeva d’aver russato molto spesso… questo però era diverso. Il
tipico ragliare profondo di chi aveva bevuto e si era presentato a casa dopo
lavoro, a un orario ormai scomodo persino per la cena. Si era chiesta da dove
fosse nato questo bisogno di suo marito di bere, bere e ancora bere fin troppo,
rovinandosi il fegato, il fiato, il rapporto con i propri figli e pure il
matrimonio. Perché sì, perché Marge esasperata aveva minacciato di lasciarlo se
non avesse smesso.
Lui aveva promesso, poi.
Ci avrebbe provato, le disse un giorno con le lacrime agli occhi e la densità
di uno sguardo serio e combattivo. Sì, ci avrebbe provato per lei, per loro.
E Marge ci aveva creduto ancora, di nuovo, attendendo il momento in cui lui
avrebbe mantenuto quella promessa. Forse il giorno non era ancora arrivato,
pensò lei: magari non era ancora il giusto contesto, il giusto benessere
fisico…
Ora però era stanca, non doveva lottare più solo per crescere tre figli nel
modo migliore possibile con la quasi totale incuria del marito nel farlo;
oppure combattere con lui per abitudini sbagliate e dannose. Ora, per la prima
volta stava lottando principalmente per se stessa e il
proprio benessere – che chi ci aveva mai pensato prima? Lei no di certo. Si
alzò sfiancata dai ripetuti tentativi di addormentarsi, avvolgendo la schiena
con la vestaglia di ciniglia rosa; scavò all’interno del primo cassetto del
comò alla ricerca delle gocce che le avevano prescritto i medici per riuscire a
dormire in modo equilibrato. Anche quella notte ne avrebbe avuto bisogno, si
disse sconsolata contando la giusta dose in un bicchiere. Mandò giù e il sapore
sgradevole grattò un attimo nell’esofago prima di sciogliersi e lasciare una
traccia debole. Tanto sapeva che non avrebbero fatto effetto subito, quindi ne
approfittò per raggiungere la finestra, scostare le tende e prendersi un po’ di
fresco sul volto.
Brivido.
Quasi fredda quella notte.
Un bagliore lieve però attirò la sua attenzione dalla finestra di fronte:
proveniva dalla camera di Ned Flanders. Incuriosita
assottigliò lo sguardo per capire di cosa si trattasse e notò la fiamma di un
lumino poggiata sul davanzale interno. Si disse che non avrebbe dovuto farsi
divorare così dalla curiosità, in fondo si trattava sempre e comunque di uno
spazio privato che non le apparteneva neppure.
Guardò.
Vide le mani giunte di un uomo disperato, intento a pregare piangendo,
nominando più volte un solo nome tra i singhiozzi.
Maude.
Marge non si accorse di stare piangendo a sua volta.